Paradiso, Canto XXIII
Cristo Pantocratore (mos. biz. XII sec.)
...vid'i' sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l'accendea,
come fa 'l nostro le viste superne...
"...Quivi è la rosa in che 'l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino"...
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
facean sonare il nome di Maria...
un sol che tutte quante l'accendea,
come fa 'l nostro le viste superne...
"...Quivi è la rosa in che 'l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino"...
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
facean sonare il nome di Maria...
Argomento del Canto
Ancora nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse. Il trionfo di Cristo e la schiera di tutti i beati. Dante può sostenere il sorriso di Beatrice. Trionfo di Maria e apparizione dell'arcangelo Gabriele. Ascesa di Cristo e Maria all'Empireo. Apparizione di san Pietro.
È il pomeriggio di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È il pomeriggio di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Attesa di Beatrice (1-15)
Beatrice sembra attendere con ansia l'arrivo di qualcuno o qualcosa, rivolta verso quella parte del Cielo sotto la quale il Sole sembra muoversi più lentamente: Dante la paragona a un uccello che aspetta il sorgere dell'alba su un ramo dell'albero, ansioso di andare in cerca di cibo con cui sfamare i suoi piccoli nati. Vedendola in quell'atteggiamento il poeta vorrebbe saperne la ragione, tuttavia si limita ad attendere in silenzio nella speranza di apprenderlo presto.
Il trionfo di Cristo (16-45)
J. Flaxman, Trionfo di Cristo
Dante deve in realtà aspettare poco tempo, poiché d'improvviso vede il Cielo rischiararsi sempre di più, mentre Beatrice annuncia l'arrivo delle schiere dei beati e di Cristo in trionfo. Il volto della donna arde di carità e gli occhi sono pieni di gioia, al punto che il poeta deve rinunciare a descriverlo. Dante vede in seguito migliaia di luci, simili alle stelle che circondano la luna nelle notti serene, in quanto sono illuminate da una luce assai più intensa (Cristo): all'interno di essa il poeta scorge la figura umana di Gesù, ma essa trascende le sue capacità visive e non è in grado di sostenerla. Beatrice gli spiega che tale visione supera ogni forza, poiché essa rappresenta Colui che con la sua morte riaprì la strada fra Cielo e Terra. Dante sente che la sua mente esce da se stessa, come il fulmine che esce dalla nube e scende in basso contro la sua natura, per cui non è in grado di riferire cosa essa fece in quel preciso momento.
Il sorriso ineffabile di Beatrice (46-69)
Beatrice esorta Dante a guardarla, poiché egli ha visto cose tanto alte (l'immagine umana di Cristo) che ormai è in grado di sostenere il suo sorriso. Il poeta è come colui che tenta di rammentare una visione avuta da poco e già dimenticata, quando raccoglie l'invito della donna con un tale piacere che, questo sì, non si cancellerà mai dalla sua memoria. Dante vorrebbe descrivere la bellezza del sorriso di Beatrice, ma se anche le Muse lo aiutassero con tutta la loro arte non arriverebbe a raffigurare che una minima parte di ciò che vide, per cui il suo poema sacro deve necessariamente saltare alcune parti. Il lettore deve considerare l'altezza del tema affrontato e capire i limiti della poesia umana di Dante, dal momento che la nave della sua arte percorre un tratto di mare impegnativo e degno del massimo impegno da parte del timoniere.
Le anime dei beati illuminate da Cristo (70-87)
G. Di Paolo, Cristo e i beati
Beatrice invita Dante a non fissare solamente il suo viso ma a rivolgere lo sguardo allo spettacolo del Cielo delle Stelle Fisse, che è come un giadino fiorito sotto i raggi di Cristo e in cui si trovano Maria, la rosa dove Cristo si fece uomo, e gli Apostoli, che con la loro predicazione misero l'umanità sul retto cammino. Dante raccoglie subito l'invito e vede moltissime luci a loro volta illuminate da una luce più grande, come i fiori di un prato sotto i raggi del sole che filtra tra le nubi. Cristo si è infatti innalzato per consentire a Dante di vedere tale spettacolo, poiché i suoi deboli occhi sarebbero stati abbagliati dal suo splendore.
Trionfo di Maria. L'arcangelo Gabriele (88-111)
C. Dolci, La Vergine (XVII sec.)
Dante fissa subito lo sguardo sulla luce più intensa di Maria, colei il cui nome egli invoca mattina e sera, e non appena ne ha visto lo splendore e l'aspetto ecco che dall'alto scende una corona luminosa (l'arcangelo Gabriele) che circonda Maria e inizia a ruotare intorno a lei. Gabriele intona una dolcissima melodia, tale che anche la musica terrena più piacevole parrebbe, al confronto di quella, il fragore di un tuono. L'arcangelo dichiara di ardere d'amore per Maria, nel cui ventre nacque Gesù, e afferma che continuerà a girarle intorno finché la Vergine seguirà Cristo nell'Empireo, rendendo quel Cielo più bello di quanto non sia già. Mentre Gabriele compie il suo inno, tutti i beati intonano il nome di Maria.
