Purgatorio, Canto XV
G. Doré, Martirio di S. Stefano
"Non ti maravigliar s'ancor t'abbaglia
la famiglia del cielo", a me rispuose:
"messo è che viene ad invitar ch'om saglia..."
"Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com'a lucido corpo raggio vene..."
Poi vidi genti accese in foco d'ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: "Martira, martira!"...
la famiglia del cielo", a me rispuose:
"messo è che viene ad invitar ch'om saglia..."
"Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com'a lucido corpo raggio vene..."
Poi vidi genti accese in foco d'ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: "Martira, martira!"...
Argomento del Canto
Incontro con l'angelo della misericordia. Salita dalla II alla III Cornice. Spiegazione di Virgilio circa una frase di Guido del Duca. Esempi di mansuetudine. Ingresso nel fumo della III Cornice.
È il pomeriggio di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
È il pomeriggio di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
L'angelo della misericordia (1-39)
S. Dalì, L'angelo della misericordia
Il sole deve ancora percorrere fino all'inizio della sera lo stesso tratto che percorre al mattino tra le sei e le nove, per cui in Purgatorio è il vespro, mentre in Italia è mezzanotte. I raggi solari colpiscono Dante e Virgilio di fronte, perché i due hanno girato intorno al monte e procedono ora verso occidente, quando Dante si accorge che la luce davanti ai suoi occhi è molto aumentata e questo lo fa meravigliare, per cui il poeta si ripara gli occhi con la mano. La luce del sole colpisce Dante come se fosse riflessa, in modo simile a un raggio di luce che colpisce una superficie d'acqua o uno specchio, per cui il raggio sale formando un angolo identico a quello del raggio che scende, rispetto alla verticale; la luce che vede Dante è talmente forte che deve distogliere lo sguardo. Egli chiede a Virgilio cosa sia quel fulgore e il maestro lo invita a non meravigliarsi se la vista degli angeli ancora lo abbaglia, come fa quel messo celeste (l'angelo della misericordia) che li invita a salire. Ben presto Dante non solo non proverà più disagio a vedere cose simili, ma addirittura ne sarà lieto, per quanto la natura lo ha disposto a questo. I due raggiungono l'angelo, che con voce lieta li esorta a salire lungo una scala meno ripida delle precedenti; essi salgono, e dietro di loro sentono intonare il canto «Beati i misericordiosi».
Virgilio spiega una frase di Guido del Duca (40-81)
Dante e Virgilio salgono lungo la scala e il discepolo pensa di rivolgere al maestro un'utile domanda, per cui gli chiede di spiegargli cosa intendesse dire Guido del Duca parlando di beni il cui possesso esclude la condivisione. Virgilio risponde che il penitente conosceva il proprio peccato di invidia, perciò il suo rimprovero non è sorprendente: infatti gli uomini desiderano quei beni materiali il cui godimento è tanto minore quanto maggiori sono i beneficiari, il che suscita invidia. Ma se l'amore di Dio facesse desiderare i beni celesti, questo non avverrebbe, perché nell'Empireo quanto più numerosi sono i possessori di un bene, tanto maggiore ne è il godimento e tanto più si arde di carità. Dante non è soddisfatto della risposta ed è in dubbio, poiché non capisce come sia possibile che un bene, posseduto da molti, sia goduto in maggior misura che se goduto da pochi. Virgilio risponde che Dante pensa ai beni terreni, mentre quelli spirituali si rivolgono subito a chi ama; Dio si concede a seconda della carità che trova nell'anima, per cui in cielo l'amore è maggiore quantio più numerosi sono coloro che amano, come un raggio di luce riflesso da uno specchio all'altro. E se la spiegazione di Virgilio non è soddisfacente, Dante riceverà la chiosa più ampia di Beatrice, quindi deve affrettarsi a cancellare le cinque P che rimangono sulla sua fronte.
