Purgatorio, Canto VI
G. Doré, Sordello e Virgilio
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa...
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda! ...
E se licito m'è, o sommo Giove
che fusti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? ...
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa...
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda! ...
E se licito m'è, o sommo Giove
che fusti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? ...
Argomento del Canto
Ancora fra i morti per forza del secondo balzo dell'Antipurgatorio. Incontro con l'anima di Sordello da Goito. Invettiva contro l'Italia. Apostrofe contro Firenze.
È il pomeriggio di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle tre.
È il pomeriggio di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle tre.
I morti per forza si affollano intorno a Dante (1-24)
S. Botticelli, Esordio del Canto VI
Dante spiega che quando finisce il gioco della zara, il perdente resta solo e impara a sue spese come comportarsi nella prossima partita, mentre tutti si affollano intorno al vincitore, attirando la sua attenzione; quello non si ferma, ma si difende dalla calca dando retta a tutti e porgendo la mano all'uno e all'altro. Lo stesso fa il poeta attorniato dalle anime dei morti per forza, rivolgendosi ora a questo ora a quello, e si allontana promettendo. Tra le anime c'è quella dell'Aretino che fu ucciso da Ghino di Tacco e Guccio de' Tarlati che morì annegato; ci sono Federico Novello e il pisano che fece sembrare forte il padre Marzucco; ci sono il conte Orso degli Alberti e l'anima di Pierre de la Brosse, che dice di essere stato ucciso per invidia e non per colpa, per cui Maria di Brabante dovrebbe pentirsi per evitare di finire tra i dannati.
Virgilio spiega l'efficacia della preghiera (25-57)
Non appena Dante riesce a liberarsi dalle anime che lo pressano, si rivolge a Virgilio e gli ricorda come in alcuni suoi versi egli nega alla preghiera il potere di piegare un decreto divino. Queste anime si augurano proprio questo, quindi Dante non sa se la loro speranza è vana, oppure se non ha capito bene ciò che Virgilio ha scritto. Il maestro risponde che i suoi versi sono chiari e la speranza di tali anime è ben riposta, a patto di giudicare con mente sana: infatti il giudizio divino non si piega solo perché l'ardore di carità della preghiera compie in un istante ciò che devono scontare queste anime. Nei versi dell'Eneide in cui Virgilio parlava di questo, inoltre, la colpa non veniva lavata dalla preghiera, poiché questa era disgiunta da Dio. Virgilio esorta Dante a non tenersi il dubbio e ad attendere più profonde spiegazioni da parte di Beatrice, che illuminerà la sua mente e lo aspetta sorridente sulla cima del monte. A questo punto Dante invita il maestro ad affrettare il passo, essendo molto meno stanco di prima e osservando che il monte proietta già la sua ombra (è pomeriggio). Virgilio dice che procederanno sino alla fine del giorno, quanto più potranno, ma le cose stanno diversamente da come lui pensa. Prima di arrivare in cima, infatti, Dante vedrà il sole tramontare e poi risorgere.
Incontro con Sordello da Goito (58-75)
C. Zocchi, Sordello davanti a Virgilio
Virgilio indica a Dante un'anima che se ne sta in disparte e guarda verso di loro, che potrà indicare la via più rapida per salire. Raggiungono quell'anima che, come si saprà, è lombarda, e sta con atteggiamento altero e muove gli occhi in modo assai dignitoso. Lo spirito non dice nulla e lascia che i due poeti si avvicinino, guardandoli come un leone in attesa. Virgilio si avvicina a lui e lo prega di indicargli il cammino migliore, ma quello non risponde alla domanda e gli chiede a sua volta chi essi siano e da dove vengano. Virgilio non fa in tempo a dire «Mantova...» che subito l'anima va ad abbracciarlo e si presenta come Sordello, originario della sua stessa terra.
(Foto: Monumento a Dante, Trento - © Jaqen)
(Foto: Monumento a Dante, Trento - © Jaqen)
Invettiva contro l'Italia (76-126)
Alberto I d'Asburgo (stampa nel 1450)
Dante a questo punto prorompe in una violenta invettiva contro l'Italia, definita sede del dolore e nave senza timoniere in una tempesta, non più signora delle province dell'Impero romano ma bordello: l'anima di Sordello è stata prontissima a salutare Virgilio solo perché ha saputo che è della sua stessa terra, mentre i cittadini italiani in vita si fanno guerra, anche quelli che abitano nello stesso Comune. L'Italia dovrebbe guardare bene entro i suoi confini e vedrebbe che non c'è parte di essa che gode la pace. A che è servito che Giustiniano ordinasse le leggi se poi non c'è nessuno a metterle in pratica? Gli Italiani dovrebbero permettere all'imperatore di governarli, invece di lasciare che il paese vada in rovina, affidato a gente incapace. Dante accusa l'imperatore Alberto I d'Asburgo di abbandonare l'Italia, diventata una bestia sfrenata, mentre dovrebbe essere lui a cavalcarla: si augura che il giudizio divino colpisca duramente lui e i discendenti, perché il successore ne abbia timore. Infatti Alberto e il padre (Rodolfo d'Asburgo) hanno lasciato che il giardino dell'Impero sia abbandonato: Alberto dovrebbe venire a vedere le lotte tra famiglie rivali, gli abusi subìti dai suoi feudatari, la rovina della contea di Santa Fiora. Dovrebbe vedere Roma che piange e si lamenta di essere abbandonata dal suo sovrano, la gente che si odia, e se non gli sta a cuore la sorte del paese dovrebbe almeno vergognarsi della sua reputazione. Dante si rivolge poi a Giove (Cristo), crocifisso in Terra per noi, e gli chiede se rivolge altrove lo sguardo oppure se prepara per l'Italia un destino migliore di cui non si sa ancora nulla. Le città d'Italia, infatti, sono piene di tiranni e ogni contadino che sostenga una parte politica viene esaltato come un Marcello.