Cristo e Maria salgono all'Empireo. Apparizione di san Pietro (112-139)
Il Primo Mobile, che avvolge con la sua sfera tutti i Cieli, è ancora molto distante da Dante e Beatrice, così il poeta non è in grado di seguire con lo sguardo Maria che sale verso l'alto coronata dall'arcangelo Gabriele, mentre segue suo figlio Cristo. Tutte le anime dei beati si protendono verso l'alto con la parte alta delle loro luci, simili al bambino che è stato appena allattato dalla mamma e tende a lei le braccia per manifestarle il suo affetto; poi restano al cospetto di Dante, cantando il Regina celi con tale dolcezza che il ricordo non lascerà mai il poeta. Grandissima è la beatitudine di quelle anime che, sulla Terra, furono abili a seminare e qui, in Cielo, raccolgono i frutti della loro bontà, dopo l'esilio terrestre simile a quello di Babilonia. Qui celebra il proprio trionfo sui beni mondani anche san Pietro, che ricevette da Cristo le chiavi del Paradiso e che ora condivide la felicità eterna coi beati del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Cristo e Maria salgono all'Empireo. Apparizione di san Pietro (112-139)
Il Primo Mobile, che avvolge con la sua sfera tutti i Cieli, è ancora molto distante da Dante e Beatrice, così il poeta non è in grado di seguire con lo sguardo Maria che sale verso l'alto coronata dall'arcangelo Gabriele, mentre segue suo figlio Cristo. Tutte le anime dei beati si protendono verso l'alto con la parte alta delle loro luci, simili al bambino che è stato appena allattato dalla mamma e tende a lei le braccia per manifestarle il suo affetto; poi restano al cospetto di Dante, cantando il Regina celi con tale dolcezza che il ricordo non lascerà mai il poeta. Grandissima è la beatitudine di quelle anime che, sulla Terra, furono abili a seminare e qui, in Cielo, raccolgono i frutti della loro bontà, dopo l'esilio terrestre simile a quello di Babilonia. Qui celebra il proprio trionfo sui beni mondani anche san Pietro, che ricevette da Cristo le chiavi del Paradiso e che ora condivide la felicità eterna coi beati del Vecchio e del Nuovo Testamento.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti XXIII-XXXII, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto apre la terza e ultima parte della Cantica, occupata dalla descrizione dei tre più alti cieli del Paradiso (Stelle Fisse, Primo Mobile, Empireo) e della candida rosa dei beati, introducendo il lettore alla visione finale di Dio e il cui maggiore impegno poetico è stato annunciato da Dante nel finale del Canto precedente, con l'invocazione alla costellazione dei Gemelli e la richiesta dell'assistenza necessaria ad affrontare il passo forte corrispondente alla descrizione dell'ultimo tratto del viaggio (XXII, 121-123). L'episodio è infatti dedicato al trionfo di Cristo e di tutti i beati, fra cui spicca la figura di Maria che a Cristo è naturalmente legata dal rapporto madre-figlio, idealmente al centro di tutto il Canto: l'immagine iniziale è quella di Beatrice che attende con ansia l'arrivo dei beati, paragonata all'uccello-madre che aspetta il sorgere del sole per volare in cerca di cibo per i suoi piccoli (e già altre volte la donna è stata descritta in atteggiamenti materni: cfr. Purg., XXX, 79-80; Par., I, 100-102; XXII, 4-6), mentre alla fine i beati che si protendono verso Maria che ascende all'Empireo sono descritti come il fantolin che tende le braccia alla madre dopo che questa lo ha allattato; la stessa Vergine è presentata da Beatrice come la rosa in che 'l verbo divino / carne si fece, mentre l'arcangelo Gabriele si riferirà a Maria come il ventre / che fu albergo del nostro disiro, sottolineando il legame viscerale che la lega a Gesù e che fa di lei la più nobile fra le anime del Paradiso. Queste similitudini hanno un carattere semplice e dimesso, in deciso contrasto con l'atmosfera solenne che attraversa l'episodio e che ruota ovviamente intorno all'alto trionfo di Cristo: tale trionfo è da intendersi in senso «classico», ovvero come la vittoria del Salvatore che ha strappato all'Inferno e alla dannazione i beati che ora gli fanno da corteo e che può esibire come un trofeo, sui quali diffonde la sua luce talmente intensa da offuscarne l'aspetto agli occhi mortali di Dante (in seguito Cristo dovrà sollevarsi per permettere al poeta di vedere il meraviglioso giardino rappresentato dalle anime); tuttavia Cristo è anche mostrato nella sua umanità, dapprima con lo sguardo di Dante che ne scorge per un istante la figura attraverso la luce e in seguito con la comparsa di Maria che di Gesù è stata madre e nel cui ventre si è appunto incarnato il Verbo, consentendo la salvezza di tutta l'umanità. Il trionfo di Cristo è dunque seguito da quello della Vergine, incoronata dall'arcangelo Gabriele che la circonda come un alone luminoso e intona per lei un dolcissimo inno, così come più avanti i beati canteranno il Regina celi che adesso Dante può nuovamente