Paradiso, Canto XXII
P. Perugino, San Benedetto (XV sec.)
"...Questi altri fuochi tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere fiori e frutti santi..."
"...Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria..."
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante...
uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere fiori e frutti santi..."
"...Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria..."
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante...
Argomento del Canto
Ancora nel VII Cielo di Saturno. Beatrice spiega la ragione del grido degli spiriti contemplanti; incontro con san Benedetto da Norcia. Rampogna contro i Benedettini degeneri. Ascesa al Cielo delle Stelle Fisse e invocazione alla costellazione dei Gemelli. Dante guarda il cammino percorso.
È mezzogiorno di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È mezzogiorno di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Beatrice spiega la ragione del grido (1-21)
J. Flaxman, La vendetta di Dio
Dante, pieno di stupore per il grido degli spiriti contemplanti dopo le parole di Pier Damiani, si volge a Beatrice che gli parla come una madre che consola il figlio, ricordando al poeta che si trova in Cielo e che lì ogni cosa nasce da giusto zelo. Se Dante avesse compreso fino in fondo il grido sarebbe stato incenerito, proprio come nel caso in cui avesse ascoltato il canto dei beati o visto il sorriso della donna; il grido ha preannunciato la vendetta divina contro la corruzione della Chiesa, che giungerà a tempo debito nonostante l'attesa o il timore degli uomini sulla Terra. A questo punto Beatrice invita Dante a rivolgere la sua attenzione agli altri spiriti che stanno per mostrarsi a lui.
Incontro con san Benedetto (22-51)
L. Signorelli, Predicazione di S. Benedetto
Dante obbedisce alla sua guida e vede moltissime sfere luminose che si fanno luce l'una con l'altra, desiderando con ansia di parlare ma trattenendosi per timore di essere molesto. La più grande e più luminosa delle luci si fa avanti lungo la scala d'oro e si rivolge al poeta, dichiarando di voler rispondere agli interrogativi che legge nella sua mente per non trattenerlo a lungo e non frenarlo nel suo cammino verso l'Empireo. L'anima (san Benedetto da Norcia) si presenta come colui che convertì alla fede cristiana i pagani che frequentavano il tempio di Montecassino, rifulgendo di tanta grazia che diffuse in seguito il messaggio evangelico anche nei villaggi circostanti. Il beato spiega che anche tutte le altre anime di questo Cielo furono in vita spiriti contemplanti e fra essi vi sono Macario e Romualdo, nonché i frati benedettini che sono stati fedeli al loro monastero durante la vita terrena.
Richiesta prematura di Dante (52-72)
Dante si rivolge al beato e afferma che l'affetto dimostrato dallo spirito verso di lui e l'ardore di carità che vede nel suo splendore e in quello delle altre anime hanno dilatato la sua fiducia, come la rosa si spande alla luce del sole, quindi osa chiedere se è possibile per lui vedere l'immagine reale dello spirito avvolto dalla luce. La risposta di san Benedetto è perentoria: tale desiderio potrà essere soddisfatto solo nell'Empireo, dove sono adempiuti i desideri di tutti i beati, poiché quello è il solo Cielo ad essere immobile e la scala d'oro degli spiriti contemplanti si innalza fino ad esso. Essa è la stessa scala vista in sogno da Giacobbe, lungo la quale salivano e scendevano gli angeli.
Condanna dei Benedettini degeneri (73-96)
La Regola di san Benedetto
San Benedetto dichiara che al giorno d'oggi nessuno si stacca da terra per salire quella scala (nessuno cioè si innalza a pensieri contemplativi) e la sua Regola serve solo a sciupare le carte su cui è scritta. Infatti i monasteri benedettini, un tempo pieni di anime sante, sono ora diventanti delle spelonche e le tonache dei frati sono sacchi pieni di farina guasta. Tuttavia la più grave usura non offende Dio tanto quanto l'avidità dei monaci che si impadroniscono delle decime, destinate in realtà a sfamare i poveri e non i parenti degli ecclesiastici o, peggio ancora, le loro concubine. La carne dei mortali è debole e soggetta a mille tentazioni; san Pietro fondò la Chiesa in assoluta povertà, Benedetto fondò il suo Ordine con la preghiera e il digiuno, mentre Francesco fece altrettanto con umiltà, ma se si guarda alla decadenza dei costumi si vedrà il bianco diventato scuro. La punizione di Dio comunque non tarderà, e sarà meno sorprendente del Giordano volto a ritroso o del Mar Rosso apertosi per far passare il popolo ebraico.
Ascesa al Cielo delle Stelle Fisse. La costellazione dei Gemelli (97-123)
Al termine delle sue parole san Benedetto si raccoglie con le altre anime e tutte insieme salgono verso la parte alta della scala d'oro, mentre Beatrice spinge Dante dietro di loro con un solo cenno e il poeta inizia l'ascesa vincendo la sua natura corporea. Con un movimento velocissimo, al punto che il lettore metterebbe il dito nel fuoco e lo ritrarrebbe in un tempo maggiore, Dante si ritrova nel Cielo delle Stelle Fisse, al cospetto della costellazione dei Gemelli. Dante a questo punto scioglie un inno a quelle stelle cui deve tutto il suo ingegno poetico, poiché è nato sotto il loro segno ed è entrato nell'VIII Cielo trovandosi proprio nella loro regione celeste. Dante invoca l'assistenza della costellazione per affrontare il difficile passaggio che lo attende, ovvero la descrizione dalla parte finale del Paradiso.
