Paradiso, Canto XXVI
Masaccio, Adamo ed Eva cacciati dall'Eden
"...Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte"...
E la mia donne: "Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor l'anima prima
che la prima virtù creasse mai"...
"...Or, figliuol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno..."
Alfa e O è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte"...
E la mia donne: "Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor l'anima prima
che la prima virtù creasse mai"...
"...Or, figliuol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno..."
Argomento del Canto
Ancora nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse. San Giovanni esamina Dante sulla carità; Beatrice restituisce al poeta la vista. Apparizione di Adamo: le quattro domande di Dante e la risposta del primo padre.
È il tardo pomeriggio di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È il tardo pomeriggio di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
San Giovanni inizia a esaminare Dante sulla carità (1-18)
G. Doré, S. Giovanni
Dante è incerto e timoroso riguardo alla perdita della vista, finché san Giovanni lo rassicura circa il fatto che tale condizione è solo temporanea e lo esorta a usare la ragione per compensare la mancanza. Il santo gli chiede quale sia l'oggetto della sua carità e gli ricorda che Beatrice ha la stessa virtù che ebbe Anania quando curò san Paolo, ovvero potrà ridargli la vista. Dante risponde augurandosi che la donna possa, quando più le piacerà, curare i suoi occhi attraverso i quali lo fece innamorare di sé, quindi dichiara che oggetto della sua carità è Dio, principio e fine di tutto quanto l'Universo.
Origine della carità (19-66)
Tiziano, S. Giovanni elemosinario
San Giovanni torna a rivolgersi a Dante e lo esorta a operare una maggior distinzione, dichiarando qual è l'origine della carità. Il poeta risponde che tale virtù gli viene da argomenti filosofici e dall'autorità che discende dal Cielo, poiché il bene in quanto tale accende amore di sé non appena viene compreso nella sua essenza. La mente di colui che è dotato di intelletto non può che amare Dio, in quanto Egli è il bene supremo e ogni altro bene all'infuori di Lui non è altro che un suo riflesso. Dante ha appreso tale verità dall'opera di quel filosofo (Aristotele?) che ha descritto il primo amore di angeli e uomini, nonché dalla parola stessa di Dio nel rivolgersi a Mosè; fonte della carità è anche il Vangelo di Giovanni, che rivela i misteri celesti più di ogni altro testo. Il santo giudica ben diretto l'amore di Dante, ma vuole sapere ancora quali stimoli inducano il poeta ad amare, nel che Dante comprende subito dove voglia condurre la sua professione. Egli spiega che lo hanno indotto ad ardere di carità molti elementi, fra cui l'esistenza del mondo e di se stesso, la morte sofferta da Cristo per la salvezza dell'umanità, la speranza della vita eterna, tutte cose che l'hanno distolto dall'amore dei beni terreni indirizzandolo a quelli celesti. Dante dichiara infine di amare ogni creatura del mondo, tanto quanto essa è amata da Dio.
Approvazione dei beati. Dante ritrova la vista (67-81)
Alla fine delle parole di Dante si ode un dolcissimo canto, al quale Beatrice inneggia tre volte a Dio, quindi il poeta ritrova la vista come colui che è svegliato da un bagliore improvviso e inizia a vedere le cose in modo confuso, poi via via più preciso; così la donna gli restituisce la vista con il suo sguardo, al punto che Dante vede meglio di prima e si accorge della comparsa di un quarto lume (Adamo) oltre a quelli di san Giovanni, san Pietro e san Giacomo.
Approvazione dei beati. Dante ritrova la vista (67-81)
Alla fine delle parole di Dante si ode un dolcissimo canto, al quale Beatrice inneggia tre volte a Dio, quindi il poeta ritrova la vista come colui che è svegliato da un bagliore improvviso e inizia a vedere le cose in modo confuso, poi via via più preciso; così la donna gli restituisce la vista con il suo sguardo, al punto che Dante vede meglio di prima e si accorge della comparsa di un quarto lume (Adamo) oltre a quelli di san Giovanni, san Pietro e san Giacomo.
Apparizione del primo padre, Adamo (82-96)
G. Di Paolo, Adamo
Beatrice spiega a Dante che nella luce è avvolta la prima anima mai creata da Dio, ovvero quella del primo progenitore, Adamo: Dante solleva subito lo sguardo, simile a un albero piegato dal vento che si risolleva, in quanto pieno di desiderio di parlare al nuovo arrivato. Il poeta si rivolge ad Adamo supplicandolo di parlargli, senza neppure rivolgergli le proprie domande in quanto il beato può leggere la sua curiosità nella mente divina.
Quattro domande di Dante ad Adamo (97-114)
Adamo è simile ad un animale avvolto da un sacco, che si dimena e dimostra così il suo stato d'animo, poiché anche il beato fa risplendere la luce da cui è fasciato per la gioia di poter rispondere a Dante. Egli dichiara di conoscere perfettamente cosa Dante vorrebbe chiedergli, in quanto legge ciò nella mente di Dio che riflette, non riflessa, tutte le cose esistenti. Il poeta vuole sapere quanto tempo è passato da quando Adamo venne posto nel giardino dell'Eden, quando vi è rimasto, la causa del peccato originale e quale linguaggio egli abbia usato.
