Purgatorio, Canto XVIII
G. Doré, Gli accidiosi
"...L'animo, ch'è creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto..."
"...Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo 'mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona..."
Poi quando fuor da noi tanto divise
quell'ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise...
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto..."
"...Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo 'mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona..."
Poi quando fuor da noi tanto divise
quell'ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise...
Argomento del Canto
Ancora nella IV Cornice: spiegazione di Virgilio sull'amore e il libero arbitrio. Incontro con gli accidiosi e l'abate di San Zeno. Dante si addormenta e sogna.
È la mezzanotte di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
È la mezzanotte di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
Virgilio spiega la natura dell'amore (1-39)
Virgilio pone fine alla sua spiegazione e osserva Dante per vedere se è soddisfatto. Il discepolo vorrebbe ulteriori chiarimenti, ma tace per timore di irritare il maestro con altre domande, finché il poeta latino capisce il suo desiderio e lo invita a parlare liberamente. Dante dichiara di aver ben compreso la precedente spiegazione, ma di voler conoscere in modo più dettagliato la natura dell'amore, cui Virglio riconduce ogni azione virtuosa e ogni peccato. Il maestro esorta Dante ad ascoltare attentamente, così da capire l'errore dei falsi maestri, quindi dichiara che l'anima umana si volge naturalmente verso ciò che le piace, non appena la cosa piacevole pone in atto la sua disposizione ad amare. L'intelletto umano è attratto dalle cose reali e fa piegare l'anima verso di esse: se ciò avviene, quel piegarsi è amore ed è del tutto naturale. Quindi, come il fuoco è destinato a salire in alto per la sua natura, così l'anima presa da amore si volge verso la cosa amata, per tutto il tempo in cui questa gli procura gioia. Dante può allora capire quanto sbagliano coloro che considerano lodevole qualsiasi amore, dal momento che forse può essere buona la disposizione ad amare, ma non necessariamente lo è la sua attuazione.
Amore e libero arbitrio (40-75)
Dante afferma che le parole di Virgilio gli hanno spiegato cos'è l'amore, tuttavia hanno accresciuto i suoi dubbi: infatti, se l'anima ama ciò che le è offerto dalla realtà esterna e obbedisce a un impulso naturale, ciò non può essere considerato una colpa. Virgilio premette che la sua risposta atterrà esclusivamente alla filosofia, mentre per una spiegazione dottrinale Dante è rimandato alle chiose di Beatrice. Egli spiega che ogni anima ha in sé una disposizione che non è avvertita se non agisce, e si manifesta solo attraverso i suoi effetti. Dunque l'uomo ignora la provenienza delle prime nozioni innate e l'amore dei primi beni, che sono innati come nelle api la tendenza a produrre il miele, il che non è motivo di lode o biasimo. Affinché a questa prima inclinazione si conformi ogni altro desiderio, l'uomo ha la ragione che deve governare la volontà e deve dare o negare il proprio assenso agli impulsi naturali. Questo è il principio da cui deriva la colpa o il merito, a seconda che la ragione distingua gli amori buoni da quelli cattivi. I filosofi compresero bene questa libertà e basandosi su di essa elaborarono la morale: quindi, supponendo che l'uomo sia necessariamente portato ad amare, l'intelletto è in grado di trattenere questa tendenza. Beatrice, conclude Virgilio, dà il nome di libero arbitrio a questa virtù e il maestro esorta Dante a tenerlo a mente.
Sonnolenza di Dante. Esempi di sollecitudine (76-105)
Busto di G. Giulio Cesare
Ormai è mezzanotte passata e la luna offusca col suo chiarore le stelle, simile a un grosso paiolo di rame, mentre percorre il cielo in senso contrario a quello percorso dal sole quando tramonta tra Sardegna e Corsica (per chi guarda da Roma). Virgilio ha ormai sciolto i dubbi di Dante e questi, soddisfatto dalle sue risposte, è colto da sonnolenza, venendo però subito scosso dalle anime degli accidiosi che corrono dietro i due poeti. La corsa delle anime è paragonata a quella dei Tebani che correvano durante i riti orgiastici in onore di Bacco, lungo i fiumi Ismeno e Asopo in Beozia. I penitenti raggiungono i due poeti e due di loro gridano piangendo gli esempi di sollecitudine di Maria, che si affrettò alla montagna a visitare Elisabetta, e di Cesare, che per sottomettere Ilerda prima colpì Marsiglia e poi corse in Spagna. Gli altri accidiosi incitano i compagni di pena a non perdere tempo e ad acquistare la grazia divina con le buone azioni.