Invettiva contro Firenze (127-151)
Dante osserva ironicamente che Firenze può essere lieta del fatto di non essere toccata da questa digressione, visto che i suoi cittadini contribuiscono alla sua pace. Molti sono giusti e tuttavia sono restii a emettere giudizi, mentre i fiorentini non hanno alcun timore e si riempiono la bocca di giustizia; molti rifiutano gli uffici pubblici, mentre i fiorentini sono fin troppo solleciti ad assumersi le cariche politiche. Firenze dev'essere lieta, perché è ricca, pacifica e assennata: Atene e Sparta, città ricordate per le prime leggi scritte, diedero un piccolo contributo al vivere civile rispetto a Firenze, che emette deliberazioni così sottili (cioè esili) che quelle di ottobre non arrivano a metà novembre. Quante volte la città, a memoria d'uomo, ha mutato le sue usanze! E se Firenze bada bene e ha ancora capacità di giudizio, ammetterà di essere simile a un'ammalata che non trova riposo nel letto e cerca di lenire le sue sofferenze rigirandosi di continuo.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto è di argomento politico ed è dedicato all'Italia, simmetricamente al VI dell'Inferno in cui si parlava di Firenze e al VI del Paradiso in cui si parlerà dell'Impero (secondo un crescendo che allarga progressivamente il campo, dalla città di Dante all'Europa cristiana). In realtà il Canto VI del Purgatorio è strettamente legato al VII con cui forma una sorta di dittico, in quanto nell'episodio successivo Sordello mostrerà ai due poeti i principi negligenti della valletta e biasimerà i loro successori che rappresentano una degenerazione rispetto a loro e si sono macchiati di gravi colpe politiche, di cui i sovrani passati in rassegna si rammaricano. La scelta di Sordello quale protagonista dei due Canti non è casuale, in quanto il trovatore lombardo aveva scritto un famoso Compianto in morte di Ser Blacatz in cui biasimava i principi suoi contemporanei per la loro codardia e li invitava a cibarsi del cuore del nobile defunto per acquistarne la virtù, per cui non sorprende che sia lui a passare in rassegna le anime confinate nella valletta e, in questo Canto, a consentire a Dante di lanciare la sua violenta invettiva all'Italia (del resto anche i suoi versi avevano il tono di una satira e di un'apostrofe ai potenti del sec. XIII).
Anche l'inizio dell'episodio è in linea con la sua conclusione, in quanto la rassegna dei morti per forza che assillano Dante perché li ricordi ai congiunti ci porta nel vivo delle lotte politiche che dilaniavano i Comuni dell'Italia del tempo: tranne Pierre de la Brosse, vittima degli intrighi alla corte di re Filippo III, gli altri sono tutti italiani protagonisti delle lotte tra Guelfi e Ghibellini o vittime di vendette ed odi familiari, tra i quali figura anche il figlio di uno dei conti di Mangona già visti coi traditori dei parenti nella Caina (Inf., XXXII) e il figlio di Marzucco degli Scornigiani, ucciso dal conte Ugolino (Inf., XXXIII) nell'ambito delle lotte interne al Comune di Pisa. Tra questo esordio e l'incontro con Sordello si inserisce la parentesi dedicata a chiarire il passo dell'Eneide (VI, 376) in cui la Sibilla diceva a Palinuro che le sue preghiere non avrebbero piegato i decreti degli dei (egli chiedeva con insistenza di essere traghettato di là dell'Acheronte pur essendo insepolto). Dante espone il suo dubbio a Virgilio, in quanto l'insistenza delle anime che si è lasciato alle spalle sembra contraddire con quanto detto dal poeta latino, il quale spiega che i suffragi dei vivi per i penitenti non annullano l'espiazione delle loro colpe, ma fanno soltanto in modo che questa avvenga più rapidamente; nel caso di Palinuro, poi, la preghiera non era rivolta al Dio cristiano e dunque era priva di valore. La chiosa di Virgilio è importante perché sottolinea una volta di più il valore delle preghiere dei vivi per i penitenti, nel che si avverte la polemica di Dante contro la Chiesa corrotta che lucrava sui suffragi sfruttando il dolore dei congiunti per i loro defunti in Purgatorio; il maestro rimanda il discepolo alle più dettagliate spiegazioni di Beatrice, che in quanto allegoria della teologia arriverà là dove la ragione umana non può giungere (e basta che Dante senta il suo nome perché metta fretta alla sua guida, mentre Virgilio lo avvertirà del fatto che l'ascesa del monte durerà più di quanto pensa).
