La Monarchia
È un trattato in prosa latina di argomento storico-politico, in tre libri, scritto da Dante probabilmente nel 1310-1313 in concomitanza con la discesa in Italia dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo (la datazione è incerta: secondo alcuni studiosi potrebbe risalire a dopo il 1315). La Monarchia è l'unica opera in prosa e di argomento teorico ad essere stata completata da Dante e in essa l'autore raccoglie la summa del suo pensiero politico, con numerosi punti di contatto con la Commedia e in particolare con Purgatorio e Paradiso. La scrive in latino, come il De vulgari eloquentia, perché intende rivolgersi a un pubblico di dotti non necessariamente italiano e in quanto il tema affrontato è la necessità di una monarchia universale, che unifichi sotto il suo dominio tutta l'Europa.
I libro
Dante sostiene la necessità, storica e filosofica, della monarchia universale, ovvero di un dominio politico che unifichi sotto di sé tutto il mondo cristiano: questa istituzione ha come fine principale quello di assicurare il rispetto delle leggi e, quindi, assicurare la giustizia nel mondo, condizione indispensabile affinché gli uomini raggiungano la felicità terrena col possesso delle quattro virtù cardinali. Dante individua come ostacolo a tale raggiungimento la cupidigia dei beni terreni, che distolgono l'uomo dal perseguimento della virtù, quindi attribuisce al monarca universale il compito di frenare l'avarizia degli uomini attraverso lo strumento della legge. Il monarca, inoltre, governando su tutto il mondo accentrerebbe nelle sue mani tutti i beni materiali, essendo in prima persona esente da cupidigia e liberando i popoli a lui soggetti dal rischio di tale peccato. La necessità della monarchia universale si spiega anche col bisogno, connaturato negli uomini, di un'unica guida che che li orienti alla conoscenza e alla condotta moralmente corretta, cosa che si è già storicamente verificata durante l'Impero di Augusto che assicurò al mondo romano la pace.
II libro
Ha un argomento più prettamente storico, in quanto Dante si sofferma sul carattere provvidenziale dell'Impero romano, voluto da Dio per assicurare una condizione di pace e stabilità al mondo e unificare i popoli in un'unica legge, così da preparare l'umanità alla nascita di Gesù (il tema è trattato anche nel poema, a cominciare dal Canto II dell'Inferno). Tale tesi è sostenuta da Dante non solo con prove storiche, ma anche con argomenti teologici e di fede, concludendo che a buon diritto il popolo romano ha esteso il suo dominio sul mondo intero, come (è detto implicitamente) ha fatto poi il Sacro Romano Impero che dell'Impero di Roma antica è legittimo erede.
III libro
È dedicato alla spinosa questione dei rapporti tra Chiesa e Impero, assai dibattuta al tempo di Dante e da lui affrontata anche in altre opere (principalmente nella II e III Cantica del poema). L'autore confuta entrambe le tesi che allora si contrapponevano, ovvero quella filoimperiale che sosteneva la supremazia dell'imperatore sul papa e quella filopapale, che sosteneva l'opposto e cioè che l'autorità imperiale dipendeva non da Dio bensì dal papa (era la cosiddetta teoria «del sole e della luna»). Con argomenti storici e filosofici Dante afferma che i due poteri, quello spirituale e temporale, devono essere distinti e autonomi, in quanto destinati a scopi del tutto diversi: fine dell'imperatore è di condurre gli uomini alla felicità terrena attraverso la giustizia e il rispetto delle leggi, mentre quello del papa è di condurre gli uomini alla felicità eterna attraverso il magistero della fede e l'insegnamento dei principi dottrinali. Nulla è quindi l'autorità temporale del papa, poiché non ha valore ed è da condannare la famosa donazione di Costantino che Dante riteneva autentica, mentre il potere dell'imperatore deriva non dal papa ma direttamente da Dio. I due poteri sono dunque reciprocamente autonomi e indipendenti l'uno dall'altro, anche se il sovrano deve al papa una sorta di rispettosa deferenza come riguardo alla maggiore importanza della sua carica, proprio come un figlio deve rispetto al padre.
