Il De vulgari eloquentia
È un trattato in prosa latina di argomento linguistico-retorico, dedicato alla definizione della lingua volgare da usare nelle opere letterarie: la datazione dell'opera è incerta, ma è probabile che Dante l'abbia scritta nei primi tempi dell'esilio parallelamente alla composizione del Convivio, forse nel 1302-1305. Il trattato è incompiuto e si interrompe al cap. XIV del II libro, lasciando addirittura una frase a metà. Non conosciamo il progetto originale dell'opera, ma essa doveva prevedere almeno quattro libri, poiché in II, 4 Dante accenna alla forma metrica della ballata e del sonetto promettendo di parlarne nel IV libro. Il titolo significa letteralmente «Sull'eloquenza volgare» e la scelta del latino si spiega con il proposito da parte dell'autore di rivolgersi a un pubblico di specialisti, non necessariamente italiano, diverso quindi da quello cui si rivolgeva nello stesso periodo col Convivio. Il testo è stato tramandato da un numero assai esiguo di manoscritti (appena tre), il che ha fatto sorgere dubbi sulla paternità dantesca dell'opera, soprattutto per alcune affermazioni poi smentite dalle successive scelte linguistiche e stilistiche dell'autore. Già nel Convivio, comunque, Dante dichiara (I, 5) di avere in progetto «uno libello... di volgare eloquenza», mentre oggi gli studiosi sono pressoché concordi nel riconoscere l'autenticità del trattato.
I libro
È formato da diciannove capitoli ed è di argomento prettamente linguistico, partendo dalla definizione del volgare come lingua viva, appresa dal parlante già nei primi anni di vita e perciò superiore al latino, considerato da Dante lingua artificiale (lo scrittore pensava che gli antichi Romani parlassero un loro proprio volgare e usassero il latino unicamente come lingua scritta). Dante si mostra consapevole che il volgare è soggetto a continui mutamenti, sia nello spazio sia nel tempo, ma fissa un punto di inizio per queste trasformazioni: fino alla costruzione della Torre di Babele, infatti, tutti gli uomini del mondo parlarono un unico linguaggio, lo stesso parlato da Adamo nel Paradiso Terrestre (opinione poi smentita nel Canto XXVI del Paradiso), mentre dopo la confusione provocata da Dio i linguaggi iniziarono a frammentarsi. Dante intuisce che i volgari parlati in Europa si dividono in tre grandi gruppi, corrispondenti al greco, alle lingue germano-slave e a quelle dell'Europa occidentale; queste ultime si dividono ancora in lingua d'oïl, lingua d'oc e lingua del sì, ovvero l'insieme dei volgari d'Italia.
A questo punto Dante passa in rassegna i volgari italiani, che divide in due gruppi di sette lingue ciascuno (distribuiti nella parte destra e sinistra d'Italia, ovvero a ovest e est dell'Appennino): il suo scopo è trovare il volgare illustre, quello cioè che abbia le caratteristiche adatte per essere usato nelle opere letterarie. Nessun volgare, a un attento esame, si rivela degno di essere considerato illustre, neppure il toscano verso il quale (verso il fiorentino in particolare) Dante esprime giudizi assai severi. Il volgare ideale viene allora definito con procedimento deduttivo, come una creazione retorica che si ritrova nell'uso dei principali scrittori, incluso Dante: esso dev'essere illustre, perché capace di dare lustro a chi lo usa; cardinale, perché dev'essere il cardine attorno al quale ruotano le altre parlate; aulico, perché degno di essere usato in una reggia, per quanto inesistente in Italia; curiale, perché degno di essere usato dai membri di una corte ideale.
A questo punto Dante passa in rassegna i volgari italiani, che divide in due gruppi di sette lingue ciascuno (distribuiti nella parte destra e sinistra d'Italia, ovvero a ovest e est dell'Appennino): il suo scopo è trovare il volgare illustre, quello cioè che abbia le caratteristiche adatte per essere usato nelle opere letterarie. Nessun volgare, a un attento esame, si rivela degno di essere considerato illustre, neppure il toscano verso il quale (verso il fiorentino in particolare) Dante esprime giudizi assai severi. Il volgare ideale viene allora definito con procedimento deduttivo, come una creazione retorica che si ritrova nell'uso dei principali scrittori, incluso Dante: esso dev'essere illustre, perché capace di dare lustro a chi lo usa; cardinale, perché dev'essere il cardine attorno al quale ruotano le altre parlate; aulico, perché degno di essere usato in una reggia, per quanto inesistente in Italia; curiale, perché degno di essere usato dai membri di una corte ideale.