L'abate di San Zeno (106-129)
Basilica di S. Zeno (Verona)
Virgilio si rivolge ai penitenti e li definisce anime mosse da un acuto fervore che supplisce alla loro negligenza in vita, quindi dichiara che Dante è ancor vivo e desidera salire alla Cornice seguente appena ci sarà di nuovo la luce del sole, per cui li prega di indicar loro il passaggio. Uno degli spiriti risponde invitandoli a seguirli, poiché essi sono pieni di buona volontà e non possono fermarsi. Egli si presenta come l'abate di San Zeno a Verona, al tempo di Federico Barbarossa che fece distruggere Milano; un tale che è prossimo alla morte (Alberto della Scala) si pentirà di aver avuto potere su quel monastero, poichè vi ha posto come abate suo figlio, menomato nel corpo e nella mente, al posto del prelato che avrebbe dovuto ricoprire quella carica.
Esempi di accidia punita. Dante si addormenta (130-145)
Dante non sa se il penitente aggiunga altro o taccia, poiché corre via da loro velocemente, quindi Virgilio invita il discepolo a osservare altri due accidiosi che gridano esempi del peccato punito. Essi, correndo dietro agli altri, gridano che gli Ebrei che furono lenti a seguire Mosè morirono prima di giungere al Giordano, mentre i Troiani che non seguirono Anchise in Italia e si fermarono in Sicilia vissero una vita ingloriosa. Alla fine, quando le anime sono così lontane che non si possono più sentire, Dante passa poco a poco dalla veglia al sonno, iniziando a vaneggiare e a chiudere gli occhi, finché comincia a sognare.
Interpretazione complessiva
Il Canto ha struttura speculare rispetto al precedente, con cui forma una sorta di dittico, poiché a una prima parte didascalica segue una parte narrativa in maniera rovesciata rispetto al XVII (anche qui le due parti sono intervallate dall'indicazione dell'ora, con la discussa descrizione della posizione della luna in cielo). Virgilio completa e integra la spiegazione dottrinale iniziata alla fine del Canto precedente, che riguardava la struttura morale del Purgatorio basata sulla concezione dell'amore: Dante vorrebbe conoscere nel dettaglio la natura di questa inclinazione dell'animo e Virgilio risponde con una complessa spiegazione filosofica, che si rifà ovviamente ad Aristotele e alla Scolastica, per cui l'amore trae spunto dagli oggetti reali del mondo circostante e trasforma in atto la naturale potenza di amare che è innata nell'anima umana, obbedendo così a un impulso che è connaturato al suo essere. Ciò suscita gli ulteriori dubbi di Dante, poiché se l'amore è un'inclinazione naturale verso la cosa che fa gioire, l'uomo non fa che obbedire a un impulso irresistibile e ciò non può essere ascritto a sua colpa, secondo quanto Virgilio aveva detto nel Canto precedente. La chiosa del maestro, che rimanda a Beatrice per ulteriori dettagli in materia dottrinale, è tale da eliminare ogni dubbio: l'uomo è, sì, naturalmente portato ad amare, ma ad essere sempre lodevole è solo la disposizione innata nell'anima, quindi l'amore in potenza, mentre la sua trasformazione in atto (quando l'uomo sceglie l'oggetto verso cui indirizzare il proprio amore) può essere buona o cattiva a seconda della libera scelta della cosa amata e da questo nasce la virtù o il peccato. In altri termini, l'uomo non deve abbandonarsi in modo indiscriminato alle sue inclinazioni ad amare ma deve sottoporre la sua elezione al vaglio della ragione, o, come direbbe Beatrice, del libero arbitrio; Virgilio completa il discorso di Marco Lombardo nel Canto XVI che aveva ridimensionato la necessità dell'influenza astrale sulla condotta umana, mentre il poeta latino esclude quella dell'amore come impulso naturale e irresistibile contro il quale l'uomo non si può opporre (può e deve