ascoltare (allo stesso modo in cui può tornare a vedere il sorriso di Beatrice, dopo la visione della figura umana di Cristo e dopo il silenzio che aveva contraddistinto i due Canti precedenti). Nella descrizione di Maria e delle altre anime Dante ricorre alla metafora liturgica della rosa mystica, frequente nelle litanie per indicare appunto la Vergine, mentre al linguaggio mistico e scritturale appartengono gli altri termini con cui il poeta descrive lo spettacolo dei beati: l'VIII Cielo è definito il bel giardino / che sotto i raggi di Cristo s'infiora, mentre gli Apostoli sono i gigli il cui buon odore ha messo l'umanità sulla retta via; i beati sono paragonati poco oltre ai fiori di un prato illuminato dai raggi del sole che filtrano tra le nubi, mentre la Vergine è ancora detta il bel fior che Dante sempre invoca mattina e sera. La descrizione di Maria è impreziosita da altri paragoni non meno delicati, quali viva stella, bel zaffiro, rendendo manifesto il culto mariano presente in Dante e che avrà il suo punto più alto nell'invocazione che aprirà il Canto XXXIII, mentre è da ricordare che proprio su sollecitazione della Vergine aveva avuto inizio il viaggio dantesco nell'Oltretomba, grazie al suo intervento su santa Lucia e Beatrice, scesa nel Limbo per invocare l'assistenza di Virgilio (Inf., II, 94 ss.).
L'altro tema al centro del Canto è poi l'excessus mentis di Dante, il suo trasumanar in seguito alla visione di Cristo che gli consente di tornare a vedere il sorriso di Beatrice e ascoltare il canto dei beati: si tratta di un elemento tipico della letteratura mistica, qui descritto dal poeta con la similitudine (anch'essa tratta dall'ambito naturalistico) del fulmine che si dilata fino a erompere fuori dalla nube che lo contiene, per poi cadere a terra contrariamente alla sua natura. L'innalzamento di Dante a una condizione che va al di là dell'umano si accompagna con l'impossibilità di darne conto coi mezzi della parola poetica, che è l'altro elemento ricorrente nella descrizione del Paradiso e che diverrà via via più frequente negli ultimi Canti: già all'inizio Dante deve rinunciare a descrivere l'ardore nello sguardo di Beatrice, mentre in seguito alla visione della figura umana di Cristo che lo ha come abbagliato egli tenterà inutilmente di riportare alla mente l'immagine intravista, ormai cancellata dai suoi ricordi in quanto troppo elevata per le sua capacità mortali. Lo stesso sorriso di Beatrice che il poeta torna ad ammirare dopo la «pausa» dei Canti XXI-XXII va al di là di ogni capacità poetica, tanto che descriverlo sarebbe impossibile persino con l'aiuto di tutti i poeti ispirati dalle Muse, per cui è inevitabile che il sacrato poema salti alcune parti che la parola umana non è in grado di rappresentare; è la poetica dell'inesprimibile che era già stata esposta nel proemio della Cantica e che viene qui ribadita, con l'aggiunta che il tema affrontato è ponderoso e tale da far tremare l'omero mortal che si sottopone ad esso, mentre con orgoglio Dante riafferma il carattere assolutamente innovativo della poesia del Paradiso con l'immagine dell'ardita prora che fende un mare mai percorso prima, metafora già usata in II, 1-18. La stessa difficoltà si riscontra nella descrizione del canto con cui l'arcangelo Gabriele inneggia a Maria, rispetto al quale anche la più dolce melodia terrena sembrerebbe nube che squarciata tona (è la consueta similitudine per contrasto, espediente che sarà spesso usato negli ultimi Canti del Paradiso per raffigurare ciò che trascende del tutto la natura umana), mentre i beati del trionfo di Cristo sono paragonati, nel finale del Canto, a delle arche ricchissime, cioè a forzieri contenenti immense ricchezze che si contrappongono a quelle materiali lasciate sulla Terra, durante il loro esilio a Babilonia. Le anime sono definite buone bobolce, «contadine» che hanno coltivato il bene e che ora raccolgono i frutti del loro lavoro con la beatitudine, che si ricollega all'immagine iniziale con cui Beatrice le ha presentate come le schiere del trionfo di Cristo, frutto delle influenze celesti che esse hanno subìto in Terra e che hanno rivolto a bene operare (anche la metafora della vita terrena come esilio babilonese è ovviamente di derivazione biblica e assai frequente nella letteratura mistica). L'episodio si chiude con l'apparizione di san Pietro, l'anima che primeggia fra tutti i beati presenti dopo l'asesa di Maria in quanto ha riportato la vittoria sui beni mondani, e in quanto colui cui Cristo ha affidato la costruzione della Chiesa attraverso la consegna simbolica delle chiavi: Pietro sarà il protagonista del Canto seguente in cui sottoporrà Dante al primo esame sul possesso della fede, mentre al centro del Canto XXVII sarà ancora la sua durissima invettiva contro i papi corrotti che preluderà all'ascesa di Dante e Beatrice al Primo Mobile, chiudendo l'ampia parentesi dedicata al Cielo delle Stelle Fisse.
