Purgatorio, Canto XXI
A. Nattini, Stazio
...ci apparve un'ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria...
"...Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma..."
"...Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d'i dèi..."
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria...
"...Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma..."
"...Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d'i dèi..."
Argomento del Canto
Ancora nella V Cornice: apparizione di Stazio. Spiegazione del terremoto e del canto. Stazio si presenta, poi rende omaggio a Virgilio.
È la mattina di martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.
È la mattina di martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.
Apparizione di Stazio (1-36)
S. Dalì, La samaritana
La sete di conoscere le ragioni del terremoto tormenta Dante, mentre egli si affretta a seguire Virgilio lungo la Cornice e prova compassione per il castigo delle anime. All'improvviso, in modo simile a Cristo risorto che apparve ai due discepoli, appare un'anima (Stazio) che segue i due poeti intenti a camminare tra i penitenti stesi a terra, così che essi non se ne accorgono finché non si rivolge a loro. Il nuovo arrivato augura loro la pace, quindi i due si voltano e Virgilio risponde al saluto. Il poeta latino augura all'anima di raggiungere la salvezza da cui lui è escluso, al che l'altro si stupisce e chiede come sia possibile la loro presenza in Purgatorio. Virgilio spiega che Dante ha sulla fronte i segni incisi dall'angelo, quindi è degno di essere in questo luogo: ma poiché è ancora vivo, gli era necessaria una guida e per questo ruolo Virgilio è stato tratto fuori dall'Inferno, per cui farà da scorta al discepolo finché gli sarà permesso. A questo punto Virgilio chiede all'anima qual è la ragione per cui poco prima il monte è stato scosso da un terremoto e le anime hanno intonato il Gloria.
Stazio spiega le ragioni del terremoto e del canto (37-75)
Con la sua domanda Virgilio ha indovinato il desiderio di sapere di Dante, che ora spera di avere una risposta. Stazio spiega che il monte del Purgatorio non subisce alcun fenomeno che sia in contrasto col suo assetto religioso, inoltre su di esso non avviene alcun evento atmosferico estraneo all'influsso celeste. Ne consegue che lì non cade la pioggia, né la neve o la grandine, né si vedono mai brina o rugiada al di sopra della porta presidiata dall'angelo; ugualmente non ci sono nubi né lampi, né compare mai l'arcobaleno. In Purgatorio non ci possono essere i venti sotterranei che causano i terremoti, mentre forse possono avvenire al di sotto della porta: gli unici terremoti lì avvengono quando un'anima penitente si sente purificata e pronta a salire all'Eden, e il grido accompagna tale ascesa. Quando un penitente ha espiato la propria pena se ne accorge perché si sente libero dal peccato e può salire, mentre prima ciò gli è impedito dalla giustizia divina. Stazio spiega di essere stato nella V Cornice per oltre cinque secoli e di essersi sentito purificato poco prima, quindi è per questo che c'è stato il terremoto e le anime hanno intonato il Gloria. Alla fine della spiegazione Dante è soddisfatto come chi, bevendo, spegne una sete tormentosa.
Stazio si presenta ed esalta l'Eneide (76-93)
Beato Angelico, La Tebaide
Virgilio risponde a Stazio di aver compreso quanto ha detto e gli chiede quindi il suo nome, e il motivo per cui ha trascorso tanto tempo nella V Cornice. Stazio dichiara di essere vissuto sulla Terra al tempo in cui l'imperatore Tito vendicò la crocifissione di Cristo con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, e di aver avuto il nome onorato di poeta, famoso ma non ancora dotato di fede cristiana. Fu un poeta così apprezzato che da Tolosa andò a vivere a Roma e qui ricevette l'incoronazione poetica. Nel mondo è ancora ricordato come Stazio, autore di Tebaide e Achilleide, benché il secondo poema sia rimasto incompiuto per la sua morte. La sua opera poetica trasse ispirazione dall'Eneide, che è stata un modello per altri mille: essa è stata per lui una madre e una nutrice, tanto che senza il suo esempio non avrebbe scritto nulla di importante. E per essere vissuto al tempo del suo autore, Virgilio, sarebbe disposto a restare un altro anno nella Cornice a espiare il suo peccato.
