Purgatorio, Canto V
D. Gabriel Rossetti, Pia de' Tolomei
"...Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti..."
"...Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch'io vo tra costor con bassa fronte"...
"...Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m'avea con la sua gemma".
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti..."
"...Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch'io vo tra costor con bassa fronte"...
"...Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m'avea con la sua gemma".
Argomento del Canto
Dante e Virgilio lasciano le anime dei pigri e raggiungono il secondo balzo dell'Antipurgatorio. Incontro con i morti per forza. Colloquio con Iacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia de' Tolomei.
È mezzogiorno di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300.
È mezzogiorno di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300.
Dante e Virgilio lasciano i pigri. Rimprovero di Virgilio (1-21)
Dante e Virgilio hanno appena lasciato le anime dei pigri nel primo balzo dell'Antipurgatorio, quando una di esse si accorge che Dante proietta un'ombra e lo addita agli altri, come un uomo vivo. Dante si volta e vede le anime che continuano a indicarlo, finché il maestro gli chiede perché si attardi nell'ascesa badando alle chiacchiere di quelle anime; lo esorta a seguirlo senza ascoltare nessuno, come una torre che resta salda nonostante i venti, perché l'uomo che si perde in troppi pensieri non raggiunge l'obiettivo che si è proposto. Dante accetta il rimprovero e segue Virgilio, col viso cosparso di rossore.
Incontro con le anime dei morti per forza (22-63)
G. Doré, I morti per forza
Intanto, lungo un ripiano roccioso trasversale alla montagna, delle anime che cantano il Miserere vengono incontro ai due poeti: quando si accorgono che Dante proietta un'ombra, emettono una esclamazione di stupore e due loro corrono incontro ai due chiedendo loro di spiegare la propria condizione. Virgilio risponde dicendo che Dante è vivo ed è in carne e ossa, e li invita a riferire il messaggio ai loro compagni in quanto ciò potrà essergli utile. Le anime corrono su per il balzo rapidissime, come stelle cadenti nel cielo notturno o lampi al calar del sole, quindi insieme agli altri penitenti raggiungono velocemente i due poeti. Virgilio raccomanda a Dante di essere breve, dato il gran numero di anime, e di limitarsi ascoltare le loro preghiere senza arrestarsi.
I penitenti seguono Dante e lo esortano a rallentare un poco, invitandolo a guardarli e dire se in vita ha mai visto qualcuno di loro. Essi, spiegano, furono tutti morti per forza e peccatori fino all'ultima ora, quando si pentirono delle loro colpe e morirono in grazia di Dio. Dante li osserva uno a uno, ma non ne riconosce nessuno; tuttavia li invita a parlare e, se potrà fare qualcosa per loro, sarà ben lieto di esaudire ogni loro richiesta in nome di quella pace di cui egli stesso è in cerca.
I penitenti seguono Dante e lo esortano a rallentare un poco, invitandolo a guardarli e dire se in vita ha mai visto qualcuno di loro. Essi, spiegano, furono tutti morti per forza e peccatori fino all'ultima ora, quando si pentirono delle loro colpe e morirono in grazia di Dio. Dante li osserva uno a uno, ma non ne riconosce nessuno; tuttavia li invita a parlare e, se potrà fare qualcosa per loro, sarà ben lieto di esaudire ogni loro richiesta in nome di quella pace di cui egli stesso è in cerca.
Colloquio con Iacopo del Cassero (64-84)
Uno degli spiriti (Iacopo del Cassero) dice che essi si fidano di Dante senza bisogno di giuramenti, quindi lo prega, se mai andrà nel paese posto tra la Romagna e il regno di Napoli (la Marca Anconetana), di pregare a sua volta i suoi conoscenti a Fano affinché essi preghino per abbreviare la sua permanenza nell'Antipurgatorio. Lui è originario di Fano, ma le ferite che lo hanno ucciso gli furono inferte in territorio padovano, dove credeva di essere al sicuro: il colpevole fu Azzo d'Este, adirato con lui ben al di là del lecito. Se lui fosse fuggito verso la Mira, sul Brenta, quando fu raggiunto dai suoi assassini ad Oriago, sarebbe ancora vivo; invece rimase impigliato nella palude e cadde a terra vedendo spargersi il suo sangue.
