Purgatorio, Canto IX
W. Blake, La porta del Purgatorio
...in sogno mi parea veder sospesa
un'aguglia nel ciel con penne d'oro,
con l'ali aperte e a calare intesa...
"...Tu se' omai al purgatorio giunto:
vedi là il balzo che 'l chiude dintorno;
vedi l'entrata là 've par digiunto..."
Sette P ne la fronte mi descrisse
col punto de la spada e "Fa che lavi,
quando se' dentro, queste piaghe" disse...
un'aguglia nel ciel con penne d'oro,
con l'ali aperte e a calare intesa...
"...Tu se' omai al purgatorio giunto:
vedi là il balzo che 'l chiude dintorno;
vedi l'entrata là 've par digiunto..."
Sette P ne la fronte mi descrisse
col punto de la spada e "Fa che lavi,
quando se' dentro, queste piaghe" disse...
Argomento del Canto
Dante si addormenta nella valletta. Sogno dell'aquila (santa Lucia porta dante alla porta del Purgatorio). Incontro con l'angelo guardiano, che incide sette P sulla fronte di Dante. Ingresso in Purgatorio.
È la notte tra domenica 10 aprile (o 27 marzo) e lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
È la notte tra domenica 10 aprile (o 27 marzo) e lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
Dante si addormenta e sogna (1-33)
G. Doré, L'aquila ghermisce Dante
L'aurora sta ormai imbiancando il cielo a oriente, nell'emisfero boreale, con la costellazione dello Scorpione di fronte ad essa, mentre nel Purgatorio sono già trascorse circa tre ore dall'inizio della notte. Dante, affaticato per il viaggio e per il fatto di avere un corpo in carne e ossa, si sdraia sull'erba nella valletta e si addormenta. Verso l'alba, quando la rondine emette i suoi stridi e la mente umana fa dei sogni rivelatori della realtà, il poeta sogna di vedere sopra di sé un'aquila dalle penne d'oro, che volteggia e sembra sul punto di scendere a terra. Dante nel sogno pensa di essere sul monte Ida, là dove Ganimede fu rapito da Giove tramutatosi in aquila, e pensa fra sé che forse il rapace è solito colpire in quel luogo le sue prede. Poi sogna che l'aquila piombi su di lui e lo ghermisca, portandolo in alto sino alla sfera del fuoco dove gli sembra di bruciare: nel sogno prova dolore, il che lo induce a svegliarsi improvvisamente.
Risveglio di Dante e spiegazione di Virgilio (34-69)
Dante si scuote non diversamente da Achille, quando si risvegliò a Sciro non sapendo dove si trovasse poiché la madre Teti lo aveva rapito a Chirone mentre dormiva. Dante si sveglia d'improvviso e impallidisce, raggelando: accanto c'è solo Virgilio, mentre il sole è già alto nel cielo e lo sguardo del poeta è rivolto al mare. Virgilio si affretta a spiegargli che non ha nulla da temere e deve anzi confortarsi, poiché il viaggio procede bene ed egli è giunto alla porta del Purgatorio, scavata nella parete rocciosa del monte là dove il maestro gli indica. Virgilio spiega inoltre che poco prima, sul fare dell'alba quando Dante dormiva, una donna era giunta nella valletta dicendo di essere santa Lucia e prendendo il poeta addormentato, per condurlo in alto. Sordello e gli altri principi della valletta erano rimasti lì e Dante era stato trasportato alla porta del Purgatorio quando fu giorno fatto, seguito dallo stesso Virgilio. Lucia aveva deposto Dante in quel punto, ma prima i suoi occhi avevano indicato al maestro l'accesso al monte, quindi la santa se ne era andata proprio nel momento del risveglio di Dante. Il poeta è riconfortato dalle parole di Virgilio e appena il maestro lo vede privo di dubbi e di paure procede verso la porta, seguito da Dante stesso.
Risveglio di Dante e spiegazione di Virgilio (34-69)
Dante si scuote non diversamente da Achille, quando si risvegliò a Sciro non sapendo dove si trovasse poiché la madre Teti lo aveva rapito a Chirone mentre dormiva. Dante si sveglia d'improvviso e impallidisce, raggelando: accanto c'è solo Virgilio, mentre il sole è già alto nel cielo e lo sguardo del poeta è rivolto al mare. Virgilio si affretta a spiegargli che non ha nulla da temere e deve anzi confortarsi, poiché il viaggio procede bene ed egli è giunto alla porta del Purgatorio, scavata nella parete rocciosa del monte là dove il maestro gli indica. Virgilio spiega inoltre che poco prima, sul fare dell'alba quando Dante dormiva, una donna era giunta nella valletta dicendo di essere santa Lucia e prendendo il poeta addormentato, per condurlo in alto. Sordello e gli altri principi della valletta erano rimasti lì e Dante era stato trasportato alla porta del Purgatorio quando fu giorno fatto, seguito dallo stesso Virgilio. Lucia aveva deposto Dante in quel punto, ma prima i suoi occhi avevano indicato al maestro l'accesso al monte, quindi la santa se ne era andata proprio nel momento del risveglio di Dante. Il poeta è riconfortato dalle parole di Virgilio e appena il maestro lo vede privo di dubbi e di paure procede verso la porta, seguito da Dante stesso.