Segue poi l'incontro con Sordello, mostrato da Dante in tutto il suo aspetto regale e dignitoso mentre osserva in silenzio e con fare altezzoso i due poeti che si avvicinano, a guisa di leon quando si posa: è stato osservato che ci sono molte analogie tra la presentazione di Sordello e quella di Farinata Degli Uberti, con la differenza fondamentale che il dannato non mutava atteggiamento in tutto il colloquio con Dante e si mostrava ancora prigioniero della logica delle lotte politiche, mentre a Sordello è sufficiente sentire che Virgilio viene da Mantova per perdere ogni alterigia e gettarsi ad abbracciarlo affettuosamente (nel Canto seguente, dopo averne appreso l'identità, si inchinerà di fronte a lui per rispetto). E infatti è proprio l'affetto di Sordello verso un suo concittadino di cui non sa ancora il nome a far scattare la violenta invettiva di Dante contro l'Italia, che parte dal fatto che nell'Italia del suo tempo i cittadini sono in lotta l'uno contro l'altro e addirittura entro la stessa città, come dimostra l'elenco delle anime all'inizio del Canto e come dichiara lo stesso esempio di Firenze che tornerà alla fine. Dante riconduce la causa principale di tali lotte all'assenza di un potere centrale, che nella sua visione universalistica doveva essere garantito dall'Impero: è l'imperatore che dovrebbe regnare a Roma e assicurare pace e giustizia agli Italiani, invece il paese è ridotto a una bestia selvaggia che nessuno cavalca né governa (e a poco serve che Giustiniano le avesse sistemato il freno, cioè avesse emanato il Corpus iuris civilis visto che nessuno fa rispettare le leggi). L'immagine del paese come un cavallo che dev'essere domato è la stessa usata nella Monarchia (III, 15) e nel Convivio (IV, 9), dove si dice che il potere temporale ha soprattutto il compito di assicurare il rispetto delle leggi: la polemica è rivolta contro i Comuni italiani ribelli, che come Firenze non si sottomettono all'autorità imperiale, ma anche contro il sovrano stesso che rinuncia a esercitare i suoi diritti, come Alberto I d'Asburgo che lascia la sella vòta e preferisce occuparsi delle cose tedesche, seguendo il cattivo esempio del padre Rodolfo I. Dante augura a lui e alla sua casata un duro castigo divino, in modo da indurre il successore Arrigo VII a comportarsi diversamente; nella visione anacronistica di Dante l'imperatore detiene un potere che deriva da quello dell'Impero romano di Cesare e Augusto, quindi il suo compito è quello di ristabilire la sua autorità su tutta Italia stroncando con la forza ogni resistenza, specie quella dei Comuni guelfi alleati col papa (è quanto Arrigo VII tenterà invano di fare nel 1310-1313 e i toni usati da Dante in questi versi ricordano molto quelli dell'Epistola VII a lui indirizzata: è molto discusso se, al momento della composizione del Canto, Arrigo fosse già sul trono oppure no).
L'ultima parte dell'invettiva si rivolge a Firenze, che come Dante afferma con amara ironia non è toccata da questa sua apostrofe, essendo i suoi cittadini impegnati ad assicurarle pace e prosperità (l'antifrasi è l'artificio usato in questi versi finali, con un sarcasmo quanto mai tagliente). I fiorentini si riempiono la bocca della parola «giustizia», mentre Dante stesso è un esempio degli abusi compiuti dai Neri contro i loro nemici; essi sono fin troppo solleciti ad assumersi l'onere di cariche politiche, al fine di arricchirsi e di colpire i nemici (da notare l'insistenza delle accuse, con l'anafora Molti... ai vv. 130, 133 e tu nell'allocuzione al v. 137, come già c'era la quadruplice anafora di Vieni... ai vv. 106-115 nell'allocuzione ad Alberto I). Atene e Sparta fecero ben poco rispetto a Firenze, i cui provvedimenti di legge sono così sottili (l'aggettivo è ambiguo, potendo significare «elaborati» o «fragili») che durano solo poche settimane, mentre la città cambia nel breve volgere di tempo tutti i suoi costumi, simile a un'ammalata che si rigira nel letto senza trovare pace. L'ultima immagine è molto efficace, in quanto riassume la triste condizione di tante città italiane piene... di tiranni, come è stato detto prima, e in cui anche i cittadini di più umile condizione diventano capi-fazione e sono pronti a commettere ogni sorta di abuso; è un tema già affrontato varie volte da Dante nel poema e che tornerà soprattutto nei Canti in cui si affronterà ancora la spinosa questione dell'autorità imperiale (ad es. il XVI del Purg., ma anche il VI e i XIX-XX del Par., al centro dei quali sarà il tema della giustizia terrena). Del resto il poema nel suo complesso è un duro atto di accusa contro il disordine politico e morale dell'Italia del Trecento, che trovava la sua radice prima nella cupidigia nonché nelle lotte tra città che insanguinavano il giardin de lo 'mperio, unitamente alla corruzione ecclesiastica che sovvertiva ogni giustizia calcando i buoni e sollevando i pravi (è chiaro che in questa visione Firenze non poteva che essere l'esempio negativo per eccellenza, quindi non stupisce che l'invettiva all'Italia si chiuda proprio con la dura apostrofe dedicata alla città che aveva ingiustamente esiliato Dante per il suo ben far).