farlo, invece, in forza della ragione e del libero arbitrio). Il discorso di Dante è di importanza centrale nel Purgatorio e nella struttura del poema, anche perché il poeta prende le distanze da un concetto base della poesia amorosa di cui lui stesso era stato esponente, ovvero la forza irresistibile dell'amore cui è vano opporsi: ciò era stato ampiamente affermato dalla trattatistica amorosa del XIII sec., ad esempio da A. Cappellano nel De amore, e ripreso dalla tradizione poetica provenzale, dai Siciliani e in ultimo dagli Stilnovisti, specie da Guinizelli e Cavalcanti (quest'ultimo aveva affermato non solo la forza irresistibile del sentimento amoroso, ma anche i suoi terribili effetti sull'anima umana, la sua azione distruttiva). Dante si discosta da questa impostazione e afferma che l'amore è lodevole solo quando è ben diretto e deve quindi essere sempre sottoposto al vaglio rigoroso della ragione: è lo stesso principio per cui Francesca e Paolo erano dannati tra i lussuriosi, in quanto i due avevano seguito il cattivo esempio della letteratura erotica (la donna citava Cappellano, ma anche Guinizelli e Dante) e si erano abbandonati al piacere amoroso subordinando ad esso la ragione, motivo per cui hanno perso la speranza della salvezza. Ciò non significa che Dante rinneghi o rifiuti in blocco tutta la poesia dello Stilnovo, tuttavia la sottopone a una revisione critica e ne corregge almeno in parte alcuni principi, affermati da quei cattivi maestri (i ciechi che si fanno duci, secondo le parole di Virgilio) che dovranno essere intesi come gli autori della trattatistica amorosa che molti danni possono causare a chi li segue senza criterio, come appunto era successo ai protagonisti del Canto V dell'Inferno. Non è un caso che questa digressione preceda e in certo modo prepari l'incontro con Bonagiunta del Canto XXIV, in cui Dante spiegherà in maniera precisa cosa si deve intendere per Dolce Stil Novo, e quello con Guinizelli del Canto XXVI che si troverà proprio fra i lussuriosi del Purgatorio, a scontare la colpa di aver prodotto quella letteratura di cui Francesca era stata avida consumatrice.
La seconda parte del Canto è dedicata alla descrizione della pena degli accidiosi, fra cui Dante incontra l'abate di San Zeno, episodio che occupa assai meno spazio rispetto alle altre Cornici e agli altri peccatori visti in precedenza e che si vedranno in seguito. Si è molto discusso sulle possibili ragioni di questa scelta di Dante (che racchiude in soli 51 versi la descrizione dei penitenti, l'incontro con l'abate e gli esempi di sollecitudine e di accidia punita) e che può essere ricondotta a esigenze di carattere strutturali e narrative, nonché al maggior interesse del poeta per peccati profondamente legati al degrado morale del suo tempo, a cominciare dall'avarizia cui saranno dedicati i Canti XIX-XX (e in parte anche i due successivi, attraverso la figura di Stazio che prefigura l'ampia parentesi «letteraria» degli episodi seguenti). La descrizione della IV Cornice rappresenta un momento di pausa narrativa e didascalica che ha l'importante funzione di spiegare l'ordinamento morale del secondo regno, con la digressione filosofica sulla concezione di amore che sarà ripresa nei suoi risvolti poetici e letterari durante gli incontri con Bonagiunta e Guinizelli; da sottolineare la raccomandazione di Virgilio a Dante circa la necessità di integrare la sua spiegazione con quella teologica di Beatrice, preannunciandone la venuta sulla cima del monte di lì a pochi Canti e anticipando la struttura di tanti dialoghi di argomento dottrinale che avverranno nel Paradiso tra lei e il poeta, con la funzione analoga di chiarire i dubbi di Dante (e del lettore) in materia di fede.