La porta del Purgatorio. L'angelo guardiano (70-93)
G. Doré, L'angelo guardiano
Dante avverte il lettore che la materia del suo poema si innalza, perciò
il suo stile diventerà d'ora in avanti più elevato. I due poeti si
avvicinano al punto in cui la parete rocciosa del monte è spaccata e
dove c'è una porta alla quale si sale lungo tre gradini, di colore
diverso, e sulla soglia c'è un angelo che fa la guardia e non dice
nulla. Dante fissa lo sguardo e vede che l'angelo siede sul gradino più
alto e il suo volto è così luminoso che non riesce a vederlo; egli tiene
in mano una spada, che riflette i raggi del sole e impedisce a Dante di
vederla bene. L'angelo chiede ai due che cosa vogliono e chi li ha
condotti lì, avvertendoli che l'accesso alla porta potrebbe recare
danno. Virgilio risponde che santa Lucia poco prima ha loro indicato la
porta, quindi l'angelo dà ai due il permesso di salire i gradini.
Le sette P sulla fronte di Dante. Accesso al Purgatorio (94-145)
La porta del Purgatorio (min. XIV sec.)
Dante inizia salire i tre gradini: il primo è di marmo bianco e candido, talmente chiaro che il poeta ci si può specchiare; il secondo è molto scuro, formato da una pietra ruvida che presenta una spaccatura nella lunghezza e nella larghezza; il terzo sembra di porfido, rosso come il sangue che sgorga da una vena. L'angelo tiene i piedi su quest'ultimo e siede sulla soglia, simile al diamante. Virgilio conduce Dante lungo i tre gradini e lo invita a chiedere umilmente di aprire la porta. Il poeta si getta devotamente ai piedi dell'angelo, chiedendo misericordia dopo essersi battuto per tre volte il petto. L'angelo incide sette P sulla fronte di Dante con la punta della spada, raccomandandogli di lavare queste piaghe una volta avuto accesso alle Cornici. L'angelo estrae dalla sua veste, del colore grigio della cenere, due chiavi, una d'oro e l'altra d'argento, con le quali apre la porta usando prima quella argentea. L'angelo avverte che se una delle due chiavi non funziona la porta non può aprirsi, aggiungendo che quella d'oro è più preziosa, ma quella d'argento richiede molta scienza e acutezza in quanto è quella che permette al penitente di entrare. Spiega inoltre che le chiavi gli sono state date da san Pietro, il quale gli ha raccomandato di sbagliare nell'aprire piuttosto che nel tenere chiusa la porta, purché i penitenti mostrino una sincera contrizione. Poi l'angelo spinge la porta per aprirla, dicendo di entrare e avvertendo i due poeti che chi guarda indietro torna fuori. Gli spigoli della porta, fatti di metallo massiccio, ruotano intorno ai cardini ed emettono un forte stridore, mostrando che la porta è restia ad aprirsi più di quanto lo fu la rupe Tarpea dopo la rimozione di Metello. Dante ascolta con attenzione e gli pare di udire una voce che canta l'inno Te Deum laudamus, in modo simile ai canti alternati al suono dell'organo, per cui le parole ora si sentono e ora no.