Imbarazzo di Dante. Omaggio di Stazio a Virgilio (103-136)
Alle parole di Stazio, Virgilio si volta verso Dante e gli fa cenno con lo sguardo di tacere, ma il discepolo non può trattenere le proprie emozioni e non riesce a mascherare la propria espressione, sorridendo al maestro e suscitando la meraviglia di Stazio che inizia ad osservarlo con attenzione. Stazio chiede a Dante il motivo del suo improvviso sorridere e ciò mette il poeta in grande imbarazzo, poiché vorrebbe obbedire alla richiesta di Virgilio e al tempo stesso è pressato dalla domanda dell'altro. I suoi sospiri inducono Virgilio a consentirgli di parlare liberamente, per cui Dante spiega a Stazio che la sua guida è proprio quel Virgilio dal quale egli ha tratto ispirazione nella sua opera poetica. Se Stazio ha creduto che lui avesse un'altra ragione per sorridere, sappia che essa era unicamente per le parole che il penitente ha appena pronunciato. A questo punto Stazio si getta ad abbracciare i piedi di Virgilio, che però lo invita a non farlo in quanto entrambi sono ombre inconsistenti. Stazio si rialza e dichiara di provare incondizionato amore per il grande poeta latino, al punto che si era scordato di essere un corpo aereo, pensando che le ombre siano di carne e ossa.
Interpretazione complessiva
Protagonista assoluto di questo Canto e del successivo è Stazio, il poeta latino che Dante pone in Purgatorio tra le anime salve come un ulteriore esempio dell'imperscrutabile giustizia divina, al pari di Catone Uticense custode del secondo regno e di Manfredi già incontrato tra i contumaci dell'Antipurgatorio. La novità rispetto agli altri personaggi è che Stazio è un poeta, il che permette a Dante di iniziare un lungo e complesso discorso intorno alla poesia che durerà almeno fino all'ingresso nel Paradiso Terrestre (da questo momento in poi, infatti, le anime incontrate dai due viaggiatori saranno unicamente di poeti).
L'episodio è stilisticamente e retoricamente elevato, specie nel discorso di Stazio che prima spiega la ragione del terremoto e del canto delle anime, poi si presenta con una elegante prosopopea; l'atmosfera è densa di immagini religiose, a cominciare dalla similitudine della Samaritana che diede da bere a Gesù e di cui Dante si serve per descrivere la sua sete di conoscenza dottrinale, per passare poi a quella di Stazio paragonato ancora a Gesù risorto che appare ai due discepoli a Emmaus (è evidente che la resurrezione è simbolo della liberazione dal peccato, come per Stazio che ha appena concluso il suo percorso di espiazione). Il penitente augura ai due viaggiatori la pace di Dio chiamandoli frati, quindi Virgilio gli ricorda che è destinato al beato concilio da cui lui è esiliato in eterno, il che sorprende Stazio al punto da fargli chiedere spiegazioni in quanto ciò sembra in contrasto con l'ordine religioso del Purgatorio. Il personaggio dimostra fin dall'inizio il pieno possesso delle conoscenze dottrinali e teologiche, come sarà chiaro dalla spiegazione successiva, il che aumenterà ancor più la sorpresa di apprendere la sua identità e la sua presenza in un luogo da cui anch'egli, al pari di Virgilio, dovrebbe essere escluso.