L'altro tema al centro del Canto è poi l'excessus mentis di Dante, il suo trasumanar in seguito alla visione di Cristo che gli consente di tornare a vedere il sorriso di Beatrice e ascoltare il canto dei beati: si tratta di un elemento tipico della letteratura mistica, qui descritto dal poeta con la similitudine (anch'essa tratta dall'ambito naturalistico) del fulmine che si dilata fino a erompere fuori dalla nube che lo contiene, per poi cadere a terra contrariamente alla sua natura. L'innalzamento di Dante a una condizione che va al di là dell'umano si accompagna con l'impossibilità di darne conto coi mezzi della parola poetica, che è l'altro elemento ricorrente nella descrizione del Paradiso e che diverrà via via più frequente negli ultimi Canti: già all'inizio Dante deve rinunciare a descrivere l'ardore nello sguardo di Beatrice, mentre in seguito alla visione della figura umana di Cristo che lo ha come abbagliato egli tenterà inutilmente di riportare alla mente l'immagine intravista, ormai cancellata dai suoi ricordi in quanto troppo elevata per le sua capacità mortali. Lo stesso sorriso di Beatrice che il poeta torna ad ammirare dopo la «pausa» dei Canti XXI-XXII va al di là di ogni capacità poetica, tanto che descriverlo sarebbe impossibile persino con l'aiuto di tutti i poeti ispirati dalle Muse, per cui è inevitabile che il sacrato poema salti alcune parti che la parola umana non è in grado di rappresentare; è la poetica dell'inesprimibile che era già stata esposta nel proemio della Cantica e che viene qui ribadita, con l'aggiunta che il tema affrontato è ponderoso e tale da far tremare l'omero mortal che si sottopone ad esso, mentre con orgoglio Dante riafferma il carattere assolutamente innovativo della poesia del Paradiso con l'immagine dell'ardita prora che fende un mare mai percorso prima, metafora già usata in II, 1-18. La stessa difficoltà si riscontra nella descrizione del canto con cui l'arcangelo Gabriele inneggia a Maria, rispetto al quale anche la più dolce melodia terrena sembrerebbe nube che squarciata tona (è la consueta similitudine per contrasto, espediente che sarà spesso usato negli ultimi Canti del Paradiso per raffigurare ciò che trascende del tutto la natura umana), mentre i beati del trionfo di Cristo sono paragonati, nel finale del Canto, a delle arche ricchissime, cioè a forzieri contenenti immense ricchezze che si contrappongono a quelle materiali lasciate sulla Terra, durante il loro esilio a Babilonia. Le anime sono definite buone bobolce, «contadine» che hanno coltivato il bene e che ora raccolgono i frutti del loro lavoro con la beatitudine, che si ricollega all'immagine iniziale con cui Beatrice le ha presentate come le schiere del trionfo di Cristo, frutto delle influenze celesti che esse hanno subìto in Terra e che hanno rivolto a bene operare (anche la metafora della vita terrena come esilio babilonese è ovviamente di derivazione biblica e assai frequente nella letteratura mistica). L'episodio si chiude con l'apparizione di san Pietro, l'anima che primeggia fra tutti i beati presenti dopo l'asesa di Maria in quanto ha riportato la vittoria sui beni mondani, e in quanto colui cui Cristo ha affidato la costruzione della Chiesa attraverso la consegna simbolica delle chiavi: Pietro sarà il protagonista del Canto seguente in cui sottoporrà Dante al primo esame sul possesso della fede, mentre al centro del Canto XXVII sarà ancora la sua durissima invettiva contro i papi corrotti che preluderà all'ascesa di Dante e Beatrice al Primo Mobile, chiudendo l'ampia parentesi dedicata al Cielo delle Stelle Fisse.
