Purgatorio, Canto XI
A. Nattini, I superbi
"...Quest'ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro"...
"...Io fui latino e nato d'un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se 'l nome suo già mai fu vosco..."
"...Oh vana gloria de l'umane posse!
com' poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etati grosse!..."
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro"...
"...Io fui latino e nato d'un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se 'l nome suo già mai fu vosco..."
"...Oh vana gloria de l'umane posse!
com' poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etati grosse!..."
Argomento del Canto
Ancora nella I Cornice. I superbi recitano il Pater noster. Virgilio chiede dove sia l'accesso alla Cornice successiva. Incontro con Omberto Aldobrandeschi. Colloquio con Oderisi da Gubbio. Oderisi indica l'anima di Provenzan Salvani e predice l'esilio a Dante.
È la mattina di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, alle undici.
È la mattina di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, alle undici.
I superbi recitano il Pater Noster (1-30)
Dante, appena entrato nella I Cornice, sente i superbi che recitano il Pater noster : essi invocano il Padre che è nei cieli, non limitato da essi ma per il maggior amore che prova per gli angeli; ogni creatura deve lodare il suo nome, la sua potenza e lo Spirito Santo. I superbi invocano la pace di Dio, che essi non possono ottenere senza l'aiuto della grazia; gli uomini devono sacrificare la loro volontà a Dio, come fanno gli angeli. Chiedono al Padre la manna quotidiana, senza la quale si torna indietro quanto più si cerca di avanzare; e come loro perdonano il male subìto, così Dio perdoni i loro peccati. Chiedono al Padre di non mettere la loro virtù alla prova con la tentazione diabolica, ma di liberarli da essa: quest'ultima preghiera non è per i penitenti, ma per i vivi che sono rimasti sulla Terra. Quelle anime recitano la preghiera camminando piegate sotto i pesanti massi, mentre procedono più o meno curve in tondo lungo la Cornice, purgandosi dei mali del mondo.
Ammonimento ai vivi. Virgilio chiede per dove si possa salire (31-45)
Se le anime del Purgatorio, riflette Dante, sono sempre pronte a pregare per i vivi, anche questi devono fare qualcosa per i morti, ovvero pregare a loro volta per aiutarli a purificarsi dei peccati e salire in Paradiso. Virgilio si rivolge poi ai penitenti, augurando loro di riuscire a liberarsi dei peccati prima possibile, e chiedendo di indicargli da quale parte si trovi la scala che conduce alla Cornice successiva. Se c'è più di un varco, aggiunge, gli mostrino quello che sale in modo meno ripido, poiché Dante è ancora in possesso del corpo mortale e quindi è più lento a salire, benché ciò sia in contrasto con la sua volontà.
Incontro con Omberto Aldobrandeschi (46-72)
Una delle anime risponde a Virgilio, anche se Dante non può vedere chi stia parlando, e dice che l'accesso percorribile da una persona viva è a destra, per cui i due poeti devono seguirli. Il penitente aggiunge che se il macigno che porta sulle spalle e punisce la sua superbia non lo costringesse a tenere il viso basso, alzerebbe gli occhi e guarderebbe Dante per capire se lo conosce e renderlo pietoso verso di sé. Egli è stato italiano e figlio di un grande toscano: il padre fu Guglielmo Aldobrandeschi e il suo nobile lignaggio, unito alle grandi opere dei suoi antenati, lo resero in vita così superbo da disprezzare tutti gli uomini e dimenticare che siamo tutti figli della stessa madre. La sua arroganza gli procurò la morte, che avvenne come ben sanno i Senesi e come sanno anche i bambini a Campagnatico. L'anima si presenta infine come Omberto Aldobrandeschi, la cui superbia danneggia i suoi parenti ancora vivi, e che qui in Purgatorio dovrà scontare la pena per tutto il tempo che piacerà a Dio, visto che non lo ha fatto quand'era sulla Terra.