II libro
Ha argomento più precisamente retorico e passa a illustrare gli usi possibili del volgare illustre, riservato agli scrittori dotati di alto ingegno e destinato a trattare gli argomenti più elevati, ovvero la prodezza nelle armi, l'amore, la morale. La forma metrica più degna per questo volgare è quella più nobile e risalente a una lunga tradizione, ovvero la canzone: questa va costruita in base a regole rigorose, facendo ricorso allo stile tragico e al verso più splendido, vale a dire l'endecasillabo (eventualmente alternato al settenario). Anche il lessico deve essere elevato ed evitare cadute nel registro più umile, mantenendosi a un livello sublime. Dopo alcune osservazioni circa le parti costitutive della canzone (melodia, strofa, versi, rime...), il libro si interrompe bruscamente a metà del cap. XIV.
Teoria linguistica e storia letteraria
Nel De vulgari Dante compie una riflessione teorica che ha come fine la costruzione di un volgare ideale, passando in rassegna le principali lingue parlate in Italia agli inizi del Trecento: di alcune ha conoscenza diretta grazie alle peregrinazioni dell'esilio (specie nel nord Italia), di altre una conoscenza frammentaria e indiretta (come del sardo, da lui giudicato negativamente in quanto gli sembra troppo simile al latino e ciò viene attribuito alla volontà di quel popolo di imitare la lingua artificiale), di altre ancora conosce i testi letterari che cita come fonti ed esempi di alcune parlate. Facendo questo Dante fonda un primo abbozzo di storia e critica della letteratura italiana, fissandone alcune scuole e generi e creando una sorta di «canone» che avrebbe poi influenzato profondamente gli scrittori successivi: molto apprezzati sono i poeti provenzali, che Dante conosceva assai bene, e i Siciliani, la cui lingua letteraria gli sembra molto vicina al volgare illustre (Dante leggeva i poeti siciliani attraverso i manoscritti toscanizzati dai copisti); parole di apprezzamento sono spese anche per gli Stilnovisti, specie per Guido Guinizelli, l'amico Cavalcanti, Cino da Pistoia (e se stesso, indicato con la perifrasi amicus eius). Viceversa è molto criticato Guittone d'Arezzo, di cui in I, 13 Dante dice che numquam se ad curiale vulgare direxit («non si indirizzò mai verso un volgare degno della corte»), accostandolo ad altri poeti siculo-toscani tra cui Bonagiunta da Lucca. In questo modo Dante autorizza il riconoscimento di una linea che parte dai trovatori occitanici e unisce Siciliani e Stilnovisti, con questi ultimi che si distaccano nettamente dai guittoniani considerati troppo oscuri e involuti (lo stesso giudizio severo contro Guittone ricorre in Purg., XXIV e XXVI). Tra i provenzali molto apprezzati sono anzitutto Arnaut Daniel, maestro di trobar clus già preso a modello da Dante nelle rime petrose, poi Giraud de Bornelh e Folchetto di Marsiglia.
Fortuna e dibattito critico
Si è già detto come la paternità dantesca dell'opera sia stata più volte messa in dubbio dagli studiosi e ciò è connesso con la storia del tutto particolare di questo testo e della sua diffusione nel corso dei secoli. Il trattato, infatti, scompare del tutto dalla scena fin dalla prima metà del Trecento e, pur essendone noto il titolo e in modo vago il contenuto, si può affermare che nessuno lo conoscesse direttamente: Giovanni Villani nella sua Cronica dichiara che Dante «fece uno libretto, che s'intitola De vulgari eloquentia, ove promette fare quattro libri, ma non se ne trova se non due», mentre il Boccaccio nella biografia del poeta parla del «libretto in prosa latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia». Scarse e contraddittorie le notizie dell'opera nel Quattrocento, essendo citata solo da alcuni umanisti nessuno dei quali sembra averla vista direttamente, finché il testo viene riscoperto e portato all'attenzione degli scrittori italiani all'inizio del Cinquecento: secondo una tradizione non molto credibile, sarebbe stato il letterato vicentino Gian Giorgio Trissino nel 1514 a parlare dell'opera agli intellettuali degli Orti Oricellari frequentati da Machiavelli, il quale tra l'altro contesta le idee di Dante espresse nel De vulgari nel suo Dialogo intorno alla nostra lingua, dove l'autore del Principe sostiene la tesi che la lingua letteraria deve essere il fiorentino parlato.