Anche l'inizio dell'episodio è in linea con la sua conclusione, in quanto la rassegna dei morti per forza che assillano Dante perché li ricordi ai congiunti ci porta nel vivo delle lotte politiche che dilaniavano i Comuni dell'Italia del tempo: tranne Pierre de la Brosse, vittima degli intrighi alla corte di re Filippo III, gli altri sono tutti italiani protagonisti delle lotte tra Guelfi e Ghibellini o vittime di vendette ed odi familiari, tra i quali figura anche il figlio di uno dei conti di Mangona già visti coi traditori dei parenti nella Caina (Inf., XXXII) e il figlio di Marzucco degli Scornigiani, ucciso dal conte Ugolino (Inf., XXXIII) nell'ambito delle lotte interne al Comune di Pisa. Tra questo esordio e l'incontro con Sordello si inserisce la parentesi dedicata a chiarire il passo dell'Eneide (VI, 376) in cui la Sibilla diceva a Palinuro che le sue preghiere non avrebbero piegato i decreti degli dei (egli chiedeva con insistenza di essere traghettato di là dell'Acheronte pur essendo insepolto). Dante espone il suo dubbio a Virgilio, in quanto l'insistenza delle anime che si è lasciato alle spalle sembra contraddire con quanto detto dal poeta latino, il quale spiega che i suffragi dei vivi per i penitenti non annullano l'espiazione delle loro colpe, ma fanno soltanto in modo che questa avvenga più rapidamente; nel caso di Palinuro, poi, la preghiera non era rivolta al Dio cristiano e dunque era priva di valore. La chiosa di Virgilio è importante perché sottolinea una volta di più il valore delle preghiere dei vivi per i penitenti, nel che si avverte la polemica di Dante contro la Chiesa corrotta che lucrava sui suffragi sfruttando il dolore dei congiunti per i loro defunti in Purgatorio; il maestro rimanda il discepolo alle più dettagliate spiegazioni di Beatrice, che in quanto allegoria della teologia arriverà là dove la ragione umana non può giungere (e basta che Dante senta il suo nome perché metta fretta alla sua guida, mentre Virgilio lo avvertirà del fatto che l'ascesa del monte durerà più di quanto pensa).
Segue poi l'incontro con Sordello, mostrato da Dante in tutto il suo aspetto regale e dignitoso mentre osserva in silenzio e con fare altezzoso i due poeti che si avvicinano, a guisa di leon quando si posa: è stato osservato che ci sono molte analogie tra la presentazione di Sordello e quella di Farinata Degli Uberti, con la differenza fondamentale che il dannato non mutava atteggiamento in tutto il colloquio con Dante e si mostrava ancora prigioniero della logica delle lotte politiche, mentre a Sordello è sufficiente sentire che Virgilio viene da Mantova per perdere ogni alterigia e gettarsi ad abbracciarlo affettuosamente (nel Canto seguente, dopo averne appreso l'identità, si inchinerà di fronte a lui per rispetto). E infatti è proprio l'affetto di Sordello verso un suo concittadino di cui non sa ancora il nome a far scattare la violenta invettiva di Dante contro l'Italia, che parte dal fatto che nell'Italia del suo tempo i cittadini sono in lotta l'uno contro l'altro e addirittura entro la stessa città, come dimostra l'elenco delle anime all'inizio del Canto e come dichiara lo stesso esempio di Firenze che tornerà alla fine. Dante riconduce la causa principale di tali lotte all'assenza di un potere centrale, che nella sua visione universalistica doveva essere garantito dall'Impero: è l'imperatore che dovrebbe regnare a Roma e assicurare pace e giustizia agli Italiani, invece il paese è ridotto a una bestia selvaggia che nessuno cavalca né governa (e a poco serve che Giustiniano le avesse sistemato il freno, cioè avesse emanato il Corpus iuris civilis visto che nessuno fa rispettare le leggi). L'immagine del paese come un cavallo che dev'essere domato è la stessa usata nella Monarchia (III, 15) e nel Convivio (IV, 9), dove si dice che il potere temporale ha soprattutto il compito di assicurare il rispetto delle leggi: la polemica è rivolta contro i Comuni italiani ribelli, che come Firenze non si sottomettono all'autorità imperiale, ma anche contro il sovrano stesso che rinuncia a esercitare i suoi diritti, come Alberto I d'Asburgo che lascia la sella vòta e preferisce occuparsi delle cose tedesche, seguendo il cattivo esempio del padre Rodolfo I. Dante augura a lui e alla sua casata un duro castigo divino, in modo da indurre il successore Arrigo VII a comportarsi diversamente; nella visione anacronistica di Dante l'imperatore detiene un potere che deriva da quello dell'Impero romano di Cesare e Augusto, quindi il suo compito è quello di ristabilire la sua autorità su tutta Italia stroncando con la forza ogni resistenza, specie quella dei Comuni guelfi alleati col papa (è quanto Arrigo VII tenterà invano di fare nel 1310-1313 e i toni usati da Dante in questi versi ricordano molto quelli dell'Epistola VII a lui indirizzata: è molto discusso se, al momento della composizione del Canto, Arrigo fosse già sul trono oppure no).
