Inferno, Canto XXX
W.A. Bouguereau, I falsari
E l'Aretin che rimase, tremando
mi disse: "Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando"...
Io vidi un, a guisa di leuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto...
"...L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo;
l'altr'è 'l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo"...
mi disse: "Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando"...
Io vidi un, a guisa di leuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto...
"...L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo;
l'altr'è 'l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo"...
Argomento del Canto
Ancora nella X Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti i falsari.
Apparizione dei falsari di persona, tra cui Gianni Schicchi e Mirra.
Incontro coi falsari di monete: Mastro Adamo. I falsari di parola:
Sinone e la moglie di Putifarre. Rissa tra Sinone e Mastro Adamo. Virgilio rimprovera aspramente Dante.
È il pomeriggio di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, fra le due e le tre.
È il pomeriggio di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, fra le due e le tre.
Il furore dei falsari di persona (1-30)
Per descrivere il furore dei falsari di persona, puniti nella X Bolgia dell'VIII Cerchio, Dante ricorre a due similitudini: Giunone, gelosa di Semele in quanto amata da Giove e adirata contro i Tebani, prima incenerì la fanciulla e poi fece impazzire Atamante, marito di sua sorella. Questi, vedendo la moglie coi due figli in braccio, l'aveva scambiata per una leonessa con due piccoli e aveva afferrato il figlio Learco per poi ucciderlo, mentre la donna si era annegata con l'altro. E al tempo in cui Troia fu sconfitta e Priamo venne ucciso, sua moglie Ecuba fu fatta schiava e apprese in seguito della morte dei suoi figli Polissena e Polidoro, per cui impazzì e si mise a latrare come un cane. Tuttavia, nessuno di questi esempi di follia o di altri che colpiscono uomini o bestie possono descrivere il furore di due anime che corrono nella Bolgia: una di esse assale Capocchio azzannandolo sul collo e trascinandolo col ventre a terra.
Gianni Schicchi e Mirra (31-48)
G. Doré, Gianni Schicchi
Griffolino d'Arezzo resta lì tremante e dice a Dante che quell'anima è di Gianni Schicchi, per cui il poeta si affretta a chiedergli chi sia l'altra anima che è giunta lì in preda alla furia. Griffolino risponde che si tratta di Mirra, che si invaghì del padre contrariamente a ogni legge morale. La donna, pur di giacere con lui, si era finta un'altra donna, mentre Gianni aveva finto di essere il defunto Buoso Donati, per assegnarsi con un testamento falso la più bella giumenta della sua mandria. Udite le parole dell'alchimista, Dante passa a osservare gli altri dannati della Bolgia.
I falsari di monete: Mastro Adamo (49-90)
G. Stradano, Mastro Adamo e Sinone
Dante nota un dannato dal ventre così gonfio che sembrerebbe un liuto, se non fosse che al fondo della pancia ha le due gambe. Ciò è effetto dell'idropisia, malattia che deforma le parti del corpo accumulando liquido nel ventre; il dannato ha anche le labbra aperte per la sete, proprio come accade al tisico. Il dannato apostrofa Dante e Virgilio, meravigliato del fatto che vanno per l'Inferno senza alcuna pena, quindi si presenta come Mastro Adamo, che visse nell'abbondanza e ora brama un goccio d'acqua. Egli ripensa sempre ai freschi ruscelli del Casentino e tale ricordo lo tormenta assai più della malattia di cui ora è vittima: la giustizia divina lo punisce facendogli pensare a quei luoghi dove peccò e inducendolo a sospirare di continuo. In quelle terre infatti c'è il castello di Romena, dove lui ha falsificato i fiorini ed è stato arso sul rogo. Se solo vedesse tra i compagni di pena l'anima di Guido, o di Alessandro o del loro fratello Aghinolfo (i conti Guidi), in cambio rinuncerebbe a bere dell'acqua della fonte Branda: uno di loro (Guido) è già nella Bolgia, stando a quel che dicono gli altri dannati, e se Adamo potesse muoversi anche solo di un'oncia in cent'anni si sarebbe già messo alla sua ricerca, nonostante la Bolgia abbia una circonferenza di undici miglia e non sia larga meno di mezzo miglio. Mastro Adamo è dannato a causa dei conti Guidi, che l'hanno indotto a falsificare i fiorini con tre carati di metallo vile.
I falsari di parola; rissa tra Sinone e Mastro Adamo (91-129)
Dante chiede a Mastro Adamo chi sono i due dannati stesi accanto a lui, che bruciano di febbre e fumano come le mani bagnate d'inverno. Il monetiere risponde di averli trovati lì al suo arrivo nella Bolgia e di non averli mai visti muoversi: sono la moglie di Putifarre, che accusò falsamente Giuseppe, e il greco Sinone, che ingannò i Troiani con lo stratagemma del cavallo di legno. A questo punto Sinone, irritato per essere stato nominato, colpisce con un pugno la pancia gonfia di Adamo: questi risponde con un colpo al viso, dicendo a Sinone che se non può muovere le gambe, conserva tuttavia sufficiente agilità nelle braccia. Sinone ribatte che Adamo non era così agile quando andava al rogo, mentre aveva le braccia sciolte mentre falsificava monete; l'altro dichiara che è vero, ma Sinone non fu altrettanto sincero quando raccontò del cavallo a Troia. Sinone ribatte che lui disse il falso, ma Adamo falsificò monete ed è dannato per una colpa più grave; Adamo gli ricorda ancora lo spergiuro del cavallo e afferma che tutto il mondo ne è a conoscenza. Sinone gli rinfaccia la sete che lo tormenta e l'acqua che gli rigonfia orribilmente la pancia; Adamo ribatte che la bocca di Sinone è arsa dalla febbre e gli duole la testa, quindi non gli servirebbero molti inviti per leccare qualche goccia d'acqua.