Colloquio con Bonconte da Montefeltro (85-129)
G. Doré, Morte di Bonconte
Un altro spirito prende la parola, augurando a Dante di raggiungere la sommità del monte e pregandolo di aiutarlo. Si presenta come Bonconte da Montefeltro, la cui vedova non si cura di lui sulla Terra, per cui il penitente va con la fronte bassa. Dante gli chiede quale circostanza fece sì che il suo corpo non fosse mai ritrovato dopo la sua morte nella battaglia di Campaldino: il penitente risponde che ai piedi del Casentino scorre un fiume di nome Archiano, che nasce in Appennino e sfocia in Arno. Qui Bonconte arrivò con la gola squarciata, a piedi e sanguinante, e prima di morire si pentì nominando Maria: una volta morto, la sua anima fu presa da un angelo, mentre un diavolo protestava perché, a causa del suo tardivo pentimento, non poteva portarlo all' Inferno. Il demone infierì però sul suo corpo: Bonconte spiega che nell'atmosfera si raccoglie l'umidità che si trasforma in pioggia a causa del freddo, per cui il diavolo usò il suo potere per scatenare una terribile tempesta che coprì di nebbia tutta la pianura e riversò una gran quantità d'acqua a terra. Il suolo non la poté assorbire tutta ed essa riempì i fossati confluendo poi nei fiumi, fino all'Arno; le acque dell'Archiano, con la sua corrente rapinosa, trascinarono via il corpo di Bonconte nell'Arno, sciogliendo il segno della croce che lui aveva fatto in punto di morte, quindi il suo cadavere fu seppellito sul fondale del fiume.
Colloquio con Pia de' Tolomei (130-136)
Appena Bonconte ha terminato di parlare, prende la parola l'anima di una penitente: costei chiede a Dante, quando sarà tornato nel mondo e si sarà riposato del suo lungo cammino, di ricordarsi di lei, Pia de' Tolomei: era nata a Siena e poi morì violentemente in Maremma, come ben sa l'uomo che l'aveva chiesta in sposa e le aveva dato l'anello nuziale.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti IV-V, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
G. Doré, Pia de' Tolomei
Il Canto inizia coi due poeti che si allontanano dal primo balzo dell'Antipurgatorio, mentre le anime dei pigri si accorgono che Dante è vivo e iniziano a indicarlo con insistenza, inducendolo a fermarsi e a guardarli. La cosa suscita il rimprovero di Virgilio al discepolo, accusato di perdere tempo ascoltando ciò che quivi si pispiglia, invece di affrettarsi a seguirlo per raggiungere la sommità del monte: il richiamo del maestro è sembrato eccessivo ad alcuni commentatori, ma esso si inserisce nel discorso sul tempo che ha occupato buona parte del Canto IV e che è fondamentale nel secondo regno, dove le anime, incluso Dante, devono compiere un percorso che richiede impegno e fatica, per cui attardarsi oziosamente è inutile e contrario al loro dovere (si è anche pensato a un riferimento alle critiche che il poeta ricevette per la sua condotta politica, in particolare per il suo rifiuto a rientrare a Firenze nel 1315, per cui l'ammonimento di Virgilio è a non badare alle chiacchiere di gente inferiore, di mantenersi saldo nei suoi propositi sapendo di essere dalla parte della ragione). Fatto sta che Dante prova vergogna per il rimprovero, in modo simile a Inf., XXX, 130-148, e si affretta a seguire il maestro fino al secondo balzo, dove incontrano la schiera delle anime dei morti per forza.
Qui la reazione dei penitenti è di stupore come quella delle altre anime già incontrate, anche se il loro atteggiamento è del tutto opposto a quello dei pigri: questi penitenti mandano subito dei «messaggeri» per chiedere notizie dei due viaggiatori, quindi tornano dai loro compagni con la notizia che Dante è vivo correndo velocissimi, come stelle cadenti che fendono il cielo notturno o lampi che squarciano il cielo estivo al tramonto. La loro concitazione segna tutto l'episodio e l'inizio del successivo, creando un forte contrasto con l'inerzia e l'immobilità di pigri: queste anime rincorrono letteralmente Dante (cui Virgilio ha raccomandato di non fermarsi e di ascoltare camminando), lo assediano, lo esortano a rallentare il passo in modo insistente (deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?). La loro preoccupazione, come per tutte le anime dell'Antipurgatorio, è di essere ricordati ai vivi perché questi, con le loro preghiere, possono abbreviare la loro attesa, cosa che vale soprattutto per loro che essendo morti violentemente e avendo peccato fino all'ultima ora potevano essere creduti all'Inferno. Dante presenta tre di queste anime, la cui rapida successione scandisce i vari momenti della seconda parte del Canto: sono tre episodi molto diversi, per il tono e la funzione narrativa che ciascuno di essi assolve e anche per estensione, dal momento che quello di Bonconte è decisamente più ampio degli altri due che gli fanno, per così dire, da cornice.
Il primo a parlare è Iacopo del Cassero, che non dice il proprio nome (la sua storia era talmente nota che l'identificazione non lasciava dubbi) e dopo aver pregato Dante di sollecitare le preghiere dei congiunti racconta la vicenda della sua uccisione. Le sue parole sono un duro atto d'accusa contro il mandante dei suoi sicari, quell'Azzo VIII d'Este già citato da Dante come uccisore del proprio padre in Inf., XII, 112 e spesso da lui esecrato come spietato tiranno; Iacopo descrive la crudezza della sua morte, che avvenne là dove credeva di essere al sicuro (in grembo a li Antenori, nel padovano), ed esprime un certo rimpianto per il fatto di essere rimasto impacciato nella palude di Oriago dove fu ferito a morte, cosa che gli impedì di essere soccorso e, forse, di sopravvivere.