La spiegazione di Stazio circa il motivo del terremoto e del conseguente canto delle anime è un discorso retoricamente complesso, anticipato dalla domanda di Virgilio anch'essa stilisticamente elevata con la metafora delle Parche per indicare che Dante è ancor vivo: Stazio spiega che il Purgatorio è esente da ogni alterazione atmosferica, distinguendo tra vapore umido e secco che secondo la fisica aristotelica erano causa rispettivamente delle precipitazioni come pioggia, neve, ecc., e dei terremoti, che si pensava fossero prodotti da venti sotterranei (l'arcobaleno è indicato con la perifrasi figlia di Taumante, per indicare la dea Iride messaggera degli dei, mentre la spiegazione si conclude con la duplice anafora Trema... Tremaci). Stazio spiega inoltre in che modo l'anima penitente si sente pronta a salire all'Eden in quanto purificata, mettendo l'accento sulla volontarietà della pena cui essa si sottopone con pieno desiderio, e distinguendo tra volontà assoluta e relativa secondo l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino i cui argomenti dottrinali egli padroneggia con disinvoltura. Non meno stilisticamente raffinata la presentazione di se stesso che Stazio fa su richiesta di Virgilio, che inizia con l'indicazione del tempo della sua vita coincidente con la distruzione del Tempio da parte di Tito (ancora il tema religioso, poiché ciò era considerato la giusta punizione per il deicidio: cfr. Par., VI, 91-93), prosegue con l'affermazione di essere stato poeta e di aver ricevuto l'alloro a Roma, si conclude con la dichiarazione del proprio nome e delle due opere principali da lui scritte, Tebaide e Achilleide. A questo punto Stazio rende omaggio al suo maestro e modello Virgilio, autore dell'Eneide che definisce preziosamente una divina fiamma le cui scintille hanno scaldato lui e illuminato mille altri, facendogli da mamma e da nutrice (da notare l'accostamento fummi, e fummi... nonché l'espressione peso di dramma particolarmente rara e difficile); l'esaltazione di Virgilio raggiunge il suo apice allorché Stazio, che ovviamente non sa di averlo di fronte, afferma che sarebbe disposto a trattenersi un altro anno nella Cornice per essere stato suo contemporaneo, cosa che ha spinto alcuni commentatori a parlare di affermazione «empia» (si tratta in realtà di un adynaton, ovvero l'indicazione di un fatto manifestamente impossibile).
L'elogio appassionato dell'Eneide e del suo autore, che sarà causa del siparietto ironico che conclude il Canto e che ha protagonista un imbarazzato Dante (anch'egli del resto cultore di Virgilio), è in realtà un'esaltazione del ruolo e dell'importanza della poesia, che nella vita di Stazio ha avuto un peso essenziale anche per la salvezza come dirà lui stesso nel Canto seguente. È anche una celebrazione della grandezza assoluta di Virgilio, già riconosciuto da Dante come suo maestro e autore nell'incontro iniziale del poema e qui ulteriormente elogiato attraverso le parole di Stazio, anch'egli rientrante nel canone dei poeti classici più ammirati nel Medioevo e più volte citato da Dante stesso nella Commedia: Virgilio era riconosciuto come indiscussa autorità poetica e filosofico-morale, il che spiega perché Dante lo scelga come sua guida nella prima parte del viaggio e si giustifica con il culto dell'Eneide che durava almeno dalla tarda antichità, dando origine a svariati commenti dell'opera e alla sua rilettura in chiave cristiana. In questa luce non stupisce l'appassionato omaggio che Dante attribuisce a Stazio nel momento in cui incontra l'anima di Virgilio, ma neppure che attraverso la lettura dei suoi versi egli si sia ravveduto dai suoi peccati e abbia abbracciato il Cristianesimo, come lui stesso dirà nel Canto XXII; ciò rientra in quell'errata interpretazione della letteratura classica che lo stesso Dante pienamente condivide, ed è al tempo stesso l'affermazione che la salvezza segue percorsi inconoscibili per l'intelletto umano, come gli esempi di Rifeo e Traiano dimostreranno ampiamente nel Paradiso. La scena finale di Stazio che si getta ai piedi dell'antico maestro chiude la «scenetta» comica dell'equivoco svelato poi da Dante (e che tuttavia ha delle analogie con l'episodio evangelico di Gesù risorto a Emmaus, non ricosciuto subito dai discepoli), anche se conserva tutta la sostanza dell'omaggio al grande poeta e al suo altissimo magistero: il Canto seguente spiegherà quanto grande sia il debito di riconoscenza che Stazio ha verso l'opera di Virgilio, e sarà il primo passo di un percorso di riflessione intorno alla poesia che avrà il suo punto finale nell'ingresso nell'Eden e nell'incontro, anch'esso non privo di riferimenti letterari, con Beatrice.
L'episodio è stilisticamente e retoricamente elevato, specie nel discorso di Stazio che prima spiega la ragione del terremoto e del canto delle anime, poi si presenta con una elegante prosopopea; l'atmosfera è densa di immagini religiose, a cominciare dalla similitudine della Samaritana che diede da bere a Gesù e di cui Dante si serve per descrivere la sua sete di conoscenza dottrinale, per passare poi a quella di Stazio paragonato ancora a Gesù risorto che appare ai due discepoli a Emmaus (è evidente che la resurrezione è simbolo della liberazione dal peccato, come per Stazio che ha appena concluso il suo percorso di espiazione). Il penitente augura ai due viaggiatori la pace di Dio chiamandoli frati, quindi Virgilio gli ricorda che è destinato al beato concilio da cui lui è esiliato in eterno, il che sorprende Stazio al punto da fargli chiedere spiegazioni in quanto ciò sembra in contrasto con l'ordine religioso del Purgatorio. Il personaggio dimostra fin dall'inizio il pieno possesso delle conoscenze dottrinali e teologiche, come sarà chiaro dalla spiegazione successiva, il che aumenterà ancor più la sorpresa di apprendere la sua identità e la sua presenza in un luogo da cui anch'egli, al pari di Virgilio, dovrebbe essere escluso.