La seconda parte del Canto è dedicata alla descrizione della pena degli accidiosi, fra cui Dante incontra l'abate di San Zeno, episodio che occupa assai meno spazio rispetto alle altre Cornici e agli altri peccatori visti in precedenza e che si vedranno in seguito. Si è molto discusso sulle possibili ragioni di questa scelta di Dante (che racchiude in soli 51 versi la descrizione dei penitenti, l'incontro con l'abate e gli esempi di sollecitudine e di accidia punita) e che può essere ricondotta a esigenze di carattere strutturali e narrative, nonché al maggior interesse del poeta per peccati profondamente legati al degrado morale del suo tempo, a cominciare dall'avarizia cui saranno dedicati i Canti XIX-XX (e in parte anche i due successivi, attraverso la figura di Stazio che prefigura l'ampia parentesi «letteraria» degli episodi seguenti). La descrizione della IV Cornice rappresenta un momento di pausa narrativa e didascalica che ha l'importante funzione di spiegare l'ordinamento morale del secondo regno, con la digressione filosofica sulla concezione di amore che sarà ripresa nei suoi risvolti poetici e letterari durante gli incontri con Bonagiunta e Guinizelli; da sottolineare la raccomandazione di Virgilio a Dante circa la necessità di integrare la sua spiegazione con quella teologica di Beatrice, preannunciandone la venuta sulla cima del monte di lì a pochi Canti e anticipando la struttura di tanti dialoghi di argomento dottrinale che avverranno nel Paradiso tra lei e il poeta, con la funzione analoga di chiarire i dubbi di Dante (e del lettore) in materia di fede.
Note e passi controversi
I verbi parta e descriva del v. 12 sono termini propri della filosofia scolastica, e indicano rispettivamente il «separare con ragionamenti» e l'«esporre analiticamente una tesi» (alcuni mss. leggono porti o descriva, ma è lezione poco probabile).
Il v. 21 (tosto che dal piacere in atto è desto) vuol dire «non appena è posto in atto dalla cosa piacevole».
L'apprensiva (v. 22) è la facoltà conoscitiva dell'uomo, mentre l'intenzione (v. 23) è la rappresentazione dell'oggetto visto.
Al v. 27 di novo può voler dire «prevalentemente» oppure «per la seconda volta».
L'espressione fin che (v. 33) vuol dire probabilmente «per tutto il tempo che» e non «fino al momento in cui».
I vv. 38-39 indicano che la cera può essere buona, ma non necessariamente lo sarà l'impronta suggellata da essa: fuor di metafora, Virgilio dice che l'amore è buono come disposizione in potenza, ma può non esserlo quando si tramuta in atto.
Al v. 44 non va con altro piede indica che l'anima non può fare a meno di comportarsi in questo modo, cioè di seguire l'inclinazione ad amare.
Forma sustanzial (v. 49) è l'anima, separata (setta) dalla materia e al tempo stesso unita ad essa.
La specifica virtute (v. 51) è la disposizione innata dell'anima, che si manifesta solo attraverso gli atti.
Le prime notizie (v. 56) sono i primi principi, gli assiomi indimostrabili con cui opera la ragione, mentre de' primi appetibili l'affetto (v. 57) è l'amore verso i primi beni desiderabili, innato nell'anima umana.
Il verbo vigliare (v. 66) è proprio del volgare toscano e vuol dire «separare il grano dalle impurità».
I vv. 76-78 sono stati interpretati nel senso che la luna sta sorgendo in ritardo rispetto al giorno precedente, verso la mezzanotte, il che suscita dubbi di precisione astronomica, ma Dante in realtà vuol dire soltanto che è mezzanotte passata (tarda è da riferire a mezza notte, non a luna) e l'astro lunare offusca col suo chiarore le stelle. La luna è paragaonata a un paiolo di rame (un secchion che tuttor arda), perché vicina all'ultimo quarto e, quindi, tonda in basso e con la parte oscura in alto.
Pietola (v. 83) è l'odierna Andes, piccolo centro del mantovano dove era nato Virgilio.
Ismeno e Asopo (v. 91) sono i due fiumi della Beozia che vedevano correre i Tebani duranti i riti orgiastici in onore di Bacco.
Il vb. falca (v. 94) vuol dire probabilmente «curva» e regge il compl. ogg. suo passo: Dante indica che gli accidiosi corrono in modo simile a dei cavalli, curvando la loro andatura.
