Inferno, Canto XVI
G. Stradano, I tre fiorentini sodomiti (1587)
Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri,
recenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri...
"La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni"...
El disse a me: "Tosto verrà di sovra
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra"...
recenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri...
"La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni"...
El disse a me: "Tosto verrà di sovra
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra"...
Argomento del Canto
Ancora nel III girone del VII Cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio (tra cui i sodomiti). Incontro con tre fiorentini, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci e Guido Guerra, con cui Dante parla della situazione politica e morale di Firenze. Dante e Virgilio arrivano all'orlo del Cerchio, dove il Flegetonte si getta nell'alto burrato. Apparizione di Gerione.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
Incontro con un'altra schiera di sodomiti (1-27)
Dante e Virgilio, sempre camminando sull'argine, stanno attraversando il terzo girone del VII Cerchio, dove sono puniti i sodomiti. Sono ormai giunti vicini al punto dove si ode il rumore del Flegetonte che si getta nel Cerchio successivo, simile al ronzio delle api, quando Dante vede tre dannati che si staccano dal loro gruppo e che corrono verso di loro. Ognuno di loro grida al poeta di fermarsi, poiché l'hanno riconosciuto come fiorentino, e Dante vede che sono ricoperti di piaghe vecchie e recenti causate dalla pioggia di fuoco, per cui ne prova dolore. Virgilio invita Dante a fermarsi e dichiara che sono tre anime di personaggi degni di rispetto, con cui è necessario essere cortesi. I tre dannati raggiungono l'argine e per non smettere di camminare iniziano a girare in tondo, simili a dei lottatori che si studiano per affrontarsi e tengono lo sguardo fisso sull'avversario.
Colloquio coi tre sodomiti fiorentini (28-63)
Anonimo fiorentino, I tre sodomiti (1330)
Uno dei tre inizia a parlare e dice a Dante che, a dispetto del luogo miserabile e del loro aspetto bruciato dal fuoco, la loro fama terrena dovrebbe indurlo a presentarsi e a spiegare quale privilegio lo conduce vivo all'Inferno. Il dannato presenta il compagno che lo precede come personaggio illustre, nipote della buona Gualdrada, e il suo nome è Guido Guerra, che tante buone azioni compì in vita. Il dannato che invece lo segue è Tegghiaio Aldobrandi, le cui parole meritavano maggiore ascolto, mentre colui che parla è Iacopo Rusticucci.
Dante si getterebbe nel sabbione per abbracciarli, se non glielo impedisse la pioggia di fiamme, così deve reprimere questo desiderio. Poi il poeta dice che il miserevole aspetto dei tre gli provoca non disprezzo ma dolore, tanto che ci vorrà tempo per superarlo. Egli si presenta come fiorentino e dichiara di aver sempre ascoltato i loro nomi e le loro opere onorevoli col massimo rispetto. Dice inoltre che Virgilio lo guida sino al fondo dell'Inferno per consentirgli di salvarsi l'anima.
Dante si getterebbe nel sabbione per abbracciarli, se non glielo impedisse la pioggia di fiamme, così deve reprimere questo desiderio. Poi il poeta dice che il miserevole aspetto dei tre gli provoca non disprezzo ma dolore, tanto che ci vorrà tempo per superarlo. Egli si presenta come fiorentino e dichiara di aver sempre ascoltato i loro nomi e le loro opere onorevoli col massimo rispetto. Dice inoltre che Virgilio lo guida sino al fondo dell'Inferno per consentirgli di salvarsi l'anima.
Cause della corruzione di Firenze (64-90)
Iacopo risponde augurando a Dante una vita lunga e grande fama dopo la sua morte, quindi gli chiede se a Firenze ci sono ancora cortesia e valore, dal momento che un altro dannato (Guglielmo Borsiere) giunto da poco nel girone ha portato tristi notizie. Dante risponde che la gente arrivata di recente a Firenze dal contado e i facili guadagni hanno portato alterigia ed eccesso, cause prime della corruzione della città. Dopo queste parole del poeta, i tre dannati si guardano l'un l'altro stupiti, quindi rispondono a una voce ringraziando Dante della risposta cortese e sincera e lo pregano di parlare di loro nel mondo quando sarà tornato da questo viaggio. Quindi i tre rompono il cerchio che avevano formato e corrono via per ricongiungersi ai sodomiti della loro schiera: sono velocissimi e Virgilio suggerisce a Dante che è il momento di riprendere il cammino.