Dante guarda il cammino percorso (124-154)
Il sistema solare secondo Tolomeo
Beatrice informa Dante che ormai è vicino a Dio e deve quindi deve aguzzare il suo sguardo, ma prima lo invita a rivolgere gli occhi in basso e osservare quanto tratto di Cielo ha percorso grazie alla sua guida, in modo da acquistare gioia prima di incontrare la prossima schiera di beati. Dante obbedisce e guarda i sette Cieli che ha superato e che circondano la Terra, un minuscolo globo dall'aspetto insignificante; ben fa, secondo il poeta, chi lo considera di poco valore e volge i suoi desideri a obiettivi più alti. Dante vede la Luna brillante e priva delle macchie che aveva attribuito erroneamente alla maggiore o minore densità dell'astro; vede il Sole e vede ruotare nelle orbite vicine Mercurio e Venere; vede Giove dall'aspetto temperato tra Marte e Saturno, comprendendo appieno il variare della loro posizione astronomica, mentre valuta la dimensione e la velocità di tutti i corpi celesti. Dante ruota insieme alla costellazione dei Gemelli e vede tutta quanta la Terra, quindi torna a fissare lo sguardo di Beatrice.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti XVII-XXII, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde all'incontro con san Benedetto e alla critica della corruzione dei Benedettini, la seconda all'ascesa al Cielo delle Stelle Fisse e alla raffigurazione del cammino compiuto, nell'attesa dell'arrivo di una nuova schiera di beati e del trionfo di Cristo che sarà al centro del Canto successivo. L'episodio si apre con la spiegazione di Beatrice circa il grido dei beati che ha chiuso il Canto XXI, simile a un tuono che ha atterrito Dante, il quale si rivolge alla sua guida come farebbe un bambino con la madre (immagine che tante volte ricorre nel poema, come si è visto e si vedrà in seguito): la donna preannuncia la prossima punizione divina, che Dante già conoscerebbe se avesse potuto comprendere il grido, mentre ciò gli è stato precluso per la stessa ragione per cui nel Canto precedente lei non gli ha sorriso e cioè per la sua incapacità di mortale a sostenerne il fulgore. La profezia preannuncia quella che sarà nelle parole di san Benedetto, il protagonista della prima parte del Canto e che sarà autore di una dura invettiva contro la degenerazione del proprio Ordine, almeno in parte simile a quelle contro Francescani e Domenicani dei Canti XI-XII: la differenza è che qui la rampogna è messa in bocca allo stesso fondatore dell'Ordine, che si presenta a Dante in prima persona senza ricorrere a un panegirico affidato a suoi seguaci, come nel caso di san Francesco e san Domenico (assai minore, naturalmente, è lo spazio riservato al fondatore del monachesimo occidentale). Dopo la consueta esitazione di Dante che teme di parlare per non risultare fastidioso e le rassicurazioni del beato, che risponde ai suoi interrogativi per non rallentare la sua ascesa verso la visione di Dio, è san Benedetto a presentarsi senza fare direttamente il proprio nome e dichiarando di essere colui che convertì i pagani di Montecassino, costruendo sulla montagna il monastero che sarebbe diventato il cuore del movimento benedettino. La biografia del santo è praticamente concentrata in quest'unico episodio, particolamente indicativo del duplice aspetto del monachesimo da lui fondato e cioè della commistione di preghiera e azione: Benedetto non è rimasto chiuso nel convento a meditare, benché sia incluso fra gli spiriti contemplanti come gli altri che indica a Dante (tra cui spiccano Macario e Romualdo, e del primo si hanno notizie assai incerte), ma si è prodigato per diffondere la parola di Cristo nel mondo, dando esempio di quella Regola dell'ora et labora che è emblematica della vita dei Benedettini. Da qui alla critica contro la corruzione diffusasi nel Due-Trecento fra i monaci di quell'Ordine il passo è obbligato, anche se prima di iniziare la sua rampogna il santo deve rispondere alla prematura richiesta di Dante che vorrebbe vederlo col suo reale aspetto, ciò che sarà possibile solo nell'Empireo; si è molto discusso sul significato di tale insolita richiesta, specie in quanto rivolta a un'anima con cui Dante non aveva rapporti diretti (perché non all'amico Carlo Martello o all'avo Cacciaguida, ad esempio?), anche se probabilmente ciò è dovuto al fatto che Benedetto è l'ultimo beato incontrato da Dante prima dell'ascesa all'VIII Cielo, allorché si entrerà nella parte finale della Cantica destinata a chiudersi con la visione di Dio. Il santo ne trae spunto per spiegare che la scala d'oro del VII Cielo termina proprio nell'Empireo dove ogni desiderio si compie, mentre i Benedettini del presente non la salgono più per raggiungere Dio ma sono presi da ben altri appetiti, inseguendo le ricchezze materiali e sfruttando ogni occasione per guadagni illeciti. La critica di Benedetto è molto dura e usa termini espliciti per condannare l'avidità dei suoi seguaci, affermando che i monasteri sono diventati spelonche, che le tonache fratesche sono sacchi pieni di farina andata a male (entrambe le immagini sono di derivazione biblica), che i frati si impossessano delle decime per soddisfare i piaceri della carne e favorire i loro parenti, quando non anche le loro (o i loro) amanti. L'invettiva prosegue e completa quella di Pier Damiani contro il lusso dei prelati e anticipa quella ben più dura di san Pietro del Canto XXVII, chiamando in causa proprio il primo papa che costruì la Chiesa sull'ideale di povertà come Francesco d'Assisi, mentre oggi la bramosia di oro e argento ha corrotto la vita ecclesiastica; il preannuncio di un imprecisato futuro castigo fa il paio con il grido dei beati che chiudeva il Canto XXI, corredato questo di immagini bibliche (i prodigi del Giordano e del Mar Rosso, quando la natura venne alterata per volontà divina) e dando un carattere di sacralità alle parole del beato, che infatti viene subito circondato dagli altri spiriti insieme ai quali sale rapido lungo la scala verso l'alto, imitato da Dante che viene spinto a seguirli dal cenno sollecito di Beatrice e si muove veloce vincendo la propria materialità.