Il v. 120 allude alla distruzione di Milano, ordinata dal Barbarossa nel 1162.
Il tale citato dall'abate di San Zeno al v. 121 è Alberto della Scala, che sarebbe morto nel 1301 (la visione avviene nel 1300).
I versi 139-145 indicano, con una certa precisione, il passaggio della mente dalla veglia al sonno, quando i pensieri si succedono senza un ordine logico e le immagini si succedono in modo disordinato.
Il v. 21 (tosto che dal piacere in atto è desto) vuol dire «non appena è posto in atto dalla cosa piacevole».
L'apprensiva (v. 22) è la facoltà conoscitiva dell'uomo, mentre l'intenzione (v. 23) è la rappresentazione dell'oggetto visto.
Al v. 27 di novo può voler dire «prevalentemente» oppure «per la seconda volta».
L'espressione fin che (v. 33) vuol dire probabilmente «per tutto il tempo che» e non «fino al momento in cui».
I vv. 38-39 indicano che la cera può essere buona, ma non necessariamente lo sarà l'impronta suggellata da essa: fuor di metafora, Virgilio dice che l'amore è buono come disposizione in potenza, ma può non esserlo quando si tramuta in atto.
Al v. 44 non va con altro piede indica che l'anima non può fare a meno di comportarsi in questo modo, cioè di seguire l'inclinazione ad amare.
Forma sustanzial (v. 49) è l'anima, separata (setta) dalla materia e al tempo stesso unita ad essa.
La specifica virtute (v. 51) è la disposizione innata dell'anima, che si manifesta solo attraverso gli atti.
Le prime notizie (v. 56) sono i primi principi, gli assiomi indimostrabili con cui opera la ragione, mentre de' primi appetibili l'affetto (v. 57) è l'amore verso i primi beni desiderabili, innato nell'anima umana.
Il verbo vigliare (v. 66) è proprio del volgare toscano e vuol dire «separare il grano dalle impurità».
I vv. 76-78 sono stati interpretati nel senso che la luna sta sorgendo in ritardo rispetto al giorno precedente, verso la mezzanotte, il che suscita dubbi di precisione astronomica, ma Dante in realtà vuol dire soltanto che è mezzanotte passata (tarda è da riferire a mezza notte, non a luna) e l'astro lunare offusca col suo chiarore le stelle. La luna è paragaonata a un paiolo di rame (un secchion che tuttor arda), perché vicina all'ultimo quarto e, quindi, tonda in basso e con la parte oscura in alto.
Pietola (v. 83) è l'odierna Andes, piccolo centro del mantovano dove era nato Virgilio.
Ismeno e Asopo (v. 91) sono i due fiumi della Beozia che vedevano correre i Tebani duranti i riti orgiastici in onore di Bacco.
Il vb. falca (v. 94) vuol dire probabilmente «curva» e regge il compl. ogg. suo passo: Dante indica che gli accidiosi corrono in modo simile a dei cavalli, curvando la loro andatura.
Il v. 120 allude alla distruzione di Milano, ordinata dal Barbarossa nel 1162.
Il tale citato dall'abate di San Zeno al v. 121 è Alberto della Scala, che sarebbe morto nel 1301 (la visione avviene nel 1300).
I versi 139-145 indicano, con una certa precisione, il passaggio della mente dalla veglia al sonno, quando i pensieri si succedono senza un ordine logico e le immagini si succedono in modo disordinato.