Interpretazione complessiva
Il Canto funge da passaggio tra la prima parte della Cantica, dedicata per lo più all'Antipurgatorio, e la seconda dedicata alle Cornici e al luogo del secondo regno dove le anime si purificano dai peccati, il che corrisponde a un innalzamento della materia e di conseguenza a un affinamento dello stile poetico nei Canti successivi (è Dante ad avvertire i lettori con l'appello ai vv. 70-72, che anticipa quelli simili che saranno assai frequenti nel Paradiso). Questa sorta di piccolo proemio cade a metà circa del Canto, dopo che Dante si è addormentato nella valletta all'inizio della notte e ha sognato un'aquila che lo ha ghermito sul monte Ida e trasportato in alto, che come poi Virgilio spiegherà non era altri che santa Lucia che portava il poeta alla porta del Purgatorio. L'episodio si apre con la famosa descrizione dell'aurora, assai problematica e variamente interpretata, anche se probabilmente Dante allude al sorgere dell'aurora solare nell'emisfero boreale cui corrisponde, nel Purgatorio, l'inizio della notte; il poeta si addormenta vinto dalla stanchezza e verso l'alba, quando si credeva che i sogni fossero veritieri, fa il sogno dell'aquila, anch'esso variamente interpretato e che forse è solo la traduzione in termini visivi dell'aiuto di Lucia che agevola Dante per la sua via. Del resto l'aquila era l'uccello sacro a Giove e simbolo dell'autorità imperiale, il che ha poco a che fare con il significato allegorico di Lucia (che qui, come già nel Canto II dell'Inferno, è la grazia illuminante che assiste l'uomo per consentirgli di salvarsi). Il risveglio di Dante è traumatico in quanto non sa dove si trova, per cui Virgilio deve rassicurarlo e indicargli la porta del Purgatorio dicendogli che ormai il viaggio è a buon punto; Dante si scuote anche perché nel sogno gli sembrava di attraversare la sfera del fuoco e il calore lo ha svegliato, e secondo alcuni commentatori è probabile che egli abbia in realtà sentito il calore del sole che è già alto sull'orizzonte e lo colpisce una volta che Lucia lo ha deposto di fronte alla porta. Il sogno di Dante anticipa gli altri due che farà negli altri pernottamenti in Purgatorio (nei Canti XIX e XXVII), anch'essi allegorici e analogamente interpretati.
La seconda parte del Canto è ovviamente dedicata alla descrizione della porta custodita dall'angelo, nonché del complesso rituale cui Dante deve sottoporsi prima di essere ammesso alle Cornici dall'angelo stesso. La simbologia è connessa ovviamente al riconoscimento dei propri peccati e all'assoluzione da parte dell'angelo, che riguarda Dante come tutti i penitenti che di lì devono passare: i tre gradini che conducono alla porta corrispondono quasi certamente ai tre momenti del sacramento della confessione, ovvero la contritio cordis (la consapevolezza dei peccati: è il primo gradino, di marmo bianco in cui Dante può specchiarsi), la confessio oris (la confessione vera e propria: è il secondo gradino, di pietra scura e screpolata, che rappresenta lo spezzarsi della durezza dell'animo) e la satisfactio operis (la soddisfazione per mezzo di opere: è il terzo gradino, rosso come l'ardore di carità necessario a rimediare ai peccati commessi). Variamente interpretata anche la spada di cui l'angelo guardiano è armato, che forse è simbolo della giustizia o dell'ufficio del sacerdote confessore: con essa l'angelo incide sulla fronte di Dante le sette P che rappresentano ovviamente i sette peccati capitali, che il poeta dovrà purificare moralmente durante l'ascesa del monte (esse saranno cancellate all'uscita da ogni Cornice). L'angelo ammette Dante in Purgatorio e ne apre la porta con le due chiavi (una d'oro e l'altra d'argento) che tiene sotto la veste color cenere, simbolo quest'ultima della mortificazione della penitenza o forse dell'umiltà del confessore: la chiave d'oro rappresenta certo l'autorità di dare l'assoluzione che al confessore deriva da Dio e dalla Chiesa, quella argentea (che secondo l'angelo vuol troppa / d'arte e d'ingegno) è invece la scienza e la sapienza che il confessore stesso deve avere per valutare i peccati commessi. Dante sottolinea che entrambe sono state date all'angelo da san Pietro e che se una delle due non funziona l'apertura della porta, ovvero l'ammissione del peccatore al Purgatorio, è impossibile: è una velata polemica contro le facili indulgenze di cui la Chiesa faceva mercato nel Trecento, come lo è il fatto che la porta si apre a fatica e producendo un tremendo stridore, nel senso che il perdono di Dio è concesso solo a chi sinceramente si è pentito delle proprie colpe e ciò avviene assai di rado.
Una volta varcata la soglia del Purgatorio, per Dante e la sua guida inizia un nuovo cammino che li porterà alla tappa successiva, ovvero l'ingresso nell'Eden sulla cima del monte: anche allora ci sarà un innalzamento dello stile, mentre qui Dante è colpito dal suono melodioso di alcune voci che intonano il Te Deum laudamus, in modo tale che egli non ne sente tutte le parole (come quando in chiesa si canta in alternanza al suono dell'organo). Siamo ormai entrati in una dimensione diversa da quella dell'Antipurgatorio, dominata dalla serena rassegnazione delle anime che espiano attivamente le loro pene, come farà anche Dante unendosi moralmente a loro: il passaggio in ogni Cornice avverrà secondo un cerimoniale fisso, in cui il canto di Salmi o inni avrà una parte importante (ed è stato osservato come ciò renda il Purgatorio simile a un enorme monastero, in cui ogni momento è scandito da uffici liturgici precisi: a ciò, forse, rimanda la similitudine degli organi, peraltro molto discussa, che chiude questo Canto).