Molto diverso il discorso di Bonconte da Montefeltro, che si presenta e suscita la curiosità di Dante, poiché il suo corpo non era mai stato trovato sul campo di Campaldino dove egli era caduto, nella stessa battaglia cui il poeta aveva preso parte. Il racconto di Bonconte delinea uno scenario grandioso e solenne, che riprende per contrasto (anche di toni) il racconto simile che il padre Guido aveva fatto a Dante nel Canto XXVII dell'Inferno, in quel caso credendo che le sue parole non sarebbero arrivate nel mondo. Bonconte invita invece Dante a riferire a' vivi la verità di quanto accadde a Campaldino: la sua anima venne contesa tra un angelo e un diavolo, ma l'esito di questo contrasto era stato opposto a quello narrato da Guido, in quanto Bonconte si era pentito sinceramente e dunque la sua anima era destinata al Purgatorio. A quel punto il diavolo aveva scatenato una terribile tempesta che trascinò via il cadavere di Bonconte, seppellendolo sul fondale dell'Arno e non facendolo più ritrovare: il racconto del penitente è importante e crea un voluto contrasto con l'episodio del padre Guido, poiché quello era da tutti creduto salvo per la sua monacazione e invece è finito dannato per la non sincerità del suo pentimento, mentre Bonconte si è realmente pentito e ora è salvo, anche se la sua morte violenta e la scomparsa dal cadavere potevano far credere alla sua dannazione. La salvezza di Bonconte è l'ennesimo caso di una rivelazione inattesa che sconfessa la credenza popolare su un personaggio, meno clamoroso di quello di Manfredi o di altri, ma egualmente significativo del fatto che solo Dio può leggere la bontà del pentimento nel cuore dell'uomo e nessuno, quindi, può sapere con certezza quale sarà il destino ultraterreno di un personaggio.
L'episodio si chiude con la parentesi delicatissima di Pia de' Tolomei, che prende la parola dopo la grandiosa descrizione delle potenze infernali con pochi versi di straordinaria dolcezza: la penitente è meno insistente degli altri, prega Dante di ricordarsi di lei quando sarà tornato sulla Terra ed essersi riposato de la lunga via (l'accento torna sulla fatica del cammino, che il poeta compie per purificarsi e con tutto il corpo). Gli ultimi tre versi del Canto sono come un'epigrafe funeraria, con l'indicazione del luogo di nascita e di morte della fanciulla (Siena mi fé, disfecemi Maremma, che è anche un chiasmo) e l'accusa, molto velata e in tono col personaggio, rivolta al marito di averla uccisa, senza alcuna parvenza di rancore o di biasimo. Non conosciamo la causa esatta di questo omicidio, che forse non era nota neppure a Dante, quindi è impossibile dire se Pia con le sue parole voglia protestare la sua innocenza, o scusare il marito per averla assassinata, o ancora esprimere il perdurare del suo amore per lui nonostante quel che ha fatto: non è escluso che qui, come in altri casi nel poema (Ugolino, ad es., sia pure in un contesto lontanissimo da questo) Dante voglia lasciare le cose nell'indeterminatezza, chiudendo il Canto con questa figura fragile e delicata che costituisce quasi una pausa al tono concitato dell'intero episodio (e che riprenderà all'inizio del seguente, con Dante che faticherà a liberarsi delle anime che lo assillano con una certa petulanza, rispetto alle quali Pia rappresenta una notevole eccezione).
Qui la reazione dei penitenti è di stupore come quella delle altre anime già incontrate, anche se il loro atteggiamento è del tutto opposto a quello dei pigri: questi penitenti mandano subito dei «messaggeri» per chiedere notizie dei due viaggiatori, quindi tornano dai loro compagni con la notizia che Dante è vivo correndo velocissimi, come stelle cadenti che fendono il cielo notturno o lampi che squarciano il cielo estivo al tramonto. La loro concitazione segna tutto l'episodio e l'inizio del successivo, creando un forte contrasto con l'inerzia e l'immobilità di pigri: queste anime rincorrono letteralmente Dante (cui Virgilio ha raccomandato di non fermarsi e di ascoltare camminando), lo assediano, lo esortano a rallentare il passo in modo insistente (deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?). La loro preoccupazione, come per tutte le anime dell'Antipurgatorio, è di essere ricordati ai vivi perché questi, con le loro preghiere, possono abbreviare la loro attesa, cosa che vale soprattutto per loro che essendo morti violentemente e avendo peccato fino all'ultima ora potevano essere creduti all'Inferno. Dante presenta tre di queste anime, la cui rapida successione scandisce i vari momenti della seconda parte del Canto: sono tre episodi molto diversi, per il tono e la funzione narrativa che ciascuno di essi assolve e anche per estensione, dal momento che quello di Bonconte è decisamente più ampio degli altri due che gli fanno, per così dire, da cornice.