La spiegazione di Stazio circa il motivo del terremoto e del conseguente canto delle anime è un discorso retoricamente complesso, anticipato dalla domanda di Virgilio anch'essa stilisticamente elevata con la metafora delle Parche per indicare che Dante è ancor vivo: Stazio spiega che il Purgatorio è esente da ogni alterazione atmosferica, distinguendo tra vapore umido e secco che secondo la fisica aristotelica erano causa rispettivamente delle precipitazioni come pioggia, neve, ecc., e dei terremoti, che si pensava fossero prodotti da venti sotterranei (l'arcobaleno è indicato con la perifrasi figlia di Taumante, per indicare la dea Iride messaggera degli dei, mentre la spiegazione si conclude con la duplice anafora Trema... Tremaci). Stazio spiega inoltre in che modo l'anima penitente si sente pronta a salire all'Eden in quanto purificata, mettendo l'accento sulla volontarietà della pena cui essa si sottopone con pieno desiderio, e distinguendo tra volontà assoluta e relativa secondo l'insegnamento di san Tommaso d'Aquino i cui argomenti dottrinali egli padroneggia con disinvoltura. Non meno stilisticamente raffinata la presentazione di se stesso che Stazio fa su richiesta di Virgilio, che inizia con l'indicazione del tempo della sua vita coincidente con la distruzione del Tempio da parte di Tito (ancora il tema religioso, poiché ciò era considerato la giusta punizione per il deicidio: cfr. Par., VI, 91-93), prosegue con l'affermazione di essere stato poeta e di aver ricevuto l'alloro a Roma, si conclude con la dichiarazione del proprio nome e delle due opere principali da lui scritte, Tebaide e Achilleide. A questo punto Stazio rende omaggio al suo maestro e modello Virgilio, autore dell'Eneide che definisce preziosamente una divina fiamma le cui scintille hanno scaldato lui e illuminato mille altri, facendogli da mamma e da nutrice (da notare l'accostamento fummi, e fummi... nonché l'espressione peso di dramma particolarmente rara e difficile); l'esaltazione di Virgilio raggiunge il suo apice allorché Stazio, che ovviamente non sa di averlo di fronte, afferma che sarebbe disposto a trattenersi un altro anno nella Cornice per essere stato suo contemporaneo, cosa che ha spinto alcuni commentatori a parlare di affermazione «empia» (si tratta in realtà di un adynaton, ovvero l'indicazione di un fatto manifestamente impossibile).
L'elogio appassionato dell'Eneide e del suo autore, che sarà causa del siparietto ironico che conclude il Canto e che ha protagonista un imbarazzato Dante (anch'egli del resto cultore di Virgilio), è in realtà un'esaltazione del ruolo e dell'importanza della poesia, che nella vita di Stazio ha avuto un peso essenziale anche per la salvezza come dirà lui stesso nel Canto seguente. È anche una celebrazione della grandezza assoluta di Virgilio, già riconosciuto da Dante come suo maestro e autore nell'incontro iniziale del poema e qui ulteriormente elogiato attraverso le parole di Stazio, anch'egli rientrante nel canone dei poeti classici più ammirati nel Medioevo e più volte citato da Dante stesso nella Commedia: Virgilio era riconosciuto come indiscussa autorità poetica e filosofico-morale, il che spiega perché Dante lo scelga come sua guida nella prima parte del viaggio e si giustifica con il culto dell'Eneide che durava almeno dalla tarda antichità, dando origine a svariati commenti dell'opera e alla sua rilettura in chiave cristiana. In questa luce non stupisce l'appassionato omaggio che Dante attribuisce a Stazio nel momento in cui incontra l'anima di Virgilio, ma neppure che attraverso la lettura dei suoi versi egli si sia ravveduto dai suoi peccati e abbia abbracciato il Cristianesimo, come lui stesso dirà nel Canto XXII; ciò rientra in quell'errata interpretazione della letteratura classica che lo stesso Dante pienamente condivide, ed è al tempo stesso l'affermazione che la salvezza segue percorsi inconoscibili per l'intelletto umano, come gli esempi di Rifeo e Traiano dimostreranno ampiamente nel Paradiso. La scena finale di Stazio che si getta ai piedi dell'antico maestro chiude la «scenetta» comica dell'equivoco svelato poi da Dante (e che tuttavia ha delle analogie con l'episodio evangelico di Gesù risorto a Emmaus, non ricosciuto subito dai discepoli), anche se conserva tutta la sostanza dell'omaggio al grande poeta e al suo altissimo magistero: il Canto seguente spiegherà quanto grande sia il debito di riconoscenza che Stazio ha verso l'opera di Virgilio, e sarà il primo passo di un percorso di riflessione intorno alla poesia che avrà il suo punto finale nell'ingresso nell'Eden e nell'incontro, anch'esso non privo di riferimenti letterari, con Beatrice.