La corda di Dante e l'arrivo di Gerione (91-136)
A. Vellutello, Gerione (1534)
Dante segue Virgilio e poco tempo dopo giungono vicini al suono del fiume che si getta in basso, tanto forte da coprire le loro voci. Dante paragona il Flegetonte che si getta nell'alto burrato sottostante alla cascata formata dall'Acquacheta presso San Benedetto nell'Appennino tosco-emiliano, fiume che cambia nome arrivato vicino a Forlì. Dante ha intorno alla cinta una corda, con cui aveva pensato a suo tempo di catturare la lonza: la scioglie come Virgilio gli ha chiesto di fare e gliela porge legata e ravvolta. Il maestro si allontana di qualche passo verso destra e getta la corda nel burrone sottostante. Dante dice fra sé che questo gesto di Virgilio deve avere un significato ed è probabilmente un richiamo per qualcuno o qualcosa.
Virgilio intuisce il dubbio di Dante e gli preannuncia l'arrivo di un personaggio che si mostrerà ai suoi occhi. Dante spiega al lettore che l'uomo saggio dovrebbe sempre tacere quelle verità che hanno aspetto falso, per non essere tacciato ingiustamente di menzogna, ma in questa occasione non può fare a meno di rivelare ciò che ha visto. Dante giura sulla sua Commedia di aver visto una enorme figura avvicinarsi nuotando nell'aria scura e densa, simile al marinaio che torna in superficie dopo essersi immerso per sciogliere l'ancora impigliata o rimuovere un altro ostacolo, che ritrae le gambe per darsi la spinta e salire.
Virgilio intuisce il dubbio di Dante e gli preannuncia l'arrivo di un personaggio che si mostrerà ai suoi occhi. Dante spiega al lettore che l'uomo saggio dovrebbe sempre tacere quelle verità che hanno aspetto falso, per non essere tacciato ingiustamente di menzogna, ma in questa occasione non può fare a meno di rivelare ciò che ha visto. Dante giura sulla sua Commedia di aver visto una enorme figura avvicinarsi nuotando nell'aria scura e densa, simile al marinaio che torna in superficie dopo essersi immerso per sciogliere l'ancora impigliata o rimuovere un altro ostacolo, che ritrae le gambe per darsi la spinta e salire.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto, strutturalmente diviso in due parti, è dedicato rispettivamente al colloquio coi tre Fiorentini e al preannuncio dell'arrivo di Gerione, che pure non viene direttamente nominato. La prima parte, più ampia, prosegue idealmente il discorso iniziato col Canto precedente, in quanto anche i tre sodomiti che si staccano dalla loro schiera e si fanno incontro a Dante sono di Firenze e, in modo simile a Brunetto Latini, si sono fatti onore in vita con le loro azioni politiche improntate alla giustizia. È Virgilio stesso a suggerire a Dante di fermarsi, affermando che i tre sono personaggi di riguardo e che la fretta si addice più a lui che a loro (l'allusione è al fatto che chi corre ha un aspetto poco dignitoso: cfr. Purg., III, 10-11).