Note e passi controversi
I vv. 1-3 che descrivono l'uccello in attesa dell'alba su un ramo scoperto saranno ripresi da Poliziano (Stanze per la giostra, I, 60: La notte che le cose ci nasconde / tornava ombrata di stellato ammanto, / e l'usignuol sotto l'amate fronde / cantando ripetea l'antico pianto...).
La plaga sotto la quale il Sole sembra più lento (vv. 11-12) è probabilmente la zona meridiana, cioè il mezzogiorno (il punto più alto della volta celeste); Beatrice guarda lì perché attende l'arrivo di Cristo e dei beati.
Al v. 16 quando è sostantivo e significa «tempo», «momento».
I vv. 20-21 con ogni probabilità indicano che i beati rappresentano il frutto delle influenze celesti, che essi hanno subìto in Terra e trasformato in buone opere; altri intendono che i beati ora si raccolgono nell'VIII Cielo dopo essere stati sparsi negli altri Cieli, oppure riferiscono frutto a Dante che raccoglie il risultato della sua ascesa in Paradiso.
La similitudine dei vv. 25-27 allude a Trivia, la Luna identificata dagli antichi con Diana, che nelle notti di plenilunio sereno risplende tra le ninfe etterne, le stelle, come Cristo illumina col suo splendore i beati.
Al v. 30 le viste superne sono le stelle, che al tempo di Dante si credeva erroneamente che fossero illuminate dal Sole (cfr. XX, 6).
Al v. 32 la lucente sustanza è la figura umana di Cristo, che Dante intravede attraverso la sua luce.
Al v. 43 dape, «vivande», è latinismo e ha quest'unica occorrenza nel poema.
L'immagine della mente di Dante che si dilata fino a uscire da se stessa (vv. 40-45) è tipica degli scrittori mistici che descrivono l'excessus mentis, ovvero l'esperienza mistica del rapimento in estasi: cfr. ad es. Gregorio Magno (Dial., II, 35) che a proposito di san Benedetto dice non coelum et terra contracta est, sed videntis animus dilatatus, quia Deo raptus videre sine difficultate potuit («non furono la terra e il cielo a restringersi, ma fu l'animo di colui che vede a dilatarsi; rapito da Dio, poté vedere senza difficoltà»).
La visione oblita del v. 50 è quella della figura umana di Cristo, che Dante tenta invano di ricordare.
Il libro che 'l preterito rassegna (v. 54) è quello della memoria.
Al v. 56 Polimnia è la Musa della poesia lirica, il cui nome in greco vuol dire «dai molti inni»; al v. 57 pingue è plur. femminile, riferito a lingue. L'immagine dell'ispirazione poetica come latte che deve nutrire i poeti è già stata usata in Purg., XXII, 101-102 (quel Greco / che le Muse lattar più ch'altri mai, riferito ad Omero).
Al v. 67 pareggio vale «lungo e difficile tratto di mare»; alcuni mss. leggono pileggio.
Ai vv. 73-75 la rosa è Maria, mentre i gigli sono gli Apostoli.
Al v. 79 mei, «trapassi», è latinismo (meare, già usato in XIII, 55).
Il v. 93 vuol dire che la luce di Maria vince col suo splendore quella degli altri beati in Cielo, così come sulla Terra vinse con la sua virtù tutte le altre creature.
Al v. 107 dia vuol dire «divina», nel senso di «splendente» (cfr. XIV, 34).
La spera supprema (v. 108) è l'Empireo, dove Maria sale per seguire Cristo; invece il real manto (v. 112) è il Primo Mobile, che circonda tutti gli altri Cieli.
Al v. 132 bobolce è latinismo (da bubulcus, «bifolco») e indica le anime dei beati come lavoratrici abili a coltivare il bene sulla Terra; altri l'hanno interpretato come «terre da arare», ipotesi meno probabile ma che non cambia il senso generale.
L'antico e... novo concilio (v. 138) sono le schiere dei beati del Vecchio e Nuovo Testamento. Il v. 139 allude ovviamente a san Pietro.
La plaga sotto la quale il Sole sembra più lento (vv. 11-12) è probabilmente la zona meridiana, cioè il mezzogiorno (il punto più alto della volta celeste); Beatrice guarda lì perché attende l'arrivo di Cristo e dei beati.
Al v. 16 quando è sostantivo e significa «tempo», «momento».
I vv. 20-21 con ogni probabilità indicano che i beati rappresentano il frutto delle influenze celesti, che essi hanno subìto in Terra e trasformato in buone opere; altri intendono che i beati ora si raccolgono nell'VIII Cielo dopo essere stati sparsi negli altri Cieli, oppure riferiscono frutto a Dante che raccoglie il risultato della sua ascesa in Paradiso.