L'ascesa al Cielo delle Stelle Fisse avviene quindi in modo cosciente per il poeta, diversamente da quanto è accaduto negli altri Cieli, e prelude a un innalzamento della materia allorché si entra nella parte più alta del Paradiso, dove si affronteranno delicati temi dottrinali e ci si preparerà alla visione di Dio: questo passaggio è sottolineato prima dall'invocazione alla costellazione dei Gemelli, cui Dante riconosce il merito di aver acquisito la predisposizione all'ingegno letterario (secondo la consueta credenza negli influssi astrali) e da cui invoca l'assistenza per affrontare il passo forte che sarà da intendere non come la morte fisica, bensì come l'ultima e più impegnativa parte della Cantica, poi dalla riflessione sul cammino compiuto che avviene tramite il grandioso spettacolo dei sette pianeti che Dante vede sotto di sé, descritti come parte di un meraviglioso scenario. Al centro del sistema solare sta la Terra, vista come un minuscolo globo insignificante e derisa nella sua piccolezza, specie perché invasa da quelle brame materiali che Benedetto ha biasimato poco prima: essa è l'aiuola che ci fa tanto feroci, dalla quale Dante è ora lontanissimo e preso nella descrizione del sistema tolemaico in cui ogni astro è parte di un ingranaggio perfetto e che gli si mostra qui in tutti i suoi minimi particolari. Il Canto si chiude con un'atmosfera di attesa che sarà sottolineata all'inizio del seguente dall'atteggiamento di Beatrice, che attenderà ansiosa l'arrivo dei nuovi beati e di Cristo: gli ultimi undici Canti del Paradiso, esattamente un terzo del totale, saranno dedicati all'incontro con le anime dei santi fondatori della Chiesa che lo sottoporranno all'esame sul possesso delle virtù teologali, prima dell'ascesa ai Cieli successivi dove verrano mostrati i cori angelici e la candida rosa dei beati, operazioni preliminari allo spettacolo della visione di Dio che chiuderà con una sorta di crescendo il poema cui, secondo Dante, avevano posto mano sia il Cielo sia la Terra.
L'ascesa al Cielo delle Stelle Fisse avviene quindi in modo cosciente per il poeta, diversamente da quanto è accaduto negli altri Cieli, e prelude a un innalzamento della materia allorché si entra nella parte più alta del Paradiso, dove si affronteranno delicati temi dottrinali e ci si preparerà alla visione di Dio: questo passaggio è sottolineato prima dall'invocazione alla costellazione dei Gemelli, cui Dante riconosce il merito di aver acquisito la predisposizione all'ingegno letterario (secondo la consueta credenza negli influssi astrali) e da cui invoca l'assistenza per affrontare il passo forte che sarà da intendere non come la morte fisica, bensì come l'ultima e più impegnativa parte della Cantica, poi dalla riflessione sul cammino compiuto che avviene tramite il grandioso spettacolo dei sette pianeti che Dante vede sotto di sé, descritti come parte di un meraviglioso scenario. Al centro del sistema solare sta la Terra, vista come un minuscolo globo insignificante e derisa nella sua piccolezza, specie perché invasa da quelle brame materiali che Benedetto ha biasimato poco prima: essa è l'aiuola che ci fa tanto feroci, dalla quale Dante è ora lontanissimo e preso nella descrizione del sistema tolemaico in cui ogni astro è parte di un ingranaggio perfetto e che gli si mostra qui in tutti i suoi minimi particolari. Il Canto si chiude con un'atmosfera di attesa che sarà sottolineata all'inizio del seguente dall'atteggiamento di Beatrice, che attenderà ansiosa l'arrivo dei nuovi beati e di Cristo: gli ultimi undici Canti del Paradiso, esattamente un terzo del totale, saranno dedicati all'incontro con le anime dei santi fondatori della Chiesa che lo sottoporranno all'esame sul possesso delle virtù teologali, prima dell'ascesa ai Cieli successivi dove verrano mostrati i cori angelici e la candida rosa dei beati, operazioni preliminari allo spettacolo della visione di Dio che chiuderà con una sorta di crescendo il poema cui, secondo Dante, avevano posto mano sia il Cielo sia la Terra.