Quattro domande di Dante ad Adamo (97-114)
Adamo è simile ad un animale avvolto da un sacco, che si dimena e dimostra così il suo stato d'animo, poiché anche il beato fa risplendere la luce da cui è fasciato per la gioia di poter rispondere a Dante. Egli dichiara di conoscere perfettamente cosa Dante vorrebbe chiedergli, in quanto legge ciò nella mente di Dio che riflette, non riflessa, tutte le cose esistenti. Il poeta vuole sapere quanto tempo è passato da quando Adamo venne posto nel giardino dell'Eden, quando vi è rimasto, la causa del peccato originale e quale linguaggio egli abbia usato.
Adamo risponde alle quattro domande (115-142)
H. Bosch, Il giardino dell'Eden
Adamo spiega a Dante che il peccato originale non fu l'aver mangiato semplicemente per gola il frutto proibito, bensì il non aver voluto attenersi ai divieti divini. Egli è rimasto nel Limbo, attendendo di esserne tratto fuori per ascendere al Cielo, 4302 anni ed è vissuto sulla Terra per 930 anni, quindi dalla sua cacciata dall'Eden sono trascorsi in tutto 6498 anni. La lingua da lui parlata era già scomparsa quando gli uomini iniziarono a costruire la Torre di Babele, in quanto il linguaggio è opera dell'intelletto umano e non può che essere mutevole nel tempo; l'azione del linguaggio è di per sé naturale, ma l'esprimersi in un modo o in un altro è arbitrio dell'uomo. Prima che Adamo scendesse nel Limbo, spiega, il nome di Dio era 'I', mentre in seguito fu detto 'El', cosa perfettamente comprensibile in quanto gli usi degli uomini mutano continuamente. Adamo conclude dicendo che egli rimase nel Paradiso Terrestre sette ore in tutto.
Interpretazione complessiva
Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde all'esame di san Giovanni circa il possesso della carità, con il riacquisto della vista da parte di Dante, mentre la seconda introduce sulla scena il personaggio di Adamo, al quale il poeta rivolge quattro domande concernenti la sua permanenza nell'Eden e la natura del peccato originale (la risposta di Adamo corregge alcune errate convinzioni di Dante, precedentemente espresse nel De vulgari eloquentia). I due momenti del Canto sembrano nettamente separati, ma c'è in realtà un sottile collegamento che spiega anche l'accostamento del primo progenitore ai tre santi simbolo delle virtù teologali, poiché Adamo è stato l'unico uomo in cui tali virtù fossero naturalmente infuse, mentre in seguito alla sua cacciata dall'Eden fu necessario attendere la morte di Cristo per restituirle all'umanità: inoltre Adamo spiega che il suo peccato fu non di gola ma di superbia, non essendosi attenuto al divieto divino che limitava la sua conoscenza, il che ci riporta al peccato di natura intellettuale che Dante riconosceva nel suo «traviamento» e che forse è rappresentato dalla perdita momentanea della vista nel Canto precedente, dovuto al fissare troppo intensamente la luce di san Giovanni. Il gesto di Dante era dovuto alla curiosità di vedere se il santo fosse in Cielo col corpo mortale, secondo una diffusa leggenda che Giovanni stesso ha sfatato in quanto contraria alla dottrina (XXV, 122-129), ma non è improbabile che Dante indicasse in tale atteggiamento la volontà di scorgere delle verità inconoscibili alla ragione umana, il che è stato punito con il suo abbagliamento e la perdita temporanea della vista, che sarà Beatrice a ridargli al termine del suo esame sul possesso della carità. La donna è inoltre esplicitamente paragonata da Giovanni ad Anania, l'uomo che per volontà di Dio restituì la vista a san Paolo, quindi c'è un accostamento fra l'Apostolo e Dante che non è cosa nuova nel poema (cfr. Inf., II, 28 ss.; Par., XV, 28-30) e ribadisce ulteriormente che il viaggio dantesco è voluto dalla grazia divina, proprio come quello di san Paolo che fu rapito in estasi al III Cielo per diffondere sulla Terra il messaggio evangelico, mentre Dante dovrà riferire quanto visto nell'Oltretomba una volta tornato sulla Terra.
L'esame sulla carità fa da cerniera fra la prima e la seconda parte del Canto, in quanto l'amore verso Dio è la virtù opposta al peccato di superbia che originò la disobbedienza di Adamo al suo Creatore e la ribellione di Lucifero, ovvero la radice di tutto il male presente nel mondo: il colloquio sull'argomento è alquanto diverso rispetto agli esami su fede e speranza, poiché non viene sollecitato da Beatrice e non riguarda la definizione della carità, ovvia secondo la formula di san Tommaso per cui charitas est amor Dei, e si concentra dunque sull'oggetto della carità e la sua fonte, indicata da Dante nell'insegnamento dei filosofi e nelle fonti scritturali, incluso il Vangelo giovanneo che a differenza di quelli sinottici è di argomento prevalentemente teologico. Dante subordina in un certo senso la filosofia naturale alla dottrina rivelata, secondo lo schema teorico che costituisce l'ossatura del poema, indicando Dio come il bene supremo cui ogni intelletto sano non può che tendere naturalmente e precisando che la carità viene in lui stimolata dall'opera grandiosa della creazione, nonché dal sacrificio di Cristo sulla croce (dovuto, non a caso, proprio a cancellare il peccato di Adamo) e dalla speranza di vita eterna, per cui egli ama tutte le creature in quanto amate anch'esse da Dio. Alcuni studiosi hanno osservato che tale professione di carità sembra frutto di un freddo ragionamento filosofico e non di slancio generoso dell'animo, addirittura che l'amore per il prossimo è concentrato in pochi versi e subordinato all'amore per Dio, ma ciò si accorda perfettamente con l'intento da parte di Dante di corroborare le verità teologiche con la descrizione delle cose vedute, per cui non stupisce che l'ardore mistico lasci qui il posto a una sottile discettazione filosofica, come del resto era avvenuto per le altre due virtù teologali. Dante vuole mettere l'accento sulla ragione e, soprattutto, sui limiti che ad essa sono imposti dalla volontà divina e che lui, proprio come Adamo, ha voluto infrangere con un atto di superbia intellettuale che poteva costargli la dannazione e che lo ha portato a smarrirsi nella selva oscura; non a caso nella sua professione il poeta dichiara che gli stimoli alla carità lo hanno tratto del mar de l'amor torto facendolo approdare alla riva del diritto, ovvero lo hanno distolto dalla ricerca dei beni terreni indirizzandolo a quelli celesti, e alla fine delle sue parole i beati e Beatrice alzeranno un inno a Dio approvando le sue parole, prima che la donna gli ridoni la vista a significare che il suo «traviamento» è definitivamente superato e che il suo sguardo può ora figgersi nelle verità e nei misteri divini, consapevole dei limiti che in nessuno caso i mortali possono permettersi di valicare.