Esempi di mansuetudine: Maria, Pisistrato, S. Stefano (82-114)
Giotto, S. Stefano protomartire
Dante vorrebbe ringraziare il maestro, ma vede che è giunto ormai alla III Cornice e volge gli occhi per vedere cose nuove. Qui è rapito in una visione estatica, che gli mostra molte persone radunate in un Tempio, mentre una donna (Maria) entra e rimprovera dolcemente Gesù, che ha fatto preoccupare lei e suo padre. La visione svanisce e ne compare un'altra in cui una donna piange indispettita, mentre si rivolge a Pisistrato tiranno di Atene e lo esorta a vendicarsi di colui che ha osato baciare in pubblico la loro figlia. Il tiranno risponde benigno che, se chi li ama viene condannato, troppo dura sarà la punizione per chi li odia. Poi Dante vede persone accese d'ira che lapidano un giovane (S. Stefano), incitandosi l'un l'altro, mentre il martire cade a terra morente e volge gli occhi al cielo, chiedendo a Dio di perdonare i suoi uccisori con aspetto pietoso e mansueto.
Spiegazione di Virgilio (115-138)
Dante torna in sé e capisce di aver avuto delle visioni; Virgilio lo vede camminare lentamente come qualcuno che si sveglia da un sonno pesante, per cui gli chiede cosa gli è successo, visto che per un buon tratto di strada Dante ha camminato con gli occhi velati e le gambe impacciate, come un uomo vinto dal vino o dal sonno. Dante si dice pronto a raccontare a Virgilio quello che ha visto in estasi, ma il maestro dichiara di aver letto ogni cosa nella sua mente e ciò che Dante ha visto erano esempi di mansuetudine che devono distogliere dal peccato di ira. Egli non gli ha chiesto cosa avesse per conoscere la ragione del suo barcollare, ma per esortarlo a camminare velocemente, come si deve fare per incitare i pigri che sono restii a muoversi quando si svegliano.
Spiegazione di Virgilio (115-138)
Dante torna in sé e capisce di aver avuto delle visioni; Virgilio lo vede camminare lentamente come qualcuno che si sveglia da un sonno pesante, per cui gli chiede cosa gli è successo, visto che per un buon tratto di strada Dante ha camminato con gli occhi velati e le gambe impacciate, come un uomo vinto dal vino o dal sonno. Dante si dice pronto a raccontare a Virgilio quello che ha visto in estasi, ma il maestro dichiara di aver letto ogni cosa nella sua mente e ciò che Dante ha visto erano esempi di mansuetudine che devono distogliere dal peccato di ira. Egli non gli ha chiesto cosa avesse per conoscere la ragione del suo barcollare, ma per esortarlo a camminare velocemente, come si deve fare per incitare i pigri che sono restii a muoversi quando si svegliano.
Ingresso nel denso fumo della III Cornice (139-145)
I due poeti continuano a camminare mentre è ormai il vespro, attenti a guardare in avanti quanto i raggi bassi del sole glielo consentono: all'improvviso vedono avvicinarsi un fumo acre e denso, oscuro come la notte, dal quale risulta impossibile scansarsi. Il fumo li acceca completamente, togliendo loro la possibilità di respirare aria pura.
Interpretazione complessiva
Il Canto è un intermezzo narrativo e dottrinale che introduce al passaggio nella Cornice successiva, attraverso i tre momenti dell'apparizione dell'angelo, della spiegazione di Virgilio, degli esempi di mansuetudine. L'incontro con l'angelo della misericordia ricalca quello avvenuto nel Canto XII con l'angelo dell'umiltà, con la variante che qui Dante è abbagliato dal suo fulgore: Virgilio spiega che ciò è dovuto al fatto che la natura umana del poeta non gli consente di fissare lo sguardo nei messi celesti, proprio come non può guardare direttamente il sole che li colpisce di fronte, mentre più avanti ciò gli procurerà piacere (è il carattere del viaggio in Purgatorio come purificazione morale, per cui quanto più Dante sale tanto più si avvicina a Dio e si purga dai peccati: più avanti Virgilio dirà che l'angelo ha cancellato dalla sua fronte la seconda delle sette P).