Note e passi controversi
La vendetta preannunciata da Beatrice ai vv. 14-15 e che Dante vedrà prima di morire è stata interpretata come la morte di Bonifacio VIII o di Clemente V, anche se più probabilmente si tratta di una profezia indeterminata come altre nel poema (inclusa quella successiva di san Benedetto circa la corruzione del proprio Ordine).
Il vb. redui (v. 21) deriva da ridure, dal lat. riducere e significa «ricondurre».
Al v. 28 luculenta vuol dire «luminosa», come in Par., IX, 37.
L'alto fine (v. 35) è la conclusione del viaggio dantesco, la visione di Dio.
La gente ingannata e mal disposta sono i pagani, che adoravano Apollo in un tempio sulla montagna presso Cassino; Benedetto distrusse il tempio e costruì una chiesetta dedicata alla Vergine, dove poi sorse il monastero (la fonte è Gregorio Magno, Dial., II, 2 ss.).
Il caldo / che fa nascere i fiori e i frutti santi (vv. 47-48) è l'ardore di carità; in XVIII, 28-30 Cacciaguida descrive il Paradiso come un albero che riceve vita dall'alto e che fruttifica sempre senza perdere mai le foglie.
Ai vv. 50-51 Benedetto allude ai monaci del suo Ordine che rimasero fedeli alla Regola e non si allontanarono dal chiostro, giacché la stabilitas era il voto principale del Benedettini (molti vagavano di convento in convento e si mescolavano alla vita mondana, talvolta divenendo apostati).
L'ultima spera (v. 62) è l'Empireo; ai vv. 65-67 il santo spiega che il X Cielo è il solo a non ruotare (in quella sola / è ogne parte là ove sempr'era), in quanto non si estende nello spazio fisico (non è in loco) e non ha i poli (non s'impola) come gli altri cieli rotanti. Il vb. «impolarsi» è neologismo dantesco.
I vv. 70-72 alludono al sogno di Giacobbe di Gen., XXVIII, 12, dove è descritta una scala che si estende sino al Cielo e lungo la quale salgono e scendono gli angeli.
Le spelonche del v. 77 alludono a Matth., XXI, 13: domus mea domus orationis vocabitur; vos autem fecistis illam speluncam latronum («la mia casa sarà detta casa della preghiera, mentre voi l'avete trasformata in una spelonca di ladroni»), dove si narra l'episodio di Gesù che caccia i mercanti dal Tempio.
Al v. 77 le cocolle sono le tonache dei frati (cfr. IX, 78).
Al v. 79 si tolle vuol dire probabilmente «si erge», nel senso si levarsi contro la volontà di Dio, quindi la più grave usura non offende Dio tanto quanto l'avidità dei monaci che si impadroniscono per avidità delle decime (il frutto dei monasteri). L'altro più brutto (v. 83) è un'allusione alle concubine dei monaci corrotti.
I vv. 85-87 intendono dire che la carne degli uomini è così debole, che sulla Terra ogni buon inizio non dura (basta) molto tempo; l'espressione dal nascer de la quercia al far la ghianda non è chiarissima, ma forse è un modo di dire equivalente al nostro «dalla sera alla mattina».
I vv. 94-96 alludono ai passi biblici in cui il Mar Rosso si aprì per consentire il passaggio di Mosè e del popolo ebraico (Exod., XIV, 21-29) e il fiume Giordano arrestò il suo corso superiore per restare in secca e permettere il passaggio di Giosuè (Ios., III, 14-17; Ps., CXIII, 3, dove si dice che il fiume si volse all'indietro). Dante vuol dire che tali prodigi furono più sorprendenti del futuro intervento divino per punire i monaci corrotti.
Ai vv. 106-107 divoto / triunfo indica la beatitudine celeste.
I vv. 109-111 indicano che Dante salì all'VIII Cielo con movimento rapidissimo, più veloce del mettere il dito nel fuoco e ritrarlo: tratto e messo è un esempio di hysteron proteron, ovvero una figura retorica in cui due azioni susseguenti sono invertite. Il segno / che segue il Tauro è la costellazione dei Gemelli, al cui cospetto Dante si ritrova una volta nel Cielo delle Stelle Fisse.
Dante era nato tra maggio e giugno del 1265, sotto il segno zodiacale dei Gemelli, e tale costellazione emanava un influsso (così almeno si credeva nel Medioevo) che inclinava all'ingegno poetico e letterario: cfr. Inf., XV, 55-56, quando Brunetto Latini aveva parlato della stella di Dante che lo avrebbe condotto a glorioso porto.
Il passo forte (v. 123) per il quale Dante invoca l'assistenza della costellazione dei Gemelli non è la morte terrena, bensì l'ultima parte del Paradiso e la visione divina che il poeta dovrà descrivere; qui c'è una sorta di piccolo proemio che introduce ai Canti finali della Cantica.