Note e passi controversi
L'episodio evangelico cui alludono i vv. 1-3 è narrato da Giovanni (IV, 6-15) e ha come protagonista una donna di Samaria a cui Gesù chiese dell'acqua: Gesù spiega che chi beve quell'acqua avrà ancora sete, ma chi berrà l'acqua che lui gli darà non avrà sete in eterno (Omnis qui bibit ex aqua hac sitiet iterum; qui
autem biberit ex aqua quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum). Nel passo evangelico l'acqua è simbolo della grazia, qui della rivelazione divina.
I vv. 7-9 alludono all'episodio di Gesù risorto che apparve ai due discepoli sulla via di Emmaus (Luc., XXIV, 13-17).
La verace corte (v. 17) di cui parla Virgilio è il giudizio divino che lo relega nel Limbo.
La scaletta di tre gradi breve (v. 48) è la scala di tre gradini che conduce alla porta del Purgatorio.
La figlia di Taumante è Iride, la messaggera degli dei identificata dagli antichi con l'arcobaleno.
I vv. 64-66 si rifanno alla dottrina tomistica della volontà assoluta e relativa espressa nella Summa Theologiae: la volontà relativa è il talento, che in vita queste anime hanno rivolto al peccato, mentre in Purgatorio, per volontà divina, è tutta rivolta all'espiazione e contrasta la volontà assoluta, che è ovviamente di salire in Cielo.
Il vb. cappia (v. 81) può voler dire «sia contenuto», oppure «abbia luogo»; ne le parole tue può avere valore strumentale («attraverso le tue parole») oppure di luogo figurato.
Al v. 89 Stazio è detto Tolosano, mentre in realtà era nato a Napoli: il poeta era confuso in parte col retore L. Stazio Ursolo, che era appunto originario di Tolosa. La notizia dell'incoronazione poetica è vera, ma Dante non la trasse dalle Silvae che erano ignote nel Medioevo, bensì dall'Achilleide (I, 9-12: fronde secunda / necte comas, l'invocazione ad Apollo).
L'espressione peso di dramma (v. 99) indica l'ottava parte dell'oncia (dalla moneta greca dracma), quindi circa quattro grammi; Stazio intende dire che senza l'ispirazione di Virgilio non avrebbe scritto nulla che avesse peso poetico.
Forte (v. 126) è sostantivo e significa «abilità», «maestria».
I vv. 7-9 alludono all'episodio di Gesù risorto che apparve ai due discepoli sulla via di Emmaus (Luc., XXIV, 13-17).
La verace corte (v. 17) di cui parla Virgilio è il giudizio divino che lo relega nel Limbo.
La scaletta di tre gradi breve (v. 48) è la scala di tre gradini che conduce alla porta del Purgatorio.
La figlia di Taumante è Iride, la messaggera degli dei identificata dagli antichi con l'arcobaleno.
I vv. 64-66 si rifanno alla dottrina tomistica della volontà assoluta e relativa espressa nella Summa Theologiae: la volontà relativa è il talento, che in vita queste anime hanno rivolto al peccato, mentre in Purgatorio, per volontà divina, è tutta rivolta all'espiazione e contrasta la volontà assoluta, che è ovviamente di salire in Cielo.