Rimprovero di Virgilio a Dante (130-148)
P. Della Quercia, Rissa tra Sinone e Adamo
Dante osserva il volgare alterco con grande attenzione, quando d'improvviso è rimproverato da Virgilio, che gli dice di essere sul punto di iniziare uno scontro con lui. Dante si volta subito verso il maestro, provando tanta vergogna che ne conserva ancora il ricordo: come quello che sogna di subire un danno e nel sogno stesso desidera che ciò non sia vero, così Dante vorrebbe scusarsi con Virgilio ma non osa parlare, e tuttavia si scusa col suo aspetto vergognoso. Il maestro lo rassicura dicendogli che il pentimento di Dante basterebbe a lavare un peccato maggiore, quindi non deve pensarci più. Virgilio lo invita poi ad averlo sempre accanto nel caso assista nuovamente a una simile rissa, perché attardarsi ad ascoltare cose simili è desiderio vile.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude la parentesi dedicata alla pena del falsari e presenta, in modo simile a quanto si è visto nel Canto precedente, un'alternanza di toni elevati, retoricamente complessi da un lato e di uno stile aspro, comico-realistico dall'altro, attraverso cui Dante descrive la pena dei dannati e al contempo svolge un importante discorso di poetica. L'episodio si apre infatti con la descrizione della furia dei falsari di persona, a rappresentare la quale il poeta ricorre a due similitudini tratte dal mondo classico: la follia di Atamante, il marito della sorella di Semele con cui Giunone era adirata in quanto amata da Giove, e quella di Ecuba, impazzita per aver appreso della morte dei figli Polissena e Polidoro in seguito alla fine di Troia. I entrambi i casi modello è Ovidio (Met., IV, 512-530; XIII, 399 ss.), che Dante nel primo esempio segue quasi alla lettera: il delirio di Atamante che scambia la moglie e i figli per una leonessa e i leoncini è descritto con particolari crudi, incluso il dettaglio della donna che si annega con l'altro carco, col figlio superstite (c'è un parallelismo con la similitudine, anch'essa ovidiana, della peste di Egina rievocata nel Canto XXIX per descrivere le malattie della Bolgia). La seconda similitudine è meno realistica ma altrettanto ricercata nell'accostare la miseria di Ecuba fatta prigioniera all'altezza de' Troian che ambiva a tutto e che fu distrutta insieme al suo re: non a caso Dante sceglie come esempi Troia e Tebe, due mitiche città che erano al centro di importanti cicli epici della poesia classica e attraverso il cui esempio costruisce un esordio elevato, retoricamente prezioso per descrivere il furore di Gianni Schicchi e di Mirra (anche quest'ultima, del resto, personaggio tratto dalla mitologia greca).
Il tono si abbassa subito dopo con la presentazione dei due dannati, il primo dei quali (Gianni Schicchi) azzanna al collo Capocchio come un animale selvaggio e lo trascina facendogli grattar il ventre sul fondo roccioso della Bolgia. È Griffolino d'Arezzo a presentare lui e Mirra, usando un linguaggio aspro e popolare: Gianni è definito folletto, che va rabbioso altrui così conciando, mentre Dante augura al dannato che l'altro non gli ficchi / li denti a dosso (e anche l'accostamento dei due ha qualcosa di grottesco: Mirra è stata presa da una passione incestuosa per il padre, mentre Gianni era un burlone che finse di essere un morto e si infilò nel suo letto per dettare un falso testamento, quindi due personaggi antitetici per levatura morale e condotta). I toni comici proseguono nella descrizione di Mastro Adamo, che Dante vede subito dopo e tratteggia in modo sarcastico: il monetiere è paragonato a un leuto per il ventre smisuratamente gonfio, identico allo strumento musicale se non fosse per le gambe (la sua pancia risuonerà come un tamburo quando sarà colpita da Sinone). Il discorso del dannato sarà invece di nuovo elevato, quando si presenterà e rievocherà con toni quasi lirici il fresco paesaggio della sua terra, il Casentino dove visse e falsificò monete, e dove scorrono dolci ruscelli il cui ricordo lo tormenta in quanto è divorato dalla sete. Il fiorino da lui adulterato viene detto lega suggellata del Batista, con riferirimento all'effigie del patrono di Firenze impressa su una faccia della moneta, e lo stile resta alto anche quando Adamo augura la dannazione ai conti Guidi che lo indussero a peccare, rammaricandosi di non potersi muovere per andare a cercare Guido II che dovrebbe essere già lì (essendo morto nel 1292: notevole l'uso della rima composta, un'oncia / non ci ha che è una raffinatezza retorica).