Il primo a parlare è Iacopo del Cassero, che non dice il proprio nome (la sua storia era talmente nota che l'identificazione non lasciava dubbi) e dopo aver pregato Dante di sollecitare le preghiere dei congiunti racconta la vicenda della sua uccisione. Le sue parole sono un duro atto d'accusa contro il mandante dei suoi sicari, quell'Azzo VIII d'Este già citato da Dante come uccisore del proprio padre in Inf., XII, 112 e spesso da lui esecrato come spietato tiranno; Iacopo descrive la crudezza della sua morte, che avvenne là dove credeva di essere al sicuro (in grembo a li Antenori, nel padovano), ed esprime un certo rimpianto per il fatto di essere rimasto impacciato nella palude di Oriago dove fu ferito a morte, cosa che gli impedì di essere soccorso e, forse, di sopravvivere.
Molto diverso il discorso di Bonconte da Montefeltro, che si presenta e suscita la curiosità di Dante, poiché il suo corpo non era mai stato trovato sul campo di Campaldino dove egli era caduto, nella stessa battaglia cui il poeta aveva preso parte. Il racconto di Bonconte delinea uno scenario grandioso e solenne, che riprende per contrasto (anche di toni) il racconto simile che il padre Guido aveva fatto a Dante nel Canto XXVII dell'Inferno, in quel caso credendo che le sue parole non sarebbero arrivate nel mondo. Bonconte invita invece Dante a riferire a' vivi la verità di quanto accadde a Campaldino: la sua anima venne contesa tra un angelo e un diavolo, ma l'esito di questo contrasto era stato opposto a quello narrato da Guido, in quanto Bonconte si era pentito sinceramente e dunque la sua anima era destinata al Purgatorio. A quel punto il diavolo aveva scatenato una terribile tempesta che trascinò via il cadavere di Bonconte, seppellendolo sul fondale dell'Arno e non facendolo più ritrovare: il racconto del penitente è importante e crea un voluto contrasto con l'episodio del padre Guido, poiché quello era da tutti creduto salvo per la sua monacazione e invece è finito dannato per la non sincerità del suo pentimento, mentre Bonconte si è realmente pentito e ora è salvo, anche se la sua morte violenta e la scomparsa dal cadavere potevano far credere alla sua dannazione. La salvezza di Bonconte è l'ennesimo caso di una rivelazione inattesa che sconfessa la credenza popolare su un personaggio, meno clamoroso di quello di Manfredi o di altri, ma egualmente significativo del fatto che solo Dio può leggere la bontà del pentimento nel cuore dell'uomo e nessuno, quindi, può sapere con certezza quale sarà il destino ultraterreno di un personaggio.
L'episodio si chiude con la parentesi delicatissima di Pia de' Tolomei, che prende la parola dopo la grandiosa descrizione delle potenze infernali con pochi versi di straordinaria dolcezza: la penitente è meno insistente degli altri, prega Dante di ricordarsi di lei quando sarà tornato sulla Terra ed essersi riposato de la lunga via (l'accento torna sulla fatica del cammino, che il poeta compie per purificarsi e con tutto il corpo). Gli ultimi tre versi del Canto sono come un'epigrafe funeraria, con l'indicazione del luogo di nascita e di morte della fanciulla (Siena mi fé, disfecemi Maremma, che è anche un chiasmo) e l'accusa, molto velata e in tono col personaggio, rivolta al marito di averla uccisa, senza alcuna parvenza di rancore o di biasimo. Non conosciamo la causa esatta di questo omicidio, che forse non era nota neppure a Dante, quindi è impossibile dire se Pia con le sue parole voglia protestare la sua innocenza, o scusare il marito per averla assassinata, o ancora esprimere il perdurare del suo amore per lui nonostante quel che ha fatto: non è escluso che qui, come in altri casi nel poema (Ugolino, ad es., sia pure in un contesto lontanissimo da questo) Dante voglia lasciare le cose nell'indeterminatezza, chiudendo il Canto con questa figura fragile e delicata che costituisce quasi una pausa al tono concitato dell'intero episodio (e che riprenderà all'inizio del seguente, con Dante che faticherà a liberarsi delle anime che lo assillano con una certa petulanza, rispetto alle quali Pia rappresenta una notevole eccezione).
Note e passi controversi
Alcuni mss. al v. 14 leggono fermo, riferito a Dante e non alla torre, ma è lezione poco probabile.
Il verbo insolla (v. 18) significa «indebolisce» e deriva dall'aggettivo «sollo», debole.