La salita alla III Cornice lungo una scala meno ripida delle precedenti dà modo a Dante di chiedere spiegazioni circa una frase di Guido del Duca, che nel Canto XIV aveva parlato dei beni materiali come quelli il cui possesso esclude che siano condivisi con altri, il che suscita invidia negli uomini. Virgilio offre una spiegazione dottrinale, distinguendo tra i beni terreni che hanno questa caratteristica e quelli celesti che sono opposti, in quanto il loro godimento cresce quanto più numerosi sono coloro che li possiedono: la chiosa del maestro anticipa quelle che spesso Beatrice farà nella III Cantica, tali da suscitare altri dubbi nel poeta come avviene in questo caso, per cui Virgilio rimanda proprio alle più dettagliate spiegazioni di Beatrice una volta che Dante l'avrà incontrata. Virgilio sottolinea il carattere dei beni spirituali che sono concessi in misura maggiore quanto più forte è l'ardore di carità, il che riprende il suo duro rimprovero agli uomini che si lasciano attrarre dalle lusinghe del male, fatto in chiusura del Canto XIV: interessante è la similitudine della luce che si riflette da uno specchio all'altro, che si collega a quella proposta da Dante riguardo alla luce dell'angelo che lo abbaglia, ricca di elementi scientifici e precisazioni geometriche (l'elemento della luce domina largamente questo episodio, evidentemente per contrasto col buio fitto che avvolge la III Cornice e in cui i due poeti si ritroveranno alla fine del Canto).
L'ingresso nella III Cornice degli iracondi è accompagnata dagli esempi di mansuetudine, questa volta attraverso visioni che Dante osserva in una sorta di rapimento estatico. I tre esempi sono ancora una volta tratti dalla tradizione bibilica (Maria che rimprovera Gesù al Tempio, S. Stefano che perdona coloro che lo hanno martirizzato in preda all'ira) e da quella classica (Pisistrato che rifiuta di punire il giovane che ha baciato sua figlia in strada, aneddoto che Dante ricava da Valerio Massimo con una citazione quasi letterale). La domanda di Virgilio a Dante quando è tornato in sé è puramente didascalica, con la funzione di sottolineare che gli esempi di mansuetudine devono aprire il cuore alle acque de la pace in grado di estinguere il foco d'ira punito in questa Cornice, oltre che spingere il discepolo ad affrettare il passo senza indulgere alla pigrizia (forse ciò anticipa il peccato punito nella Cornice successiva, ovvero l'accidia). Il Canto si chiude con l'ingresso nel buio d'inferno della Cornice che rappresenta il contrappasso degli iracondi, i quali agirono in vita con la mente ottenebrata e gli occhi chiusi alla luce dell'amore di Dio di cui il Canto ha celebrato le lodi.
La salita alla III Cornice lungo una scala meno ripida delle precedenti dà modo a Dante di chiedere spiegazioni circa una frase di Guido del Duca, che nel Canto XIV aveva parlato dei beni materiali come quelli il cui possesso esclude che siano condivisi con altri, il che suscita invidia negli uomini. Virgilio offre una spiegazione dottrinale, distinguendo tra i beni terreni che hanno questa caratteristica e quelli celesti che sono opposti, in quanto il loro godimento cresce quanto più numerosi sono coloro che li possiedono: la chiosa del maestro anticipa quelle che spesso Beatrice farà nella III Cantica, tali da suscitare altri dubbi nel poeta come avviene in questo caso, per cui Virgilio rimanda proprio alle più dettagliate spiegazioni di Beatrice una volta che Dante l'avrà incontrata. Virgilio sottolinea il carattere dei beni spirituali che sono concessi in misura maggiore quanto più forte è l'ardore di carità, il che riprende il suo duro rimprovero agli uomini che si lasciano attrarre dalle lusinghe del male, fatto in chiusura del Canto XIV: interessante è la similitudine della luce che si riflette da uno specchio all'altro, che si collega a quella proposta da Dante riguardo alla luce dell'angelo che lo abbaglia, ricca di elementi scientifici e precisazioni geometriche (l'elemento della luce domina largamente questo episodio, evidentemente per contrasto col buio fitto che avvolge la III Cornice e in cui i due poeti si ritroveranno alla fine del Canto).