Non sappiamo quale sia la schiera cui appartengono i tre (forse quella degli uomini politici, anche se Dante non lo esplicita), che iniziano a parlare con Dante girando in tondo e il cui aspetto reca i segni di piaghe vecchie e nuove causate dalla pioggia di fuoco. La dannazione di due di loro, Tegghiaio e Iacopo Rusticucci, era già stata preannunciata da Ciacco nel Canto VI, mentre qui si aggiunge Guido Guerra: i tre sono un esempio di uomini dignitosi e onorevoli in vita, ch'a ben far puoser li 'ngegni, ma la cui condotta peccaminosa condanna alla dannazione come già Farinata e Cavalcante. L'incontro dà modo poi a Dante di aprire una breve ma amara riflessione sull'attuale condizione della patria comune: alla domanda dei tre se sia vero che a Firenze non albergano più cortesia e valor, Dante risponde sconsolato che ciò è vero e ne attribuisce la causa alla gente nova e i sùbiti guadagni, punta cioè il dito contro i nuovi fiorentini inurbatisi dal contado e facilmente arricchitisi grazie al commercio e all'usura. Dante riconduce la decadenza di Firenze alla perdita di valori come cavalleria e cortesia, che caratterizzavano l'antica nobiltà feudale cui lui stesso affermava di appartenere e che sono in forte contrasto con la sete di denaro e l'avarizia della nuova borghesia. Il tema è importante e si ricollega ad altri passi del poema, come l'accusa di avarizia rivolta più volte ai Fiorentini (ad esempio da Ciacco e da Brunetto Latini), la condanna dell'usura di cui si parlerà nel Canto seguente, il rimpianto degli antichi valori cortesi di cui non c'è più traccia nella società comunale, e soprattutto la critica dei nuovi ceti sociali della città che hanno, secondo Dante, imbastardito l'antica purezza della cittadinanza e sono la causa principale delle divisioni e delle rivalità politiche fiorentine. In Par., IX, 127-142 Folchetto di Marsiglia si scaglierà contro il maladetto fiore (il fiorino) che ha diffuso l'avidità di guadagno tra gli ecclesiastici, alludendo al fatto che erano di Firenze i banchieri che si arricchivano prestando il denaro a interesse; e in XVI, 49 ss. l'avo Cacciaguida spiegherà a Dante che Firenze è decaduta proprio per l'inurbamento di gente dal contado, rendendo la cittadinanza mista mentre prima era pura, in quanto oggi bisogna convivere coi nuovi Fiorentini dediti al cambio e alla mercatura e accecati dalla sete di guadagno.
La seconda parte del Canto introduce la figura di Gerione, il mostro che custodisce le Malebolge e sulla cui groppa dovrà portare i due poeti al fondo dell'alto burrato che divide il VII dall'VIII Cerchio, cosa che avverrà nel Canto seguente. Il mostro è evocato da Virgilio con uno strano rituale, che vede Dante sciogliere una corda che gli cinge i fianchi (e che lui stesso dice che aveva pensato di usare per catturare la lonza a la pelle dipinta), porgerla al maestro che la getta, annodata e aggrovigliata, nel precipizio. Si tratta ovviamente di un gesto convenuto con cui Virgilio chiama Gerione, anche se ogni tentativo di interpretarne il senso è andato fallito: il fatto che la corda potesse servire a catturare la lonza significa forse che serviva a dominare la lussuria, o forse la frode visto che essa è rappresentata da Gerione. Si è anche ipotizzato che Dante fosse un terziario francescano e portasse la corda ai fianchi per questo, ma è un'illazione azzardata e priva di riscontri oggettivi. Quel che è certo è che il mostro risponde al richiamo di Virgilio e ben presto Dante ne intravede la figura che avanza nel buio, simile a un marinaio che nuota per tornare a galla dopo un'immersione; il Canto si chiude quando ancora il personaggio non è stato presentato, creando una tensione narrativa e un'attesa che verranno sciolte nell'episodio seguente, che come vedremo fa da cerniera tra la prima e la seconda parte della Cantica introducendoci agli ultimi due Cerchi dell'Inferno.
Non sappiamo quale sia la schiera cui appartengono i tre (forse quella degli uomini politici, anche se Dante non lo esplicita), che iniziano a parlare con Dante girando in tondo e il cui aspetto reca i segni di piaghe vecchie e nuove causate dalla pioggia di fuoco. La dannazione di due di loro, Tegghiaio e Iacopo Rusticucci, era già stata preannunciata da Ciacco nel Canto VI, mentre qui si aggiunge Guido Guerra: i tre sono un esempio di uomini dignitosi e onorevoli in vita, ch'a ben far puoser li 'ngegni, ma la cui condotta peccaminosa condanna alla dannazione come già Farinata e Cavalcante. L'incontro dà modo poi a Dante di aprire una breve ma amara riflessione sull'attuale condizione della patria comune: alla domanda dei tre se sia vero che a Firenze non albergano più cortesia e valor, Dante risponde sconsolato che ciò è vero e ne attribuisce la causa alla gente nova e i sùbiti guadagni, punta cioè il dito contro i nuovi fiorentini inurbatisi dal contado e facilmente arricchitisi grazie al commercio e all'usura. Dante riconduce la decadenza di Firenze alla perdita di valori come cavalleria e cortesia, che caratterizzavano l'antica nobiltà feudale cui lui stesso affermava di appartenere e che sono in forte contrasto con la sete di denaro e l'avarizia della nuova borghesia. Il tema è importante e si ricollega ad altri passi del poema, come l'accusa di avarizia rivolta più volte ai Fiorentini (ad esempio da Ciacco e da Brunetto Latini), la condanna dell'usura di cui si parlerà nel Canto seguente, il rimpianto degli antichi valori cortesi di cui non c'è più traccia nella società comunale, e soprattutto la critica dei nuovi ceti sociali della città che hanno, secondo Dante, imbastardito l'antica purezza della cittadinanza e sono la causa principale delle divisioni e delle rivalità politiche fiorentine. In Par., IX, 127-142 Folchetto di Marsiglia si scaglierà contro il maladetto fiore (il fiorino) che ha diffuso l'avidità di guadagno tra gli ecclesiastici, alludendo al fatto che erano di Firenze i banchieri che si arricchivano prestando il denaro a interesse; e in XVI, 49 ss. l'avo Cacciaguida spiegherà a Dante che Firenze è decaduta proprio per l'inurbamento di gente dal contado, rendendo la cittadinanza mista mentre prima era pura, in quanto oggi bisogna convivere coi nuovi Fiorentini dediti al cambio e alla mercatura e accecati dalla sete di guadagno.