Il vb. cappia (v. 81) può voler dire «sia contenuto», oppure «abbia luogo»; ne le parole tue può avere valore strumentale («attraverso le tue parole») oppure di luogo figurato.
Al v. 89 Stazio è detto Tolosano, mentre in realtà era nato a Napoli: il poeta era confuso in parte col retore L. Stazio Ursolo, che era appunto originario di Tolosa. La notizia dell'incoronazione poetica è vera, ma Dante non la trasse dalle Silvae che erano ignote nel Medioevo, bensì dall'Achilleide (I, 9-12: fronde secunda / necte comas, l'invocazione ad Apollo).
L'espressione peso di dramma (v. 99) indica l'ottava parte dell'oncia (dalla moneta greca dracma), quindi circa quattro grammi; Stazio intende dire che senza l'ispirazione di Virgilio non avrebbe scritto nulla che avesse peso poetico.
Forte (v. 126) è sostantivo e significa «abilità», «maestria».
Testo
La sete natural che
mai non sazia
se non con l’acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia, 3 mi travagliava, e pungeami la fretta per la ‘mpacciata via dietro al mio duca, e condoleami a la giusta vendetta. 6 Ed ecco, sì come ne scrive Luca che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, già surto fuor de la sepulcral buca, 9 ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa, dal piè guardando la turba che giace; né ci addemmo di lei, sì parlò pria, 12 dicendo; «O frati miei, Dio vi dea pace». Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio rendéli ‘l cenno ch’a ciò si conface. 15 Poi cominciò: «Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l’etterno essilio». 18 «Come!», diss’elli, e parte andavam forte: «se voi siete ombre che Dio sù non degni, chi v’ha per la sua scala tanto scorte?». 21 E ‘l dottor mio: «Se tu riguardi a’ segni che questi porta e che l’angel profila, ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni. 24 Ma perché lei che dì e notte fila non li avea tratta ancora la conocchia che Cloto impone a ciascuno e compila, 27 l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia, venendo sù, non potea venir sola, però ch’al nostro modo non adocchia. 30 Ond’io fui tratto fuor de l’ampia gola d’inferno per mostrarli, e mosterrolli oltre, quanto ‘l potrà menar mia scola. 33 Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli diè dianzi ‘l monte, e perché tutto ad una parve gridare infino a’ suoi piè molli». 36 Sì mi diè, dimandando, per la cruna del mio disio, che pur con la speranza si fece la mia sete men digiuna. 39 Quei cominciò: «Cosa non è che sanza ordine senta la religione de la montagna, o che sia fuor d’usanza. 42 Libero è qui da ogne alterazione: di quel che ‘l ciel da sé in sé riceve esser ci puote, e non d’altro, cagione. 45 Per che non pioggia, non grando, non neve, non rugiada, non brina più sù cade che la scaletta di tre gradi breve; 48 nuvole spesse non paion né rade, né coruscar, né figlia di Taumante, che di là cangia sovente contrade; 51 secco vapor non surge più avante ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai, dov’ha ‘l vicario di Pietro le piante. 54 Trema forse più giù poco o assai; ma per vento che ‘n terra si nasconda, non so come, qua sù non tremò mai. 57 Tremaci quando alcuna anima monda sentesi, sì che surga o che si mova per salir sù; e tal grido seconda. 60 De la mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento, l’alma sorprende, e di voler le giova. 63 Prima vuol ben, ma non lascia il talento che divina giustizia, contra voglia, come fu al peccar, pone al tormento. 66 E io, che son giaciuto a questa doglia cinquecent’anni e più, pur mo sentii libera volontà di miglior soglia: 69 però sentisti il tremoto e li pii spiriti per lo monte render lode a quel Segnor, che tosto sù li ‘nvii». 72 Così ne disse; e però ch’el si gode tanto del ber quant’è grande la sete, non saprei dir quant’el mi fece prode. 75 E ‘l savio duca: «Omai veggio la rete che qui v’impiglia e come si scalappia, perché ci trema e di che congaudete. 78 Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia, e perché tanti secoli giaciuto qui se’, ne le parole tue mi cappia». 81 «Nel tempo che ‘l buon Tito, con l’aiuto del sommo rege, vendicò le fóra ond’uscì ‘l sangue per Giuda venduto, 84 col nome che più dura e più onora era io di là», rispuose quello spirto, «famoso assai, ma non con fede ancora. 