L'ingresso nella III Cornice degli iracondi è accompagnata dagli esempi di mansuetudine, questa volta attraverso visioni che Dante osserva in una sorta di rapimento estatico. I tre esempi sono ancora una volta tratti dalla tradizione bibilica (Maria che rimprovera Gesù al Tempio, S. Stefano che perdona coloro che lo hanno martirizzato in preda all'ira) e da quella classica (Pisistrato che rifiuta di punire il giovane che ha baciato sua figlia in strada, aneddoto che Dante ricava da Valerio Massimo con una citazione quasi letterale). La domanda di Virgilio a Dante quando è tornato in sé è puramente didascalica, con la funzione di sottolineare che gli esempi di mansuetudine devono aprire il cuore alle acque de la pace in grado di estinguere il foco d'ira punito in questa Cornice, oltre che spingere il discepolo ad affrettare il passo senza indulgere alla pigrizia (forse ciò anticipa il peccato punito nella Cornice successiva, ovvero l'accidia). Il Canto si chiude con l'ingresso nel buio d'inferno della Cornice che rappresenta il contrappasso degli iracondi, i quali agirono in vita con la mente ottenebrata e gli occhi chiusi alla luce dell'amore di Dio di cui il Canto ha celebrato le lodi.
Note e passi controversi
I vv. 1-6 indicano che da quel momento al tramonto mancano tre ore, ovvero il percorso che il sole (la spera del v. 2) compie al mattino dalle 6 sino alla fine dell'ora terza, le 9; quindi in Purgatorio è il vespro, mentre in Italia è mezzanotte. Molto discusso il v. 3, che paragona il sole a un fanciullo che scherza: è forse un'allusione al movimento mutevole del sole che provoca il ciclo delle stagioni, mentre è improbabile che Dante con spera intenda il Cielo del Sole o l'eclittica.
Il solecchio (v. 14) indica l'atto di ripararsi gli occhi dal sole con la mano, dal lat. soliculus. Il soverchio visibile (v. 15) indica ciò che della visione eccede le facoltà visive, con terminologia aristotelica e scolastica.
I vv. 16-21 descrivono il fenomeno della riflessione della luce, ovvero l'uguaglianza dell'angolo di incidenza e di quello di riflessione, per cui i due raggi (quello che cade sulla superficie riflettente e quello che sale riflesso) formano due angoli di eguale ampiezza rispetto alla verticale al piano (il cader de la pietra in igual tratta). Parecchio significa «uguale».
L'espressione Godi tu che vinci (v. 39) non è molto chiara, anche se forse è una parafrasi delle parole con cui Cristo conclude le beatitudini: Gaudete et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in coelis (Matth., V, 12: «Gioite ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli»).
I vv. 44-45 si riferiscono alle parole di Guido del Duca (XIV, 86-87).
Il v. 69 si riferisce alla credenza della fisica del tempo di Dante, secondo cui la luce si dirigeva solo verso i corpi lucidi.
Il verbo s'intende (v. 73) vuol dire «si ama» e deriva dal prov. s'entendre en; alcuni mss. leggono s'incende.
I vv. 88-92 si rifanno a Luc., II, 41-48, il passo evangelico in cui Maria e Giuseppe smarriscono Gesù dodicenne nella folla di Gerusalemme e lo ritrovano tre giorni dopo al Tempio intento a disputare con i dottori; Maria lo rimprovera senza ira, dicendogli Fili, quid fecisti nobis sic? ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te (Dante traduce alla lettera).
I vv. 94-105 si rifanno a Valerio Massimo (Mem., V, I), che narra l'aneddoto di Pisistrato, tiranno di Atene del VI sec. a.C.: un giovane aveva baciato sua figlia pubblicamente e la moglie, indignata, gli aveva chiesto di punirlo; il tiranno aveva risposto con mansuetudine (Si eos, qui nos amant, interficimus, quid iis faciemus quibus odio sumus?, ovvero: «Se uccidiamo coloro che ci amano, cosa faremo a quelli che ci odiano?»). La villa (v. 97) è Atene, per dare il nome alla quale ci fu una lunga contesa tra Nettuno e Minerva.