Incontro con Oderisi da Gubbio (73-117)
Miniatura attribuita a Oderisi
Mentre ascolta le parole di Omberto, Dante china la faccia verso il basso e un altro penitente si piega sotto il peso del masso e lo guarda, riconoscendolo e chiamandolo per nome, tenendo a fatica lo sguardo fisso sul poeta. Dante lo riconosce a sua volta e gli chiede se sia Oderisi, l'onore di Gubbio e il maestro dell'arte della miniatura. Il penitente risponde che sono più apprezzati i codici miniati da Franco Bolognese, col quale deve condividere la gloria di quell'arte; egli non sarebbe stato così pronto ad ammettere la sua inferiorità mentre era in vita, dato il grande desiderio di fama che sempre lo animò. Ora sconta la pena per la sua superbia e non sarebbe ancora in Purgatorio, se non si fosse pentito quando era ancora lontano dalla morte. Oderisi critica la gloria effimera degli uomini, che è destinata a durare poco se non è seguita da un'età di decadenza: cita l'esempio di Cimabue, superato nella pittura da Giotto, e di Guido Guinizelli, superato nella poesia da Guido Cavalcanti, mentre forse è già nato chi li vincerà entrambi. La fama mondana è solo un alito di vento, che soffia ora da una parte e ora dall'altra, sempre pronto a cambiare nome. Se uno muore da piccolo, non avrà fama più ampia di uno che muore vecchio, prima che siano trascorsi mille anni: questo tempo è brevissimo se paragonato all'eternità, meno di un batter di ciglia rispetto al movimento del Cielo delle Stelle Fisse (360 secoli). L'anima che cammina lentamente davanti a lui ne è un esempio: un tempo era noto in tutta la Toscana, ora a malapena si bisbiglia il suo nome a Siena, di cui pure era signore al tempo della battaglia di Montaperti, quando la rabbia fiorentina fu distrutta. La fama degli uomini è come il colore verde dell'erba, che va e viene ed è cancellato dallo stesso sole che l'ha fatta spuntare dalla terra.
Provenzan Salvani (118-142)
Morte di P. Salvani (min. XIV sec.)
Dante risponde a Oderisi che le sue parole gli ispirano grande umiltà e abbassano il suo orgoglio, poi chiede chi sia l'anima di cui ha parlato prima. Il miniatore spiega che si tratta di Provenzan Salvani, costretto in questa Cornice perché volle essere il signore e padrone di Siena. Dal giorno in cui è morto cammina sotto il peso del masso, scontando la giusta pena per chi osa troppo mentre è in vita. Dante chiede ancora come sia possibile che Provenzano sia già in Purgatorio, dal momento che chi attende a pentirsi in punto di morte deve poi attendere nell'Antipurgatorio tanto tempo quanto visse, a meno che qualcuno non preghi per lui. Oderisi spiega che quando era all'apice della potenza, Provenzano volle riscattare un amico dalla prigionia di Carlo I d'Angiò, quindi andò a chiedere l'elemosina in piazza del Campo, a Siena, umiliandosi di fronte ai suoi concittadini. Oderisi non aggiunge altro, pur sapendo di parlare in modo oscuro, ma fra poco i concittadini di Dante faranno sì che lui stesso possa provare la stessa esperienza. Fu quel gesto ad ammettere Provenzan Salvani in Purgatorio.
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Interpretazione complessiva
Ritratto di Giotto (anonimo del XVI sec.)
Il Canto si apre con la preghiera del Pater noster recitata dai superbi, che rappresenta una sorta di parafrasi e ampliamento rispetto al testo originale (in pratica ogni verso della preghiera diventa una terzina, per una ampiezza complessiva di ventiquattro versi). Ciò ha fatto storcere il naso a molti studiosi moderni, ma è ovvio che Dante non intende in alcun modo correggere la preghiera di Gesù né mettersi a gareggiare col testo evangelico, quanto piuttosto invitare gli uomini ad essere umili e a non cadere nel peccato di superbia: esso è il più grave, quello che maggiormente rischia di privare l'uomo della salvezza, il che spiega anche perché il poeta vi insista per ben tre Canti (qualcosa di simile, nel Purgatorio, avverrà solo con il peccato di avarizia). Ogni parola della preghiera è infatti un invito perentorio all'umiltà: gli uomini devono lodare la potenza di Dio, invocare la sua pace alla quale non potrebbero mai arrivare con le loro forze, sacrificare a Dio i loro desideri come fanno gli angeli, chiedere a Lui il cibo quotidiano, perdonare le offese subìte. L'ultima parte della preghiera (il verso Ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo) non è rivolto dai penitenti a se stessi, visto che essi sono ormai immuni alla tentazione diabolica, ma ai vivi rimasti sulla Terra, per cui essi si mostrano tanto umili da rivolgere ogni pensiero al destino altrui e non al proprio, come fecero invece quand'erano in vita.