Lo stile torna poi ad abbassarsi drasticamente nel finale dell'episodio, con la volgare rissa tra Mastro Adamo e Sinone che è il «pezzo forte» dell'intero Canto e in cui Dante si ispira, in maniera quasi dichiarata, a quella poesia comico-realistica di cui lui stesso in passato era stato esponente. Lo scontro tra i due dannati è infatti una vera e propria «tenzone» poetica, uno scambio di insulti e improperi in cui ciascuno risponde «per le rime» all'avversario, in modo simile a quanto Dante stesso aveva fatto nel celebre scambio di sonetti offensivi con Forese Donati. Il linguaggio è crudo e ricco di termini popolari e gergali, come epa croia (il ventre teso per il gonfiore, dal prov. croi), ti crepa, l'acqua marcia, si squarcia, rinfarcia (riempie), ma anche di giochi di parole e trovate sarcastiche, con Sinone che accusa Adamo di non essere stato agile ad andare al rogo quanto lo fu nel falsificare monete, Adamo che prima risponde ricordando le bugie di Sinone a Troia e poi ribattendo che se lui ha la lingua arsa dalla sete anche Sinone brucia di febbre, tanto che per leccar lo specchio di Narcisso non avrebbe bisogno di grandi inviti (da notare l'uso di un'espressione mitologica ed elevata entro un discorso basso e volgare). Ciascuno dei due duellanti pronuncia esattamente una terzina, rimbeccando le accuse dell'avversario come avveniva nel «contrasto», altro genere assai in voga nella poesia popolare: ed è naturalmente significativo che Virgilio rimproveri aspramente Dante che indugia compiaciuto ad osservare la rissa, affermando che voler ciò udire è bassa voglia (la reazione del discepolo sarà di enorme vergogna, al punto che il maestro lo perdonerà subito). Dante prende le distanze da quella poesia di genere comico che aveva sperimentato nella «tenzone» con Forese e che ora respinge per ragioni stilistiche e morali: come nel Canto V aveva condannato certa poesia amorosa che può portare alla dannazione, così qui egli supera una fase della sua precedente produzione nella quale non può più riconoscersi, come appare chiaro dalla raccomandazione di Virgilio-ragione che dovrà sempre averlo allato qualora si ripresentassero occasioni simili.
Lo stile degli ultimi versi torna poi nuovamente ad elevarsi, con la raffinata replicazione dei vv. 136-137 (sogna... sognando... sognare) e del v. 140 (scusarmi... scusava) e il linguaggio raffinato di Virgilio, che usa termini ricercati come trestizia, disgrava e definisce eufemisticamente la volgare rissa come piato. Il finale si riallaccia all'eleganza dell'esordio, per cui l'episodio di Mastro Adamo e Sinone viene racchiuso come una parentesi da trascurare, proprio come da superare è una fase della produzione poetica di Dante che viene respinta non in quanto tale, ma in quanto genere letterario di puro intrattenimento e il cui scopo era di divertire il lettore a spese dell'avversario colpito dalle ingiurie. La poesia comica può essere funzionale alla rappresentazione del mondo ultraterreno e come tale Dante la usa varie volte nel poema (si pensi ad esempio all'episodio dei Malebranche nei Canti XXI-XXII), ma sempre sotto la guida severa della ragione e scostandosi dal modello costituito dalle precedenti prove giovanili, da condannare in quanto fine a se stesse (alla «tenzone» con Forese Dante farà poi ammenda direttamente con l'amico-rivale nel Canto XXIII del Purgatorio, nell'ambito di un episodio in cui ci sarà un'importante dichiarazione di poetica nell'incontro con Bonagiunta da Lucca, con Dante che si dichiarerà poeta ispirato dall'amore e sarà, evidentemente, l'amore puro di Beatrice che lo condurrà alla visione di Dio).
Il tono si abbassa subito dopo con la presentazione dei due dannati, il primo dei quali (Gianni Schicchi) azzanna al collo Capocchio come un animale selvaggio e lo trascina facendogli grattar il ventre sul fondo roccioso della Bolgia. È Griffolino d'Arezzo a presentare lui e Mirra, usando un linguaggio aspro e popolare: Gianni è definito folletto, che va rabbioso altrui così conciando, mentre Dante augura al dannato che l'altro non gli ficchi / li denti a dosso (e anche l'accostamento dei due ha qualcosa di grottesco: Mirra è stata presa da una passione incestuosa per il padre, mentre Gianni era un burlone che finse di essere un morto e si infilò nel suo letto per dettare un falso testamento, quindi due personaggi antitetici per levatura morale e condotta). I toni comici proseguono nella descrizione di Mastro Adamo, che Dante vede subito dopo e tratteggia in modo sarcastico: il monetiere è paragonato a un leuto per il ventre smisuratamente gonfio, identico allo strumento musicale se non fosse per le gambe (la sua pancia risuonerà come un tamburo quando sarà colpita da Sinone). Il discorso del dannato sarà invece di nuovo elevato, quando si presenterà e rievocherà con toni quasi lirici il fresco paesaggio della sua terra, il Casentino dove visse e falsificò monete, e dove scorrono dolci ruscelli il cui ricordo lo tormenta in quanto è divorato dalla sete. Il fiorino da lui adulterato viene detto lega suggellata del Batista, con riferirimento all'effigie del patrono di Firenze impressa su una faccia della moneta, e lo stile resta alto anche quando Adamo augura la dannazione ai conti Guidi che lo indussero a peccare, rammaricandosi di non potersi muovere per andare a cercare Guido II che dovrebbe essere già lì (essendo morto nel 1292: notevole l'uso della rima composta, un'oncia / non ci ha che è una raffinatezza retorica).