La seconda parte del Canto è ovviamente dedicata alla descrizione della porta custodita dall'angelo, nonché del complesso rituale cui Dante deve sottoporsi prima di essere ammesso alle Cornici dall'angelo stesso. La simbologia è connessa ovviamente al riconoscimento dei propri peccati e all'assoluzione da parte dell'angelo, che riguarda Dante come tutti i penitenti che di lì devono passare: i tre gradini che conducono alla porta corrispondono quasi certamente ai tre momenti del sacramento della confessione, ovvero la contritio cordis (la consapevolezza dei peccati: è il primo gradino, di marmo bianco in cui Dante può specchiarsi), la confessio oris (la confessione vera e propria: è il secondo gradino, di pietra scura e screpolata, che rappresenta lo spezzarsi della durezza dell'animo) e la satisfactio operis (la soddisfazione per mezzo di opere: è il terzo gradino, rosso come l'ardore di carità necessario a rimediare ai peccati commessi). Variamente interpretata anche la spada di cui l'angelo guardiano è armato, che forse è simbolo della giustizia o dell'ufficio del sacerdote confessore: con essa l'angelo incide sulla fronte di Dante le sette P che rappresentano ovviamente i sette peccati capitali, che il poeta dovrà purificare moralmente durante l'ascesa del monte (esse saranno cancellate all'uscita da ogni Cornice). L'angelo ammette Dante in Purgatorio e ne apre la porta con le due chiavi (una d'oro e l'altra d'argento) che tiene sotto la veste color cenere, simbolo quest'ultima della mortificazione della penitenza o forse dell'umiltà del confessore: la chiave d'oro rappresenta certo l'autorità di dare l'assoluzione che al confessore deriva da Dio e dalla Chiesa, quella argentea (che secondo l'angelo vuol troppa / d'arte e d'ingegno) è invece la scienza e la sapienza che il confessore stesso deve avere per valutare i peccati commessi. Dante sottolinea che entrambe sono state date all'angelo da san Pietro e che se una delle due non funziona l'apertura della porta, ovvero l'ammissione del peccatore al Purgatorio, è impossibile: è una velata polemica contro le facili indulgenze di cui la Chiesa faceva mercato nel Trecento, come lo è il fatto che la porta si apre a fatica e producendo un tremendo stridore, nel senso che il perdono di Dio è concesso solo a chi sinceramente si è pentito delle proprie colpe e ciò avviene assai di rado.
Una volta varcata la soglia del Purgatorio, per Dante e la sua guida inizia un nuovo cammino che li porterà alla tappa successiva, ovvero l'ingresso nell'Eden sulla cima del monte: anche allora ci sarà un innalzamento dello stile, mentre qui Dante è colpito dal suono melodioso di alcune voci che intonano il Te Deum laudamus, in modo tale che egli non ne sente tutte le parole (come quando in chiesa si canta in alternanza al suono dell'organo). Siamo ormai entrati in una dimensione diversa da quella dell'Antipurgatorio, dominata dalla serena rassegnazione delle anime che espiano attivamente le loro pene, come farà anche Dante unendosi moralmente a loro: il passaggio in ogni Cornice avverrà secondo un cerimoniale fisso, in cui il canto di Salmi o inni avrà una parte importante (ed è stato osservato come ciò renda il Purgatorio simile a un enorme monastero, in cui ogni momento è scandito da uffici liturgici precisi: a ciò, forse, rimanda la similitudine degli organi, peraltro molto discussa, che chiude questo Canto).
Note e passi controversi
I vv. 1-6 descrivono con ogni probabilità il sorgere dell'aurora solare a oriente nell'emisfero boreale, che corrisponde alle nove di sera circa nel Purgatorio. L'aurora è definita concubina di Titone antico perché nel mito classico essa si innamora di Titone e lo rapisce, per sposarlo, quindi ottiene da Giove l'immortalità; non la chiede però per lo sposo, che quindi invecchia (di qui l'agg. antico). Le gemme che le rilucono in fronte sono la costellazione dello Scorpione, il freddo animale / che con la coda percuote la gente, che si trova nella parte opposta del cielo (quindi fronte indica non la fronte dell'aurora, bensì il cielo a lei opposto). C'è chi ha pensato alla costellazione dei Pesci che sorge a oriente nell'emisfero boreale, ma essa è assai poco luminosa al contrario dello Scorpione; poco probabile l'interpretazione dell'aurora come quella lunare.
I vv. 7-9 indicano che sono le nove di sera circa, perché i passi con cui la notte sale sono le ore e Dante dice che essa ne ha fatti quasi tre, quindi sono passate circa tre ore dal tramonto.