Non sorprende allora che al termine dell'esame a Dante si presenti proprio Adamo, colui che per primo venne creato dall'amore di Dio e che per primo tentò di superare i decreti divini in materia di conoscenza, come lui stesso spiegherà rispondendo alle quattro domande del poeta che arde dal desiderio di apprendere la verità sulla sua esperienza. Adamo afferma anzitutto di vedere la voglia di Dante nella mente di Dio, paragonata a un verace speglio (uno specchio di verità) che riflette ogni cosa senza poter essere a sua volta riflesso, segno del rapporto incommensurabile fra conoscenza umana e divina; spiega poi che la cacciata dall'Eden fu dovuta al trapassar del segno, fu dunque un peccato di superbia intellettuale assai simile per certi versi a quello di Ulisse che oltrepassò le Colonne d'Ercole, salvo che all'eroe causò la morte mentre Adamo poté ascendere al Paradiso dopo una lunghissima attesa nel Limbo, durata qualcosa come seimila anni (tempo rispetto al quale quello trascorso nell'Eden è stato un batter di ciglia, appena sette ore in tutto). La quarta domanda di Dante riguarda la lingua parlata da Adamo nell'Eden e qui il poeta corregge l'opinione precedentemente espressa nel DVE (I, 6), in cui si diceva che la lingua di Adamo era l'ebraico e che tale lingua, immutabile in quanto concreata da Dio nel primo uomo, rimase identica sino alla confusione babelica che originò la mutevolezza delle lingue nel tempo e nello spazio: Adamo spiega che la lingua è sempre mutevole in quanto atto dell'intelletto umano, quindi nega che la sua lingua fosse concreata da Dio e spiega che essa era già tutta spenta al momento della costruzione di Babele, così come smentisce che la sua prima parola fosse il nome ebraico di Dio, 'El', che assunse solamente in seguito poiché nella lingua originale il nome di Dio era 'I'. La quesione può apparire marginale agli occhi di noi moderni, ma è invece centrale rispetto al discorso sulla conoscenza che è al centro del Canto, poiché Dante riafferma che alla perfetta verità si arriva grazie alla rivelazione divina, non alla speculazione intellettuale che è sempre passibile di errore, come nel caso delle affermazioni del DVE che Adamo smentisce in quanto unico testimone di quanto avvenne realmente nell'Eden; Dante corregge affermazioni fatte in precedenza e risalenti al periodo del suo cosiddetto «traviamento», come quelle del Convivio sulle macchie lunari e sull'angelologia che sono state e saranno confutate da Beatrice al lume della teologia, rispetto alla quale la ragione dei filosofi è del tutto insufficiente quando non fonte di equivoci e fraintendimenti che possono causare seri pericoli sul piano della salvezza spirituale. L'episodio di Adamo non fa che riaffermare la necessità che la filosofia si faccia ancella della teologia, ciò che è ribadito a più riprese in tutta la III Cantica, e dunque il colloquio col primo padre conclude degnamente l'esame superato da Dante circa il possesso delle tre virtù teologali che solo la grazia divina può donare all'uomo, preparando il poeta a proseguire il viaggio che lo porterà, di lì a pochi Canti, alla visione finale di Dio.