Testo Posto avea fine al suo ragionamento
l’alto dottore, e attento guardava ne la mia vista s’io parea contento; 3 e io, cui nova sete ancor frugava, di fuor tacea, e dentro dicea: ‘Forse lo troppo dimandar ch’io fo li grava’. 6 Ma quel padre verace, che s’accorse del timido voler che non s’apriva, parlando, di parlare ardir mi porse. 9 Ond’io: «Maestro, il mio veder s’avviva sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro quanto la tua ragion parta o descriva. 12 Però ti prego, dolce padre caro, che mi dimostri amore, a cui reduci ogne buono operare e ‘l suo contraro». 15 «Drizza», disse, «ver’ me l’agute luci de lo ‘ntelletto, e fieti manifesto l’error de’ ciechi che si fanno duci. 18 L’animo, ch’è creato ad amar presto, ad ogne cosa è mobile che piace, tosto che dal piacere in atto è desto. 21 Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, sì che l’animo ad essa volger face; 24 e se, rivolto, inver’ di lei si piega, quel piegare è amor, quell’è natura che per piacer di novo in voi si lega. 27 Poi, come ‘l foco movesi in altura per la sua forma ch’è nata a salire là dove più in sua matera dura, 30 così l’animo preso entra in disire, ch’è moto spiritale, e mai non posa fin che la cosa amata il fa gioire. 33 Or ti puote apparer quant’è nascosa la veritate a la gente ch’avvera ciascun amore in sé laudabil cosa; 36 però che forse appar la sua matera sempre esser buona, ma non ciascun segno è buono, ancor che buona sia la cera». 39 «Le tue parole e ‘l mio seguace ingegno», rispuos’io lui, «m’hanno amor discoverto, ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno; 42 ché, s’amore è di fuori a noi offerto, e l’anima non va con altro piede, se dritta o torta va, non è suo merto». 45 Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede, dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta pur a Beatrice, ch’è opra di fede. 48 Ogne forma sustanzial, che setta è da matera ed è con lei unita, specifica vertute ha in sé colletta, 51 la qual sanza operar non è sentita, né si dimostra mai che per effetto, come per verdi fronde in pianta vita. 54 Però, là onde vegna lo ‘ntelletto de le prime notizie, omo non sape, e de’ primi appetibili l’affetto, 57 che sono in voi sì come studio in ape di far lo mele; e questa prima voglia merto di lode o di biasmo non cape. 60 Or perché a questa ogn’altra si raccoglia, innata v’è la virtù che consiglia, e de l’assenso de’ tener la soglia. 63 Quest’è ‘l principio là onde si piglia ragion di meritare in voi, secondo che buoni e rei amori accoglie e viglia. 66 Color che ragionando andaro al fondo, s’accorser d’esta innata libertate; però moralità lasciaro al mondo. 69 Onde, poniam che di necessitate surga ogne amor che dentro a voi s’accende, di ritenerlo è in voi la podestate. 72 La nobile virtù Beatrice intende per lo libero arbitrio, e però guarda che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende». 75 La luna, quasi a mezza notte tarda, facea le stelle a noi parer più rade, fatta com’un secchion che tuttor arda; 78 e correa contro ‘l ciel per quelle strade che ‘l sole infiamma allor che quel da Roma tra Sardi e ‘ Corsi il vede quando cade. 81 E quell’ombra gentil per cui si noma Pietola più che villa mantoana, del mio carcar diposta avea la soma; 84 per ch’io, che la ragione aperta e piana sovra le mie quistioni avea ricolta, stava com’om che sonnolento vana. 87 Ma questa sonnolenza mi fu tolta subitamente da gente che dopo le nostre spalle a noi era già volta. 90 E quale Ismeno già vide e Asopo lungo di sè di notte furia e calca, pur che i Teban di Bacco avesser uopo, 93 cotal per quel giron suo passo falca, per quel ch’io vidi di color, venendo, cui buon volere e giusto amor cavalca. 96 Tosto fur sovr’a noi, perché correndo si movea tutta quella turba magna; e due dinanzi gridavan piangendo: 99 «Maria corse con fretta a la montagna; e Cesare, per soggiogare Ilerda, punse Marsilia e poi corse in Ispagna». 102 «Ratto, ratto, che ‘l tempo non si perda per poco amor», gridavan li altri appresso, «che studio di ben far grazia rinverda». 