87 Tanto fu dolce mio vocale spirto, che, tolosano, a sé mi trasse Roma, dove mertai le tempie ornar di mirto. 90 Stazio la gente ancor di là mi noma: cantai di Tebe, e poi del grande Achille; ma caddi in via con la seconda soma. 93 Al mio ardor fuor seme le faville, che mi scaldar, de la divina fiamma onde sono allumati più di mille; 96 de l’Eneida dico, la qual mamma fummi e fummi nutrice poetando: sanz’essa non fermai peso di dramma. 99 E per esser vivuto di là quando visse Virgilio, assentirei un sole più che non deggio al mio uscir di bando». 102 Volser Virgilio a me queste parole con viso che, tacendo, disse ‘Taci’; ma non può tutto la virtù che vuole; 105 ché riso e pianto son tanto seguaci a la passion di che ciascun si spicca, che men seguon voler ne’ più veraci. 108 Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca; per che l’ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove ‘l sembiante più si ficca; 111 e «Se tanto labore in bene assommi», disse, «perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?». 114 Or son io d’una parte e d’altra preso: l’una mi fa tacer, l’altra scongiura ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso 117 dal mio maestro, e «Non aver paura», mi dice, «di parlar; ma parla e digli quel ch’e’ dimanda con cotanta cura». 120 Ond’io: «Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch’io fei; ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli. 123 Questi che guida in alto li occhi miei, è quel Virgilio dal qual tu togliesti forza a cantar de li uomini e d’i dèi. 126 Se cagion altra al mio rider credesti, lasciala per non vera, ed esser credi quelle parole che di lui dicesti». 129 Già s’inchinava ad abbracciar li piedi al mio dottor, ma el li disse: «Frate, non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi». 132 Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate comprender de l’amor ch’a te mi scalda, quand’io dismento nostra vanitate, trattando l’ombre come cosa salda». 136 |
ParafrasiLa sete di conoscenza, che non si può mai estinguere se non con quell'acqua di cui la donna samaritana chiese grazia a Gesù (la rivelazione), mi tormentava e la fretta mi spingeva lungo la via ingombra dietro al mio maestro, e come lui provavo compassione per la giusta punizione inflitta alle anime.
Ed ecco, così come è scritto nel Vangelo di Luca che Cristo apparve ai due discepoli sulla via, già risorto dalla sua tomba, che lì apparve un'anima che veniva dietro di noi, mentre badavamo a non calpestare le anime stese a terra; e non ci accorgemmo di lei, finché non parlò per prima dicendo: «O mie fratelli, la pace di Dio sia con voi». Noi ci voltammo subito e Virgilio rispose con un conveniente cenno di saluto. Poi iniziò: «Possa la giustizia di Dio porti in pace nel regno dei beati, mentre relega me nell'eterno esilio del Limbo». Egli disse, mentre intanto camminavamo veloci: «Come! se voi siete anime che Dio non ammetterebbe in Cielo, chi vi ha permesso di salire fino a questo punto?» E il mio maestro: «Se tu osservi i segni (le P) che Dante porta sulla fronte e che l'angelo ha inciso, capirai che egli è degno di essere ammesso tra i beati. Ma poiché colei (Lachesi) che fila giorno e notte non aveva ancora filato tutta la quantità della sua vita che Cloto stabilisce per ognuno e avvolge, la sua anima, che è sorella mia e tua, non poteva venire fin quassù da sola, in quanto non vede al nostro stesso modo. Perciò io fui tratto fuori dall'ampia fossa infernale per mostragli il mondo ultraterreno, e continuerò fin dove la mia scuola potrà condurlo. Ma dimmi, se lo sai, perché poco fa il monte fu scosso dal terremoto e perché sembrò gridare a una voce fino alle sue pendici bagnate dal mare». Virgilio, domandando, indovinò il mio desiderio di sapere, così che la mia sete si spense un poco nella speranza di una risposta. Quello iniziò: «L'assetto religioso della montagna non può sentire nulla che sfugga al suo ordine, o che sia fuori del consueto. Questo luogo è libero da ogni alterazione atmosferica: vi possono essere solo fenomeni causati dall'influsso celeste, e nient'altro. Quindi qui non