L'esame sulla carità fa da cerniera fra la prima e la seconda parte del Canto, in quanto l'amore verso Dio è la virtù opposta al peccato di superbia che originò la disobbedienza di Adamo al suo Creatore e la ribellione di Lucifero, ovvero la radice di tutto il male presente nel mondo: il colloquio sull'argomento è alquanto diverso rispetto agli esami su fede e speranza, poiché non viene sollecitato da Beatrice e non riguarda la definizione della carità, ovvia secondo la formula di san Tommaso per cui charitas est amor Dei, e si concentra dunque sull'oggetto della carità e la sua fonte, indicata da Dante nell'insegnamento dei filosofi e nelle fonti scritturali, incluso il Vangelo giovanneo che a differenza di quelli sinottici è di argomento prevalentemente teologico. Dante subordina in un certo senso la filosofia naturale alla dottrina rivelata, secondo lo schema teorico che costituisce l'ossatura del poema, indicando Dio come il bene supremo cui ogni intelletto sano non può che tendere naturalmente e precisando che la carità viene in lui stimolata dall'opera grandiosa della creazione, nonché dal sacrificio di Cristo sulla croce (dovuto, non a caso, proprio a cancellare il peccato di Adamo) e dalla speranza di vita eterna, per cui egli ama tutte le creature in quanto amate anch'esse da Dio. Alcuni studiosi hanno osservato che tale professione di carità sembra frutto di un freddo ragionamento filosofico e non di slancio generoso dell'animo, addirittura che l'amore per il prossimo è concentrato in pochi versi e subordinato all'amore per Dio, ma ciò si accorda perfettamente con l'intento da parte di Dante di corroborare le verità teologiche con la descrizione delle cose vedute, per cui non stupisce che l'ardore mistico lasci qui il posto a una sottile discettazione filosofica, come del resto era avvenuto per le altre due virtù teologali. Dante vuole mettere l'accento sulla ragione e, soprattutto, sui limiti che ad essa sono imposti dalla volontà divina e che lui, proprio come Adamo, ha voluto infrangere con un atto di superbia intellettuale che poteva costargli la dannazione e che lo ha portato a smarrirsi nella selva oscura; non a caso nella sua professione il poeta dichiara che gli stimoli alla carità lo hanno tratto del mar de l'amor torto facendolo approdare alla riva del diritto, ovvero lo hanno distolto dalla ricerca dei beni terreni indirizzandolo a quelli celesti, e alla fine delle sue parole i beati e Beatrice alzeranno un inno a Dio approvando le sue parole, prima che la donna gli ridoni la vista a significare che il suo «traviamento» è definitivamente superato e che il suo sguardo può ora figgersi nelle verità e nei misteri divini, consapevole dei limiti che in nessuno caso i mortali possono permettersi di valicare.
Non sorprende allora che al termine dell'esame a Dante si presenti proprio Adamo, colui che per primo venne creato dall'amore di Dio e che per primo tentò di superare i decreti divini in materia di conoscenza, come lui stesso spiegherà rispondendo alle quattro domande del poeta che arde dal desiderio di apprendere la verità sulla sua esperienza. Adamo afferma anzitutto di vedere la voglia di Dante nella mente di Dio, paragonata a un verace speglio (uno specchio di verità) che riflette ogni cosa senza poter essere a sua volta riflesso, segno del rapporto incommensurabile fra conoscenza umana e divina; spiega poi che la cacciata dall'Eden fu dovuta al trapassar del segno, fu dunque un peccato di superbia intellettuale assai simile per certi versi a quello di Ulisse che oltrepassò le Colonne d'Ercole, salvo che all'eroe causò la morte mentre Adamo poté ascendere al Paradiso dopo una lunghissima attesa nel Limbo, durata qualcosa come seimila anni (tempo rispetto al quale quello trascorso nell'Eden è stato un batter di ciglia, appena sette ore in tutto). La quarta domanda di Dante riguarda la lingua parlata da Adamo nell'Eden e qui il poeta corregge l'opinione precedentemente espressa nel DVE (I, 6), in cui si diceva che la lingua di Adamo era l'ebraico e che tale lingua, immutabile in quanto concreata da Dio nel primo uomo, rimase identica sino alla confusione babelica che originò la mutevolezza delle lingue nel tempo e nello spazio: Adamo spiega che la lingua è sempre mutevole in quanto atto dell'intelletto umano, quindi nega che la sua lingua fosse concreata da Dio e spiega che essa era già tutta spenta al momento della costruzione di Babele, così come smentisce che la sua prima parola fosse il nome ebraico di Dio, 'El', che assunse solamente in seguito poiché nella lingua originale il nome di Dio era 'I'. La quesione può apparire marginale agli occhi di noi moderni, ma è invece centrale rispetto al discorso sulla conoscenza che è al centro del Canto, poiché Dante riafferma che alla perfetta verità si arriva grazie alla rivelazione divina, non alla speculazione intellettuale che è sempre passibile di errore, come nel caso delle affermazioni del DVE che Adamo smentisce in quanto unico testimone di quanto avvenne realmente nell'Eden; Dante corregge affermazioni fatte in precedenza e risalenti al periodo del suo cosiddetto «traviamento», come quelle del Convivio sulle macchie lunari e sull'angelologia che sono state e saranno confutate da Beatrice al lume della teologia, rispetto alla quale la ragione dei filosofi è del tutto insufficiente quando non fonte di equivoci e fraintendimenti che possono causare seri pericoli sul piano della salvezza spirituale. L'episodio di Adamo non fa che riaffermare la necessità che la filosofia si faccia ancella della teologia, ciò che è ribadito a più riprese in tutta la III Cantica, e dunque il colloquio col primo padre conclude degnamente l'esame superato da Dante circa il possesso delle tre virtù teologali che solo la grazia divina può donare all'uomo, preparando il poeta a proseguire il viaggio che lo porterà, di lì a pochi Canti, alla visione finale di Dio.
Note e passi controversi
Al v. 4 il vb. ti risense, probabile neologismo dantesco, significa «riprendi il senso» della vista.
Ai vv. 7-8 san Giovanni chiede a Dante dove tenda la sua anima, ovvero quale sia l'oggetto della sua carità.
I vv. 10-12 alludono a un passo degli Atti degli Apostoli (IX, 8-18), in cui si narra che Anania, uomo di Damasco tra i primi seguaci di Cristo, ridiede la vista a san Paolo folgorato dall'apparire di Dio, imponendo le mani sul suo capo.
I vv. 16-18 sono di difficile interpretazione, ma intendendo Amore come soggetto e dando a scrittura il senso di «affetto» vogliono dire probabilmente che Dio è principio e fine di quell'affetto che l'amore insegna (legge) a Dante, più o meno intensamente. Alfa e O sono la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco (cfr. Apoc., I, 8: Ego sum Alfa et omega, principium et finis, dicit Dominus Deus).