L'ultima parte dell'invettiva si rivolge a Firenze, che come Dante afferma con amara ironia non è toccata da questa sua apostrofe, essendo i suoi cittadini impegnati ad assicurarle pace e prosperità (l'antifrasi è l'artificio usato in questi versi finali, con un sarcasmo quanto mai tagliente). I fiorentini si riempiono la bocca della parola «giustizia», mentre Dante stesso è un esempio degli abusi compiuti dai Neri contro i loro nemici; essi sono fin troppo solleciti ad assumersi l'onere di cariche politiche, al fine di arricchirsi e di colpire i nemici (da notare l'insistenza delle accuse, con l'anafora Molti... ai vv. 130, 133 e tu nell'allocuzione al v. 137, come già c'era la quadruplice anafora di Vieni... ai vv. 106-115 nell'allocuzione ad Alberto I). Atene e Sparta fecero ben poco rispetto a Firenze, i cui provvedimenti di legge sono così sottili (l'aggettivo è ambiguo, potendo significare «elaborati» o «fragili») che durano solo poche settimane, mentre la città cambia nel breve volgere di tempo tutti i suoi costumi, simile a un'ammalata che si rigira nel letto senza trovare pace. L'ultima immagine è molto efficace, in quanto riassume la triste condizione di tante città italiane piene... di tiranni, come è stato detto prima, e in cui anche i cittadini di più umile condizione diventano capi-fazione e sono pronti a commettere ogni sorta di abuso; è un tema già affrontato varie volte da Dante nel poema e che tornerà soprattutto nei Canti in cui si affronterà ancora la spinosa questione dell'autorità imperiale (ad es. il XVI del Purg., ma anche il VI e i XIX-XX del Par., al centro dei quali sarà il tema della giustizia terrena). Del resto il poema nel suo complesso è un duro atto di accusa contro il disordine politico e morale dell'Italia del Trecento, che trovava la sua radice prima nella cupidigia nonché nelle lotte tra città che insanguinavano il giardin de lo 'mperio, unitamente alla corruzione ecclesiastica che sovvertiva ogni giustizia calcando i buoni e sollevando i pravi (è chiaro che in questa visione Firenze non poteva che essere l'esempio negativo per eccellenza, quindi non stupisce che l'invettiva all'Italia si chiuda proprio con la dura apostrofe dedicata alla città che aveva ingiustamente esiliato Dante per il suo ben far).
Note e passi controversi
La zara (v. 1, dall'arabo zahr, «dado») era un gioco simile alla morra, assai diffuso nell'Oriente bizantino e a cui si giocava in due gettando tre dadi su un tavolo. Repetendo le volte (v. 3) indica probabilmente che il perdente ritenta le gettate dei dadi, o forse che ripensa al gioco.
L'espressione correndo in caccia (v. 15) può voler dire «inseguendo» o «essendo inseguito», da cui la dubbia interpretazione del verso.
I vv. 17-18 alludono forse al fatto che Marzucco, il padre di Gano (o Farinata) qui ricordato, seguì il funerale del figlio ucciso senza lacrime.
Inveggia (v. 20, «invidia») deriva dal prov. enveja.
Alcuni mss. al v. 48 leggono ridente e felice, ma è lezione molto dubbia (ridere dipende dal verbo vedrai ed è riferito a Beatrice).
L'immagine dell'Italia come una nave senza timoniere (v. 77) è usata anche in Conv., IV, 4, dove il nocchiero dev'essere per Dante proprio l'imperatore.
L'espressione donna di province (v. 78) vuol dire «signora delle province» e rievoca l'antico Impero romano di cui l'Italia era centro.
Al v. 93 (ciò che Dio ti nota) Dante allude probabilmente a Matth., XXII, 21 (Reddite ergo, quae sunt Caesaris, Caesari et, quae sunt Dei, Deo, «Date dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»), quindi alla separazione tra potere temporale e spirituale; in tal caso la gente che dovrebbe essere devota è il corpo ecclesiastico.
Il v. 96 indica che gli Italiani (o la Chiesa) non permettono all'imperatore di montare in sella (cioè di governare il paese) e conducono il cavallo a mano per la predella, la parte della briglia attaccata al morso (dunque l'Italia è mal governata).
Montecchi e Cappelletti (v. 106) erano due famiglie rivali, la prima ghibellina di Verona, la seconda guelfa di Cremona, invece Monaldi e Filippeschi (v. 107) erano casate di Orvieto, una guelfa e l'altra ghibellina: mentre nel primo caso le famiglie citate erano già in rovina (già tristi), nel secondo esse presagivano la futura decadenza (con sospetti).