I vv. 13-15 indicano che è quasi l'alba, l'ora in cui la rondine emette i suoi stridi: Dante fa riferimento al mito di Progne mutata in rondine per aver ucciso il marito Tereo con l'aiuto della cognata FIlomela.
Il v. 18 allude alla credenza, assai diffusa nel Medioevo, che i sogni fatti all'alba fossero veritieri.
I vv. 22-24 vogliono indicare il monte Ida nella Troade, dove Ganimede fu rapito da Giove tramutatosi in aquila e portato sull'Olimpo a far da coppiere agli dei.
Infino al foco (v. 30) vuol dire «sino alla sfera del fuoco», che secondo la scienza del tempo separava la Terra dal I Cielo della Luna.
I vv. 34-39 alludono al mito secondo il quale Teti, madre di Achille, rapì il figlio al centauro Chirone che gli faceva da precettore per nasconderlo a Sciro, sottraendolo così alla guerra di Troia; Ulisse e Diomede lo scoprirono con l'inganno e lo portarono via di lì.
Il balzo citato al v. 50 è probabilmente la parete rocciosa che circonda il monte, che è digiunto (spaccato) in corrispondenza della porta.
I raggi che si riflettono nella spada dell'angelo (v. 83) possono essere quelli del sole, oppure lo splendore del suo volto, oppure la luminosità della spada che potrebbe essere fiammeggiante come quelle degli angeli che hanno scacciato il serpente, anche se nulla nel testo lo conferma.
L'espressione tinto più che perso (v. 97) indica un colore più scuro del «perso», ovvero un colore misto di purpureo e nero (cfr. Inf., V, 89).
La parola regge (v. 134) indica la porta e deriva dal lat. med. regia (porta principale di un edificio, spec. sacro).
I vv. 126-128 alludono al racconto di Lucano (Phars., III, 153 ss.), secondo il quale Cesare giunse a Roma deciso a impadronirsi del tesoro pubblico, custodito nella rupe Tarpea e affidato al tribuno L. Cecilio Metello. Questi tentò di opporsi, ma Cesare lo rimosse con la forza e aprì la porta che conduceva al tesoro.
Al primo tuono (v. 139) ha probabilmente valore di compl. di tempo, quindi indica il momento in cui la porta emette il suo stridore.
I vv. 142-145 sono stati oggetto di un vivace dibattito interpretativo, ma il senso più probabile è questo: «Quello che udivo aveva lo stesso suono che si sente, di solito, quando si canta in chiesa alternando la voce all'organo, per cui le parole si sentono ora sì, ora no». Dante farebbe riferimento non al canto polifonico, bensì all'uso di alternare le voci alla musica dell'organo nelle funzioni liturgiche, ampiamente attestato già nel XII sec., e vorrebbe indicare che le voci intonano l'inno tacendone alcuni versi (non occorre pensare a un vero e proprio accompagnamento con organo, anche se sarebbe ipotesi suggestiva).
I vv. 7-9 indicano che sono le nove di sera circa, perché i passi con cui la notte sale sono le ore e Dante dice che essa ne ha fatti quasi tre, quindi sono passate circa tre ore dal tramonto.
I vv. 13-15 indicano che è quasi l'alba, l'ora in cui la rondine emette i suoi stridi: Dante fa riferimento al mito di Progne mutata in rondine per aver ucciso il marito Tereo con l'aiuto della cognata FIlomela.
Il v. 18 allude alla credenza, assai diffusa nel Medioevo, che i sogni fatti all'alba fossero veritieri.
I vv. 22-24 vogliono indicare il monte Ida nella Troade, dove Ganimede fu rapito da Giove tramutatosi in aquila e portato sull'Olimpo a far da coppiere agli dei.
Infino al foco (v. 30) vuol dire «sino alla sfera del fuoco», che secondo la scienza del tempo separava la Terra dal I Cielo della Luna.
I vv. 34-39 alludono al mito secondo il quale Teti, madre di Achille, rapì il figlio al centauro Chirone che gli faceva da precettore per nasconderlo a Sciro, sottraendolo così alla guerra di Troia; Ulisse e Diomede lo scoprirono con l'inganno e lo portarono via di lì.
Il balzo citato al v. 50 è probabilmente la parete rocciosa che circonda il monte, che è digiunto (spaccato) in corrispondenza della porta.
I raggi che si riflettono nella spada dell'angelo (v. 83) possono essere quelli del sole, oppure lo splendore del suo volto, oppure la luminosità della spada che potrebbe essere fiammeggiante come quelle degli angeli che hanno scacciato il serpente, anche se nulla nel testo lo conferma.
L'espressione tinto più che perso (v. 97) indica un colore più scuro del «perso», ovvero un colore misto di purpureo e nero (cfr. Inf., V, 89).