Dante ci mostra poi i penitenti della I Cornice (dopo aver ammonito i vivi a pregare a loro volta per le anime del Purgatorio) e ci illustra la loro pena attraverso tre esempi, due dei quali parlano direttamente (Omberto Aldobrandeschi e Oderisi da Gubbio) e il terzo (Provenzan Salvani) è soltanto citato; quest'ultimo personaggio è assai affine a Omberto, dal momento che entrambi morirono violentemente e furono uomini nobili, peccando di superbia proprio a causa della loro attività politica. Omberto riconosce apertamente la propria arroganza in vita, che derivava dall'appartenere a una nobile famiglia e di avere avuto come padre un gran Tosco, quel Guglielmo Aldobrandeschi che fu aspro nemico dei senesi come lo fu anche il figlio. Omberto parla della sua cervice... superba, si definisce arrogante e ammette di aver disprezzato tutti gli uomini non pensando alla comune origine, tanto che finì per morire violentemente per mano dei senesi (Dante non scioglie i dubbi sulla sua morte, che potrebbe essere avvenuta in battaglia o per mano di sicari assoldati dai senesi, il che però non cambia la sostanza del suo destino). Anche i suoi parenti sono superbi come lo fu lui sulla Terra, e poiché non ha scontato la pena della sua arroganza in vita deve farlo da morto, per tutto il tempo che piacerà a Dio. Il suo esempio è molto simile a quello di Provenzan Salvani, citato alla fine del Canto da Oderisi per mostrare quanto è effimera la fama terrena: egli è stato signore di Siena, proprio la città rivale di Omberto, e fu tanto presuntuoso da voler essere il padrone assoluto della città. A differenza di Omberto, tuttavia, egli seppe in un'occasione umiliarsi di fronte ai concittadini, chiedendo l'elemosina per riscattare un amico fatto prigioniero da Carlo d'Angiò (forse un Bartolomeo Saracini, catturato dopo la battaglia di Tagliacozzo e per cui fu chiesta l'enorme somma di 10.000 fiorini); quell'opera buona gli ha permesso di non sostare nell'Antipurgatorio, come avrebbe dovuto fare tra i morti per forza, ma di accedere subito alla I Cornice.
Tra i due esempi di superbia in campo politico è posto quello di superbia artistica, rappresentato dal miniatore Oderisi da Gubbio che Dante conobbe forse a Bologna, e che infatti riconosce e apostrofa per primo il poeta (lui, a differenza di Omberto, può guardare Dante, quindi è meno curvo del suo compagno di pena). Attraverso Oderisi Dante fa un importante discorso relativo all'arte e alla poesia, che si collega a quello iniziato nel Canto X e che avrà un corollario nel Canto XII, con gli esempi di superbia punita: il miniatore respinge infatti il titolo di onor di quell'arte / che alluminar chiamata è in Parisi, riconoscendo umilmente la superiorità di Franco Bolognese che in vita fu suo concorrente. Oderisi dichiara che la fama mondana in campo artistico è effimera, poiché ogni artista è destinato ad essere superato da qualcuno che viene dopo, come è successo a lui (sopravanzato da Franco), a Cimabue (superato nella pittura da Giotto) e a Guinizelli (vinto da Cavalcanti, ed entrambi saranno superati da un terzo poeta che è concordemente interpretato come Dante stesso). Oderisi intende dire che in campo artistico la fama non è infinita e chi oggi viene celebrato come maggiore esponente di una scuola o di una corrente verrà presto surclassato da qualcun altro che farà dimenticare il suo nome, e così via; la vita umana è poca cosa rispetto alla dimensione dell'eterno, quindi meglio farebbero gli uomini a preoccuparsi della loro salvezza spirituale anziché a come saranno ricordati sulla Terra, perché presto o tardi il loro nome verrà dimenticato (e l'esempio di Provenzan Salvani, che Oderisi indica allusivamente a Dante, dimostra proprio questo: un tempo era famosissimo, ora a malapena si ricordano di lui a Siena). È sembrato strano che nel Canto dedicato alla superbia Dante citi indirettamente se stesso come colui destinato a vincere poeticamente i due Guido, ma in realtà ciò è coerente con il discorso di Oderisi: Dante vuol dire probabilmente che anche lui, come esponente dello Stilnovo, sarà a sua volta superato da qualcun altro, senza contare che all'epoca della Commedia la fase poetica stilnovista era per lui definitivamente chiusa. Dante è ora l'autore di un poema sacro al quale collaborano Cielo e Terra, dal momento che lui mette a disposizione la sua maestria poetica per dare forma alla visione cui è stato ammesso per un eccezionale privilegio, per un'altissima missione di cui la volontà divina lo ha investito. Dante è autore «ispirato» e componendo il poema può ben aspettarsi la fama eterna, ma ciò non deriva esclusivamente dai suoi meriti di scrittore: nel Paradiso ribadirà a più riprese di essere incapace di descrivere l'altezza delle cose vedute, ammettendo continuamente l'inadeguatezza della sua poesia e dei suoi strumenti retorici e invocando l'assistenza divina, senza la quale la composizione di quest'opera è impossibile. Viste le cose in quest'ottica è evidente che l'autocoscienza poetica di Dante si spiega perfettamente nel poema, così come l'orgoglio di chi percorre una strada mai compiuta prima di allora, senza che ciò contrasti con l'appello all'umiltà che caratterizza il Canto dei superbi; del resto alla fine dell'episodio Oderisi profetizza velatamente a Dante l'esilio, che lo costringerà a sperimentare la stessa umiliazione di Provenzano nel chiedere aiuto ai potenti, e Dante stesso nel Canto XIII dichiarerà a Sapìa di temere assai più la pena della I Cornice, ammettendo sinceramente la propria suberbia intellettuale e politica.