Le visioni avute da Dante sono definite non falsi errori (v. 117), in quanto non esistenti fuori dalla sua anima, ma veritiere.
Le larve citate da Virgilio (v. 127) sono le maschere dei latini; parve (v. 129) è un altro latinismo («piccole»).
I vv. 134-135 non sono molto chiari, essendoci due possibili interpretazioni, a seconda che il v. 135 voglia dire «che non vede più quando il corpo giace morto», oppure «quando vede qualcuno che cade a terra svenuto».
Il solecchio (v. 14) indica l'atto di ripararsi gli occhi dal sole con la mano, dal lat. soliculus. Il soverchio visibile (v. 15) indica ciò che della visione eccede le facoltà visive, con terminologia aristotelica e scolastica.
I vv. 16-21 descrivono il fenomeno della riflessione della luce, ovvero l'uguaglianza dell'angolo di incidenza e di quello di riflessione, per cui i due raggi (quello che cade sulla superficie riflettente e quello che sale riflesso) formano due angoli di eguale ampiezza rispetto alla verticale al piano (il cader de la pietra in igual tratta). Parecchio significa «uguale».
L'espressione Godi tu che vinci (v. 39) non è molto chiara, anche se forse è una parafrasi delle parole con cui Cristo conclude le beatitudini: Gaudete et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in coelis (Matth., V, 12: «Gioite ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli»).
I vv. 44-45 si riferiscono alle parole di Guido del Duca (XIV, 86-87).
Il v. 69 si riferisce alla credenza della fisica del tempo di Dante, secondo cui la luce si dirigeva solo verso i corpi lucidi.
Il verbo s'intende (v. 73) vuol dire «si ama» e deriva dal prov. s'entendre en; alcuni mss. leggono s'incende.
I vv. 88-92 si rifanno a Luc., II, 41-48, il passo evangelico in cui Maria e Giuseppe smarriscono Gesù dodicenne nella folla di Gerusalemme e lo ritrovano tre giorni dopo al Tempio intento a disputare con i dottori; Maria lo rimprovera senza ira, dicendogli Fili, quid fecisti nobis sic? ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te (Dante traduce alla lettera).
I vv. 94-105 si rifanno a Valerio Massimo (Mem., V, I), che narra l'aneddoto di Pisistrato, tiranno di Atene del VI sec. a.C.: un giovane aveva baciato sua figlia pubblicamente e la moglie, indignata, gli aveva chiesto di punirlo; il tiranno aveva risposto con mansuetudine (Si eos, qui nos amant, interficimus, quid iis faciemus quibus odio sumus?, ovvero: «Se uccidiamo coloro che ci amano, cosa faremo a quelli che ci odiano?»). La villa (v. 97) è Atene, per dare il nome alla quale ci fu una lunga contesa tra Nettuno e Minerva.
Le visioni avute da Dante sono definite non falsi errori (v. 117), in quanto non esistenti fuori dalla sua anima, ma veritiere.
Le larve citate da Virgilio (v. 127) sono le maschere dei latini; parve (v. 129) è un altro latinismo («piccole»).
I vv. 134-135 non sono molto chiari, essendoci due possibili interpretazioni, a seconda che il v. 135 voglia dire «che non vede più quando il corpo giace morto», oppure «quando vede qualcuno che cade a terra svenuto».