I gentili citati al v. 110 sono i feudatari dell'Impero, che sono vittime o artefici di oppressioni (a seconda del senso di pressure) e le cui magagne (le colpe commesse o i danni subìti) Alberto d'Asbugo dovrebbe curare; la contea di Santafior era l'esempio di una famiglia feudale caduta in disgrazia.
Il Marcel citato al v. 125 potrebbe essere il pompeiano G. Claudio Marcello, avversario irriducibile di Cesare, o anche M. Claudio Marcello, espugnatore di Siracusa e salvatore della patria: Dante vorrebbe dire che ogni contadino che si mette a capo di una fazione si atteggia a ribelle dell'autorità imperiale, o a salvatore della patria (le due interpretazioni non si escludono a vicenda).
L'espressione se... vedi lume (v. 148) vuol dire «se vedi chiaramente».
L'espressione correndo in caccia (v. 15) può voler dire «inseguendo» o «essendo inseguito», da cui la dubbia interpretazione del verso.
I vv. 17-18 alludono forse al fatto che Marzucco, il padre di Gano (o Farinata) qui ricordato, seguì il funerale del figlio ucciso senza lacrime.
Inveggia (v. 20, «invidia») deriva dal prov. enveja.
Alcuni mss. al v. 48 leggono ridente e felice, ma è lezione molto dubbia (ridere dipende dal verbo vedrai ed è riferito a Beatrice).
L'immagine dell'Italia come una nave senza timoniere (v. 77) è usata anche in Conv., IV, 4, dove il nocchiero dev'essere per Dante proprio l'imperatore.
L'espressione donna di province (v. 78) vuol dire «signora delle province» e rievoca l'antico Impero romano di cui l'Italia era centro.
Al v. 93 (ciò che Dio ti nota) Dante allude probabilmente a Matth., XXII, 21 (Reddite ergo, quae sunt Caesaris, Caesari et, quae sunt Dei, Deo, «Date dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»), quindi alla separazione tra potere temporale e spirituale; in tal caso la gente che dovrebbe essere devota è il corpo ecclesiastico.
Il v. 96 indica che gli Italiani (o la Chiesa) non permettono all'imperatore di montare in sella (cioè di governare il paese) e conducono il cavallo a mano per la predella, la parte della briglia attaccata al morso (dunque l'Italia è mal governata).
Montecchi e Cappelletti (v. 106) erano due famiglie rivali, la prima ghibellina di Verona, la seconda guelfa di Cremona, invece Monaldi e Filippeschi (v. 107) erano casate di Orvieto, una guelfa e l'altra ghibellina: mentre nel primo caso le famiglie citate erano già in rovina (già tristi), nel secondo esse presagivano la futura decadenza (con sospetti).
I gentili citati al v. 110 sono i feudatari dell'Impero, che sono vittime o artefici di oppressioni (a seconda del senso di pressure) e le cui magagne (le colpe commesse o i danni subìti) Alberto d'Asbugo dovrebbe curare; la contea di Santafior era l'esempio di una famiglia feudale caduta in disgrazia.
Il Marcel citato al v. 125 potrebbe essere il pompeiano G. Claudio Marcello, avversario irriducibile di Cesare, o anche M. Claudio Marcello, espugnatore di Siracusa e salvatore della patria: Dante vorrebbe dire che ogni contadino che si mette a capo di una fazione si atteggia a ribelle dell'autorità imperiale, o a salvatore della patria (le due interpretazioni non si escludono a vicenda).
L'espressione se... vedi lume (v. 148) vuol dire «se vedi chiaramente».
Testo Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; 3 con l’altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente; 6 el non s’arresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, più non fa pressa; e così da la calca si difende. 9 Tal era io in quella turba spessa, volgendo a loro, e qua e là, la faccia, e promettendo mi sciogliea da essa. 12 Quiv’era l’Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, e l’altro ch’annegò correndo in caccia. 15 Quivi pregava con le mani sporte Federigo Novello, e quel da Pisa che fé parer lo buon Marzucco forte. 18 Vidi conte Orso e l’anima divisa dal corpo suo per astio e per inveggia, com’e’ dicea, non per colpa commisa; 21 Pier da la Broccia dico; e qui proveggia, mentr’è di qua, la donna di Brabante, sì che però non sia di peggior greggia. 24 Come libero fui da tutte quante quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi, sì che s’avacci lor divenir sante, 27 io cominciai: «El par che tu mi nieghi, o luce mia, espresso in alcun testo che decreto del cielo orazion pieghi; 30 e questa gente prega pur di questo: sarebbe dunque loro speme vana, o non m’è ‘l detto tuo ben manifesto?». 33 Ed elli a me: «La mia scrittura è piana; e la speranza di costor non falla, se ben si guarda con la mente sana; 36 ché cima di giudicio non s’avvalla perché foco d’amor compia in un punto ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla; 39 e là dov’io fermai cotesto punto, non s’ammendava, per pregar, difetto, perché ‘l priego da Dio era disgiunto. 42 Veramente a così alto sospetto non ti fermar, se quella nol ti dice che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto. 45 Non so se ‘ntendi: io dico di Beatrice; tu la vedrai di sopra, in su la vetta di questo monte, ridere e felice». 48 E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta, ché già non m’affatico come dianzi, e vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta». 51 «Noi anderem con questo giorno innanzi», rispuose, «quanto più potremo omai; ma ‘l fatto è d’altra forma che non stanzi. 