Dante ci mostra poi i penitenti della I Cornice (dopo aver ammonito i vivi a pregare a loro volta per le anime del Purgatorio) e ci illustra la loro pena attraverso tre esempi, due dei quali parlano direttamente (Omberto Aldobrandeschi e Oderisi da Gubbio) e il terzo (Provenzan Salvani) è soltanto citato; quest'ultimo personaggio è assai affine a Omberto, dal momento che entrambi morirono violentemente e furono uomini nobili, peccando di superbia proprio a causa della loro attività politica. Omberto riconosce apertamente la propria arroganza in vita, che derivava dall'appartenere a una nobile famiglia e di avere avuto come padre un gran Tosco, quel Guglielmo Aldobrandeschi che fu aspro nemico dei senesi come lo fu anche il figlio. Omberto parla della sua cervice... superba, si definisce arrogante e ammette di aver disprezzato tutti gli uomini non pensando alla comune origine, tanto che finì per morire violentemente per mano dei senesi (Dante non scioglie i dubbi sulla sua morte, che potrebbe essere avvenuta in battaglia o per mano di sicari assoldati dai senesi, il che però non cambia la sostanza del suo destino). Anche i suoi parenti sono superbi come lo fu lui sulla Terra, e poiché non ha scontato la pena della sua arroganza in vita deve farlo da morto, per tutto il tempo che piacerà a Dio. Il suo esempio è molto simile a quello di Provenzan Salvani, citato alla fine del Canto da Oderisi per mostrare quanto è effimera la fama terrena: egli è stato signore di Siena, proprio la città rivale di Omberto, e fu tanto presuntuoso da voler essere il padrone assoluto della città. A differenza di Omberto, tuttavia, egli seppe in un'occasione umiliarsi di fronte ai concittadini, chiedendo l'elemosina per riscattare un amico fatto prigioniero da Carlo d'Angiò (forse un Bartolomeo Saracini, catturato dopo la battaglia di Tagliacozzo e per cui fu chiesta l'enorme somma di 10.000 fiorini); quell'opera buona gli ha permesso di non sostare nell'Antipurgatorio, come avrebbe dovuto fare tra i morti per forza, ma di accedere subito alla I Cornice.
Tra i due esempi di superbia in campo politico è posto quello di superbia artistica, rappresentato dal miniatore Oderisi da Gubbio che Dante conobbe forse a Bologna, e che infatti riconosce e apostrofa per primo il poeta (lui, a differenza di Omberto, può guardare Dante, quindi è meno curvo del suo compagno di pena). Attraverso Oderisi Dante fa un importante discorso relativo all'arte e alla poesia, che si collega a quello iniziato nel Canto X e che avrà un corollario nel Canto XII, con gli esempi di superbia punita: il miniatore respinge infatti il titolo di onor di quell'arte / che alluminar chiamata è in Parisi, riconoscendo umilmente la superiorità di Franco Bolognese che in vita fu suo concorrente. Oderisi dichiara che la fama mondana in campo artistico è effimera, poiché ogni artista è destinato ad essere superato da qualcuno che viene dopo, come è successo a lui (sopravanzato da Franco), a Cimabue (superato nella pittura da Giotto) e a Guinizelli (vinto da Cavalcanti, ed entrambi saranno superati da un terzo poeta che è concordemente interpretato come Dante stesso). Oderisi intende dire che in campo artistico la fama non è infinita e chi oggi viene celebrato come maggiore esponente di una scuola o di una corrente verrà presto surclassato da qualcun altro che farà dimenticare il suo nome, e così via; la vita umana è poca cosa rispetto alla dimensione dell'eterno, quindi meglio farebbero gli uomini a preoccuparsi della loro salvezza spirituale anziché a come saranno ricordati sulla Terra, perché presto o tardi il loro nome verrà dimenticato (e l'esempio di Provenzan Salvani, che Oderisi indica allusivamente a Dante, dimostra proprio questo: un tempo era famosissimo, ora a malapena si ricordano di lui a Siena). È sembrato strano