Lo stile torna poi ad abbassarsi drasticamente nel finale dell'episodio, con la volgare rissa tra Mastro Adamo e Sinone che è il «pezzo forte» dell'intero Canto e in cui Dante si ispira, in maniera quasi dichiarata, a quella poesia comico-realistica di cui lui stesso in passato era stato esponente. Lo scontro tra i due dannati è infatti una vera e propria «tenzone» poetica, uno scambio di insulti e improperi in cui ciascuno risponde «per le rime» all'avversario, in modo simile a quanto Dante stesso aveva fatto nel celebre scambio di sonetti offensivi con Forese Donati. Il linguaggio è crudo e ricco di termini popolari e gergali, come epa croia (il ventre teso per il gonfiore, dal prov. croi), ti crepa, l'acqua marcia, si squarcia, rinfarcia (riempie), ma anche di giochi di parole e trovate sarcastiche, con Sinone che accusa Adamo di non essere stato agile ad andare al rogo quanto lo fu nel falsificare monete, Adamo che prima risponde ricordando le bugie di Sinone a Troia e poi ribattendo che se lui ha la lingua arsa dalla sete anche Sinone brucia di febbre, tanto che per leccar lo specchio di Narcisso non avrebbe bisogno di grandi inviti (da notare l'uso di un'espressione mitologica ed elevata entro un discorso basso e volgare). Ciascuno dei due duellanti pronuncia esattamente una terzina, rimbeccando le accuse dell'avversario come avveniva nel «contrasto», altro genere assai in voga nella poesia popolare: ed è naturalmente significativo che Virgilio rimproveri aspramente Dante che indugia compiaciuto ad osservare la rissa, affermando che voler ciò udire è bassa voglia (la reazione del discepolo sarà di enorme vergogna, al punto che il maestro lo perdonerà subito). Dante prende le distanze da quella poesia di genere comico che aveva sperimentato nella «tenzone» con Forese e che ora respinge per ragioni stilistiche e morali: come nel Canto V aveva condannato certa poesia amorosa che può portare alla dannazione, così qui egli supera una fase della sua precedente produzione nella quale non può più riconoscersi, come appare chiaro dalla raccomandazione di Virgilio-ragione che dovrà sempre averlo allato qualora si ripresentassero occasioni simili.
Lo stile degli ultimi versi torna poi nuovamente ad elevarsi, con la raffinata replicazione dei vv. 136-137 (sogna... sognando... sognare) e del v. 140 (scusarmi... scusava) e il linguaggio raffinato di Virgilio, che usa termini ricercati come trestizia, disgrava e definisce eufemisticamente la volgare rissa come piato. Il finale si riallaccia all'eleganza dell'esordio, per cui l'episodio di Mastro Adamo e Sinone viene racchiuso come una parentesi da trascurare, proprio come da superare è una fase della produzione poetica di Dante che viene respinta non in quanto tale, ma in quanto genere letterario di puro intrattenimento e il cui scopo era di divertire il lettore a spese dell'avversario colpito dalle ingiurie. La poesia comica può essere funzionale alla rappresentazione del mondo ultraterreno e come tale Dante la usa varie volte nel poema (si pensi ad esempio all'episodio dei Malebranche nei Canti XXI-XXII), ma sempre sotto la guida severa della ragione e scostandosi dal modello costituito dalle precedenti prove giovanili, da condannare in quanto fine a se stesse (alla «tenzone» con Forese Dante farà poi ammenda direttamente con l'amico-rivale nel Canto XXIII del Purgatorio, nell'ambito di un episodio in cui ci sarà un'importante dichiarazione di poetica nell'incontro con Bonagiunta da Lucca, con Dante che si dichiarerà poeta ispirato dall'amore e sarà, evidentemente, l'amore puro di Beatrice che lo condurrà alla visione di Dio).
Le cognizioni mediche in Dante
Ippocrate e Galeno (affresco del sec. XII, Anagni)
Sappiamo che Dante in gioventù fece un viaggio a Bologna e che forse, in tale occasione, frequentò per qualche tempo l'Università cittadina; si è ipotizzato che abbia svolto studi di medicina, data la scelta di iscriversi nel 1295 all'Arte dei Medici e degli Speziali, anche se di questo non ci sono conferme dirette. È innegabile tuttavia che Dante mostri nella Commedia una certa dimestichezza con l'anatomia umana e alcuni aspetti medici, il che farebbe pensare che il poeta ebbe specifiche cognizioni in questo campo, forse desunte da libri e manuali del suo tempo se non dall'osservazione diretta di determinate patologie. È soprattutto nell'Inferno che ciò risulta a tratti molto evidente, nella descrizione di alcuni dannati o in semplici similitudini: in XVII, 85-87, Dante rappresenta la sua paura nel salire sulla groppa di Gerione paragonandosi a colui che ha la febbre quartana (che ritorna ciclicamente ogni quattro giorni) ed è vittima del suo brivido (il riprezzo), tanto da avere le unghie smorte, livide, e da tremare al solo vedere l'ombra. In XX, 10-18, è descritta la pena degli indovini della IV Bolgia che hanno la testa rivoltata all'indietro e Dante osserva che forse una parlasia (paralisi) potrebbe aver ridotto così qualcuno in natura, ma lui non ha mai visto nulla del genere e non crede che sia possibile. In XXIV, 112-117, Vanni Fucci si rialza dopo la trasformazione in cenere ed è paragonato all'uomo che cade, e non sa como, cioè a colui che è vittima di un improvviso svenimento, che può essere causato da un demon ch'a terra il tira (spiegazione sovrannaturale) oppure da una oppilazion, da un'ostruzione degli spiriti vitali che gli ha fatto perdere i sensi (spiegazione «medica»: e la teoria degli spiriti, tipica della fisiologia medievale, è largamente presente nella poesia stilnovista di Dante stesso e Cavalcanti).