La parola regge (v. 134) indica la porta e deriva dal lat. med. regia (porta principale di un edificio, spec. sacro).
I vv. 126-128 alludono al racconto di Lucano (Phars., III, 153 ss.), secondo il quale Cesare giunse a Roma deciso a impadronirsi del tesoro pubblico, custodito nella rupe Tarpea e affidato al tribuno L. Cecilio Metello. Questi tentò di opporsi, ma Cesare lo rimosse con la forza e aprì la porta che conduceva al tesoro.
Al primo tuono (v. 139) ha probabilmente valore di compl. di tempo, quindi indica il momento in cui la porta emette il suo stridore.
I vv. 142-145 sono stati oggetto di un vivace dibattito interpretativo, ma il senso più probabile è questo: «Quello che udivo aveva lo stesso suono che si sente, di solito, quando si canta in chiesa alternando la voce all'organo, per cui le parole si sentono ora sì, ora no». Dante farebbe riferimento non al canto polifonico, bensì all'uso di alternare le voci alla musica dell'organo nelle funzioni liturgiche, ampiamente attestato già nel XII sec., e vorrebbe indicare che le voci intonano l'inno tacendone alcuni versi (non occorre pensare a un vero e proprio accompagnamento con organo, anche se sarebbe ipotesi suggestiva).
TestoLa concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’oriente, fuor de le braccia del suo dolce amico; 3 di gemme la sua fronte era lucente, poste in figura del freddo animale che con la coda percuote la gente; 6 e la notte, de’ passi con che sale, fatti avea due nel loco ov’eravamo, e ‘l terzo già chinava in giuso l’ale; 9 quand’io, che meco avea di quel d’Adamo, vinto dal sonno, in su l’erba inchinai là ‘ve già tutti e cinque sedavamo. 12 Ne l’ora che comincia i tristi lai la rondinella presso a la mattina, forse a memoria de’ suo’ primi guai, 15 e che la mente nostra, peregrina più da la carne e men da’ pensier presa, a le sue vision quasi è divina, 18 in sogno mi parea veder sospesa un’aguglia nel ciel con penne d’oro, con l’ali aperte e a calare intesa; 21 ed esser mi parea là dove fuoro abbandonati i suoi da Ganimede, quando fu ratto al sommo consistoro. 24 Fra me pensava: ‘Forse questa fiede pur qui per uso, e forse d’altro loco disdegna di portarne suso in piede’. 27 Poi mi parea che, poi rotata un poco, terribil come folgor discendesse, e me rapisse suso infino al foco. 30 Ivi parea che ella e io ardesse; e sì lo ‘ncendio imaginato cosse, che convenne che ‘l sonno si rompesse. 33 Non altrimenti Achille si riscosse, li occhi svegliati rivolgendo in giro e non sappiendo là dove si fosse, 36 quando la madre da Chirón a Schiro trafuggò lui dormendo in le sue braccia, là onde poi li Greci il dipartiro; 39 che mi scoss’io, sì come da la faccia mi fuggì ‘l sonno, e diventa’ ismorto, come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia. 42 Dallato m’era solo il mio conforto, e ‘l sole er’alto già più che due ore, e ‘l viso m’era a la marina torto. 45 «Non aver tema», disse il mio segnore; «fatti sicur, ché noi semo a buon punto; non stringer, ma rallarga ogne vigore. 48 Tu se’ omai al purgatorio giunto: vedi là il balzo che ‘l chiude dintorno; vedi l’entrata là ‘ve par digiunto. 51 Dianzi, ne l’alba che procede al giorno, quando l’anima tua dentro dormia, sovra li fiori ond’è là giù addorno 54 venne una donna, e disse: "I’ son Lucia; lasciatemi pigliar costui che dorme; sì l’agevolerò per la sua via". 57 Sordel rimase e l’altre genti forme; ella ti tolse, e come ‘l dì fu chiaro, sen venne suso; e io per le sue orme. 60 Qui ti posò, ma pria mi dimostraro li occhi suoi belli quella intrata aperta; poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro». 63 A guisa d’uom che ‘n dubbio si raccerta e che muta in conforto sua paura, poi che la verità li è discoperta, 66 mi cambia’ io; e come sanza cura vide me ‘l duca mio, su per lo balzo si mosse, e io di rietro inver’ l’altura. 69 Lettor, tu vedi ben com’io innalzo la mia matera, e però con più arte non ti maravigliar s’io la rincalzo. 72 Noi ci appressammo, ed eravamo in parte, che là dove pareami prima rotto, pur come un fesso che muro diparte, 75 vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa, di color diversi, e un portier ch’ancor non facea motto. 