che nel Canto dedicato alla superbia Dante citi indirettamente se stesso come colui destinato a vincere poeticamente i due Guido, ma in realtà ciò è coerente con il discorso di Oderisi: Dante vuol dire probabilmente che anche lui, come esponente dello Stilnovo, sarà a sua volta superato da qualcun altro, senza contare che all'epoca della Commedia la fase poetica stilnovista era per lui definitivamente chiusa. Dante è ora l'autore di un poema sacro al quale collaborano Cielo e Terra, dal momento che lui mette a disposizione la sua maestria poetica per dare forma alla visione cui è stato ammesso per un eccezionale privilegio, per un'altissima missione di cui la volontà divina lo ha investito. Dante è autore «ispirato» e componendo il poema può ben aspettarsi la fama eterna, ma ciò non deriva esclusivamente dai suoi meriti di scrittore: nel Paradiso ribadirà a più riprese di essere incapace di descrivere l'altezza delle cose vedute, ammettendo continuamente l'inadeguatezza della sua poesia e dei suoi strumenti retorici e invocando l'assistenza divina, senza la quale la composizione di quest'opera è impossibile. Viste le cose in quest'ottica è evidente che l'autocoscienza poetica di Dante si spiega perfettamente nel poema, così come l'orgoglio di chi percorre una strada mai compiuta prima di allora, senza che ciò contrasti con l'appello all'umiltà che caratterizza il Canto dei superbi; del resto alla fine dell'episodio Oderisi profetizza velatamente a Dante l'esilio, che lo costringerà a sperimentare la stessa umiliazione di Provenzano nel chiedere aiuto ai potenti, e Dante stesso nel Canto XIII dichiarerà a Sapìa di temere assai più la pena della I Cornice, ammettendo sinceramente la propria suberbia intellettuale e politica.
Note e passi controversi
I primi effetti (v. 3) sono le prime cose create da Dio, quindi i Cieli e gli angeli.
Nei vv. 4-6 i termini nome, valore, vapore sono stati interpretati come le attribuzioni della Trinità, ovvero Padre, Figlio, Spirito Santo.
L'aspro diserto citato al v. 14 è sicuramente la Terra e non il Purgatorio (i superbi dicono «questo» perché il monte si trova fisicamente sulla Terra).
L'antico avversaro è il demonio, così definito anche in Purg., VIII, 95.
Il termine ramogna (v. 25), di origine incerta, è stato variamente interpretato e può voler dire «augurio», «(buona) sorte».
Al v. 49 riva significa «parete» del monte.
La comune madre (v. 63) citata da Omberto è prob. Eva, ma potrebbe anche essere la Terra.
Alcuni editori pubblicano il v. 65 con questa punteggiatura: ch'io ne mori'; come, i Sanesi sanno (mettendo in rilievo che i Senesi sanno il modo in cui Omberto è morto; il senso generale non cambia con la punteggiatura a testo).
Agobbio (v. 80) è la forma antica di Gubbio, dal lat. Iguvium.
Alluminar (v. 81) deriva dal franc. enluminer, che significa appunto «miniare».
Ai vv. 89-90 Oderisi intende dire che, possendo peccar (quindi essendo ancora lontano dalla morte) si pentì, il che gli ha permesso di non sostare nell'Antipurgatorio (era morto forse nel 1299).
I due Guido citati al v. 97 sono certamente Guinizelli e Cavalcanti, anche se non sono mancate altre interpretazioni, come Guittone d'Arezzo e Guinizelli (tale interpretazione, pur suggestiva, è poco probabile). Il poeta citato allusivamente al v. 99 è probabilmente Dante, anche se l'espressione è indeterminata.
Il pappo e il dindi (v. 105) sono parole infantili, che vogliono dire pressappoco «cibo» e «denaro».
Il cerchio che più tardi in cielo è torto (v. 108) è il Cielo delle Stelle Fisse, che secondo le cognizioni astronomiche del tempo compiva una rotazione completa attorno all'eclittica in 360 secoli.
Il v. 109 (colui che del cammin sì poco piglia) indica probabilmente che Provenzan Salvani cammina a passi lenti, quindi si avvantaggia poco rispetto a Oderisi.