54 Prima che sie là sù, tornar vedrai colui che già si cuopre de la costa, sì che ‘ suoi raggi tu romper non fai. 57 Ma vedi là un’anima che, posta sola soletta, inverso noi riguarda: quella ne ‘nsegnerà la via più tosta». 60 Venimmo a lei: o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa e nel mover de li occhi onesta e tarda! 63 Ella non ci dicea alcuna cosa, ma lasciavane gir, solo sguardando a guisa di leon quando si posa. 66 Pur Virgilio si trasse a lei, pregando che ne mostrasse la miglior salita; e quella non rispuose al suo dimando, 69 ma di nostro paese e de la vita ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava «Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita, 72 surse ver’ lui del loco ove pria stava, dicendo: «O Mantoano, io son Sordello de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava. 75 Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! 78 Quell’anima gentil fu così presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, di fare al cittadin suo quivi festa; 81 e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra. 84 Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, s’alcuna parte in te di pace gode. 87 Che val perché ti racconciasse il freno Iustiniano, se la sella è vota? Sanz’esso fora la vergogna meno. 90 Ahi gente che dovresti esser devota, e lasciar seder Cesare in la sella, se bene intendi ciò che Dio ti nota, 93 guarda come esta fiera è fatta fella per non esser corretta da li sproni, poi che ponesti mano a la predella. 96 O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni, 99 giusto giudicio da le stelle caggia sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto, tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia! 102 Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto, per cupidigia di costà distretti, che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto. 105 Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi, e questi con sospetti! 108 Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com’è oscura! 111 Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama: «Cesare mio, perché non m’accompagne?». 114 Vieni a veder la gente quanto s’ama! e se nulla di noi pietà ti move, a vergognar ti vien de la tua fama. 117 E se licito m’è, o sommo Giove che fosti in terra per noi crucifisso, son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? 120 O è preparazion che ne l’abisso del tuo consiglio fai per alcun bene in tutto de l’accorger nostro scisso? 123 Ché le città d’Italia tutte piene son di tiranni, e un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene. 126 Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca, mercé del popol tuo che si argomenta. 129 Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca per non venir sanza consiglio a l’arco; ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca. 132 Molti rifiutan lo comune incarco; ma il popol tuo solicito risponde sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!». 135 Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde: tu ricca, tu con pace, e tu con senno! S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde. 138 Atene e Lacedemona, che fenno l’antiche leggi e furon sì civili, fecero al viver bene un picciol cenno 141 verso di te, che fai tanto sottili provedimenti, ch’a mezzo novembre non giugne quel che tu d’ottobre fili. 144 Quante volte, del tempo che rimembre, legge, moneta, officio e costume hai tu mutato e rinovate membre! 147 E se ben ti ricordi e vedi lume, vedrai te somigliante a quella inferma che non può trovar posa in su le piume, ma con dar volta suo dolore scherma. 151 |
ParafrasiQuando il gioco della zara ha fine, quello che ha perso rimane da solo e addolorato, mentre ripensa alle giocate fatte e impara tristemente;
tutta la gente segue il vincitore; quello tira dritto, e uno gli si mette di fronte, un altro lo tira da dietro, un altro lo segue affiancandolo; quello non si ferma e ascolta l'uno e l'altro; dà la mancia a uno e questo non lo assilla più, e così di difende dalla calca. Così facevo io in mezzo a quella folla di anime, volgendo il viso a loro qua e là, e promettendo mi separavo dalla calca. Qui c'era l'Aretino (Benincasa da Laterina) che fu ucciso dalle feroci braccia di Ghino di Tacco, e l'altro (Guccio de' Tarlati) che annegò mentre era inseguito (o inseguiva). Qui pregava a mani giunte Federico Novello, e il pisano (Gano o Farinata degli Scornigiani) che fece apparire forte il buon Marzucco, suo padre. Vidi il conte Orso (degli Alberti) e l'anima divisa dal suo corpo per astio e invidia, non per aver commesso una colpa, come diceva; intendo dire Pierre de la Brosse; e a questo riguardo Maria di Brabante, finché è in vita, farebbe bene a pentirsi, per non finire in un gregge peggiore (tra i dannati). Non appena mi fui liberato da tutte quelle anime che pregavano perché altri pregassero per permetter loro di purificarsi più in fretta, io cominciai: «Mi sembra che tu neghi, o mio maestro, espressamente in una tua opera, che una preghiera possa piegare una decisione divina; e queste anime pregano proprio per questo: dunque la loro speranza è vana, o le tue parole non mi sono