La similitudine dei vv. 25-27 allude a Trivia, la Luna identificata dagli antichi con Diana, che nelle notti di plenilunio sereno risplende tra le ninfe etterne, le stelle, come Cristo illumina col suo splendore i beati.
Al v. 30 le viste superne sono le stelle, che al tempo di Dante si credeva erroneamente che fossero illuminate dal Sole (cfr. XX, 6).
Al v. 32 la lucente sustanza è la figura umana di Cristo, che Dante intravede attraverso la sua luce.
Al v. 43 dape, «vivande», è latinismo e ha quest'unica occorrenza nel poema.
L'immagine della mente di Dante che si dilata fino a uscire da se stessa (vv. 40-45) è tipica degli scrittori mistici che descrivono l'excessus mentis, ovvero l'esperienza mistica del rapimento in estasi: cfr. ad es. Gregorio Magno (Dial., II, 35) che a proposito di san Benedetto dice non coelum et terra contracta est, sed videntis animus dilatatus, quia Deo raptus videre sine difficultate potuit («non furono la terra e il cielo a restringersi, ma fu l'animo di colui che vede a dilatarsi; rapito da Dio, poté vedere senza difficoltà»).
La visione oblita del v. 50 è quella della figura umana di Cristo, che Dante tenta invano di ricordare.
Il libro che 'l preterito rassegna (v. 54) è quello della memoria.
Al v. 56 Polimnia è la Musa della poesia lirica, il cui nome in greco vuol dire «dai molti inni»; al v. 57 pingue è plur. femminile, riferito a lingue. L'immagine dell'ispirazione poetica come latte che deve nutrire i poeti è già stata usata in Purg., XXII, 101-102 (quel Greco / che le Muse lattar più ch'altri mai, riferito ad Omero).
Al v. 67 pareggio vale «lungo e difficile tratto di mare»; alcuni mss. leggono pileggio.
Ai vv. 73-75 la rosa è Maria, mentre i gigli sono gli Apostoli.
Al v. 79 mei, «trapassi», è latinismo (meare, già usato in XIII, 55).
Il v. 93 vuol dire che la luce di Maria vince col suo splendore quella degli altri beati in Cielo, così come sulla Terra vinse con la sua virtù tutte le altre creature.
Al v. 107 dia vuol dire «divina», nel senso di «splendente» (cfr. XIV, 34).
La spera supprema (v. 108) è l'Empireo, dove Maria sale per seguire Cristo; invece il real manto (v. 112) è il Primo Mobile, che circonda tutti gli altri Cieli.
Al v. 132 bobolce è latinismo (da bubulcus, «bifolco») e indica le anime dei beati come lavoratrici abili a coltivare il bene sulla Terra; altri l'hanno interpretato come «terre da arare», ipotesi meno probabile ma che non cambia il senso generale.
L'antico e... novo concilio (v. 138) sono le schiere dei beati del Vecchio e Nuovo Testamento. Il v. 139 allude ovviamente a san Pietro.
TestoCome l’augello,
intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, 3 che, per veder li aspetti disiati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, 6 previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che l’alba nasca; 9 così la donna mia stava eretta e attenta, rivolta inver’ la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta: 12 sì che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual è quei che disiando altro vorria, e sperando s’appaga. 15 Ma poco fu tra uno e altro quando, del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir più e più rischiarando; 18 e Beatrice disse: «Ecco le schiere del triunfo di Cristo e tutto ‘l frutto ricolto del girar di queste spere!». 21 Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia sì pieni, che passarmen convien sanza costrutto. 24 Quale ne’ plenilunii sereni Trivia ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, 27 vid’i’ sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l’accendea, come fa ‘l nostro le viste superne; 30 e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea. 33 Oh Beatrice, dolce guida e cara! Ella mi disse: «Quel che ti sobranza è virtù da cui nulla si ripara. 36 Quivi è la sapienza e la possanza ch’aprì le strade tra ‘l cielo e la terra, onde fu già sì lunga disianza». 39 Come foco di nube si diserra per dilatarsi sì che non vi cape, e fuor di sua natura in giù s’atterra, 42 la mente mia così, tra quelle dape fatta più grande, di sé stessa uscìo, e che si fesse rimembrar non sape. 45 «Apri li occhi e riguarda qual son io; tu hai vedute cose, che possente se’ fatto a sostener lo riso mio». 48 Io era come quei che si risente di visione oblita e che s’ingegna indarno di ridurlasi a la mente, 51 quand’io udi’ questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue del libro che ‘l preterito rassegna. 54 Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimnia con le suore fero del latte lor dolcissimo più pingue, 57 per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; 60 e così, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. 