Anche la descrizione dei seminatori di discordie della IX Bolgia e dei loro corpi mutilati è ricca di dettagli anatomici (XXVIII, 22 ss.): Maometto ha un taglio che va dal mento fino all'ano, che permette di vedere tutti gli organi interni (sembra un'incisione praticata in un'autopsia: che Dante avesse assistito a una simile operazione?), vale a dire le minugia, la corata (cuore, polmoni, fegato), e lo stomaco definito tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia. Pier da Medicina ha la gola squarciata e dal collo fuoriesce la canna (il cavo orale) coperta di sangue, da cui emette le parole; Bertran de Born, che ha la testa mozzata, afferma di avere il cerebro (il cervello) staccato dal suo principio, ovvero dal midollo spinale che è rimasto nel tronco. Ma è soprattutto nei Canti XXIX-XXX che Dante ricorre a spiegazioni mediche nel descrivere le orribili malattie di cui sono preda i falsari della X Bolgia: già in XXIX, 46-51 i malati vengono paragonati ai malarici degli spedali di Valdichiana, Meremma e Sardegna, tutte zone paludose dove la malaria era endemica e diventava virulenta nei mesi estivi, tra 'l luglio e 'l settembre; dalle loro marcite membre promana un gran puzzo, mentre più avanti sono presentati gli alchimisti che hanno il corpo coperto di croste della scabbia, che provocano loro un tremendo prurito. Si è osservato in proposito che i loro sintomi richiamano piuttosto la lebbra, che secondo le teorie del tempo si accompagnava spesso alla scabbia e aveva la caratteristica proprio di far marcire la pelle e di produrre un fastidioso fetore (anche qui Dante sembra avere le idee chiare in materia).
I dettagli medici proseguono nel Canto XXX, in cui è descritta l'idropisia di cui è affetto Mastro Adamo: la malattia fa gonfiare enormemente il ventre, a causa dell'omor che mal converte (ovvero la linfa che si trasforma in modo anomalo: noi diremmo che c'è un ristagno di liquido). Dante qui segue strettamente le indicazioni di Bartolomeo Anglico, autore di un manuale di medicina (De proprietatibus rerum, 1240 ca.) in cui la malattia è descritta in termini quasi identici: il ventre del dannato è teso come un tamburo (verrà detto epa croia), mentre la sete che lo tormenta gli asciuga le labbra come capita all'etico, ovvero chi è colpito da tisi. Invece Sinone e gli altri falsari di parola sono arsi dalla febbre, tanto che fumman come man bagnate 'l verno: la loro è febbre aguta, che sempre Bartolomeo descrive come febris putrida e distingue dalle altre forme in quanto provoca dolore di capo e sete (e più avanti Mastro Adamo rinfaccerà a Sinone proprio questi sintomi, dicendogli che ha l'arsura e che il capo gli duole).
Anche la descrizione dei seminatori di discordie della IX Bolgia e dei loro corpi mutilati è ricca di dettagli anatomici (XXVIII, 22 ss.): Maometto ha un taglio che va dal mento fino all'ano, che permette di vedere tutti gli organi interni (sembra un'incisione praticata in un'autopsia: che Dante avesse assistito a una simile operazione?), vale a dire le minugia, la corata (cuore, polmoni, fegato), e lo stomaco definito tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia. Pier da Medicina ha la gola squarciata e dal collo fuoriesce la canna (il cavo orale) coperta di sangue, da cui emette le parole; Bertran de Born, che ha la testa mozzata, afferma di avere il cerebro (il cervello) staccato dal suo principio, ovvero dal midollo spinale che è rimasto nel tronco. Ma è soprattutto nei Canti XXIX-XXX che Dante ricorre a spiegazioni mediche nel descrivere le orribili malattie di cui sono preda i falsari della X Bolgia: già in XXIX, 46-51 i malati vengono paragonati ai malarici degli spedali di Valdichiana, Meremma e Sardegna, tutte zone paludose dove la malaria era endemica e diventava virulenta nei mesi estivi, tra 'l luglio e 'l settembre; dalle loro marcite membre promana un gran puzzo, mentre più avanti sono presentati gli alchimisti che hanno il corpo coperto di croste della scabbia, che provocano loro un tremendo prurito. Si è osservato in proposito che i loro sintomi richiamano piuttosto la lebbra, che secondo le teorie del tempo si accompagnava spesso alla scabbia e aveva la caratteristica proprio di far marcire la pelle e di produrre un fastidioso fetore (anche qui Dante sembra avere le idee chiare in materia).