78 E come l’occhio più e più v’apersi, vidil seder sovra ‘l grado sovrano, tal ne la faccia ch’io non lo soffersi; 81 e una spada nuda avea in mano, che reflettea i raggi sì ver’ noi, ch’io drizzava spesso il viso in vano. 84 «Dite costinci: che volete voi?», cominciò elli a dire, «ov’è la scorta? Guardate che ‘l venir sù non vi nòi». 87 «Donna del ciel, di queste cose accorta», rispuose ‘l mio maestro a lui, «pur dianzi ne disse: "Andate là: quivi è la porta"». 90 «Ed ella i passi vostri in bene avanzi», ricominciò il cortese portinaio: «Venite dunque a’ nostri gradi innanzi». 93 Là ne venimmo; e lo scaglion primaio bianco marmo era sì pulito e terso, ch’io mi specchiai in esso qual io paio. 96 Era il secondo tinto più che perso, d’una petrina ruvida e arsiccia, crepata per lo lungo e per traverso. 99 Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia, porfido mi parea, sì fiammeggiante, come sangue che fuor di vena spiccia. 102 Sovra questo tenea ambo le piante l’angel di Dio, sedendo in su la soglia, che mi sembiava pietra di diamante. 105 Per li tre gradi sù di buona voglia mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi umilemente che ‘l serrame scioglia». 108 Divoto mi gittai a’ santi piedi; misericordia chiesi e ch’el m’aprisse, ma tre volte nel petto pria mi diedi. 111 Sette P ne la fronte mi descrisse col punton de la spada, e «Fa che lavi, quando se’ dentro, queste piaghe», disse. 114 Cenere, o terra che secca si cavi, d’un color fora col suo vestimento; e di sotto da quel trasse due chiavi. 117 L’una era d’oro e l’altra era d’argento; pria con la bianca e poscia con la gialla fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento. 120 «Quandunque l’una d’este chiavi falla, che non si volga dritta per la toppa», diss’elli a noi, «non s’apre questa calla. 123 Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa d’arte e d’ingegno avanti che diserri, perch’ella è quella che ‘l nodo digroppa. 126 Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri anzi ad aprir ch’a tenerla serrata, pur che la gente a’ piedi mi s’atterri». 129 Poi pinse l’uscio a la porta sacrata, dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti che di fuor torna chi ‘n dietro si guata». 132 E quando fuor ne’ cardini distorti li spigoli di quella regge sacra, che di metallo son sonanti e forti, 135 non rugghiò sì né si mostrò sì acra Tarpea, come tolto le fu il buono Metello, per che poi rimase macra. 138 Io mi rivolsi attento al primo tuono, e ‘Te Deum laudamus’ mi parea udire in voce mista al dolce suono. 141 Tale imagine a punto mi rendea ciò ch’io udiva, qual prender si suole quando a cantar con organi si stea; ch’or sì or no s’intendon le parole. 145 |
ParafrasiLa sposa del vecchio Titone si affacciava già col volto pallido al balcone d'oriente, fuori dall'abbraccio del suo dolce amante;
la sua fronte riluceva di gemme, poste a formare la figura del freddo animale (lo Scorpione) che colpisce la gente con la coda; e la notte aveva fatto due dei passi con cui sale, nel luogo dove noi eravamo, e il terzo era quasi compiuto; quando io, che avevo un corpo in carne e ossa, vinto dal sonno, mi sdraiai sull'erba dove già sedevamo tutti e cinque. Nell'ora in cui la rondinella, vicino all'alba, comincia il suo triste stridio, forse ricordando i suoi primi dolori, e in cui la nostra mente, distaccata dal corpo e meno presa dai pensieri, fa dei sogni rivelatori, mi sembrava di vedere in sogno un'aquila dalle penne d'oro, che volteggiava in cielo con le ali spiegate e prossima a scendere; e mi sembrava di essere là (sul monte Ida) dove Ganimede abbandonò i suoi compagni, quando fu rapito al supremo concilio degli dei. Fra me pensavo: 'Forse quest'aquila colpisce abitualmente qui, e forse disdegna di ghermire le sue prede in altro luogo'. Poi mi sembrava che essa, dopo aver volteggiato un poco, scendesse fulminea come la folgore e mi rapisse fino alla sfera del fuoco. Là mi sembrava di bruciare insieme a lei; e quell'incendio sognato mi arse a tal punto, che fu inevitabile che il sogno finisse. Achille non si destò diversamente, volgendo gli occhi in giro e non sapendo dove fosse, quando la madre (Teti) lo sottrasse da Chirone portandolo a Sciro fra le sue braccia, là da dove poi i Greci lo portarono via; così mi riscossi io, non appena il sonno fuggì via dalla mia faccia, e impallidii, come l'uomo spaventato che raggela. Accanto a me c'era solo Virgilio e il sole era