Fortuna e dibattito critico
Nella Monarchia Dante sostiene una posizione del tutto personale e originale, che si oppone sia a quella teocratica affermata dai Guelfi e dalla Curia papale, sia a quella antipapale sostenuta dai Ghibellini che contrastava le pretese politiche del pontefice: egli distingue nettamente l'ambito temporale da quello spirituale, in ragione del duplice fine che la Provvidenza divina ha posto di fronte all'uomo, assegnando così compiti diversi e autonomi ai due vertici delle massime istituzioni politiche in Europa. Tale posizione è sostenuta da Dante anche nella Commedia, sia nel Canto XVI del Purgatorio (dove corregge lievemente le sue affermazioni esprimendo la cosiddetta teoria «dei due soli», in polemica con quella «del sole e della luna» che sostenva che l'imperatore brillava di luce riflessa e traeva la sua autorità dal papa che brillava di luce propria), sia nel Canto VI del Paradiso dove l'anima di Giustiniano contesta le posizioni dei Guelfi e dei Ghibellini d'Italia, che rispettivamente si opponevano e sostenevano le posizioni imperiali per ragioni ugualmente sbagliate.
Il trattato iniziò a circolare già negli ultimi anni della vita di Dante e suscitò varie reazioni, specie di condanna da parte della Chiesa e degli ambienti guelfi per l'affermazione (in effetti assai ardita) della totale autonomia del potere imperiale da quello del papa e, soprattutto, della distinzione dei loro rispettivi ambiti: già nel 1329 la Monarchia fu bruciata pubblicamente per ordine del cardinale Bertrando del Poggetto, e tuttavia conobbe una grande diffusione testimoniata fra l'altro dai molti manoscritti che ce l'hanno tramandata, a differenza ad esempio del De vulgari eloquentia. Dante nel'opera testimonia le sue convinzioni politiche e pronuncia una forte denuncia contro i mali del mondo proprio come fa nel poema, benché la sua visione sia da giudicare sostanzialmente utopistica: lo scrittore sogna in modo anacronistico un'Europa dominata da un solo imperatore, che estende la sua autorità politica su tutte le nazioni e al quale i sovrani nazionali si dovrebbero assoggettare, pur mantenendo il potere nei loro rispettivi Stati. È chiaramente una reazione contro il particolarismo dell'Italia comunale e le divisioni politiche che erano causa della debolezza del nostro Paese, come Dante afferma in più punti della Commedia (specie nel Canto VI del Purgatorio), e al tempo stesso anche una ferma opposizione alle pretese della monarchia francese e in particolare di Filippo il Bello, colpevole ai suoi occhi di aver imposto il trasferimento della sede papale ad Avignone e di contrastare l'autorità imperiale. Le successive vicende italiane del XIV sec. smentiranno totalmente questo disegno, senza per questo togliere importanza al tentativo compiuto da Dante di inquadrare su base teorica e filosofica il problema e senza sminuire il coraggio dimostrato nell'opporsi con fermezza alle pretese imperiali e papali, individuando una terza posizione originale e innovativa.
Il trattato iniziò a circolare già negli ultimi anni della vita di Dante e suscitò varie reazioni, specie di condanna da parte della Chiesa e degli ambienti guelfi per l'affermazione (in effetti assai ardita) della totale autonomia del potere imperiale da quello del papa e, soprattutto, della distinzione dei loro rispettivi ambiti: già nel 1329 la Monarchia fu bruciata pubblicamente per ordine del cardinale Bertrando del Poggetto, e tuttavia conobbe una grande diffusione testimoniata fra l'altro dai molti manoscritti che ce l'hanno tramandata, a differenza ad esempio del De vulgari eloquentia. Dante nel'opera testimonia le sue convinzioni politiche e pronuncia una forte denuncia contro i mali del mondo proprio come fa nel poema, benché la sua visione sia da giudicare sostanzialmente utopistica: lo scrittore sogna in modo anacronistico un'Europa dominata da un solo imperatore, che estende la sua autorità politica su tutte le nazioni e al quale i sovrani nazionali si dovrebbero assoggettare, pur mantenendo il potere nei loro rispettivi Stati. È chiaramente una reazione contro il particolarismo dell'Italia comunale e le divisioni politiche che erano causa della debolezza del nostro Paese, come Dante afferma in più punti della Commedia (specie nel Canto VI del Purgatorio), e al tempo stesso anche una ferma opposizione alle pretese della monarchia francese e in particolare di Filippo il Bello, colpevole ai suoi occhi di aver imposto il trasferimento della sede papale ad Avignone e di contrastare l'autorità imperiale. Le successive vicende italiane del XIV sec. smentiranno totalmente questo disegno, senza per questo togliere importanza al tentativo compiuto da Dante di inquadrare su base teorica e filosofica il problema e senza sminuire il coraggio dimostrato nell'opporsi con fermezza alle pretese imperiali e papali, individuando una terza posizione originale e innovativa.