Ai vv. 22-23 san Giovanni invita Dante a rendere più chiaro il suo pensiero usando un vaglio, un setaccio più fine.
I vv. 37-39 alludono certamente a un filosofo, ma è arduo ipotizzare a chi Dante voglia riferirsi: l'opinione più diffusa è che si tratti di Aristotele, ma si è pensato anche a Platone, Dionigi Areopagita, persino a Virgilio (potrebbe essere l'autore del De causis, trattato erroneamente attribuito ad Aristotele e citato da Dante nel Convivio).
I vv. 40-42 si riferiscono ad Exod., XXXIII, 19 in cui Dio risponde a Mosè, che gli chiedeva di mostrargli tutta la sua gloria, Ego ostendam omne bonum tibi.
I vv. 43-45 sono una probabile allusione al Vangelo di Giovanni, che proprio all'inizio afferma il dogma dell'incarnazione del divino nell'umano: altri pensano all'Apocalisse, ma è ipotesi meno probabile.
Nei vv. 46-48 Giovanni intende dire che il principale degli amori di Dante, ovvero la carità, guarda a Dio, quindi il vb. guarda è indicativo e non imperativo come alcuni intendono.
Al v. 53 Giovanni è detto aguglia di Cristo, in quanto l'aquila era simbolo dell'Evangelista.
Le fronde citate al v. 64 sono le creature di Dio, l'ortolano etterno.
Al v. 69 il canto di Beatrice riprende probabilmente quello liturgico della Messa: Sanctus, sanctus, sanctus, dominus Deus Sabaoth.
Al v. 70 si disonna vuol dire «ci si desta».
Al v. 73 aborre deriva probabilmente da «aborrare», che vuol dire «non distinguere chiaramente» (cfr. Inf., XXXI, 24), anche se l'uscita in -e non è del tutto spiegabile; la stimativa (v. 75) è la facoltà percettiva che permette di riconoscere ciò che si vede.
Al v. 76 quisquilia è lat. per «pagliuzza», ovvero l'offuscamento degli occhi di Dante.
Ai vv. 92-93 Dante vuol dire che ogni donna è figlia di Adamo in quanto discende da lui, e ne è nuora in quanto sposata a un suo discendente.
Nei vv. 95-102 Adamo è paragonato a un animale avvolto da un involucro (forse un cane, o un porcellino, o ancora un falcone con un cappuccio sulla testa) che si dimena sotto la copertura, come il beato manifesta la sua letizia con l'accresciuto fulgore della luce che lo fascia.
Ai vv. 118-123 Adamo spiega di aver atteso nel Limbo, da dove Beatrice evocò l'anima di Virgilio, 4302 anni e di essere vissuto sulla Terra per 930 anni: Cristo trionfante trasse dal Limbo le anime dei patriarchi dopo la sua morte, avvenuta seconda la tradizione seguita da Dante nel 34 d.C., quindi da allora sono trascorsi 1266 anni poiché siamo nell'anno 1300. Dunque 4302 + 930 + 1266 = 6498, gli anni che sono trascorsi dalla creazione di Adamo (Dante si attiene ai dati della Genesi).
Ai vv. 121-122 i lumi / de la... strada del Sole sono i segni dello Zodiaco.
L'ovra inconsummabile (v. 125) è la costruzione della Torre di Babele, attribuita secondo una falsa tradizione al gigante Nembrod (essa è definita impossibile da portare a termine).
I vv. 133-138 correggono quanto detto da Dante in DVE, I, 4, in cui si affermava che la prima parola pronunciata da Adamo fu 'El', il nome ebraico di Dio; il nome 'I' qui citato dal beato è una probabile invenzione dantesca.
Ai vv. 139-142 Adamo spiega di essere rimasto nell'Eden dall'ora prima a quella che segue (seconda) l'ora sesta, cioè mezzogiorno, quando il Sole muta quadrante (quadra), quindi dalle sei di mattina alle tredici, sette ore in tutto (il Sole, passato il mezzogiorno, passa dal primo quadrante al secondo).
Ai vv. 7-8 san Giovanni chiede a Dante dove tenda la sua anima, ovvero quale sia l'oggetto della sua carità.
I vv. 10-12 alludono a un passo degli Atti degli Apostoli (IX, 8-18), in cui si narra che Anania, uomo di Damasco tra i primi seguaci di Cristo, ridiede la vista a san Paolo folgorato dall'apparire di Dio, imponendo le mani sul suo capo.
I vv. 16-18 sono di difficile interpretazione, ma intendendo Amore come soggetto e dando a scrittura il senso di «affetto» vogliono dire probabilmente che Dio è principio e fine di quell'affetto che l'amore insegna (legge) a Dante, più o meno intensamente. Alfa e O sono la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco (cfr. Apoc., I, 8: Ego sum Alfa et omega, principium et finis, dicit Dominus Deus).
Ai vv. 22-23 san Giovanni invita Dante a rendere più chiaro il suo pensiero usando un vaglio, un setaccio più fine.
I vv. 37-39 alludono certamente a un filosofo, ma è arduo ipotizzare a chi Dante voglia riferirsi: l'opinione più diffusa è che si tratti di Aristotele, ma si è pensato anche a Platone, Dionigi Areopagita, persino a Virgilio (potrebbe essere l'autore del De causis, trattato erroneamente attribuito ad Aristotele e citato da Dante nel Convivio).