Testo Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
e ‘l principio del dì par de la spera che sempre a guisa di fanciullo scherza, 3 tanto pareva già inver’ la sera essere al sol del suo corso rimaso; vespero là, e qui mezza notte era. 6 E i raggi ne ferien per mezzo ‘l naso, perché per noi girato era sì ‘l monte, che già dritti andavamo inver’ l’occaso, 9 quand’io senti’ a me gravar la fronte a lo splendore assai più che di prima, e stupor m’eran le cose non conte; 12 ond’io levai le mani inver’ la cima de le mie ciglia, e fecimi ‘l solecchio, che del soverchio visibile lima. 15 Come quando da l’acqua o da lo specchio salta lo raggio a l’opposita parte, salendo su per lo modo parecchio 18 a quel che scende, e tanto si diparte dal cader de la pietra in igual tratta, sì come mostra esperienza e arte; 21 così mi parve da luce rifratta quivi dinanzi a me esser percosso; per che a fuggir la mia vista fu ratta. 24 «Che è quel, dolce padre, a che non posso schermar lo viso tanto che mi vaglia», diss’io, «e pare inver’ noi esser mosso?». 27 «Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia la famiglia del cielo», a me rispuose: «messo è che viene ad invitar ch’om saglia. 30 Tosto sarà ch’a veder queste cose non ti fia grave, ma fieti diletto quanto natura a sentir ti dispuose». 33 Poi giunti fummo a l’angel benedetto, con lieta voce disse: «Intrate quinci ad un scaleo vie men che li altri eretto». 36 Noi montavam, già partiti di linci, e ‘Beati misericordes!’ fue cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'. 39 Lo mio maestro e io soli amendue suso andavamo; e io pensai, andando, prode acquistar ne le parole sue; 42 e dirizza’mi a lui sì dimandando: «Che volse dir lo spirto di Romagna, e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?». 45 Per ch’elli a me: «Di sua maggior magagna conosce il danno; e però non s’ammiri se ne riprende perché men si piagna. 48 Perché s’appuntano i vostri disiri dove per compagnia parte si scema, invidia move il mantaco a’ sospiri. 51 Ma se l’amor de la spera supprema torcesse in suso il disiderio vostro, non vi sarebbe al petto quella tema; 54 ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’, tanto possiede più di ben ciascuno, e più di caritate arde in quel chiostro». 57 «Io son d’esser contento più digiuno», diss’io, «che se mi fosse pria taciuto, e più di dubbio ne la mente aduno. 60 Com’esser puote ch’un ben, distributo in più posseditor, faccia più ricchi di sé, che se da pochi è posseduto?». 63 Ed elli a me: «Però che tu rificchi la mente pur a le cose terrene, di vera luce tenebre dispicchi. 66 Quello infinito e ineffabil bene che là sù è, così corre ad amore com’a lucido corpo raggio vene. 69 Tanto si dà quanto trova d’ardore; sì che, quantunque carità si stende, cresce sovr’essa l’etterno valore. 72 E quanta gente più là sù s’intende, più v’è da bene amare, e più vi s’ama, e come specchio l’uno a l’altro rende. 75 E se la mia ragion non ti disfama, vedrai Beatrice, ed ella pienamente ti torrà questa e ciascun’altra brama. 78 Procaccia pur che tosto sieno spente, come son già le due, le cinque piaghe, che si richiudon per esser dolente». 81 Com’io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’, vidimi giunto in su l’altro girone, sì che tacer mi fer le luci vaghe. 84 Ivi mi parve in una visione estatica di sùbito esser tratto, e vedere in un tempio più persone; 87 e una donna, in su l’entrar, con atto dolce di madre dicer: «Figliuol mio perché hai tu così verso noi fatto? 90 Ecco, dolenti, lo tuo padre e io ti cercavamo». E come qui si tacque, ciò che pareva prima, dispario. 93 Indi m’apparve un’altra con quell’acque giù per le gote che ‘l dolor distilla quando di gran dispetto in altrui nacque, 96 e dir: «Se tu se’ sire de la villa del cui nome ne’ dèi fu tanta lite, e onde ogni scienza disfavilla, 99 vendica te di quelle braccia ardite ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto». E ‘l segnor mi parea, benigno e mite, 102 risponder lei con viso temperato: «Che farem noi a chi mal ne disira, se quei che ci ama è per noi condannato?». 