105 «O gente in cui fervore aguto adesso ricompie forse negligenza e indugio da voi per tepidezza in ben far messo, 108 questi che vive, e certo i’ non vi bugio, vuole andar sù, pur che ‘l sol ne riluca; però ne dite ond’è presso il pertugio». 111 Parole furon queste del mio duca; e un di quelli spirti disse: «Vieni di retro a noi, e troverai la buca. 114 Noi siam di voglia a muoverci sì pieni, che restar non potem; però perdona, se villania nostra giustizia tieni. 117 Io fui abate in San Zeno a Verona sotto lo ‘mperio del buon Barbarossa, di cui dolente ancor Milan ragiona. 120 E tale ha già l’un piè dentro la fossa, che tosto piangerà quel monastero, e tristo fia d’avere avuta possa; 123 perché suo figlio, mal del corpo intero, e de la mente peggio, e che mal nacque, ha posto in loco di suo pastor vero». 126 Io non so se più disse o s’ei si tacque, tant’era già di là da noi trascorso; ma questo intesi, e ritener mi piacque. 129 E quei che m’era ad ogne uopo soccorso disse: «Volgiti qua: vedine due venir dando a l’accidia di morso». 132 Di retro a tutti dicean: «Prima fue morta la gente a cui il mar s’aperse, che vedesse Iordan le rede sue. 135 E quella che l’affanno non sofferse fino a la fine col figlio d’Anchise, sé stessa a vita sanza gloria offerse». 138 Poi quando fuor da noi tanto divise quell’ombre, che veder più non potiersi, novo pensiero dentro a me si mise, 141 del qual più altri nacquero e diversi; e tanto d’uno in altro vaneggiai, che li occhi per vaghezza ricopersi, e ‘l pensamento in sogno trasmutai. 145 |
ParafrasiL'insigne maestro aveva concluso il suo ragionamento e mi guardava attentamente, per vedere se ero soddisfatto;
e io, che ero ancora tormentato dalla sete di sapere, esternamente tacevo e dentro di me dicevo: 'Forse Virgilio sarà irritato dalle mie troppe domande'. Ma quel padre di verità, che si accorse del mio desiderio che non si manifestava per timore, con le sue parole mi invitò a parlare. Allora dissi: «Maestro, la mia vista è talmente rischiarata dalla tua luce che io vedo nettamente tutto ciò che il tuo ragionamento separa ed espone analiticamente. Perciò ti prego, dolce padre mio caro, di spiegarmi cos'è l'amore al quale riconduci ogni azione virtuosa e il suo opposto (peccato)». Disse: «Volgi verso di me gli occhi acuti dell'intelletto, e ti sarà chiaro l'errore dei ciechi che pretendono di fare da guida. L'anima, che è creata con la disposizione ad amare, si muove verso ogni cosa che le piace, non appena tale disposizione è posta in atto dalla cosa piacevole. La vostra facoltà conoscitiva trae l'immagine da una cosa reale e la elabora dentro di voi, così che spinge l'anima a indirizzarsi verso di essa; e se l'anima, così indirizzata, si volge verso quella cosa, questo atto è amore, è un atteggiamento naturale che primariamente si lega in voi per la cosa piacevole. Poi, come il fuoco si leva verso l'alto per la sua natura, che lo spinge a salire là dove la sua materia dura più a lungo (nella sfera del fuoco), così l'animo preso da amore nutre il desiderio, che è un movimento dello spirito, e non cessa per tutto il tempo in cui la cosa amata gli dà gioia. Ora puoi capire quanto è nascosta la verità a coloro che affermano che ogni amore è lodevole di per se stesso; poiché forse la sua materia è sempre buona, ma non lo è ogni sigillo, anche se la cera è buona (l'amore in potenza è buono, non sempre lo è in atto)». Io gli risposi: «Le tue parole e il mio ingegno smanioso di seguirti mi hanno spiegato la natura dell'amore, ma ciò mi spinge ancor più a dubitare; infatti, se l'amore ci è offerto dalla realtà esterna e l'anima non può fare a meno di esservi indotta, non è suo merito o sua colpa se agisce in modo giusto o sbagliato». E lui a me: «Io ti posso dire ciò che la ragione umana comprende; per tutto ciò che va oltre ti rimando a Beatrice, poiché ciò è argomento di fede. Ogni anima, che è separata dalla materia e al tempo stesso unita ad essa, ha raccolta in sé una specifica disposizione, la quale non è avvertita se non agisce, né è visibile se non produce i suoi effetti, come la vita nella pianta si vede