I vicini citati al v. 140 sono i concittadini di Dante.
Nei vv. 4-6 i termini nome, valore, vapore sono stati interpretati come le attribuzioni della Trinità, ovvero Padre, Figlio, Spirito Santo.
L'aspro diserto citato al v. 14 è sicuramente la Terra e non il Purgatorio (i superbi dicono «questo» perché il monte si trova fisicamente sulla Terra).
L'antico avversaro è il demonio, così definito anche in Purg., VIII, 95.
Il termine ramogna (v. 25), di origine incerta, è stato variamente interpretato e può voler dire «augurio», «(buona) sorte».
Al v. 49 riva significa «parete» del monte.
La comune madre (v. 63) citata da Omberto è prob. Eva, ma potrebbe anche essere la Terra.
Alcuni editori pubblicano il v. 65 con questa punteggiatura: ch'io ne mori'; come, i Sanesi sanno (mettendo in rilievo che i Senesi sanno il modo in cui Omberto è morto; il senso generale non cambia con la punteggiatura a testo).
Agobbio (v. 80) è la forma antica di Gubbio, dal lat. Iguvium.
Alluminar (v. 81) deriva dal franc. enluminer, che significa appunto «miniare».
Ai vv. 89-90 Oderisi intende dire che, possendo peccar (quindi essendo ancora lontano dalla morte) si pentì, il che gli ha permesso di non sostare nell'Antipurgatorio (era morto forse nel 1299).
I due Guido citati al v. 97 sono certamente Guinizelli e Cavalcanti, anche se non sono mancate altre interpretazioni, come Guittone d'Arezzo e Guinizelli (tale interpretazione, pur suggestiva, è poco probabile). Il poeta citato allusivamente al v. 99 è probabilmente Dante, anche se l'espressione è indeterminata.
Il pappo e il dindi (v. 105) sono parole infantili, che vogliono dire pressappoco «cibo» e «denaro».
Il cerchio che più tardi in cielo è torto (v. 108) è il Cielo delle Stelle Fisse, che secondo le cognizioni astronomiche del tempo compiva una rotazione completa attorno all'eclittica in 360 secoli.
Il v. 109 (colui che del cammin sì poco piglia) indica probabilmente che Provenzan Salvani cammina a passi lenti, quindi si avvantaggia poco rispetto a Oderisi.
I vicini citati al v. 140 sono i concittadini di Dante.
Testo «O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore ch’ai primi effetti di là sù tu hai, 3 laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore da ogni creatura, com’è degno di render grazie al tuo dolce vapore. 6 Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, ché noi ad essa non potem da noi, s’ella non vien, con tutto nostro ingegno. 9 Come del suo voler li angeli tuoi fan sacrificio a te, cantando osanna, così facciano li uomini de’ suoi. 12 Dà oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi più di gir s’affanna. 15 E come noi lo mal ch’avem sofferto perdoniamo a ciascuno, e tu perdona benigno, e non guardar lo nostro merto. 18 Nostra virtù che di legger s’adona, non spermentar con l’antico avversaro, ma libera da lui che sì la sprona. 21 Quest’ultima preghiera, segnor caro, già non si fa per noi, ché non bisogna, ma per color che dietro a noi restaro». 24 Così a sé e noi buona ramogna quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo, simile a quel che tal volta si sogna, 27 disparmente angosciate tutte a tondo e lasse su per la prima cornice, purgando la caligine del mondo. 30 Se di là sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote da quei ch’hanno al voler buona radice? 33 Ben si de’ loro atar lavar le note che portar quinci, sì che, mondi e lievi, possano uscire a le stellate ruote. 36 «Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi tosto, sì che possiate muover l’ala, che secondo il disio vostro vi lievi, 39 mostrate da qual mano inver’ la scala si va più corto; e se c’è più d’un varco, quel ne ‘nsegnate che men erto cala; 42 ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco de la carne d’Adamo onde si veste, al montar sù, contra sua voglia, è parco». 45 Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu’ io seguiva, non fur da cui venisser manifeste; 48 ma fu detto: «A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo possibile a salir persona viva. 51 E s’io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma, onde portar convienmi il viso basso, 54 cotesti, ch’ancor vive e non si noma, guardere’ io, per veder s’i’ ‘l conosco, e per farlo pietoso a questa soma. 57 Io fui latino e nato d’un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; non so se ‘l nome suo già mai fu vosco. 