105 Poi vidi genti accese in foco d’ira con pietre un giovinetto ancider, forte gridando a sé pur: «Martira, martira!». 108 E lui vedea chinarsi, per la morte che l’aggravava già, inver’ la terra, ma de li occhi facea sempre al ciel porte, 111 orando a l’alto Sire, in tanta guerra, che perdonasse a’ suoi persecutori, con quello aspetto che pietà diserra. 114 Quando l’anima mia tornò di fori a le cose che son fuor di lei vere, io riconobbi i miei non falsi errori. 117 Lo duca mio, che mi potea vedere far sì com’om che dal sonno si slega, disse: «Che hai che non ti puoi tenere, 120 ma se’ venuto più che mezza lega velando li occhi e con le gambe avvolte, a guisa di cui vino o sonno piega?». 123 «O dolce padre mio, se tu m’ascolte, io ti dirò», diss’io, «ciò che m’apparve quando le gambe mi furon sì tolte». 126 Ed ei: «Se tu avessi cento larve sovra la faccia, non mi sarian chiuse le tue cogitazion, quantunque parve. 129 Ciò che vedesti fu perché non scuse d’aprir lo core a l’acque de la pace che da l’etterno fonte son diffuse. 132 Non dimandai "Che hai?" per quel che face chi guarda pur con l’occhio che non vede, quando disanimato il corpo giace; 135 ma dimandai per darti forza al piede: così frugar conviensi i pigri, lenti ad usar lor vigilia quando riede». 138 Noi andavam per lo vespero, attenti oltre quanto potean li occhi allungarsi contra i raggi seròtini e lucenti. 141 Ed ecco a poco a poco un fummo farsi verso di noi come la notte oscuro; né da quello era loco da cansarsi. Questo ne tolse li occhi e l’aere puro. 145 |
ParafrasiQuanto è lo spazio percorso dal sole, simile a un fanciullo che gioca, dall'inizio del giorno sino alla fine dell'ora terza, altrettanto doveva ancora percorrere fino all'inizio della sera; in Purgatorio era il vespro, mentre in Italia era mezzanotte.
E i raggi solari ci colpivano in pieno viso, poiché noi giravamo intorno al monte e procedevamo dritti verso occidente, quando io mi sentii abbagliare da un fulgore molto più intenso di prima ed ero stupito da quel fenomeno che non mi spiegavo; allora sollevai le mani sopra le mie ciglia, proteggendo gli occhi dalla luce eccessiva rispetto alle capacità della mia vista. Come quando il raggio luminoso viene riflesso dall'acqua o da uno specchio, così che il raggio che sale forma un angolo identico a quello del raggio che scende rispetto alla verticale al piano, conformemente a quanto l'esperienza e la scienza dimostrano; così mi sembrò di essere colpito in quel punto da una luce riflessa, cosa che mi spinse a distogliere in fretta lo sguardo. Io dissi: «Che cos'è quello, dolce padre, davanti al quale non posso proteggere la vista senza essere abbagliato, e che sembra muovere verso di noi?» Mi rispose: «Non stupirti se gli angeli ti abbagliano ancora: quello è un messo celeste che viene a invitarci a salire. Ben presto vedere certe cose non solo non ti darà fastidio, ma ti procurerà gioia per quanto la natura ti ha disposto a ciò». Dopo che raggiungemmo l'angelo benedetto, egli disse con voce lieta: «Accedete qui ad una scala, meno ripida delle altre». Noi salivamo, ormai allontanatici da quel punto, e dietro di noi fu cantato 'Beati i misericordiosi', e 'Godi tu che vinci'. Il mio maestro e io, soli, salivamo entrambi; e io pensai, mentre salivo, di acquistare vantaggio grazie alle sue parole; e mi rivolsi a lui domandandogli così: «Cosa volle dire lo spirito di Romagna (Guido del Duca) parlando di 'esclusione' e di 'compagni'?» Allora mi rispose: «Egli conosce il danno del suo maggior peccato; dunque non ci si deve stupire se lo rimprovera, perché non se ne debba provare dolore. L'invidia spinge a sospirare perché i vostri desideri si concentrano su quei beni il cui possesso diminuisce, quanti più sono