già alto da più di due ore, e il mio sguardo era rivolto al mare. Il mio maestro disse: «Non aver paura, rassicurati, infatti siamo a buon punto; non frenare, ma anzi rafforza ogni tua energia. Sei giunto ormai al Purgatorio: vedi là la parete rocciosa che lo cinge tutt'attorno; vedi l'ingresso, nel punto in cui essa sembra spaccata. Poco fa, sul far dell'alba che precede il giorno, quando eri profondamente addormentato, una donna venne in quel luogo laggiù adornato di fiori e disse: "Io sono Lucia; lasciate che io prenda costui che dorme; lo aiuterò a compiere il suo cammino". Sordello e le altre nobili anime rimasero là; ella ti prese e, non appena fu giorno, venne quassù; e io la seguii. Ti depose qui, ma prima i suoi begli occhi mi mostrarono quell'ingresso; poi se ne andò insieme al tuo sonno». Come un uomo che, nel dubbio, si rassicura e muta la sua paura in conforto, dopo che gli è stata svelata la verità, così divenni io; e non appena il maestro mi vide senza preoccupazioni, si avviò verso la parete rocciosa e io lo seguii in alto. O lettore, tu vedi bene come io innalzo la materia del mio canto, perciò non stupirti se io la rafforzo con un'arte più raffinata. Noi ci avvicinammo ed eravamo al punto in cui là dove prima mi sembrava che la parete fosse rotta, proprio come un muro attraversato da una crepa, vidi una porta, e sotto di essa tre gradini per salire ad essa, di diversi colori, e un angelo guardiano che non diceva nulla. E spingendo in là lo sguardo, vidi che l'angelo sedeva sopra l'ultimo gradino, con un volto tale che non potei guardarlo; aveva in mano una spada sguainata, che rifletteva i raggi verso di noi al punto che io, spesso, guardavo senza vedere nulla. Egli iniziò a dire: «Dite da lì: cosa volete voi? chi vi ha condotti qui? Badate che il salire non vi arrechi danno». Il mio maestro gli rispose: «Una donna del cielo, esperta di queste cose, poco fa ci disse: "Andate, là c'è la porta"». Il cortese guardiano riprese: «Ed ella possa aiutarvi a proseguire felicemente: venite dunque avanti lungo i gradini». Andammo là: il primo gradino era di marmo bianco, così pulito e lucido che io mi ci specchiai tale quale io appaio. Il secondo era di colore assai scuro, fatto di pietra ruvida e riarsa, screpolata nel senso della lunghezza e della larghezza. Il terzo, che è più alto di tutti, mi sembrava di porfido ed era così fiammeggiante (rosso) che sembrava sangue che zampilla da una vena. L'angelo di Dio teneva su questo gradino entrambi i piedi, sedendo sulla soglia che mi sembrava fatta di diamante. Il mio maestro mi spinse su per i tre gradini, cosa che accettai volentieri, dicendo: «Chiedi umilmente che ti apra la porta». Io mi gettai con devozione davanti ai santi piedi dell'angelo; chiesi misericordia e che mi aprisse, ma prima mi colpii tre volte il petto. Con la punta della spada mi incise sette P sulla fronte, e disse: «Fa' in modo di cancellare queste piaghe, quando sarai dentro». La sua veste era di colore identico alla cenere o alla terra secca appena scavata; di sotto ad essa tirò fuori due chiavi. Una era d'oro e l'altra d'argento; usò prima quella argentea e poi quella dorata per aprire la porta, accontentandomi. Egli ci disse: «Ogni qual volta una di queste chiavi non funziona e non si gira come si deve nella toppa, questa porta non si apre. Quella d'oro è più preziosa; ma l'altra richiede molta arte e ingegno per aprire, perché è quella che scioglie il nodo. Le ho ricevute da san Pietro; e lui mi disse che dovevo sbagliare ad aprire la porta, piuttosto che a tenerla chiusa, purché i penitenti mi si gettino ai piedi». Poi spinse il battente della sacra porta, dicendo: «Entrate; ma vi avverto che chi si volta a guardare indietro, torna fuori». E quando gli spigoli di quella porta sacra, fatti di metallo massiccio, furono girati nei loro cardini, emisero uno stridore più forte (e la porta si mostrò più riluttante ad aprirsi) della rupe Tarpea, non appena le fu sottratto il buon Metello, per cui poi fu privata del suo tesoro. Io mi feci attento al primo suono e mi sembrava di udire l'inno Te Deum laudamus, con una voce mista a un dolce suono. Ciò che udivo mi dava la stessa impressione che si ha di solito quando si eseguono canti alternati alla musica dell'organo, quando le parole si sentono ora sì, ora no. |