attraverso le foglie verdi. Perciò l'uomo ignora da dove venga la conoscenza delle prime nozioni (assiomi) e l'amore verso i primi beni, che sono connaturati in voi come nell'ape l'attitudine a produrre il miele; e questa prima inclinazione non è degna di lode o di biasimo. Ora, perché a questa disposizione si conformino tutte le altre, è innata in voi una virtù che dà consigli (libero arbitrio), che deve dare o negare il consenso ad agire. Questo è il principio da dove nasce in voi il merito o il biasimo, a seconda che esamini e separi gli amori buoni e quelli cattivi. Coloro che ragionando andarono al fondo della questione (i filosofi) si accorsero di questa libertà innata; per questo elaborarono per il mondo la morale (etica). Dunque, anche ammettendo che ogni amore nasca in voi in modo necessario, voi avete il potere di tenerlo a freno. Beatrice chiama questa nobile virtù 'libero arbitrio', e dunque bada di ricordartene, se lei te ne dovesse parlare». La luna, quando ormai era mezzanotte passata, offuscava col suo chiarore le stelle, simile a un paiolo di rame scintillante; e percorreva il cielo in senso contrario a quello percorso dal sole quando tramonta fra Sardegna e Corsica, per chi guarda da Roma. E quell'anima nobile, per cui Pietole è più famosa di ogni città del mantovano, si era liberato del peso della spiegazione che io gli avevo imposto; dunque io, che avevo raccolto nella mia mente le idee chiare sopra quelle questioni, stavo come un uomo che vaneggia nel sonno. Ma questa mia sonnolenza fu interrotta improvvisamente da delle anime che correvano dietro le nostre spalle. E come i fiumi Ismeno e Asopo videro di notte una folla che correva furiosamente lungo il loro corso, quando i Tebani avevano bisogno di Bacco, nello stesso modo in quella Cornice chi è cavalcato da buona volontà e giusto amore curva il proprio passo (corre a grandi falcate), come io vidi fare a quelle anime. Ben presto furono presso di noi, perché tutta quella gran folla si muoveva correndo; e due di fronte agli altri gridavano piangendo: «Maria corse in fretta alla montagna; e Cesare, per sottomettere Ilerda, colpì Marsiglia e poi corse in Spagna». Gli altri dietro di loro gridavano: «In fretta, in fretta, non perdiamo tempo per scarso amore, facciamo rinverdire la grazia con l'impegno a far bene». «O gente, in cui ora un acuto fervore, forse, compensa la negligenza e l'indugio che voi per tiepido amore metteste nel fare il bene, costui (Dante) che è vivo, e certo non vi mento, vuole salire, non appena il sole tornerà a splendere; dunque diteci dov'è il passaggio più vicino». Queste furono le parole della mia guida; e uno di quelli spiriti disse: «Vieni dietro a noi e troverai il varco. Noi siamo così pieni di voglia di muoverci che non possiamo fermarci; dunque perdonaci, se ritieni che la nostra rettitudine sia scortesia. Io fui l'abate della basilica di San Zeno a Verona, sotto l'impero del buon Federico Barbarossa, del quale Milano ancora oggi si rammarica dolente. E un tale (Alberto della Scala) è già quasi morente, e ben presto rimpiangerà quel monastero, e sarà triste di aver avuto potere su di esso; perché ha posto lì come suo abate, al posto di quello che doveva svolgere l'incarico, suo figlio, menomato nel corpo e nella mente e nato male (illegittimo)». Io non so se aggiunse altro oppure tacque, tanto era già corso lontano da noi; ma sentii questo e ho voluto trascriverlo. E colui che era il mio soccorso in ogni circostanza disse: «Girati da questa parte: ecco due anime che biasimano la colpa dell'accidia». Dietro a tutti dicevano: «Il popolo per cui si aprì il Mar Rosso morì prima che il Giordano (la Palestina) vedesse i suoi eredi. E quel popolo che non sopportò gli affanni del viaggio con Anchise fino in Italia, si condannò a una vita senza gloria». Poi, quando quelle anime furono tanto lontane da noi che non si potevano più sentire, nella mia mente nacque un nuovo pensiero, dal quale ne nacquero altri e diversi; e io vaneggiai dall'uno all'altro, tanto che per stanchezza chiusi gli occhi e tramutai i miei pensieri in sogni. |