I dettagli medici proseguono nel Canto XXX, in cui è descritta l'idropisia di cui è affetto Mastro Adamo: la malattia fa gonfiare enormemente il ventre, a causa dell'omor che mal converte (ovvero la linfa che si trasforma in modo anomalo: noi diremmo che c'è un ristagno di liquido). Dante qui segue strettamente le indicazioni di Bartolomeo Anglico, autore di un manuale di medicina (De proprietatibus rerum, 1240 ca.) in cui la malattia è descritta in termini quasi identici: il ventre del dannato è teso come un tamburo (verrà detto epa croia), mentre la sete che lo tormenta gli asciuga le labbra come capita all'etico, ovvero chi è colpito da tisi. Invece Sinone e gli altri falsari di parola sono arsi dalla febbre, tanto che fumman come man bagnate 'l verno: la loro è febbre aguta, che sempre Bartolomeo descrive come febris putrida e distingue dalle altre forme in quanto provoca dolore di capo e sete (e più avanti Mastro Adamo rinfaccerà a Sinone proprio questi sintomi, dicendogli che ha l'arsura e che il capo gli duole).
Note e passi controversi
Il v. 3 allude probabilmente al fatto che Giunone prima incenerì Semele, poi fece impazzire Atamante (una e altra fiata vuol dire «due volte»).
I vv. 7-8 seguono strettamente Ovidio (Met., IV, 513-515): clamat: "Io, comites, his retia tendite silvis! / hic modo cum gemina visa est mihi prole leaena («esclama: "Coraggio, compagni, tendete le reti in questi boschi! Poco fa ho visto, qui, una leonessa con due piccoli»).
Al v. 15 cattiva vuol dire probabilmente «prigioniera», anche se l'aggettivo in Dante significa quasi sempre «vile».
La donna de la torma (v. 43) è la migliore cavalla dell'armento, per cui Gianni falscificò il testamento di Buoso Donati.
L'etico (v. 56) è il tisico, tormentato da una sete simile a quella dell'idropico.
Al v. 70 il verbo fruga vuol dire «tormenta»
La Fonte Branda citata al v. 78 è forse una celebre fonte di Siena, ma altri intendono una fonte meno nota che si trovava nel castello di Romena, ovvero nel luogo dove Mastro Adamo falsificò i fiorini su istigazione dei conti Guidi (potrebbe però essere stata nominata così dai Casentinesi sulla scorta del passo dantesco).
L'oncia (v. 83) è un'unità di misura che corrisponde a un dodicesimo del piede, quindi a pochi centimetri.
Alcuni mss. leggono al v. 98 greco da Troia, mentre la lezione a testo indica che Sinone, pur essendo greco, era stato fatto cittadino di Troia da Priamo e il suo inganno era dunque ancor più spregevole.
L'espressione febbre aguta (v. 99) non significa forse «febbre alta», ma indica un particolare tipo di febbre che nel Medioevo si pensava causasse sete e dolore di testa.
Il v. 115 è molto simile ai vv. 3-4 di un sonetto di Cecco Angiolieri in risposta a uno di Dante, perduto: s'i' desno con altrui, e tu vi ceni; / s'io mordo il grasso, e tu vi sughi il lardo. Dante potrebbe rifarsi anche ad altre «tenzoni» oltre a quella citata con Forese Donati.
Alcuni mss. leggono al v. 125 per mal dir, per dir mal ma è da respingere perché Adamo intende dire che la febbre fa a pezzi la bocca di Sinone a causa dell'arsura.
I vv. 7-8 seguono strettamente Ovidio (Met., IV, 513-515): clamat: "Io, comites, his retia tendite silvis! / hic modo cum gemina visa est mihi prole leaena («esclama: "Coraggio, compagni, tendete le reti in questi boschi! Poco fa ho visto, qui, una leonessa con due piccoli»).
Al v. 15 cattiva vuol dire probabilmente «prigioniera», anche se l'aggettivo in Dante significa quasi sempre «vile».
La donna de la torma (v. 43) è la migliore cavalla dell'armento, per cui Gianni falscificò il testamento di Buoso Donati.
L'etico (v. 56) è il tisico, tormentato da una sete simile a quella dell'idropico.
Al v. 70 il verbo fruga vuol dire «tormenta»
La Fonte Branda citata al v. 78 è forse una celebre fonte di Siena, ma altri intendono una fonte meno nota che si trovava nel castello di Romena, ovvero nel luogo dove Mastro Adamo falsificò i fiorini su istigazione dei conti Guidi (potrebbe però essere stata nominata così dai Casentinesi sulla scorta del passo dantesco).
L'oncia (v. 83) è un'unità di misura che corrisponde a un dodicesimo del piede, quindi a pochi centimetri.
Alcuni mss. leggono al v. 98 greco da Troia, mentre la lezione a testo indica che Sinone, pur essendo greco, era stato fatto cittadino di Troia da Priamo e il suo inganno era dunque ancor più spregevole.
L'espressione febbre aguta (v. 99) non significa forse «febbre alta», ma indica un particolare tipo di febbre che nel Medioevo si pensava causasse sete e dolore di testa.
Il v. 115 è molto simile ai vv. 3-4 di un sonetto di Cecco Angiolieri in risposta a uno di Dante, perduto: s'i' desno con altrui, e tu vi ceni; / s'io mordo il grasso, e tu vi sughi il lardo. Dante potrebbe rifarsi anche ad altre «tenzoni» oltre a quella citata con Forese Donati.
Alcuni mss. leggono al v. 125 per mal dir, per dir mal ma è da respingere perché Adamo intende dire che la febbre fa a pezzi la bocca di Sinone a causa dell'arsura.