La seconda parte del Canto introduce la figura di Gerione, il mostro che custodisce le Malebolge e sulla cui groppa dovrà portare i due poeti al fondo dell'alto burrato che divide il VII dall'VIII Cerchio, cosa che avverrà nel Canto seguente. Il mostro è evocato da Virgilio con uno strano rituale, che vede Dante sciogliere una corda che gli cinge i fianchi (e che lui stesso dice che aveva pensato di usare per catturare la lonza a la pelle dipinta), porgerla al maestro che la getta, annodata e aggrovigliata, nel precipizio. Si tratta ovviamente di un gesto convenuto con cui Virgilio chiama Gerione, anche se ogni tentativo di interpretarne il senso è andato fallito: il fatto che la corda potesse servire a catturare la lonza significa forse che serviva a dominare la lussuria, o forse la frode visto che essa è rappresentata da Gerione. Si è anche ipotizzato che Dante fosse un terziario francescano e portasse la corda ai fianchi per questo, ma è un'illazione azzardata e priva di riscontri oggettivi. Quel che è certo è che il mostro risponde al richiamo di Virgilio e ben presto Dante ne intravede la figura che avanza nel buio, simile a un marinaio che nuota per tornare a galla dopo un'immersione; il Canto si chiude quando ancora il personaggio non è stato presentato, creando una tensione narrativa e un'attesa che verranno sciolte nell'episodio seguente, che come vedremo fa da cerniera tra la prima e la seconda parte della Cantica introducendoci agli ultimi due Cerchi dell'Inferno.
Note e passi controversi
Al v. 20 l'antico verso indica il pianto e i lamenti dei dannati, o forse il gesto delle mani per proteggersi dal fuoco.
La similitudine ai vv. 22-27 si riferisce probabilmente agli antichi lottatori greco-romani, che si affrontavano nudi e ricoperti d'olio e che fissavano con lo sguardo l'avversario prima di tentare la presa. Anche i tre sodomiti fissano Dante, benché debbano continuamente ruotare la testa per il fatto di girare in tondo.
Al v. 28 sollo vuol dire «molle», «cedevole», riferito alla sabbia sul suolo.
La buona Gualdrada (v. 37) di cui Guido Guerra fu nipote è la figlia di Bellincion Berti (cfr. Par., XV, 112), moglie nel 1180 di Guido il Vecchio dei conti Guidi e nonna del dannato incontrato qui da Dante.
Il v. 45 allude alla moglie di Iacopo Rusticucci, di cui si diceva che fosse bisbetica e ritrosa (questo l'avrebbe indotto alla sodomia).
L'espressione ritrassi e ascoltai (v. 60) potrebbe voler dire «ascoltai e poi ripetei» (si tratterebbe in tal caso di un hysteron pròteron, collocazione di una parola che dovrebbe seguire davanti a quella che indica l'azione precedente), oppure «appresi ascoltando».
Il se al v. 64 e al v. 66 ha valore ottativo, di augurio: «possa tu...».
Guigliemo Borsiere citato al v. 70 è un personaggio fiorentino non meglio identificato, forse uomo di corte (Boccaccio ne fa il protagonista di una sua novella, Dec., I, 8), morto probabilmente poco prima del 1300 visto quello che dice il Rusticucci.