chiare?» E lui a me: «Le mie parole sono chiare e la speranza di costoro è ben riposta, se si guarda con attenzione e con intelletto integro; infatti l'altezza del giudizio divino non è sminuita se l'ardore di carità (delle preghiere) compie in un istante ciò che deve essere espiato da chi si trattiene qui; e nel punto dove io dissi questo, la colpa non veniva cancellata grazie alla preghiera, e poi la preghiera non era rivolta a Dio. Tuttavia non ti fermare davanti a un dubbio così profondo, prima che ti parli colei che sarà luce tra la verità e il tuo intelletto. Non so se capisci, parlo di Beatrice; tu la vedrai ridere felice sulla cima di questo monte». E io: «Signore, andiamo più in fretta, dal momento che non sono stanco come prima e, come vedi, il monte getta già ombra». Rispose: «Noi procederemo in questa giornata quanto più potremo; ma le cose stanno diversamente da come pensi. Prima che tu arrivi lassù, vedrai risorgere il sole che già tramonta dietro il monte, così che tu non fai più ombra. Ma vedi laggiù un'anima, che se ne sta tutta sola e che guarda verso di noi: quella ci mostrerà la via più spedita». La raggiungemmo: o anima lombarda, come te ne stavi altera e disdegnosa, e piena di dignità nel muovere lentamente gli occhi! Ella non ci diceva nulla, ma ci lasciava avvicinare, limitandosi a guardare come fa il leone quando sta in attesa. Tuttavia Virgilio si avvicinò a lei, pregando che ci mostrasse il punto migliore per salire; e quella non rispose alla domanda, ma ci chiese del paese da dove venivamo e della nostra vita; e il dolce maestro iniziava a dire «Mantova...» e quell'ombra, che se ne stava tutta solitaria, si alzò dal luogo dove stava, dicendo: «O Mantovano, io sono Sordello, della tua terra!»; e si abbracciavano a vicenda. Ahimè, Italia schiava, sede del dolore, nave senza timoniere in una gran tempesta, non più signora delle province ma bordello! Quell'anima nobile fu così sollecita a fare festa al suo concittadino, solo per il dolce suono della sua terra, e adesso i tuoi abitanti in vita non smettono di farsi la guerra, e anche quelli che abitano la stessa città si rodono l'un l'altro. Cerca, o infelice, intorno alle tue coste e poi guarda nell'interno, se alcuna parte di te si trova in pace. A che è servito che Giustiniano ti aggiustasse il freno (emanasse le leggi), se la sella è vuota (nessuno le fa rispettare)? Senza di esso (senza le leggi) la vergogna sarebbe minore. Oh gente (di Chiesa), che dovresti essere devota e lasciare che Cesare (l'imperatore) sieda sulla sella, se capisci bene la parola di Dio, guarda come è diventata ribelle questa bestia per non essere tenuta a bada dagli sproni, dal momento che la conduci a mano per le briglie. O Alberto d'Asburgo, che abbandoni questa bestia divenuta indomabile e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni (governare l'Italia), possa cadere dal cielo contro di te e la tua famiglia un giusto castigo, e sia straordinario ed evidente, così che il tuo successore (Arrigo VII) ne abbia timore! Infatti tu e tuo padre (Rodolfo I) avete lasciato che il giardino dell'Impero (l'Italia) sia abbandonato, rimanendo in Germania per cupidigia. Vieni (o Alberto) a vedere i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi, uomo negligente, i primi già in rovina e gli altri sul punto di cadervi! Vieni, o crudele, e vedi le oppressioni compiute (o subìte) dai tuoi feudatari, e cura le loro colpe (o danni); e vedrai come è oscura Santa Fiora! Vieni a vedere la tua città di Roma che piange, vedova e abbandonata, e giorno e notte invoca: «Cesare mio, perché non hai qui la tua sede?» Vieni a vedere quanto si amano gli Italiani! e se non hai alcuna pietà di noi, vieni almeno a vergognarti della tua reputazione. E se mi è consentito, o altissimo Giove (Cristo), che fosti crocifisso per noi in Terra, i tuoi occhi giusti sono forse rivolti altrove? Oppure nell'abisso della tua saggezza stai preparando un bene (per l'Italia) di cui non possiamo renderci conto? Infatti tutte le città italiane sono piene di tiranni, e ogni contadino che si mette a capo di una fazione politica diventa un Marcello. Firenze mia, puoi davvero esser contenta del fatto che questa digressione non ti tocca, grazie al tuo popolo che si ingegna. Molti hanno la giustizia in cuore, ma questa si esprime tardi con le parole per non rischiare di non essere ponderata; ma il tuo popolo se ne riempie sempre la bocca. Molti rifiutano le cariche pubbliche, ma il tuo popolo risponde sollecito senza essere chiamato, e grida: «Me ne incarico io!» Ora rallegrati, visto che ne hai motivo: tu sei ricca, sei in pace, sei assennata! Se dico la verità, i fatti non lo nascondono. Atene e Sparta, che scrissero le antiche leggi e furono così civili, diedero un piccolo contributo alla giustizia in confronto a te, che emani provvedimenti tanto sottili (elaborati, ma anche fragili) che quelli emessi a ottobre non arrivano a metà novembre. Quante volte, a memoria d'uomo, hai tu mutato leggi, moneta e costumi, e rinnovato la popolazione (grazie agli esili)! E se tu ti ricordi bene e vedi chiaramente, riconoscerai di esser simile a quell'ammalata che non può trovare riposo nel letto, ma rigirandosi di continuo cerca di alleviare il dolore. |