63 Ma chi pensasse il ponderoso tema e l’omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott’esso trema: 66 non è pareggio da picciola barca quel che fendendo va l’ardita prora, né da nocchier ch’a sé medesmo parca. 69 «Perché la faccia mia sì t’innamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo s’infiora? 72 Quivi è la rosa in che ‘l verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino». 75 Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei a la battaglia de’ debili cigli. 78 Come a raggio di sol che puro mei per fratta nube, già prato di fiori vider, coverti d’ombra, li occhi miei; 81 vid’io così più turbe di splendori, folgorate di sù da raggi ardenti, sanza veder principio di folgóri. 84 O benigna vertù che sì li ‘mprenti, sù t’essaltasti, per largirmi loco a li occhi lì che non t’eran possenti. 87 Il nome del bel fior ch’io sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse l’animo ad avvisar lo maggior foco; 90 e come ambo le luci mi dipinse il quale e il quanto de la viva stella che là sù vince come qua giù vinse, 93 per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona, e cinsela e girossi intorno ad ella. 96 Qualunque melodia più dolce suona qua giù e più a sé l’anima tira, parrebbe nube che squarciata tona, 99 comparata al sonar di quella lira onde si coronava il bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s’inzaffira. 102 «Io sono amore angelico, che giro l’alta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro; 105 e girerommi, donna del ciel, mentre che seguirai tuo figlio, e farai dia più la spera suprema perché lì entre». 108 Così la circulata melodia si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria. 111 Lo real manto di tutti i volumi del mondo, che più ferve e più s’avviva ne l’alito di Dio e nei costumi, 114 avea sopra di noi l’interna riva tanto distante, che la sua parvenza, là dov’io era, ancor non appariva: 117 però non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma che si levò appresso sua semenza. 120 E come fantolin che ‘nver’ la mamma tende le braccia, poi che ‘l latte prese, per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma; 123 ciascun di quei candori in sù si stese con la sua cima, sì che l’alto affetto ch’elli avieno a Maria mi fu palese. 126 Indi rimaser lì nel mio cospetto, ‘Regina celi’ cantando sì dolce, che mai da me non si partì ‘l diletto. 129 Oh quanta è l’ubertà che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua giù buone bobolce! 132 Quivi si vive e gode del tesoro che s’acquistò piangendo ne lo essilio di Babillòn, ove si lasciò l’oro. 135 Quivi triunfa, sotto l’alto Filio di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con l’antico e col novo concilio, colui che tien le chiavi di tal gloria. 139 |
ParafrasiCome l'uccello che, dopo aver riposato nel nido coi suoi piccoli, durante la notte che ci cela le cose sta fra le foglie amate e, per vedere l'aspetto dei piccoli e trovare il cibo con cui sfamarli (cosa per cui non esita ad affrontare gravi fatiche), attende il sorgere del sole su un ramo scoperto con fervida attesa, guardando fisso il cielo finché spunta l'alba;
così la mia donna (Beatrice) stava dritta e attenta, rivolta verso la parte del Cielo (quella meridiana) sotto cui il Sole sembra muoversi più lentamente: a tal punto che, vedendola io così piena di attesa, divenni come colui che desidera qualcosa ma, nell'attesa, si accontenta solamente di sperare. Ma trascorse poco tempo fra i due momenti, intendo dire dell'attesa e del vedere il Cielo che si rischiarava sempre di più; e Beatrice disse: «Ecco le schiere dei beati del trionfo di Cristo, e tutto il frutto prodotto dalle influenze di queste sfere celesti!» Mi sembrava che il suo viso fosse ardente di carità, e aveva gli occhi così pieni di gioia che sono costretto a passare oltre senza poterli descrivere. Come nelle notti di plenilunio sereno la Luna splende fra le stelle, che illuminano il cielo in tutte le sue zone, così io vidi un sole (Cristo) che illuminava migliaia di altre luci, come fa il nostro Sole con le stelle; e attraverso quella vivida luce traspariva la sostanza lucente (la figura umana di Cristo), così splendente alla mia vista che io non potevo sostenerne lo sguardo. Oh, Beatrice, dolce e cara guida! Lei mi disse: «Colui che ti sovrasta è una virtù superiore a qualunque altra. Qui è la sapienza e la potenza (Cristo) che aprì le strade fra Cielo e Terra (con la Resurrezione), cosa che fu lungamente desiderata». Come un fulmine erompe dalla nube perché si dilata, al punto che la nube non lo può contenere, e cade a terra contro la sua natura, così