Al v. 127 t'inlei («entri in lei») è neologismo dantesco, come s'inluia (IX, 73).
Al v. 132 etera tondo indica l'VIII Cielo, dall'acc. lat., aethera (cfr. le forme Flegetonta, orizzonta, ecc.).
La figlia di Latona (v. 139) è la Luna, luminosa e priva delle macchie oggetto dei dubbi di Dante (cfr. II, 49 ss.).
Gli altri pianeti sono indicati con varie perifrasi: il Sole è il figlio di Iperione (v. 142), la cui luce Dante è in grado di fissare; Mercurio e Venere sono indicati attraverso i nomi di Maia e Dione, le rispettive madri secondo il mito; Saturno e Marte sono detti rispettivamente padre e figlio di Giove, il cui aspetto è temperato fra la freddezza del primo e il calore acceso del secondo (cfr. Conv., II, 13).
L'aiuola (v. 151) è la Terra emersa, detta così per la sua piccolezza e perché contesa dagli uomini con ferocia: l'immagine deriva forse da Boezio, Cons. Phil., II, pr. 7 (ma anche Dante in Mon., III, 15 parla di areola ista mortalium).
Il v. 153 è stato variamente interpretato, ma forse indica solamente che Dante vide la Terra emersa nella sua interezza.
Il vb. redui (v. 21) deriva da ridure, dal lat. riducere e significa «ricondurre».
Al v. 28 luculenta vuol dire «luminosa», come in Par., IX, 37.
L'alto fine (v. 35) è la conclusione del viaggio dantesco, la visione di Dio.
La gente ingannata e mal disposta sono i pagani, che adoravano Apollo in un tempio sulla montagna presso Cassino; Benedetto distrusse il tempio e costruì una chiesetta dedicata alla Vergine, dove poi sorse il monastero (la fonte è Gregorio Magno, Dial., II, 2 ss.).
Il caldo / che fa nascere i fiori e i frutti santi (vv. 47-48) è l'ardore di carità; in XVIII, 28-30 Cacciaguida descrive il Paradiso come un albero che riceve vita dall'alto e che fruttifica sempre senza perdere mai le foglie.
Ai vv. 50-51 Benedetto allude ai monaci del suo Ordine che rimasero fedeli alla Regola e non si allontanarono dal chiostro, giacché la stabilitas era il voto principale del Benedettini (molti vagavano di convento in convento e si mescolavano alla vita mondana, talvolta divenendo apostati).
L'ultima spera (v. 62) è l'Empireo; ai vv. 65-67 il santo spiega che il X Cielo è il solo a non ruotare (in quella sola / è ogne parte là ove sempr'era), in quanto non si estende nello spazio fisico (non è in loco) e non ha i poli (non s'impola) come gli altri cieli rotanti. Il vb. «impolarsi» è neologismo dantesco.
I vv. 70-72 alludono al sogno di Giacobbe di Gen., XXVIII, 12, dove è descritta una scala che si estende sino al Cielo e lungo la quale salgono e scendono gli angeli.
Le spelonche del v. 77 alludono a Matth., XXI, 13: domus mea domus orationis vocabitur; vos autem fecistis illam speluncam latronum («la mia casa sarà detta casa della preghiera, mentre voi l'avete trasformata in una spelonca di ladroni»), dove si narra l'episodio di Gesù che caccia i mercanti dal Tempio.
Al v. 77 le cocolle sono le tonache dei frati (cfr. IX, 78).
Al v. 79 si tolle vuol dire probabilmente «si erge», nel senso si levarsi contro la volontà di Dio, quindi la più grave usura non offende Dio tanto quanto l'avidità dei monaci che si impadroniscono per avidità delle decime (il frutto dei monasteri). L'altro più brutto (v. 83) è un'allusione alle concubine dei monaci corrotti.
I vv. 85-87 intendono dire che la carne degli uomini è così debole, che sulla Terra ogni buon inizio non dura (basta) molto tempo; l'espressione dal nascer de la quercia al far la ghianda non è chiarissima, ma forse è un modo di dire equivalente al nostro «dalla sera alla mattina».
I vv. 94-96 alludono ai passi biblici in cui il Mar Rosso si aprì per consentire il passaggio di Mosè e del popolo ebraico (Exod., XIV, 21-29) e il fiume Giordano arrestò il suo corso superiore per restare in secca e permettere il passaggio di Giosuè (Ios., III, 14-17; Ps., CXIII, 3, dove si dice che il fiume si volse all'indietro). Dante vuol dire che tali prodigi furono più sorprendenti del futuro intervento divino per punire i monaci corrotti.
Ai vv. 106-107 divoto / triunfo indica la beatitudine celeste.
I vv. 109-111 indicano che Dante salì all'VIII Cielo con movimento rapidissimo, più veloce del mettere il dito nel fuoco e ritrarlo: tratto e messo è un esempio di hysteron proteron, ovvero una figura retorica in cui due azioni susseguenti sono invertite. Il segno / che segue il Tauro è la costellazione dei Gemelli, al cui cospetto Dante si ritrova una volta nel Cielo delle Stelle Fisse.