In forma di messaggi (v. 28) vuol dire «in qualità di messaggeri».
L'espressione vapori accesi (v. 37) significa sia «stelle cadenti» sia «lampi»: fa da soggetto al verbo fender che ha come compl. ogg. rispettivamente sereno e nuvole d'agosto; sol calando ha valore di un ablativo assoluto latino e vuol dire «al calare del sole».
Il v. 66 significa «purché l'impossibilità non impedisca la tua buona volontà»; nonpossa è parola composta come «noncuranza».
Il paese (v. 68) che sta tra la Romagna e il regno di Napoli, governato da Carlo II d'Angiò, è la Marca Anconetana dove sorgeva Fano.
L'espressione in sul quale io sedea (v. 74) vuol dire «sul quale (sangue) io, anima, avevo la mia sede» (era opinione diffusa, nella fisiologia medievale, che l'anima umana risiedesse nel sangue.
Il territorio di Padova è detto in grembo a li Antenòri (v. 75) perché secondo un'antica leggenda Antenore aveva fondato la città veneta.
Il braco citato al v. 82 è il fango (cfr. Inf., VIII, 50: come porci in brago).
Al v. 88 Bonconte si presenta e usa due diversi tempi (fui... son), a indicare ciò che fu in vita, cioè membro della casata di Guido da Montefeltro, e ciò che continua a essere come individuo.
L'Archiano (v. 95) è un affluente di sinistra dell'Arno, che vi sfocia dopo aver attraversato la pianura del Casentino e che nasce presso l'Eremo (Ermo) di Camaldoli, in un luogo boscoso presso il Falterona, sull'Appennino. Il suo nome diventa vano (v. 97) nel punto in cui sfocia nell'Arno.
Ai vv. 100-102 alcuni editori moderni mettono una virgola dopo vista e legano la parola al verbo finì (prima persona singolare); in tal caso si dovrebbe leggere: «Qui persi la vista e le mie parole finirono col nome di Maria...». L'interpretazione è convincente, anche se il verbo finire nel senso di «morire» è ampiamente attestato nella lingua del Trecento.
L'etterno (v. 106) è l'anima di Bonconte, mentre l'altro (v. 108)è il corpo; da notare la replicazione de l'altro altro governo.
I vv. 112-113 sono stati variamente interpretati, ma il senso più probabile sembra essere questo: «quello (il demonio) unì la volontà malvagia (mal voler), che ricerca solo il male, all'intelletto...». Era opinione dei teologi che il diavolo avesse il potere di agire sugli elementi atmosferici.
Il gran giogo (v. 116) non indica forse una cima in particolare, ma l'ultimo tratto dell'Alpe di Serra (detto anche «giogana»).
Il fiume real (v. 122) è l'Arno, che nel Trecento era detto così come tutti i fiumi che sfociavano in mare.
Il v. 129 che chiude il racconto di Bonconte (poi di sua preda mi coperse e cinse) è sembrato a molti commentatori particolarmente lapidario, tanto da essere accostato alla chiusa del racconto di Ulisse (Inf., XXVI, 142): infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.
Il verbo salsi (v. 135) è forma contratta di sallosi e significa «lo sa».
Alcuni mss. leggono al v. 136 disposata, che darebbe alla frase questo senso: «colui che mi aveva sposata dopo che ero stata già inanellata», quindi in seconde nozze (di un primo matrimonio di Pia non abbiamo alcuna notizia certa); è più probabile la lezione a testo, poiché il disposare e l'inanellare erano i due atti della cerimonia religiosa, in quanto col primo si dichiarava la volontà di sposare, col secondo si poneva l'anello come segno di tale volontà.
Il verbo insolla (v. 18) significa «indebolisce» e deriva dall'aggettivo «sollo», debole.
In forma di messaggi (v. 28) vuol dire «in qualità di messaggeri».
L'espressione vapori accesi (v. 37) significa sia «stelle cadenti» sia «lampi»: fa da soggetto al verbo fender che ha come compl. ogg. rispettivamente sereno e nuvole d'agosto; sol calando ha valore di un ablativo assoluto latino e vuol dire «al calare del sole».
Il v. 66 significa «purché l'impossibilità non impedisca la tua buona volontà»; nonpossa è parola composta come «noncuranza».
Il paese (v. 68) che sta tra la Romagna e il regno di Napoli, governato da Carlo II d'Angiò, è la Marca Anconetana dove sorgeva Fano.
L'espressione in sul quale io sedea (v. 74) vuol dire «sul quale (sangue) io, anima, avevo la mia sede» (era opinione diffusa, nella fisiologia medievale, che l'anima umana risiedesse nel sangue.
Il territorio di Padova è detto in grembo a li Antenòri (v. 75) perché secondo un'antica leggenda Antenore aveva fondato la città veneta.
Il braco citato al v. 82 è il fango (cfr. Inf., VIII, 50: come porci in brago).