la mia mente, divenuta più grande fra quelle vivande (le bellezze celesti), uscì da se stessa e non è in grado ora di ricordare cosa fece in quel momento. «Apri gli occhi e guarda il mio aspetto; tu hai osservato cose tanto grandi (l'immagine di Cristo) che ti hanno reso abbastanza forte da sostenere la vista del mio sorriso». Io ero come colui che si scuote dopo una visione che ha dimenticato e che tenta invano di riportarla alla mente, quando io ascoltai questa proposta, degna di tanta gratitudine che non potrà mai essere cancellata dal libro della mia memoria. Se ora per aiutarmi risuonassero tutte quelle voci che Polimnia e le sue sorelle (le Muse) resero più ricche con la loro ispirazione, non potrei esprimere che un millesimo della verità, descrivendo il santo sorriso e quanto esso facesse risplendere il santo aspetto di Beatrice; e così, raffigurando il Paradiso, è inevitabile che il poema sacro salti delle cose, come chi trova il suo cammino interrotto. Ma chi considerasse il tema gravoso (la poesia del Paradiso) e le spalle mortali che se ne fanno carico, non le biasimerebbe se tremano sotto di esso: il tratto di mare che l'ardita prua (della mia nave poetica) sta percorrendo non è adatto a una piccola imbarcazione, né a un timoniere che risparmi le sue forze. «Perché il mio viso ti innamora al punto che tu non rivolgi lo sguardo al bel giardino (la schiera dei beati) che fiorisce sotto i raggi di Cristo? Qui c'è la rosa (Maria) in cui il Verbo Divino si incarnò; qui ci sono i gigli (gli Apostoli) grazie al cui profumo (la predicazione) l'umanità intraprese il retto cammino». Così disse Beatrice; e io, che ero pronto a eseguire i suoi comandi, affrontai di nuovo la battaglia della mia debole vista. Come i miei occhi, protetti dall'ombra, hanno già visto un prato fiorito illuminato dai raggi del sole che filtravano attraverso le nubi, così io vidi più schiere di luci (di beati), illuminate dall'alto dai raggi ardenti di Cristo, senza vedere l'origine del chiarore. O benevola virtù di Cristo che così imprimi la tua luce su quelle anime, ti elevasti in alto per consentire ai miei occhi di vedere, lì dove non ne avevano la forza. Il nome del bel fiore (Maria) che io invoco sempre mattino e sera spinse il mio animo ad osservare la luce più intensa (quella della Vergine); e non appena apparve a entrambi i miei occhi la quantità e la qualità di quella stella luminosa, che lassù vince (le altre luci) come quaggiù vinse (le altre creature in virtù), dall'alto scese una fiammella a forma di cerchio (l'arcangelo Gabriele), simile a una corona, che cinse Maria e iniziò a girarle attorno. Qualunque melodia terrena che suoni più dolcemente e che attiri a sé l'animo umano, sembrerebbe una nube squarciata da un tuono al confronto del suono di quella cetra (il canto di Gabriele) di cui era circondato il meraviglioso zaffiro (Maria) di cui il Cielo più luminoso (l'Empireo) si ingemma. «Io sono l'amore di un angelo, che giro attorno all'alta gioia che spira dal ventre che ospitò il nostro alto desiderio (Cristo); e continuerò a girare, regina del Cielo, finché seguirai tuo Figlio e renderai più splendente la sfera suprema (l'Empireo) per entrarvi dentro». Così si concludeva il canto dell'angelo che girava in tondo, e tutte le luci degli altri beati facevano risuonare il nome di Maria. L'involucro regale di tutte le sostanze del mondo (il Primo Mobile), che più arde d'amore e più prende impulso dallo spirito e dalle leggi divine, aveva sopra di noi la superficie interna così lontana che il suo aspetto ancora non appariva là dove mi trovavo: perciò i miei occhi non ebbero modo di seguire la fiamma incoronata (Maria con intorno l'arcangelo Gabriele), che si sollevò dietro suo Figlio (Cristo). E come un bambino tende le braccia verso la mamma, dopo essere stato allattato, per il suo affetto che si manifesta anche nei gesti esteriori, così ognuno di quei beati si protese verso l'alto con la sua cima, così che mi fu chiaro l'alto affetto che essi avevano per Maria. Poi restarono lì al mio cospetto, cantando 'Regina celi' con tanta dolcezza che tale piacere non mi lasciò mai. Oh, quanto è grande la ricchezza che è contenuta in quelle arche (forzieri) ricchissime (le anime dei beati), che furono in Terra buone contadine a seminare il bene! Qui (in Cielo) si vive e si gode del tesoro che si acquistò piangendo nell'esilio babilonese (sulla Terra), dove si lasciarono le ricchezze materiali. Qui, sotto l'alto Figlio di Dio e di Maria, celebra il trionfo della propria vittoria sul male, insieme alle anime del Vecchio e del Nuovo Testamento, colui (san Pietro) che tiene le chiavi di questa gloria. |