Dante era nato tra maggio e giugno del 1265, sotto il segno zodiacale dei Gemelli, e tale costellazione emanava un influsso (così almeno si credeva nel Medioevo) che inclinava all'ingegno poetico e letterario: cfr. Inf., XV, 55-56, quando Brunetto Latini aveva parlato della stella di Dante che lo avrebbe condotto a glorioso porto.
Il passo forte (v. 123) per il quale Dante invoca l'assistenza della costellazione dei Gemelli non è la morte terrena, bensì l'ultima parte del Paradiso e la visione divina che il poeta dovrà descrivere; qui c'è una sorta di piccolo proemio che introduce ai Canti finali della Cantica.
Al v. 127 t'inlei («entri in lei») è neologismo dantesco, come s'inluia (IX, 73).
Al v. 132 etera tondo indica l'VIII Cielo, dall'acc. lat., aethera (cfr. le forme Flegetonta, orizzonta, ecc.).
La figlia di Latona (v. 139) è la Luna, luminosa e priva delle macchie oggetto dei dubbi di Dante (cfr. II, 49 ss.).
Gli altri pianeti sono indicati con varie perifrasi: il Sole è il figlio di Iperione (v. 142), la cui luce Dante è in grado di fissare; Mercurio e Venere sono indicati attraverso i nomi di Maia e Dione, le rispettive madri secondo il mito; Saturno e Marte sono detti rispettivamente padre e figlio di Giove, il cui aspetto è temperato fra la freddezza del primo e il calore acceso del secondo (cfr. Conv., II, 13).
L'aiuola (v. 151) è la Terra emersa, detta così per la sua piccolezza e perché contesa dagli uomini con ferocia: l'immagine deriva forse da Boezio, Cons. Phil., II, pr. 7 (ma anche Dante in Mon., III, 15 parla di areola ista mortalium).
Il v. 153 è stato variamente interpretato, ma forse indica solamente che Dante vide la Terra emersa nella sua interezza.
TestoOppresso di
stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre sempre colà dove più si confida; 3 e quella, come madre che soccorre sùbito al figlio palido e anelo con la sua voce, che ‘l suol ben disporre, 6 mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo? e non sai tu che ‘l cielo è tutto santo, e ciò che ci si fa vien da buon zelo? 9 Come t’avrebbe trasmutato il canto, e io ridendo, mo pensar lo puoi, poscia che ‘l grido t’ha mosso cotanto; 12 nel qual, se ‘nteso avessi i prieghi suoi, già ti sarebbe nota la vendetta che tu vedrai innanzi che tu muoi. 15 La spada di qua sù non taglia in fretta né tardo, ma’ ch’al parer di colui che disiando o temendo l’aspetta. 18 Ma rivolgiti omai inverso altrui; ch’assai illustri spiriti vedrai, se com’io dico l’aspetto redui». 21 Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che ‘nsieme più s’abbellivan con mutui rai. 24 Io stava come quei che ‘n sé repreme la punta del disio, e non s’attenta di domandar, sì del troppo si teme; 27 e la maggiore e la più luculenta di quelle margherite innanzi fessi, per far di sé la mia voglia contenta. 30 Poi dentro a lei udi’ : «Se tu vedessi com’io la carità che tra noi arde, li tuoi concetti sarebbero espressi. 33 Ma perché tu, aspettando, non tarde a l’alto fine, io ti farò risposta pur al pensier, da che sì ti riguarde. 36 Quel monte a cui Cassino è ne la costa fu frequentato già in su la cima da la gente ingannata e mal disposta; 39 e quel son io che sù vi portai prima lo nome di colui che ‘n terra addusse la verità che tanto ci soblima; 42 e tanta grazia sopra me relusse, ch’io ritrassi le ville circunstanti da l’empio cólto che ‘l mondo sedusse. 45 Questi altri fuochi tutti contemplanti uomini fuoro, accesi di quel caldo che fa nascere i fiori e ‘ frutti santi. 48 Qui è Maccario, qui è Romoaldo, qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo». 51 E io a lui: «L’affetto che dimostri meco parlando, e la buona sembianza ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri, 54 così m’ha dilatata mia fidanza, come ‘l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant’ell’ha di possanza. 57 Però ti priego, e tu, padre, m’accerta s’io posso prender tanta grazia, ch’io ti veggia con imagine scoverta». 60 Ond’elli: «Frate, il tuo alto disio s’adempierà in su l’ultima spera, ove s’adempion tutti li altri e ‘l mio. 63 Ivi è perfetta, matura e intera ciascuna disianza; in quella sola è ogne parte là ove sempr’era, 66 perché non è in loco e non s’impola; e nostra scala infino ad essa varca, onde così dal viso ti s’invola. 69 Infin là sù la vide il patriarca Iacobbe porger la superna parte, quando li apparve d’angeli sì carca. 72 Ma, per salirla, mo nessun diparte da terra i piedi, e la regola mia rimasa è per danno de le carte. 75 Le mura che solieno esser badia fatte sono spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria. 78 Ma grave usura tanto non si tolle contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto che fa il cor de’ monaci sì folle; 81 ché quantunque la Chiesa guarda, tutto è de la gente che per Dio dimanda; non di parenti né d’altro più brutto. 84 La carne d’i mortali è tanto blanda, che giù non basta buon cominciamento dal nascer de la quercia al far la ghianda. 