Al v. 88 Bonconte si presenta e usa due diversi tempi (fui... son), a indicare ciò che fu in vita, cioè membro della casata di Guido da Montefeltro, e ciò che continua a essere come individuo.
L'Archiano (v. 95) è un affluente di sinistra dell'Arno, che vi sfocia dopo aver attraversato la pianura del Casentino e che nasce presso l'Eremo (Ermo) di Camaldoli, in un luogo boscoso presso il Falterona, sull'Appennino. Il suo nome diventa vano (v. 97) nel punto in cui sfocia nell'Arno.
Ai vv. 100-102 alcuni editori moderni mettono una virgola dopo vista e legano la parola al verbo finì (prima persona singolare); in tal caso si dovrebbe leggere: «Qui persi la vista e le mie parole finirono col nome di Maria...». L'interpretazione è convincente, anche se il verbo finire nel senso di «morire» è ampiamente attestato nella lingua del Trecento.
L'etterno (v. 106) è l'anima di Bonconte, mentre l'altro (v. 108)è il corpo; da notare la replicazione de l'altro altro governo.
I vv. 112-113 sono stati variamente interpretati, ma il senso più probabile sembra essere questo: «quello (il demonio) unì la volontà malvagia (mal voler), che ricerca solo il male, all'intelletto...». Era opinione dei teologi che il diavolo avesse il potere di agire sugli elementi atmosferici.
Il gran giogo (v. 116) non indica forse una cima in particolare, ma l'ultimo tratto dell'Alpe di Serra (detto anche «giogana»).
Il fiume real (v. 122) è l'Arno, che nel Trecento era detto così come tutti i fiumi che sfociavano in mare.
Il v. 129 che chiude il racconto di Bonconte (poi di sua preda mi coperse e cinse) è sembrato a molti commentatori particolarmente lapidario, tanto da essere accostato alla chiusa del racconto di Ulisse (Inf., XXVI, 142): infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.
Il verbo salsi (v. 135) è forma contratta di sallosi e significa «lo sa».
Alcuni mss. leggono al v. 136 disposata, che darebbe alla frase questo senso: «colui che mi aveva sposata dopo che ero stata già inanellata», quindi in seconde nozze (di un primo matrimonio di Pia non abbiamo alcuna notizia certa); è più probabile la lezione a testo, poiché il disposare e l'inanellare erano i due atti della cerimonia religiosa, in quanto col primo si dichiarava la volontà di sposare, col secondo si poneva l'anello come segno di tale volontà.
TestoIo era già da quell’ombre partito,
e seguitava l’orme del mio duca, quando di retro a me, drizzando ‘l dito, 3 una gridò: «Ve’ che non par che luca lo raggio da sinistra a quel di sotto, e come vivo par che si conduca!». 6 Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per maraviglia pur me, pur me, e ‘l lume ch’era rotto. 9 «Perché l’animo tuo tanto s’impiglia», disse ‘l maestro, «che l’andare allenti? che ti fa ciò che quivi si pispiglia? 12 Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti; 15 ché sempre l’omo in cui pensier rampolla sovra pensier, da sé dilunga il segno, perché la foga l’un de l’altro insolla». 18 Che potea io ridir, se non «Io vegno»? Dissilo, alquanto del color consperso che fa l’uom di perdon talvolta degno. 21 E ‘ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi un poco, cantando ‘Miserere’ a verso a verso. 24 Quando s’accorser ch’i’ non dava loco per lo mio corpo al trapassar d’i raggi, mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco; 27 e due di loro, in forma di messaggi, corsero incontr’a noi e dimandarne: «Di vostra condizion fatene saggi». 30 E ‘l mio maestro: «Voi potete andarne e ritrarre a color che vi mandaro che ‘l corpo di costui è vera carne. 33 Se per veder la sua ombra restaro, com’io avviso, assai è lor risposto: fàccianli onore, ed essere può lor caro». 36 Vapori accesi non vid’io sì tosto di prima notte mai fender sereno, né, sol calando, nuvole d’agosto, 39 che color non tornasser suso in meno; e, giunti là, con li altri a noi dier volta come schiera che scorre sanza freno. 42 «Questa gente che preme a noi è molta, e vegnonti a pregar», disse ‘l poeta: «però pur va, e in andando ascolta». 45 «O anima che vai per esser lieta con quelle membra con le quai nascesti», venian gridando, «un poco il passo queta. 48 Guarda s’alcun di noi unqua vedesti, sì che di lui di là novella porti: deh, perché vai? deh, perché non t’arresti? 51 Noi fummo tutti già per forza morti, e peccatori infino a l’ultima ora; quivi lume del ciel ne fece accorti, 54 sì che, pentendo e perdonando, fora di vita uscimmo a Dio pacificati, che del disio di sé veder n’accora». 57 E io: «Perché ne’ vostri visi guati, non riconosco alcun; ma s’a voi piace cosa ch’io possa, spiriti ben nati, 60 voi dite, e io farò per quella pace che, dietro a’ piedi di sì fatta guida di mondo in mondo cercar mi si face». 