cade pioggia, né grandine, né neve, né rugiada, né brina più in alto della corta scala di tre gradini (la porta del Purgatorio); non appaiono mai nuvole dense o rade, né si vedono lampi, né appare l'arcobaleno che sulla Terra spesso cambia posizione; il vapore secco non sorge più in alto dei tre gradini di cui ho parlato, dove il vicario di san Pietro (l'angelo guardiano) pone i piedi. Forse più in basso la terra trema poco o intensamente; ma quassù, non so come, la terra non tremò mai a causa di un vento sotterraneo. Qui la terra trema quando un'anima si sente purificata, cosicché si alza o si muove per salire in alto; e il grido che hai sentito accompagna tale ascesa. Della avvenuta purificazione è prova la sola volontà, che spinge liberamente a cambiare compagnia e sorprende l'anima, e di tale volere l'anima gioisce. Prima vuole certo la stessa cosa, ma non glielo permette la volontà relativa (talento) che la divina giustizia rivolge alla pena contro la volontà assoluta, come sulla Terra lo fu al peccato. E io, che ho subìto questa pena per più di cinquecento anni, solo poco fa ho sentito la libera volontà di cambiare luogo: per questo hai sentito il terremoto e i devoti spiriti che rendevano lode al Signore, perché li mandi presto in Cielo». Ci disse così; e poiché si gode del bere tanto quanto è intensa la sete, non saprei dire quanto quell'anima mi diede giovamento. E il saggio maestro: «Ormai capisco qual è la rete che vi trattiene qui e come ve ne liberate, perché qui la terra trema e di che cosa gioite tutti insieme. Ora ti piaccia rivelarmi chi fosti e nelle tue parole sia chiarito perché sei stato disteso qui tanti secoli». Quello spirito rispose: «Al tempo in cui il buon Tito, con l'aiuto di Dio, vendicò le ferite da cui uscì il sangue (di Cristo) venduto da Giuda, io vissi sulla Terra col nome (di poeta) che dura di più e più dà onore, molto famoso ma non ancora con fede cristiana. Il mio canto poetico fu tanto dolce che, nato a Tolosa, mi portò a Roma dove meritai di ornare le tempie col mirto (l'incoronazione poetica). Sulla Terra la gente mi chiama ancora Stazio: scrissi la Tebaide e l'Achilleide, ma morii prima di completare il secondo poema. Il mio ardore poetico fu alimentato dalle scintille, che mi scaldarono, di quella fiamma divina da cui sono illuminati più di mille poeti; parlo dell'Eneide, la quale fu per me una madre e una nutrice nel poetare: senza di essa non avrei scritto nulla di importante. E per essere vissuto sulla Terra nello stesso periodo in cui visse Virgilio, sarei disposto a stare qui un anno di più di quanto devo per uscire da questo esilio del Purgatorio». Queste parole indussero Virgilio a voltarsi verso di me, con uno sguardo che, senza dire nulla, sembrava dire 'Taci'; ma la volontà non è in grado di fare tutto; infatti il riso e il pianto seguono immediatamente il sentimento che li provoca, così che non seguono la volontà nelle persone più sincere. Io sorrisi come chi ammicca, per cui l'ombra di Stazio tacque e mi guardò negli occhi dove è più evidente il sentimento; e disse: «Possa tu giungere al buon esito della tua grande fatica (il viaggio ultraterreno): perché poco fa il tuo viso manifestò un improvviso sorriso?» Ora io sono incalzato da ambo le parti: Virgilio mi impone di tacere, ma l'altro mi supplica di parlare; dunque io sospiro e sono capito dal mio maestro, che mi dice: «Non aver paura di parlare, ma digli pure ciò che domanda con tanta insistenza». Allora dissi: «Forse tu ti stupisci, antico spirito, del sorriso che ho fatto; ma voglio che tu ti meravigli ancor di più. Costui che guida i miei occhi in alto è quel Virgilio dal quale tu traesti ispirazione a cantare degli uomini e degli dei. Se tu hai creduto che il mio sorriso avesse un altro motivo, trascuralo come non vero, e credi che la causa erano quelle parole che hai detto su di lui». Già Stazio si chinava ad abbracciare i piedi del mio maestro, ma quello gli disse: «Fratello, non farlo, perché tu sei un ombra e vedi davanti a te un'altra ombra». Ed egli, rialzandosi: «Ora puoi capire quanto grande è l'amore che provo per te, visto che dimentico la nostra inconsistenza, trattando le ombre come fossero corpi materiali». |