87 Pier cominciò sanz’oro e sanz’argento, e io con orazione e con digiuno, e Francesco umilmente il suo convento; 90 e se guardi ’l principio di ciascuno, poscia riguardi là dov’è trascorso, tu vederai del bianco fatto bruno. 93 Veramente Iordan vòlto retrorso più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder che qui ’l soccorso». 96 Così mi disse, e indi si raccolse al suo collegio, e ’l collegio si strinse; poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse. 99 La dolce donna dietro a lor mi pinse con un sol cenno su per quella scala, sì sua virtù la mia natura vinse; 102 né mai qua giù dove si monta e cala naturalmente, fu sì ratto moto ch’agguagliar si potesse a la mia ala. 105 S’io torni mai, lettore, a quel divoto triunfo per lo quale io piango spesso le mie peccata e ‘l petto mi percuoto, 108 tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quant’io vidi ‘l segno che segue il Tauro e fui dentro da esso. 111 O gloriose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, 114 con voi nasceva e s’ascondeva vosco quelli ch’è padre d’ogne mortal vita, quand’io senti’ di prima l’aere tosco; 117 e poi, quando mi fu grazia largita d’entrar ne l’alta rota che vi gira, la vostra region mi fu sortita. 120 A voi divotamente ora sospira l’anima mia, per acquistar virtute al passo forte che a sé la tira. 123 «Tu se’ sì presso a l’ultima salute», cominciò Beatrice, «che tu dei aver le luci tue chiare e acute; 126 e però, prima che tu più t’inlei, rimira in giù, e vedi quanto mondo sotto li piedi già esser ti fei; 129 sì che ‘l tuo cor, quantunque può, giocondo s’appresenti a la turba triunfante che lieta vien per questo etera tondo». 132 Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante; 135 e quel consiglio per migliore approbo che l’ha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo. 138 Vidi la figlia di Latona incensa sanza quell’ombra che mi fu cagione per che già la credetti rara e densa. 141 L’aspetto del tuo nato, Iperione, quivi sostenni, e vidi com’si move circa e vicino a lui Maia e Dione. 144 Quindi m’apparve il temperar di Giove tra ‘l padre e ‘l figlio: e quindi mi fu chiaro il variar che fanno di lor dove; 147 e tutti e sette mi si dimostraro quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo. 150 L’aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom’io con li etterni Gemelli, tutta m’apparve da’ colli a le foci; poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. 154 |
ParafrasiSopraffatto dallo stupore, mi rivolsi alla mia guida (Beatrice) come un bambino che corre da colei (la madre) in cui confida di più;
e Beatrice, come una madre che viene in aiuto del figlio pallido e anelante con la sua voce, che solitamente riesce a consolarlo, mi disse: «Non sai che ti trovi in Cielo e che esso è tutto santo, per cui ciò che si fa qui proviene da un giusto zelo? Ora sei in grado di capire come ti avrebbero ridotto il canto dei beati e il mio sorriso, dal momento che il grido ti ha turbato così tanto; e se tu avessi compreso la preghiera contenuta in esso, conosceresti la vendetta divina che vedrai prima di morire. La spada del Paradiso (la punizione di Dio) non colpisce né troppo presto né troppo tardi, salvo che secondo il parere di colui che l'attende, con desiderio o timore. Ma ora rivolgi la tua attenzione ad altro, poiché vedrai molti illustri spiriti se, come ti dico, riconduci ad essi il tuo sguardo». Io rivolsi gli occhi eseguendo i suoi comandi e vidi cento sferette che si abbellivano a vicenda con raggi luminosi. Io ero simile a quello che reprime in sé l'acutezza del desiderio, e non osa domandare per non essere troppo fastidioso; e la più grande e più luminosa di quelle gemme (dei beati) si fece avanti, per accontentare il mio desiderio di conoscerla. Poi sentii dire dentro ad essa: «Se tu vedessi come vedo io la carità che arde tra di noi, esprimeresti i tuoi pensieri liberamente. Ma affinché tu, attendendo, non giunga in ritardo alla fine del tuo viaggio, ti darò la risposta che desideri leggendo nel tuo pensiero, visto che esiti a manifestarla. Quel monte sulle cui pendici sorge la città di Cassino un tempo fu frequentato sulla vetta dalla gente pagana e infedele; e io sono colui che per primo portai lassù il nome di Colui (Cristo) che portò sulla Terra la verità che ci innalza a tal punto; e sopra di me risplendette tanta grazia che io liberai i villaggi circostanti dall'empia religione pagana che traviò il mondo. Questi altri spiriti furono tutti uomini dediti alla contemplazione di Dio, accesi di quell'ardore di carità che fa nascere pensieri celesti e opere buone. Qui si trovano Macario, Romualdo e i miei confratelli che rimasero dentro i loro chiostri e furono fedeli alla mia Regola». E io a lui: «L'affetto che dimostri parlando con me e il benevolo aspetto che vedo e osservo nel vostro splendore, ha così tanto allargato