Di sicuro si sa che i mss. medievali che tramandano il trattato dantesco sono tre in tutto, di cui solo due erano noti agli inizi del sec. XVI: Trissino entrò in possesso (non si sa come) del ms. conservato alla Biblioteca Trivulziana di Milano, che portò a Roma e che sottopose a vari studiosi di lingua, tra cui il Bembo che come è noto era assai interessato alla questione della lingua e aveva tuttavia idee molto diverse da quelle espresse da Dante nel De vulgari (egli, nelle Prose de la volgar lingua del 1525, sosteneva il fiorentino trecentesco come lingua letteraria, indicando Petrarca e Boccaccio come modelli per la poesia e la prosa). Nel 1529 Trissino pubblicò a Vicenza una traduzione italiana del testo, peraltro non firmata da lui, di cui si servì come argomento per sostenere la sua teoria sulla lingua letteraria espressa nel dialogo Il castellano: secondo Trissino, la lingua usata da Dante e Petrarca non era vero fiorentino ma una lingua nata dalla commistione di elementi provenienti da varie parlate del Nord Italia, per cui la lingua letteraria non doveva essere il toscano bensì una sorta di koiné nata nell'ambito delle corti dell'Italia settentrionale (tale interpretazione del De vulgari era decisamente forzata, ma si adattava in apparenza a ciò che Dante diceva nel trattato circa il volgare illustre). È logico, quindi, che letterati e scrittori fiorentini e toscani si scagliassero contro le tesi del Trissino e in particolare contro la paternità dantesca del trattato, che veniva decisamente negata, specie perché il Trissino non aveva pubblicato il testo latino ed era diffusa la voce che la sua traduzione fosse in realtà un falso.
L'originale latino venne poi pubblicato a Parigi nel 1577 da Jacopo Corbinelli, un esule fiorentino che aveva già curato l'edizione a stampa dei Ricordi di Guicciardini l'anno prima e che sosteneva con passione non solo l'autenticità del trattato, ma anche la validità delle teorie espresse da Dante nel De vulgari. La ricomparsa dell'opera non suscitò un grande dibattito nella fine del sec. XVI e se ne parlò assai poco anche nel Seicento, in cui si discuteva piuttosto sulla lingua di Ariosto e Tasso, per cui bisogna attendere fino al 1739 per avere una nuova edizione del De vulgari a cura di Scipione Maffei. Nel XVIII sec. il dibattito critico intorno a Dante torna di attualità e cambia l'atteggiamento degli intellettuali intorno al trattato: l'interesse verso l'opera nasce dall'insofferenza di alcuni scrittori verso il purismo fiorentino e l'Accademia della Crusca, tra cui lo stesso Maffei e Ludovico Antonio Muratori, mentre più tardi, in epoca illuminista, guarderanno con simpatia al De vulgari Carlo Denina e Melchiorre Cesarotti. Il culmine dell'interesse verso il trattato fu raggiunto agli inizi dell'Ottocento, quando Vincenzo Monti si servì delle tesi dantesche per combattere la Crusca e il suo vocabolario, in nome di una lingua letteraria sovraregionale e non popolare; più tardi, nel 1868, Alessandro Manzoni si occupò del De vulgari a margine del suo intervento circa l'unificazione linguistica dell'Italia, concludendo (in maniera sicuramente eccessiva) che Dante nel trattato non si era occupato di lingua ma di retorica, e che il suo intento era stato unicamente quello di teorizzare lo stile migliore da usare nella poesia, per cui il dibattito intorno alla autenticità finiva per perdere qualunque interesse scientifico.
Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento ci furono alcuni severi studi filologici sul testo dell'opera, che portarono alla prima edizione critica a cura di Pio Rajna (1896) e successivamente a quella di A. Marigo del 1938; il lavoro filologico è stato portato a compimento in anni più recenti da Pier Vincenzo Mengaldo, che ha tolto quasi ogni dubbio sull'autenticità del libro e ha chiuso un contrasto secolare tra i partigiani anti-fiorentini e i loro avversari. Si può citare infine il fatto che Pier Paolo Pasolini nell'ottobre 1975, poco prima di essere ucciso, partecipò a un dibattito pubblico sul problema del dialetto nell'Italia contemporanea e manifestò l'intenzione di pubblicare la trascrizione del suo intervento col titolo di Volgar'eloquio: un evidente riferimento al trattato dantesco, un'opera che tante discussioni ha suscitato nel corso della storia e che oggi, forse, può essere valutata serenamente per i suoi contenuti e il suo rapporto con l'età in cui venne concepita.
Sul molteplice interesse di Dante per le lingue, cfr. anche il sito «Dantepoliglotta.it», che contiene interessanti materiali sulle traduzioni della Commedia.