I vv. 40-42 si riferiscono ad Exod., XXXIII, 19 in cui Dio risponde a Mosè, che gli chiedeva di mostrargli tutta la sua gloria, Ego ostendam omne bonum tibi.
I vv. 43-45 sono una probabile allusione al Vangelo di Giovanni, che proprio all'inizio afferma il dogma dell'incarnazione del divino nell'umano: altri pensano all'Apocalisse, ma è ipotesi meno probabile.
Nei vv. 46-48 Giovanni intende dire che il principale degli amori di Dante, ovvero la carità, guarda a Dio, quindi il vb. guarda è indicativo e non imperativo come alcuni intendono.
Al v. 53 Giovanni è detto aguglia di Cristo, in quanto l'aquila era simbolo dell'Evangelista.
Le fronde citate al v. 64 sono le creature di Dio, l'ortolano etterno.
Al v. 69 il canto di Beatrice riprende probabilmente quello liturgico della Messa: Sanctus, sanctus, sanctus, dominus Deus Sabaoth.
Al v. 70 si disonna vuol dire «ci si desta».
Al v. 73 aborre deriva probabilmente da «aborrare», che vuol dire «non distinguere chiaramente» (cfr. Inf., XXXI, 24), anche se l'uscita in -e non è del tutto spiegabile; la stimativa (v. 75) è la facoltà percettiva che permette di riconoscere ciò che si vede.
Al v. 76 quisquilia è lat. per «pagliuzza», ovvero l'offuscamento degli occhi di Dante.
Ai vv. 92-93 Dante vuol dire che ogni donna è figlia di Adamo in quanto discende da lui, e ne è nuora in quanto sposata a un suo discendente.
Nei vv. 95-102 Adamo è paragonato a un animale avvolto da un involucro (forse un cane, o un porcellino, o ancora un falcone con un cappuccio sulla testa) che si dimena sotto la copertura, come il beato manifesta la sua letizia con l'accresciuto fulgore della luce che lo fascia.
Ai vv. 118-123 Adamo spiega di aver atteso nel Limbo, da dove Beatrice evocò l'anima di Virgilio, 4302 anni e di essere vissuto sulla Terra per 930 anni: Cristo trionfante trasse dal Limbo le anime dei patriarchi dopo la sua morte, avvenuta seconda la tradizione seguita da Dante nel 34 d.C., quindi da allora sono trascorsi 1266 anni poiché siamo nell'anno 1300. Dunque 4302 + 930 + 1266 = 6498, gli anni che sono trascorsi dalla creazione di Adamo (Dante si attiene ai dati della Genesi).
Ai vv. 121-122 i lumi / de la... strada del Sole sono i segni dello Zodiaco.
L'ovra inconsummabile (v. 125) è la costruzione della Torre di Babele, attribuita secondo una falsa tradizione al gigante Nembrod (essa è definita impossibile da portare a termine).
I vv. 133-138 correggono quanto detto da Dante in DVE, I, 4, in cui si affermava che la prima parola pronunciata da Adamo fu 'El', il nome ebraico di Dio; il nome 'I' qui citato dal beato è una probabile invenzione dantesca.
Ai vv. 139-142 Adamo spiega di essere rimasto nell'Eden dall'ora prima a quella che segue (seconda) l'ora sesta, cioè mezzogiorno, quando il Sole muta quadrante (quadra), quindi dalle sei di mattina alle tredici, sette ore in tutto (il Sole, passato il mezzogiorno, passa dal primo quadrante al secondo).
TestoMentr’io dubbiava
per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense uscì un spiro che mi fece attento, 3 dicendo: «Intanto che tu ti risense de la vista che hai in me consunta, ben è che ragionando la compense. 6 Comincia dunque; e di’ ove s’appunta l’anima tua, e fa’ ragion che sia la vista in te smarrita e non defunta: 9 perché la donna che per questa dia region ti conduce, ha ne lo sguardo la virtù ch’ebbe la man d’Anania». 12 Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo vegna remedio a li occhi, che fuor porte quand’ella entrò col foco ond’io sempr’ardo. 15 Lo ben che fa contenta questa corte, Alfa e O è di quanta scrittura mi legge Amore o lievemente o forte». 18 Quella medesma voce che paura tolta m’avea del sùbito abbarbaglio, di ragionare ancor mi mise in cura; 21 e disse: «Certo a più angusto vaglio ti conviene schiarar: dicer convienti chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio». 24 E io: «Per filosofici argomenti e per autorità che quinci scende cotale amor convien che in me si ‘mprenti: 27 ché ‘l bene, in quanto ben, come s’intende, così accende amore, e tanto maggio quanto più di bontate in sé comprende. 30 Dunque a l’essenza ov’è tanto avvantaggio, che ciascun ben che fuor di lei si trova altro non è ch’un lume di suo raggio, 33 più che in altra convien che si mova la mente, amando, di ciascun che cerne il vero in che si fonda questa prova. 