TestoNel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano, come mostrò una e altra fiata, 3 Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, 6 gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli la leonessa e ’ leoncini al varco»; e poi distese i dispietati artigli, 9 prendendo l’un ch’avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s’annegò con l’altro carco. 12 E quando la fortuna volse in basso l’altezza de’ Troian che tutto ardiva, sì che ’nsieme col regno il re fu casso, 15 Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva 18 del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane; tanto il dolor le fé la mente torta. 21 Ma né di Tebe furie né troiane si vider mai in alcun tanto crude, non punger bestie, nonché membra umane, 24 quant’io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che ’l porco quando del porcil si schiude. 27 L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo l’assannò, sì che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo. 30 E l’Aretin che rimase, tremando mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando». 33 «Oh!», diss’io lui, «se l’altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi è, pria che di qui si spicchi». 36 Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre fuor del dritto amore amica. 39 Questa a peccar con esso così venne, falsificando sé in altrui forma, come l’altro che là sen va, sostenne, 42 per guadagnar la donna de la torma, falsificare in sé Buoso Donati, testando e dando al testamento norma». 45 E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu’ io avea l’occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati. 48 Io vidi un, fatto a guisa di leuto, pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto. 51 La grave idropesì, che sì dispaia le membra con l’omor che mal converte, che ’l viso non risponde a la ventraia, 54 facea lui tener le labbra aperte come l’etico fa, che per la sete l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte. 57 «O voi che sanz’alcuna pena siete, e non so io perché, nel mondo gramo», diss’elli a noi, «guardate e attendete 60 a la miseria del maestro Adamo: io ebbi vivo assai di quel ch’i’ volli, e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo. 63 Li ruscelletti che d’i verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli, 66 sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l’imagine lor vie più m’asciuga che ’l male ond’io nel volto mi discarno. 69 La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov’io peccai a metter più li miei sospiri in fuga. 72 Ivi è Romena, là dov’io falsai la lega suggellata del Batista; per ch’io il corpo sù arso lasciai. 75 Ma s’io vedessi qui l’anima trista di Guido o d’Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista. 78 Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c’ho le membra legate? 81 S’io fossi pur di tanto ancor leggero ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia, io sarei messo già per lo sentiero, 84 cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch’ella volge undici miglia, e men d’un mezzo di traverso non ci ha. 87 Io son per lor tra sì fatta famiglia: e’ m’indussero a batter li fiorini ch’avevan tre carati di mondiglia». 90 E io a lui: «Chi son li due tapini che fumman come man bagnate ’l verno, giacendo stretti a’ tuoi destri confini?». 93 «Qui li trovai - e poi volta non dierno - », rispuose, «quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno. 96 L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo; l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo». 99 E l’un di lor, che si recò a noia forse d’esser nomato sì oscuro, col pugno li percosse l’epa croia. 102 Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro, 105 dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto». 108 Ond’ei rispuose: «Quando tu andavi al fuoco, non l’avei tu così presto; ma sì e più l’avei quando coniavi». 111 E l’idropico: «Tu di’ ver di questo: ma tu non fosti sì ver testimonio là ’ve del ver fosti a Troia richesto». 114 «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio», disse Sinon; «e son qui per un fallo, e tu per più ch’alcun altro demonio!». 117 «Ricorditi, spergiuro, del cavallo», rispuose quel ch’avea infiata l’epa; «e sieti reo che tutto il mondo sallo!». 120 «E te sia rea la sete onde ti crepa», disse ’l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!». 123 Allora il monetier: «Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia, 126 tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a ’nvitar molte parole». 129 Ad ascoltarli er’io del tutto fisso, quando ’l maestro mi disse: «Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!». 132 Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch’ancor per la memoria mi si gira. 135 Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì che quel ch’è, come non fosse, agogna, 138 tal mi fec’io, non possendo parlare, che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare. 141 «Maggior difetto men vergogna lava», disse ’l maestro, «che ’l tuo non è stato; però d’ogne trestizia ti disgrava. 144 E fa ragion ch’io ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna t’accoglia dove sien genti in simigliante piato: ché voler ciò udire è bassa voglia». 148 |
ParafrasiNel tempo in cui Giunone era adirata contro la stirpe tebana a causa di Semele, come dimostrò in due occasioni,