60 L’antico sangue e l’opere leggiadre d’i miei maggior mi fer sì arrogante, che, non pensando a la comune madre, 63 ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante, ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno, e sallo in Campagnatico ogne fante. 66 Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, ché tutti miei consorti ha ella tratti seco nel malanno. 69 E qui convien ch’io questo peso porti per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, poi ch’io nol fe’ tra ‘ vivi, qui tra ‘ morti». 72 Ascoltando chinai in giù la faccia; e un di lor, non questi che parlava, si torse sotto il peso che li ‘mpaccia, 75 e videmi e conobbemi e chiamava, tenendo li occhi con fatica fisi a me che tutto chin con loro andava. 78 «Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi, l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte ch’alluminar chiamata è in Parisi?». 81 «Frate», diss’elli, «più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese; l’onore è tutto or suo, e mio in parte. 84 Ben non sare’ io stato sì cortese mentre ch’io vissi, per lo gran disio de l’eccellenza ove mio core intese. 87 Di tal superbia qui si paga il fio; e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccar, mi volsi a Dio. 90 Oh vana gloria de l’umane posse! com’poco verde in su la cima dura, se non è giunta da l’etati grosse! 93 Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura: 96 così ha tolto l’uno a l’altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido. 99 Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato. 102 Che voce avrai tu più, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’, 105 pria che passin mill’anni? ch’è più corto spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia al cerchio che più tardi in cielo è torto. 108 Colui che del cammin sì poco piglia dinanzi a me, Toscana sonò tutta; e ora a pena in Siena sen pispiglia, 111 ond’era sire quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che superba fu a quel tempo sì com’ora è putta. 114 La vostra nominanza è color d’erba, che viene e va, e quei la discolora per cui ella esce de la terra acerba». 117 E io a lui: «Tuo vero dir m’incora bona umiltà, e gran tumor m’appiani; ma chi è quei di cui tu parlavi ora?». 120 «Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani; ed è qui perché fu presuntuoso a recar Siena tutta a le sue mani. 123 Ito è così e va, sanza riposo, poi che morì; cotal moneta rende a sodisfar chi è di là troppo oso». 126 E io: «Se quello spirito ch’attende, pria che si penta, l’orlo de la vita, qua giù dimora e qua sù non ascende, 129 se buona orazion lui non aita, prima che passi tempo quanto visse, come fu la venuta lui largita?». 132 «Quando vivea più glorioso», disse, «liberamente nel Campo di Siena, ogne vergogna diposta, s’affisse; 135 e lì, per trar l’amico suo di pena ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogne vena. 138 Più non dirò, e scuro so che parlo; ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini faranno sì che tu potrai chiosarlo. Quest’opera li tolse quei confini». 142 |
Parafrasi«O Padre nostro, che sei nei Cieli, non limitato da essi, ma per il maggiore amore che provi per le tue prime creature,
sia lodato il tuo nome e la tua potenza da ogni creatura, come è giusto rendere grazie alla tua dolce sapienza. Venga per noi la pace del tuo regno, poiché noi non possiamo salire ad essa con le nostre forze, se non ci viene data, anche se ci impegniamo in ogni modo. Come i tuoi angeli fanno sacrificio a te della loro volontà, cantando 'osanna', così facciano gli uomini della loro. Dacci oggi la nostra manna quotidiana, senza la quale in questo aspro deserto (la Terra) chi più cerca di avanzare, tanto più cammina a ritroso. E come noi perdoniamo a ciascuno le offese subìte, anche tu perdona a noi, benevolo, e non guardare i nostri meriti. Non mettere alla prova con il demonio la nostra virtù, che si abbatte facilmente, ma liberaci da lui che la stimola in tal modo. Quest'ultima preghiera, Signore caro, non la facciamo per noi, che non ne abbiamo bisogno, ma per coloro che abbiamo lasciato tra i vivi». Così quelle ombre, pregando per noi un buon augurio, andavano sotto il peso (del masso), simile a quello che a volte si sogna, tormentate in misura diversa, tutte in tondo e prostrate lungo la I Cornice, purgando le tracce dei loro peccati terreni. Se in Purgatorio quelle anime dicono sempre bene per noi, sulla Terra cosa si può dire e fare per loro da parte di quelli che sono disposti al bene? Certo bisogna aiutarli a lavare i loro peccati che portano dalla Terra, cosicché, purificati e