la mia fiducia come il sole fa aprire la rosa quando essa si spande per quanto le concede la sua natura. Dunque ti prego, padre (e tu dimmi se posso ricevere tanta grazia) di mostrarti a me con la tua immagine svelata». Allora mi rispose: «Fratello, il tuo alto desiderio verrà esaudito nell'ultimo Cielo (Empireo), dove si adempiono tutti i desideri, incluso il mio. Lassù ogni desiderio è portato a compimento, sviluppato nel bene e integro; in quel solo Cielo ogni punto si trova dove è sempre stato (l'Empireo è immobile), perché non si estende nello spazio fisico e non ha i poli; e la nostra scala giunge sino ad esso, per cui non riesci a seguirla con lo sguardo. Il patriarca Giacobbe la vide estendersi con la parte alta fin lassù, quando gli apparve in sogno piena di angeli. Ma oggi nessuno stacca i piedi da terra per salirla, e la mia Regola è rimasta a danno della carta su cui è scritta (non è più seguita quasi da nessuno). Le mura che erano solite essere badia (ospitare monaci santi), ora sono diventate covi di ladroni e le tonache dei frati sono sacchi pieni di farina guasta. Ma la più grave usura non offende il piacere di Dio tanto quanto quel frutto (le decime) che rende così folle il cuore dei monaci; infatti, tutto ciò che la Chiesa custodisce appartiene alla gente che chiede l'elemosina in nome di Dio, non ai parenti dei religiosi o ad altra cosa più turpe (le amanti, le concubine). La carne dei mortali è così incline alla tentazione che, sulla Terra, un buon inizio non dura che dalla nascita della quercia allo spuntare della ghianda (pochissimo tempo). San Pietro fondò la Chiesa senza alcuna ricchezza e io fondai il mio Ordine con preghiere e digiuni, e Francesco riunì i suoi seguaci con umiltà; e se tu consideri il principio di ognuno di questi santi e poi osservi come si è evoluta la situazione, vedrai che il bianco è diventato scuro (le cose sono andate di male in peggio). Tuttavia il Giordano rivolto all'indietro e il Mar Rosso aperto, quando Dio volle così, suscitarono maggiore meraviglia di quanto farà l'intervento divino riguardo queste cose». Così mi disse, e poi si raccolse insieme agli altri spiriti e si strinsero l'un l'altro; poi salirono in alto come un turbine. La mia dolce guida (Beatrice) mi spinse dietro di loro lungo la scala, con un solo cenno, e la sua virtù vinse la mia natura mortale; e qui sulla Terra, dove si sale e scende secondo natura, non ci fu mai un movimento così rapido che si possa paragonare alla mia ascesa verso l'alto. Se io possa tornare, lettore, a quella beatitudine celeste per la quale io spesso rimpiango i miei peccati e mi percuoto il petto, tu non avresti messo e tirato via il dito dal fuoco in un tempo minore di quello che impiegai io a ritrovarmi nella costellazione (dei Gemelli) che segue quella del Toro. O stelle gloriose, o luce piena di grande virtù, dalla quale io ammetto di aver ricevuto tutto il mio ingegno, quale che esso sia, con voi sorgeva e tramontava colui (il Sole) che è padre di ogni vita mortale, quando io per la prima volta respirai l'aria di Toscana (nacqui sotto il segno dei Gemelli); e poi, quando mi venne concessa la grazia di entrare nell'alta sfera celeste con cui voi ruotate (il Cielo delle Stelle Fisse), mi toccò in sorte la vostra regione celeste. A voi ora si rivolge con sospiri la mia anima, per acquistare la capacità poetica che mi occorre per affrontare l'arduo passaggio che mi attende (la descrizione dell'ultima parte del Paradiso). Beatrice iniziò: «Tu sei così vicino all'ultima salvezza (Dio), che devi avere i tuoi occhi limpidi e privi di ogni velo mortale; e perciò, prima di penetrare più a fondo in essa, guarda in basso e considera quanto tratto di Cielo hai già percorso sotto la mia guida; così che il tuo cuore, per quanto gli riesce, si presenti gioioso alla schiera trionfante delle anime che vengono liete attraverso questo Cielo tondo e diafano». Con lo sguardo osservai tutti quanti i sette pianeti e vidi questo globo (la Terra) così piccolo che sorrisi del suo aspetto vile; e approvo il giudizio di chi lo considera poca cosa, e colui che rivolge i suoi pensieri ad altro (al Cielo) si può davvero definire un uomo virtuoso. Vidi la figlia di Latona (la Luna) luminosa e priva di quelle ombre che attribui falsamente alla maggiore o minore densità. Lì potei fissare l'aspetto di tuo figlio, o Iperione (del Sole), e vidi come Mercurio e Venere si muovono in cerchio accanto ad esso. Qui vidi l'aspetto temperato di Giove tra Saturno e Marte, e mi fu chiara la variazione della loro posizione astronomica; e tutti e sette i pianeti mi si mostrarono nella loro reale dimensione e nella loro velocità, e nella reciproca posizione celeste. La piccola Terra che ci rende così feroci, mentre ruotavo insieme alla costellazione eterna dei Gemelli, mi apparve nella sua interezza (delle terre emerse); poi rivolsi i miei occhi a quelli, bellissimi, di Beatrice. |