Atamante divenne a tal punto pazzo che, vedendo la moglie che andava tenendo in braccio i due figli, uno per parte, gridò: «Tendiamo le reti, così che io possa catturare la leonessa e i leoncini»; e poi protese gli artigli spietati, prendendo uno dei due che si chiamava Learco, e lo fece roteare in aria e lo scaraventò contro un sasso; la moglie si annegò tenendo l'altro figlio. E quanto il destino abbatté l'altezza dei Troiani che ambiva a qualunque cosa, così che il regno fu distrutto e il re ucciso, Ecuba (triste, abbietta e prigioniera) dopo aver visto che Polissena era stata uccisa e si fu accorta con dolore della morte di Polidoro in riva al mare, si mise a latrare come un cane, fuori di sé; a tal punto il dolore le sconvolse la mente. Ma non si videro mai le furie dei Tebani, né quelle dei Troiani tanto crudeli contro qualcuno, né pungolare bestie oppure esseri umani, quanto io vidi fare in due anime pallide e nude che correvano mordendo come il maiale quando esce affamato dal porcile. Una di esse si avventò su Capocchio e lo azzannò alla nuca, così che, trascinandolo via, gli fece grattare con la pancia il suolo roccioso della Bolgia. E Griffolino d'Arezzo, che rimase lì tremante, mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi e, pieno di rabbia, va conciando così gli altri dannati». «Oh!», gli risposi, «ti auguro che l'altra anima non riesca ad addentarti: non ti spiaccia dirmi chi è, prima che fugga via di qui». E lui a me: «Quella è l'anima antica della scellerata Mirra, che si innamorò del proprio padre contrariamente a ogni legge morale. Questa riuscì a compiere adulterio con lui, fingendosi un'altra persona, come l'altro che se ne va via (Gianni Schicchi) riuscì a spacciarsi per Buoso Donati, al fine di ottenere la regina (giumenta) dell'armento, e a falsificare il testamento per poi registrarlo regolarmente». E dopo che i due rabbiosi sui quali avevo tenuto gli occhi se ne furono andati, rivolsi lo sguardo sugli altri peccatori. Io ne vidi uno che sarebbe stato uguale a un liuto, se solo l'inguine fosse stato separato dalle due gambe. La grave idropisia, che a causa della linfa smaltita male deforma a tal punto le membra che il viso è assai più magro dal ventre, lo spingeva a tenere le labbra aperte come fa il tisico, che per la sete tiene il labbro superiore in alto e quello inferiore verso il mento. Egli ci disse: «O voi che siete privi di pena all'Inferno, e non so il perché, guardate con attenzione alla misera sorte di Mastro Adamo: io in vita fui nell'abbondanza e ora, ahimè!, desidero vanamente un goccio d'acqua. I ruscelli che scendono dalle verdi colline del Casentino verso l'Arno, facendo i loro letti freschi e bagnati, mi stanno sempre davanti agli occhi e non per niente, poiché la loro immagine mi asciuga molto più del male per cui ho il volto scavato. La dura giustizia divina che mi tormenta sfrutta il luogo dove peccai per farmi sospirare ancora di più. Laggiù sorge il castello di Romena, dove io falsificai il fiorino e per questo fui arso vivo. Ma se io vedessi qui l'anima malvagia di Guido, di Alessandro o di loro fratello (Aghinolfo), in cambio rinuncerei a bere dalla Fonte Branda. Uno di loro (Guido) dovrebbe essere già qui, se le anime arrabbiate che girano intorno dicono il vero; ma a che mi serve, dal momento che non posso muovermi? Se fossi ancora tanto agile da poter percorrere un'oncia in cent'anni, io mi sarei già messo in cammino, cercandolo in mezzo a questi dannati deturpati dalle malattie, anche se la Bolgia ha una circonferenza di undici miglia e una larghezza non inferiore al mezzo miglio. Io sono qui a causa loro: essi mi spinsero a coniare i fiorini che avevano tre carati di metallo vile». E io a lui: «Chi sono i due miseri che fumano come le mani bagnate d'inverno, e che giacciono stretti alla tua destra?» Rispose: «Li trovai qui quando caddi in questo dirupo, e da allora non si sono più mossi, né credo che si muoveranno mai più. Una è la bugiarda che accusò a torto Giuseppe; l'altro è il falso Sinone, il greco di Troia: soffrono di febbre acuta ed emettono questo puzzo di grasso bruciato». E uno di loro (Sinone), che forse fu infastidito di essere nominato in modo così offensivo, gli colpì con un pugno il ventre teso. Quello risuonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo gli colpì il volto col braccio, in modo non meno violento, dicendogli: «Anche se mi è precluso ogni movimento per le gambe appesantite, ho ancora le braccia agili per colpire». Allora l'altro rispose: «Quando tu andavi al rogo, non eri altrettanto agile; invece muovevi bene le braccia quando falsificavi le monete». E l'idropico: «Tu dici il vero, su questo: ma non fosti certo un testimone sincero quando a Troia ti fu chiesta la verità». Sinone disse: «Se io dissi il falso, tu falsificasti il conio; e io sono qui per un solo peccato, tu invece per un numero maggiore di ogni altro dannato!» Quello che aveva la pancia gonfia rispose: «Ricordati, spergiuro, del cavallo, e sia per te un tormento il fatto che lo sappia tutto il mondo!» Il greco disse: «A te sia un tormento la sete per cui ti si crepa la lingua, e l'acqua marcia che ti fa gonfiare a tal punto il ventre davanti agli occhi!» Allora il monetiere: «Allo stesso modo la tua bocca si fa a pezzi per il tuo male (la febbre), come al solito; infatti io ho sete e l'acqua mi fa gonfiare, ma tu hai l'arsura e il capo che ti duole, e per leccare poche gocce d'acqua non avresti bisogno di tanti inviti». Io ero tutto attento ad ascoltarli, quando Virgilio mi disse: «Continua pure a guardare, che manca poco che io non litighi con te!» Quando io lo sentii parlarmi con ira, mi voltai verso di lui con una tale vergogna che è presente ancora nella mia mente. Come colui che sogna il suo danno, e sognando vorrebbe sognare, così che desidera ciò che è vero come se non lo fosse, così feci io, non osando parlare, poiché volevo scusarmi e, pur non credendo di farlo, lo stavo comunque facendo. Il maestro disse: «Una vergogna minore lava una colpa più grave di quanto non sia stata la tua; quindi abbandona ogni tristezza. E sii certo che io ti sarò sempre al fianco, se mai avverrà ancora che il destino ti conduca dove ci siano genti che litigano in questo modo: infatti, voler ascoltare certe risse è volontà vile». |