63 E uno incominciò: «Ciascun si fida del beneficio tuo sanza giurarlo, pur che ‘l voler nonpossa non ricida. 66 Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo, ti priego, se mai vedi quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo, 69 che tu mi sie di tuoi prieghi cortese in Fano, sì che ben per me s’adori pur ch’i’ possa purgar le gravi offese. 72 Quindi fu’ io; ma li profondi fóri ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea, fatti mi fuoro in grembo a li Antenori, 75 là dov’io più sicuro esser credea: quel da Esti il fé far, che m’avea in ira assai più là che dritto non volea. 78 Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira, quando fu’ sovragiunto ad Oriaco, ancor sarei di là dove si spira. 81 Corsi al palude, e le cannucce e ‘l braco m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io de le mie vene farsi in terra laco». 84 Poi disse un altro: «Deh, se quel disio si compia che ti tragge a l’alto monte, con buona pietate aiuta il mio! 87 Io fui di Montefeltro, io son Bonconte; Giovanna o altri non ha di me cura; per ch’io vo tra costor con bassa fronte». 90 E io a lui: «Qual forza o qual ventura ti traviò sì fuor di Campaldino, che non si seppe mai tua sepultura?». 93 «Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano, che sovra l’Ermo nasce in Apennino. 96 Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano, arriva’ io forato ne la gola, fuggendo a piede e sanguinando il piano. 99 Quivi perdei la vista e la parola; nel nome di Maria fini’, e quivi caddi, e rimase la mia carne sola. 102 Io dirò vero e tu ‘l ridì tra’ vivi: l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno gridava: "O tu del ciel, perché mi privi? 105 Tu te ne porti di costui l’etterno per una lagrimetta che ‘l mi toglie; ma io farò de l’altro altro governo!". 108 Ben sai come ne l’aere si raccoglie quell’umido vapor che in acqua riede, tosto che sale dove ‘l freddo il coglie. 111 Giunse quel mal voler che pur mal chiede con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e ‘l vento per la virtù che sua natura diede. 114 Indi la valle, come ‘l dì fu spento, da Pratomagno al gran giogo coperse di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento, 117 sì che ‘l pregno aere in acqua si converse; la pioggia cadde e a’ fossati venne di lei ciò che la terra non sofferse; 120 e come ai rivi grandi si convenne, ver’ lo fiume real tanto veloce si ruinò, che nulla la ritenne. 123 Lo corpo mio gelato in su la foce trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce 126 ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse; voltòmmi per le ripe e per lo fondo, poi di sua preda mi coperse e cinse». 129 «Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato de la lunga via», seguitò ‘l terzo spirito al secondo, 132 «ricorditi di me, che son la Pia: Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma». 136 |
ParafrasiIo mi ero già allontanato da quelle anime e seguivo i passi della mia guida, quando dietro a me, drizzando il dito, una di esse gridò: «Vedete che il raggio del sole da sinistra non sembra attraversare quello che segue, che sembra proiettare un'ombra come un vivo!»
Rivolsi lo sguardo al suono di queste parole e vidi quelle anime che meravigliate guardavano me, proprio me, e la luce del sole interrotta dal mio corpo. Il maestro mi disse: «Perché il tuo animo si lascia distrarre al punto di rallentare il cammino? che t'importa di ciò che si mormora qui? Seguimi e lascia che la gente parli: sta' come una torre salda, che non ondeggia mai la sua cima per quanto i venti soffino; infatti, l'uomo in cui un pensiero ne fa nascere un altro allontana da sé la propria meta, perché la forza dell'uno indebolisce quella dell'altro». Che potevo dire, se non «Ti seguo»? Lo dissi, alquanto cosparso del rossore che talvolta fa l'uomo degno di esser perdonato. E intanto, su un ripiano roccioso che tagliava il monte trasversalmente, venivano verso di noi delle anime poco lontane, che cantavano il Salmo 'Miserere' a versetti alternati. Quando videro che io, col mio corpo, non permettevo ai raggi del sole di passare, mutarono il loro canto in un «oh!» lungo e fioco; e due loro, in qualità di messaggeri, corsero verso di noi e ci chiesero: «Informateci della vostra condizione». E il mio maestro: «Voi potete tornare indietro e riferire a quelli che vi hanno mandati qui che il corpo di costui è in carne e ossa. Se essi, come penso, si sono fermati per aver visto la sua