La Divina Commedia
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Il Convivio

È un'opera mista di prosa e versi di argomento filosofico-dottrinale, scritta da Dante in un periodo agli inizi del suo esilio (probabilmente intorno al 1304-1308): il progetto originale dell'opera prevedeva quindici trattati in prosa volgare, uno introduttivo e altri quattordici di commento ad altrettante canzoni dottrinali composte dall'autore negli anni precedenti. Dante non portò a termine l'opera e la lasciò incompiuta dopo il IV Trattato, probabilmente per dedicarsi alla composizione della Commedia. Il titolo significa letteralmente «banchetto» e allude alla volontà dell'autore di imbandire ai lettori la sapienza attraverso delle vivande rappresentate dalle canzoni, mentre il pane è costituito dal commento in prosa. L'ambizione di Dante era quella di creare una vasta opera enciclopedica, in cui affrontare tutti gli argomenti dello scibile e dimostrare così il proprio sapere e la propria maestria letteraria per riscattare la sua condizione di esule.
L'opera nasce dagli studi filosofici cui Dante si era dedicato negli anni successivi alla morte di Beatrice, come egli stesso precisa nel Trattato introduttivo (in cui, tra l'altro, reinterpreta in chiave allegorica la donna gentile di cui aveva parlato nella Vita nuova, dichiarando che essa altro non era che allegoria della filosofia). Dante afferma nel I Trattato di essere ai piedi della mensa dei veri sapienti, dalla quale raccoglie le briciole, per cui è sua intenzione condividere la ricchezza del sapere con gli altri lettori comunicando le sue scoperte: da qui la scelta del volgare come lingua dell'opera, dal momento che il pubblico cui si rivolge è italiano, colto ma non specialistico, formato da alta borghesia e piccola nobiltà, quindi non necessariamente in grado di intendere il latino.

I Trattato

È formato da tredici capitoli ed è il proemio dell'intera opera: Dante dichiara il suo scopo e illustra la struttura generale del Convivio, giustificandone il titolo e spiegando la metafora del cibo e del banchetto su cui si regge. L'autore afferma che il pubblico cui si rivolge non è di soli specialisti, ma è composto da tutti quei lettori desiderosi di conoscere e dotati di animo nobile, uomini e donne che per vari motivi non hanno ancora potuto accostarsi agli studi filosofici. Da qui la scelta del volgare, per la prima volta usato da Dante in un'opera di argomento dottrinale e non amoroso: tale scelta è appassionatamente difesa dall'autore, che la sostiene con vari argomenti tra cui spicca la considerazione che il volgare è lingua viva, dotata di caratteristiche stilistiche e espressive sconosciute al latino (da Dante considerato una lingua artificiale, con cui sarebbe del resto impossibile raggiungere un vasto pubblico), un sole destinato ad illuminare coloro che sono nelle tenebre.

II Trattato

È dedicato a commentare la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete: Dante spiega anzitutto le circostanze biografiche in cui la lirica venne composta, ovvero il periodo seguente alla morte di Beatrice in cui lui cercò consolazione nello studio della filosofia (specialmente leggendo Cicerone e Boezio), quindi reinterpreta la donna gentile di cui si parlava nei capp. XXXV-XXXIX della Vita nuova come allegoria della filosofia, per cui la materia narrativa del libello giovanile viene rivisitata e attualizzata. Su questa base egli svolge il commento e l'interpretazione della canzone, tessendo un appassionato elogio della filosofia e dello studio della materia dottrinale.

III Trattato

È il commento alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona, la stessa intonata da Casella nel Canto II del Purgatorio e collegata anch'essa alla figura della donna gentile, esaltata secondo la poetica stilnovistica della «loda». Come nel II Trattato, anche qui Dante compie numerose divagazioni di carattere scientifico, filosofico, teologico.

IV Trattato

La canzone commentata è Le dolci rime d'amor ch'i' solìa, che si distende per trenta capitoli con un raddoppiamento esatto rispetto ai due Trattati precedenti, entrambi di quindici capitoli. Dante abbandona il tema biografico-amoroso, affrontando una elaborazione di carattere più strettamente teorico: il tema centrale è la definizione della nobiltà, che è quella d'animo e non di sangue (secondo il celebre motivo stilnovista) ed è quindi una sorta di dono divino, di cui il destinatario deve rendersi degno con una condotta virtuosa da esprimere nell'impegno politico e civile. Il tema sociale si fonde con quello politico, poiché Dante esalta il concetto di monarchia universale rappresentata storicamente dall'Impero romano e poi dal Sacro Romano Impero, voluta quindi dal disegno provvidenziale di Dio attraverso la vicenda di Enea, la fondazione di Roma e del Papato (la stessa visione tornerà, con qualche correttivo, nella Commedia e nella Monarchia).

Stile e prosa del Convivio

Varie sono le fonti e i modelli cui Dante si rifà nella composizione di quest'opera cui doveva affidare, almeno nelle intenzioni, la sua fama negli anni successivi: anzitutto i filosofi pagani alla cui lettura si era avidamente dedicato prima dell'esilio, fra i quali spiccavano Aristotele e i già citati Cicerone e Boezio, cui vanno aggiunti naturalmente gli autori cristiani (anche se nell'opera si avverte una certa sopravvalutazione della speculazione filosofica e della ragione umana a scapito della teologia: ciò è stato interpretato come causa del cosiddetto «traviamento» morale di Dante, rimproveratogli da Beatrice nel Canto XXX del Purgatorio e all'origine, forse, dello smarrimento nella selva oscura). Un certo debito di Dante è innegabile anche verso la tradizione medievale della letteratura didascalica, a cominciare dalle opere di Brunetto Latini come Trésor (in lingua d'oïl) e Tesoretto, nonché alle razos dei poeti provenzali con cui essi spiegavano il significato delle loro poesie e le commentavano.
La prosa del Convivio è il risultato di questa ricerca dottrinale e rappresenta una scommessa vinta nel tentativo di usare il volgare per scrivere un'opera di così elevato impegno intellettuale: lo stile è decisamente elevato e il volgare dimostra una vitalità e un'efficacia che sarebbe stata impensabile al latino medievale, dal quale comunque trae l'equilibrio compositivo, la lucida chiarezza, la complessità sintattica e la simmetria. Dante fonda in un certo senso la «prosa filosofica in volgare» (secondo la definizione di Segre) e la arricchisce con l'uso frequente di similitudini e metafore, allo scopo di dare concretezza ed evidenza alle proprie argomentazioni, anche a quelle di carattere più squisitamente teorico.
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