Di sicuro si sa che i mss. medievali che tramandano il trattato dantesco sono tre in tutto, di cui solo due erano noti agli inizi del sec. XVI: Trissino entrò in possesso (non si sa come) del ms. conservato alla Biblioteca Trivulziana di Milano, che portò a Roma e che sottopose a vari studiosi di lingua, tra cui il Bembo che come è noto era assai interessato alla questione della lingua e aveva tuttavia idee molto diverse da quelle espresse da Dante nel De vulgari (egli, nelle Prose de la volgar lingua del 1525, sosteneva il fiorentino trecentesco come lingua letteraria, indicando Petrarca e Boccaccio come modelli per la poesia e la prosa). Nel 1529 Trissino pubblicò a Vicenza una traduzione italiana del testo, peraltro non firmata da lui, di cui si servì come argomento per sostenere la sua teoria sulla lingua letteraria espressa nel dialogo Il castellano: secondo Trissino, la lingua usata da Dante e Petrarca non era vero fiorentino ma una lingua nata dalla commistione di elementi provenienti da varie parlate del Nord Italia, per cui la lingua letteraria non doveva essere il toscano bensì una sorta di koiné nata nell'ambito delle corti dell'Italia settentrionale (tale interpretazione del De vulgari era decisamente forzata, ma si adattava in apparenza a ciò che Dante diceva nel trattato circa il volgare illustre). È logico, quindi, che letterati e scrittori fiorentini e toscani si scagliassero contro le tesi del Trissino e in particolare contro la paternità dantesca del trattato, che veniva decisamente negata, specie perché il Trissino non aveva pubblicato il testo latino ed era diffusa la voce che la sua traduzione fosse in realtà un falso.
L'originale latino venne poi pubblicato a Parigi nel 1577 da Jacopo Corbinelli, un esule fiorentino che aveva già curato l'edizione a stampa dei Ricordi di Guicciardini l'anno prima e che sosteneva con passione non solo l'autenticità del trattato, ma anche la validità delle teorie espresse da Dante nel De vulgari. La ricomparsa dell'opera non suscitò un grande dibattito nella fine del sec. XVI e se ne parlò assai poco anche nel Seicento, in cui si discuteva piuttosto sulla lingua di Ariosto e Tasso, per cui bisogna attendere fino al 1739 per avere una nuova edizione del De vulgari a cura di Scipione Maffei. Nel XVIII sec. il dibattito critico intorno a Dante torna di attualità e cambia l'atteggiamento degli intellettuali intorno al trattato: l'interesse verso l'opera nasce dall'insofferenza di alcuni scrittori verso il purismo fiorentino e l'Accademia della Crusca, tra cui lo stesso Maffei e Ludovico Antonio Muratori, mentre più tardi, in epoca illuminista, guarderanno con simpatia al De vulgari Carlo Denina e Melchiorre Cesarotti. Il culmine dell'interesse verso il trattato fu raggiunto agli inizi dell'Ottocento, quando Vincenzo Monti si servì delle tesi dantesche per combattere la Crusca e il suo vocabolario, in nome di una lingua letteraria sovraregionale e non popolare; più tardi, nel 1868, Alessandro Manzoni si occupò del De vulgari a margine del suo intervento circa l'unificazione linguistica dell'Italia, concludendo (in maniera sicuramente eccessiva) che Dante nel trattato non si era occupato di lingua ma di retorica, e che il suo intento era stato unicamente quello di teorizzare lo stile migliore da usare nella poesia, per cui il dibattito intorno alla autenticità finiva per perdere qualunque interesse scientifico.
Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento ci furono alcuni severi studi filologici sul testo dell'opera, che portarono alla prima edizione critica a cura di Pio Rajna (1896) e successivamente a quella di A. Marigo del 1938; il lavoro filologico è stato portato a compimento in anni più recenti da Pier Vincenzo Mengaldo, che ha tolto quasi ogni dubbio sull'autenticità del libro e ha chiuso un contrasto secolare tra i partigiani anti-fiorentini e i loro avversari. Si può citare infine il fatto che Pier Paolo Pasolini nell'ottobre 1975, poco prima di essere ucciso, partecipò a un dibattito pubblico sul problema del dialetto nell'Italia contemporanea e manifestò l'intenzione di pubblicare la trascrizione del suo intervento col titolo di Volgar'eloquio: un evidente riferimento al trattato dantesco, un'opera che tante discussioni ha suscitato nel corso della storia e che oggi, forse, può essere valutata serenamente per i suoi contenuti e il suo rapporto con l'età in cui venne concepita.
Sul molteplice interesse di Dante per le lingue, cfr. anche il sito «Dantepoliglotta.it», che contiene interessanti materiali sulle traduzioni della Commedia.