ombra, vi ho detto abbastanza: lo accolgano cortesemente e ciò potrà tornare loro utile». Io non ho mai visto stelle cadenti fendere il cielo all'inizio della notte, né lampi squarciare le nuvole d'agosto al calar del sole, tanto rapidamente quanto quelle anime tornarono in alto; e arrivate là, corsero verso di noi con le altre come una schiera sfrenata. Virgilio disse: «Questa gente che si accalca intorno a noi è molta, ed essi vengono a pregarti: perciò continua a camminare e ascolta mentre procedi». Essi venivano gridando: «O anima che vai per essere felice, con quel corpo col quale sei nato, rallenta un poco il passo. Guarda se hai mai visto qualcuno di noi nel mondo, così che tu possa portare sue notizie sulla Terra: suvvia, perché continui a camminare? Suvvia, perché non ti fermi? Noi tutti siamo stati uccisi violentemente e siamo stati peccatori fino all'ultima ora; in punto di morte una luce del cielo ci illuminò la mente, cosicché, pentendoci e perdonando, uscimmo fuori dalla vita in grazia di Dio, il quale ci strugge nel desiderio di vederlo». E io: «Per quanto io guardi i vostri volti, non ne riconosco nessuno; ma se voi volete qualcosa che sia in mio potere, spiriti fortunati, ditelo e io lo farò, in nome di quella pace che io, seguendo i passi di questa guida, cerco nei regni dell'Oltretomba». E uno iniziò: «Ciascuno si fida della tua promessa senza bisogno di giuramenti, purché l'impossibilità (nonpossa) non impedisca la tua volontà. Perciò io, che parlo da solo davanti agli altri, ti prego, se mai andrai in quel paese (la Marca Anconetana) che sta tra la Romagna e il regno di Carlo d'Angiò, che tu preghi i miei congiunti a Fano, così che essi preghino per me e mi permettano di espiare le mie colpe. Io ero originario di Fano, ma le profonde ferite da cui uscì il sangue nel quale risiedeva la mia anima, mi furono inferte nel territorio di Padova, là dove credevo di essere al sicuro: artefice di questo fu Azzo VIII d'Este, che mi odiava assai più di quanto avesse ragione. Ma se io fossi fuggito verso il borgo della Mira, quando fui raggiunto dai miei sicari ad Oriago, sarei ancora nel mondo dei vivi. Invece corsi verso la palude, e le canne e il fango mi impacciarono al punto che caddi; e lì vidi il sangue che mi usciva dalle vene e formava un lago al suolo». Poi un altro disse: «Orsù, ti auguro che si realizzi quel desiderio che si spinge su per l'alto monte; tu con buona pietà aiuta il mio! Io fui uno di Montefeltro e mi chiamo Bonconte; né la mia vedova Giovanna né gli altri miei congiunti si curano di me, per cui io mi vergogno fra queste anime». E io a lui: «Quale forza o caso fortuito ti trascinò fuori da Campaldino, così che il tuo corpo non fu mai ritrovato?» Lui rispose: «Oh! Ai piedi del Casentino scorre un torrente chiamato Archiano, che nasce in Appennino presso l'Eremo di Camaldoli. Nel punto dove si getta in Arno e perde il suo nome, arrivai io con la gola trafitta, fuggendo a piedi e insanguinando la pianura. Qui persi la vista e la parola; morii pronunciando il nome di Maria e caddi, e rimase solo il mio corpo. Ora ti dirò la verità e tu riferiscila ai vivi: l'angelo di Dio mi prese, e quello d'Inferno gridava: "O tu del cielo, perché mi togli ciò che mi spetta? Tu porti via la parte eterna (l'anima) di costui per una lacrimetta che me la toglie; ma io riserverò ben altro trattamento al corpo!". Tu sai bene come nell'atmosfera si raccolga quel vapore umido che ridiventa acqua, non appena sale dove è più freddo. Quel diavolo unì la sua volontà malvagia, che cerca solo il male, con l'intelletto, e mosse il fumo e il vento grazie al potere che la natura gli ha concesso. Poi, appena calò il sole, coprì di nebbia tutta la pianura da Pratomagno fino alle alte vette dell'Appennino; e rese il cielo soprastante gonfio di umidità, tanto che questa si trasformò in pioggia; essa cadde e ciò che la terra non riuscì ad assorbire riempì i fossati; e quando confluì ai corsi d'acqua, si riversò verso l'Arno tanto velocemente che nulla poté arrestarla. L'Archiano rapinoso trovò il mio corpo morto sulla foce e lo spinse nell'Arno, sciogliendo la croce che avevo fatto sul mio petto con le braccia quando fui giunto alla fine; mi fece rotolare per le rive e sul fondale, poi mi seppellì coi detriti che aveva trascinato». «Orsù, quando sarai tornato sulla Terra e avrai riposato per il lungo cammino», proseguì un terzo spirito dopo il secondo, «ricordati di me, che sono Pia (de' Tolomei); nacqui a Siena e fui uccisa in Maremma; lo sa bene colui che, dopo avermi chiesto in sposa, mi aveva dato l'anello nuziale». |