36 Tal vero a l’intelletto mio sterne colui che mi dimostra il primo amore di tutte le sustanze sempiterne. 39 Sternel la voce del verace autore, che dice a Moisè, di sé parlando: ‘Io ti farò vedere ogne valore’. 42 Sternilmi tu ancora, incominciando l’alto preconio che grida l’arcano di qui là giù sovra ogne altro bando». 45 E io udi’: «Per intelletto umano e per autoritadi a lui concorde d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano. 48 Ma di’ ancor se tu senti altre corde tirarti verso lui, sì che tu suone con quanti denti questo amor ti morde». 51 Non fu latente la santa intenzione de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi dove volea menar mia professione. 54 Però ricominciai: «Tutti quei morsi che posson far lo cor volgere a Dio, a la mia caritate son concorsi: 57 ché l’essere del mondo e l’esser mio, la morte ch’el sostenne perch’io viva, e quel che spera ogne fedel com’io, 60 con la predetta conoscenza viva, tratto m’hanno del mar de l’amor torto, e del diritto m’han posto a la riva. 63 Le fronde onde s’infronda tutto l’orto de l’ortolano etterno, am’io cotanto quanto da lui a lor di bene è porto». 66 Sì com’io tacqui, un dolcissimo canto risonò per lo cielo, e la mia donna dicea con li altri: «Santo, santo, santo!». 69 E come a lume acuto si disonna per lo spirto visivo che ricorre a lo splendor che va di gonna in gonna, 72 e lo svegliato ciò che vede aborre, sì nescia è la sùbita vigilia fin che la stimativa non soccorre; 75 così de li occhi miei ogni quisquilia fugò Beatrice col raggio d’i suoi, che rifulgea da più di mille milia: 78 onde mei che dinanzi vidi poi; e quasi stupefatto domandai d’un quarto lume ch’io vidi tra noi. 81 E la mia donna: «Dentro da quei rai vagheggia il suo fattor l’anima prima che la prima virtù creasse mai». 84 Come la fronda che flette la cima nel transito del vento, e poi si leva per la propria virtù che la soblima, 87 fec’io in tanto in quant’ella diceva, stupendo, e poi mi rifece sicuro un disio di parlare ond’io ardeva. 90 E cominciai: «O pomo che maturo solo prodotto fosti, o padre antico a cui ciascuna sposa è figlia e nuro, 93 divoto quanto posso a te supplìco perché mi parli: tu vedi mia voglia, e per udirti tosto non la dico». 96 Talvolta un animal coverto broglia, sì che l’affetto convien che si paia per lo seguir che face a lui la ‘nvoglia; 99 e similmente l’anima primaia mi facea trasparer per la coverta quant’ella a compiacermi venìa gaia. 102 Indi spirò: «Sanz’essermi proferta da te, la voglia tua discerno meglio che tu qualunque cosa t’è più certa; 105 perch’io la veggio nel verace speglio che fa di sé pareglio a l’altre cose, e nulla face lui di sé pareglio. 108 Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose ne l’eccelso giardino, ove costei a così lunga scala ti dispuose, 111 e quanto fu diletto a li occhi miei, e la propria cagion del gran disdegno, e l’idioma ch’usai e che fei. 114 Or, figluol mio, non il gustar del legno fu per sé la cagion di tanto essilio, ma solamente il trapassar del segno. 117 Quindi onde mosse tua donna Virgilio, quattromilia trecento e due volumi di sol desiderai questo concilio; 120 e vidi lui tornare a tutt’i lumi de la sua strada novecento trenta fiate, mentre ch’io in terra fu’ mi. 123 La lingua ch’io parlai fu tutta spenta innanzi che a l’ovra inconsummabile fosse la gente di Nembròt attenta: 126 ché nullo effetto mai razionabile, per lo piacere uman che rinovella seguendo il cielo, sempre fu durabile. 129 Opera naturale è ch’uom favella; ma così o così, natura lascia poi fare a voi secondo che v’abbella. 132 Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, I s’appellava in terra il sommo bene onde vien la letizia che mi fascia; 135 e El si chiamò poi: e ciò convene, ché l’uso d’i mortali è come fronda in ramo, che sen va e altra vene. 138 Nel monte che si leva più da l’onda, fu’ io, con vita pura e disonesta, da la prim’ora a quella che seconda, come ‘l sol muta quadra, l’ora sesta». 142 |
ParafrasiMentre io ero incerto riguardo alla mia vista spenta, dalla luce splendente che l'aveva spenta (san Giovanni) uscì una voce che attirò la mia attenzione, dicendo: «Mentre tu riacquisti il senso della vista che hai consumato guardandomi, è opportuno che tu compensi questa mancanza esercitando la ragione.