lavati, possano salire al Cielo. «Orsù, possa la giustizia e la pietà sgravarvi presto, così che possiate muovere le ali e sollevarvi secondo il vostro desiderio; mostrateci da quale parte si va più rapidamente alla scala (per la prossima Cornice); e se c'è più di un accesso, mostrateci quello che sale meno ripido; infatti questi che mi segue, a causa del peso del corpo che ha con sé, è lento a salire pur contro il suo volere». Non fu chiaro da chi venissero le parole che furono date in risposta a queste dette dal mio maestro; ma ci fu detto: «Venite con noi verso destra lungo la parete, e troverete il varco percorribile a una persona viva. E se io non fossi impedito dal sasso che piega il mio collo superbo, per cui sono costretto a tenere il viso basso, guarderei costui che è ancora vivo e non dice il proprio nome, per vedere se lo conosco e renderlo pietoso del mio tormento. Io fui italiano e nacqui da un grande Toscano: mio padre fu Guglielmo Aldobrandeschi; non so se avete mai sentito il suo nome. L'antico lignaggio e le grandi opere dei miei antenati mi resero così arrogante, che, non pensando alla comune origine, disprezzai ogni uomo a tal punto che io morii, come ben sanno i Senesi, e come sa ogni bambino a Campagnatico. Io sono Omberto; e la superbia non reca danno solo a me, in quanto ha coinvolto nel suo male tutti i miei congiunti. Ed è necessario che porti questo peso a causa sua, finché a Dio piacerà, qui tra i morti, poiché non lo feci tra vivi». Mentre ascoltavo chinai in giù il viso; e uno di loro, non questo che mi parlava, si piegò sotto il macigno che li opprime, e mi guardò, mi riconobbe e mi chiamò, tenendo con fatica gli occhi fissi su di me, che andavo con loro tutto chinato. Io gli dissi: «Oh! non sei forse Oderisi, l'onore di Gubbio e di quell'arte che a Parigi è chiamata 'enluminer'?» Disse: «Fratello, sono più apprezzati i codici che decora Franco Bolognese; l'onore è tutto suo e mio solo in parte. Certo io non sarei stato così cortese quand'ero vivo, per il grande desiderio di eccellenza cui era proteso il mio cuore. Qui si sconta la pena di questa superbia; e non sarei qui, se quando potevo ancora peccare non mi fossi rivolto a Dio. Oh gloria vana delle capacità umane! quanto poco rimane verde sul ramo, se non è seguita da età decadenti! Cimabue credette di primeggiare nella pittura, mentre ora è Giotto il maestro e ha oscurato la sua fama: allo stesso modo Guido (Cavalcanti) ha tolto all'altro Guido (Guinizelli) la gloria della lingua, e forse è già nato chi li vincerà entrambi. La fama terrena non è altro che un alito di vento, che ora spira da una parte e ora dall'altra, e cambia nome a seconda della direzione. Credi di avere una fama maggiore se muori da vecchio, invece di essere morto quando ancora parlavi in modo infantile, prima che siano trascorsi mille anni? Questo è un tempo brevissimo rispetto all'eternità, più breve di un batter di ciglia rispetto al movimento del cielo che si muove più lentamente. Colui che cammina a passi lenti davanti a me, un tempo era noto in tutta la Toscana; ora a malapena si sussurra il suo nome a Siena, di cui era signore quando la rabbia fiorentina fu distrutta (a Montaperti), che a quel tempo era superba come ora è volta alla corruzione. La vostra fama è come il verde dell'erba, che va e viene, ed è cancellato dal sole che fa spuntare l'erba stessa dalla terra». E io a lui: «Le tue vere parole mi ispirano buona umiltà, e abbassano il mio grande orgoglio; ma chi è quello di cui parlavi poco fa?» Rispose: «Quello è Provenzan Salvani; ed è qui perché ebbe la presunzione di ridurre Siena in suo potere. Da quando è morto ha camminato così (sotto il masso) e continua senza riposo; sconta questa pena colui che sulla Terra ha troppo osato». E io: «Se quello spirito che attende a pentirsi in punto di morte, deve sostare nell'Antipurgatorio e non sale in Purgatorio per tutto il tempo che durò la sua vita, a meno che una buona preghiera non lo aiuti, in che modo gli fu permesso di venire qui?» Disse: «Quando era al culmine della potenza, liberamente si mise in piazza del Campo a Siena (a chiedere l'elemosina), messa da parte ogni vergogna; e lì, per riscattare dalla prigionia il suo amico che era stato catturato da Carlo d'Angiò, si sottopose a una tremenda umiliazione. Non dirò di più e so di parlare in modo oscuro; ma passerà poco tempo prima che i tuoi concittadini faranno in modo che tu possa sperimentarlo di persona. Quell'azione gli permise di accedere subito alla Cornice». |