coloro che li possiedono. Ma se l'amore dell'Empireo indirizzasse il vostro desiderio verso l'alto, il petto non avrebbe quel timore; infatti in Cielo, quanto più numerosi sono coloro che godono di un bene, tanto maggiore è il bene posseduto, e più carità arde in quel sacro luogo». Io dissi: «Sono più lontano dall'essere soddisfatto che se non ti avessi chiesto nulla, e nella mia mente nutro ancora più dubbi. Come può essere che un bene, distribuito fra più possessori, renda quelli più ricchi di sé che se fosse goduto da pochi?» E lui a me: «Poiché tu pensi solo ai beni terreni, ricavi delle tenebre dalla vera luce. Quel bene infinito e inesprimibile che è lassù in Cielo, corre all'amore proprio come il raggio luminoso va verso un corpo lucido. Si concede tanto più, quanto più trova l'ardore di carità; cosicché, quanto si estende la carità di ognuno, tanto più aumenta in lui l'eterno bene. E quanta più gente lassù si ama, tanto più bene vi è da amare e tanto più si ama, e l'amore si riflette dall'uno all'altro come la luce da uno specchio. E se il mio ragionamento non ti appaga, tu vedrai Beatrice e lei ti soddisferà pienamente questo e altri desideri. Affrettati allora a cancellare le altre cinque P come lo sono già le prime due, che scompaiono grazie al tuo pentimento». Mentre volevo dire 'Sono soddisfatto', mi vidi giunto nell'altra Cornice, così che i miei occhi desiderosi mi fecero tacere. Lì mi sembrò di essere rapito in una visione estatica, e di vedere in un tempio molte persone; e vedevo una donna (Maria), sulla porta, che diceva con l'atteggiamento dolce di una madre: «Figliolo mio, perché ti sei comportato così verso di noi? Ecco, io e tuo padre ti cercavamo addolorati». E non appena tacque, svanì il contenuto di quella visione. Poi mi apparve un'altra donna, col volto rigato da lacrime causate dal dolore generato da una grande rabbia verso qualcuno, che diceva: «Se tu sei signore della città (Atene) sul cui nome ci fu una grande lite fra gli dei, e dalla quale deriva ogni scienza, vendicati di quelle braccia ardite che abbracciarono nostra figlia, o Pisistrato». E mi sembrava che il signore, benevolo e mite, le rispondesse con viso equilibrato: «Che faremo a chi ci vuol male, se condanniamo coloro che ci amano?» Poi vidi persone accese dal fuoco dell'ira, che uccidevano un giovane lapidandolo, gridando forte l'uno all'altro: «Uccidi, uccidi!» E vedevo lui che si chinava a terra ormai quasi morente, ma rivolgeva gli occhi verso il cielo e pregava il Signore, nonostante tanta violenza, di perdonare i suoi persecutori, con quell'aspetto che genera pietà. Quando la mia anima tornò in sé e percepì le cose reali all'esterno, io riconobbi di aver avuto visioni dal contenuto veritiero. Il mio maestro, che mi vedeva simile a un uomo che esce poco alla volta dal sonno, disse: «Che cos'hai, che non ti reggi in piedi e hai camminato per più di mezza lega (per molta strada) con gli occhi velati e le gambe impacciate, come qualcuno gravato dal vino o dal sonno?» Io dissi: «O dolce padre mio, se mi ascolti io ti dirò ciò che mi è apparso quando le gambe non mi reggevano». E lui: «Se tu avessi cento maschere sopra il volto, i tuoi pensieri, per quanto minimi, non mi sarebbero nascosti. Ciò che hai visto voleva indurti a non rifiutare di aprire il cuore alle acque della pace (alla mansuetudine), che sono versate dalla fonte eterna (l'amore di Dio). Non ti chiesi cosa avessi come fa quello che guarda con l'occhio corporeo che non vede, quando il corpo giace esanime; ma te lo chiesi per accelerare il tuo passo: così bisogna pungolare i pigri, lenti a muoversi quando tornano svegli». Noi camminavamo nel vespro, fissando gli occhi davanti a noi per quanto ce lo consentivano i raggi del sole, bassi e luminosi. Ed ecco poco a poco avanzare verso di noi un fumo, oscuro come la notte, dal quale non era possibile scansarsi; questo ci accecò e ci tolse l'aria pura. |