Dunque inizia a dire dove tende la tua anima e tieni presente che la tua vista è solo smarrita e non persa del tutto: infatti la donna (Beatrice) che ti guida per questa regione celeste, ha nel suo sguardo la virtù con cui Anania guarì san Paolo imponendogli le mani». Io dissi: «Beatrice possa curare a suo piacimento, prima o dopo, i miei occhi, attraverso i quali lei entrò col fuoco di cui io ardo sempre (mi fece innamorare). Il bene che allieta questa corte (Dio) è principio e fine di tutto l'affetto che l'Amore mi insegna, in modo più o meno intenso». Quella stessa voce che mi aveva liberato dalla paura dell'improvviso abbagliamento, mi indusse a ragionare ancora; e disse; «Certo ora è bene che tu chiarisca il tuo pensiero usando un setaccio più fine (in modo più approfondito): devi dire chi indirizzò il tuo arco a questo bersaglio (chi ti indusse alla carità)». E io: «Questo amore si è impresso in me grazie ad argomenti filosofici e all'autorità (dei testi sacri) che scende da qui: infatti il bene in quanto tale (Dio), non appena è compreso, accende amore di sé, tanto maggiore quanto maggiore è la bontà che contiene in se stesso. Dunque la mente di tutti quelli che, amando, distinguono la verità su cui si fonda questa argomentazione, si indirizza soprattutto verso quell'essenza (Dio) che supera tutte le altre in bontà, al punto che ogni bene all'infuori di essa è solo un riflesso della sua luce. Questa verità è spiegata al mio intelletto da quel filosofo (Aristotele?) che mi illustra il primo amore (Dio) di tutte le creature eterne (angeli e uomini). Me lo spiega anche la voce del veridico autore (dell'Esodo) che parlando di sé a Mosè dice: 'Io ti mostrerò ogni bene'. E me lo spieghi tu stesso, iniziando l'alto annuncio (nel Vangelo) che manifesta il mistero (dell'Incarnazione) da qui alla Terra, superando ogni altro messaggio». Allora io sentii: «Attraverso l'intelletto umano e l'autorità delle Sacre Scritture che si accordano con esso, il principale dei tuoi amori guarda a Dio. Ma dimmi ancora se tu senti altri stimoli che ti attirano verso Dio, così che tu manifesti con quanti denti sei morso da questo amore (tutte le fonti della tua carità)». La santa volontà dell'aquila di Cristo (san Giovanni) non mi fu nascosta, anzi capii subito dove voleva condurre la mia professione di carità. Dunque ricominciai: «Tutti quegli stimoli che possono portare il cuore a Dio hanno cooperato ad accendere in me la carità: infatti l'esistenza del mondo e di me stesso, la morte di Cristo patita per la mia salvezza, ciò che ogni fedele spera come spero io, insieme alla conoscenza delle Scritture che ho detto prima, mi hanno tratto dal mare dell'amore mal diretto (dei beni terreni) e mi hanno fatto approdare alla riva di quello del retto amore (dei beni celesti). Io amo le fronde (le creature) che abbelliscono tutto l'orto dell'ortolano eterno (Dio), tanto quanto esse sono amate da Dio». Non appena smisi di parlare, risuonò nel cielo un canto dolcissimo, mentre la mia donna diceva insieme agli altri beati: «Santo, santo, santo!» E come a una luce improvvisa ci si sveglia, per la facoltà visiva che corre incontro al bagliore che passa attraverso le membrane dell'occhio, e chi si sveglia non distingue bene ciò che vede, tanto è confuso il suo improvviso destarsi, finché la facoltà percettiva non viene in suo aiuto; allo stesso modo Beatrice eliminò ogni impurità dai miei occhi col fulgore dei suoi, che risplendeva a mille miglia di distanza: così vidi meglio di prima; e quasi stupefatto domandai chi fosse il quarto lume che vidi insieme a noi (Adamo). E la mia donna: «All'interno di quello splendore c'è la prima anima che la prima virtù (Dio) abbia mai creato, contemplata amorosamente dal suo Creatore (Adamo, il primo uomo)». Come l'albero piega la sua cima quando è percosso dal vento, poi si solleva per la propria capacità di ergersi verso l'alto, così feci io mentre Beatrice parlava (piegai la testa), essendo pieno di stupore, e poi mi ridiede sicurezza (rialzai lo sguardo) un desiderio di parlare che mi tormentava. E iniziai a dire: «O frutto che, unico, fosti prodotto già maturo (poiché non nascesti), o antico padre al quale ogni donna è figlia e nuora, con tutta la devozione che posso ti supplico di parlarmi: tu vedi il mio desiderio e per udirti presto non te lo manifesto». A volte un animale avvolto da un sacco si dimena, così che manifesta il suo stato d'animo attraverso l'involucro che lo circonda; e in modo simile la prima anima (Adamo) mi faceva capire attraverso la luce che lo fasciava quanto fosse lieta nel potermi rispondere. Quindi disse: «Senza che tu me l'abbia espresso io comprendo il tuo desiderio più chiaramente di ogni cosa che ti è certa; infatti io lo leggo nello specchio veridico (la mente di Dio) che riflette in sé tutte le cose, mentre nessuna cosa può rifletterlo. Tu vuoi sapere quanto tempo è trascorso da quando Dio mi pose nel Giardino dell'Eden, dove Beatrice diede inizio alla tua ascesa in Paradiso, e quanto vi rimasi, e la vera causa dell'ira divina (per il peccato originale), e quale lingua io creai e usai. Ora, figlio mio, la ragione della mia cacciata dall'Eden non fu la gola per aver assaggiato il frutto proibito, ma solo l'aver infranto i divieti divini (in materia di conoscenza). Dal Limbo, da dove Beatrice evocò Virgilio, io desiderai di ascendere in Cielo per 4302 anni; e vidi il Sole percorrere tutti i segni zodiacali per 930 volte, il tempo della mia vita terrena (vissi 930 anni). La lingua che io parlai era già scomparsa prima che la gente di Nembrod si dedicasse all'opera che non poteva essere completata (la costruzione della Torre di Babele): infatti nessun prodotto dell'intelletto umano fu mai durevole, a causa dell'arbitrio dell'uomo che si rinnova seguendo le influenze celesti. Il fatto che l'uomo parli è cosa naturale, ma la natura lascia poi che voi uomini parliate in un modo o nell'altro, a seconda dei vostri desideri e preferenze. Prima che io scendessi nell'angoscia infernale (nel Limbo), il bene supremo (Dio) da cui proviene la gioia che mi avvolge di luce, era chiamato in Terra 'I'; in seguito venne chiamato 'El': e ciò si accorda all'uso degli uomini, che come la foglia sul ramo va e viene continuamente (si muta). Nel monte che si erge maggiormente sul mare (il Purgatorio, sulla cui cima è l'Eden) io soggiornai, in stato di innocenza e di colpa, dalla prima ora (le sei del mattino) fino a quella (le tredici) che segue l'ora sesta (il mezzogiorno), non appena il Sole cambia quadrante». |