La complessa similitudine dei vv. 94-102 paragona il rimbombo del Flegetonte, che si getta nell'alto burrato, a quello della cascata formata dal fiume Acquacheta presso S. Benedetto dell'Alpe, sull'Appennino tosco-emiliano: ai tempi di Dante il fiume, una volta a valle, prendeva il nome di Montone presso Forlì ed era il primo a sfociare in mare tra i corsi d'acqua del fianco sinistro dell'Appennino. I vv. 101-102 vogliono dire probabilmente che il fiume, a monte, precipita in una sola cascata con gran fragore, mentre potrebbe cadere in mille e più cascatelle con minor frastuono.
La ripa discoscesa del v. 103 è naturalmente l'alto burrato, il precipizio che divide il VII dall'VIII Cerchio.
Il v. 128 designa il poema come comedìa, esattamente come avverà in XXI, 2. Le note sono le parole, i versi.
I vv. 133-136 paragonano Gerione, nell'atto di salire lentamente attraverso l'aria, a un marinaio che si è immerso per liberare l'ancora della nave impigliata in un ostacolo e nuota verso l'alto ritraendo le gambe per darsi la spinta.
La similitudine ai vv. 22-27 si riferisce probabilmente agli antichi lottatori greco-romani, che si affrontavano nudi e ricoperti d'olio e che fissavano con lo sguardo l'avversario prima di tentare la presa. Anche i tre sodomiti fissano Dante, benché debbano continuamente ruotare la testa per il fatto di girare in tondo.
Al v. 28 sollo vuol dire «molle», «cedevole», riferito alla sabbia sul suolo.
La buona Gualdrada (v. 37) di cui Guido Guerra fu nipote è la figlia di Bellincion Berti (cfr. Par., XV, 112), moglie nel 1180 di Guido il Vecchio dei conti Guidi e nonna del dannato incontrato qui da Dante.
Il v. 45 allude alla moglie di Iacopo Rusticucci, di cui si diceva che fosse bisbetica e ritrosa (questo l'avrebbe indotto alla sodomia).
L'espressione ritrassi e ascoltai (v. 60) potrebbe voler dire «ascoltai e poi ripetei» (si tratterebbe in tal caso di un hysteron pròteron, collocazione di una parola che dovrebbe seguire davanti a quella che indica l'azione precedente), oppure «appresi ascoltando».
Il se al v. 64 e al v. 66 ha valore ottativo, di augurio: «possa tu...».
Guigliemo Borsiere citato al v. 70 è un personaggio fiorentino non meglio identificato, forse uomo di corte (Boccaccio ne fa il protagonista di una sua novella, Dec., I, 8), morto probabilmente poco prima del 1300 visto quello che dice il Rusticucci.
La complessa similitudine dei vv. 94-102 paragona il rimbombo del Flegetonte, che si getta nell'alto burrato, a quello della cascata formata dal fiume Acquacheta presso S. Benedetto dell'Alpe, sull'Appennino tosco-emiliano: ai tempi di Dante il fiume, una volta a valle, prendeva il nome di Montone presso Forlì ed era il primo a sfociare in mare tra i corsi d'acqua del fianco sinistro dell'Appennino. I vv. 101-102 vogliono dire probabilmente che il fiume, a monte, precipita in una sola cascata con gran fragore, mentre potrebbe cadere in mille e più cascatelle con minor frastuono.
La ripa discoscesa del v. 103 è naturalmente l'alto burrato, il precipizio che divide il VII dall'VIII Cerchio.
Il v. 128 designa il poema come comedìa, esattamente come avverà in XXI, 2. Le note sono le parole, i versi.
I vv. 133-136 paragonano Gerione, nell'atto di salire lentamente attraverso l'aria, a un marinaio che si è immerso per liberare l'ancora della nave impigliata in un ostacolo e nuota verso l'alto ritraendo le gambe per darsi la spinta.
TestoGià era in loco onde s’udìa ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro, simile a quel che l’arnie fanno rombo, 3 quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d’una torma che passava sotto la pioggia de l’aspro martiro. 6 Venian ver noi, e ciascuna gridava: «Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri esser alcun di nostra terra prava». 9 Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri. 12 A le lor grida il mio dottor s’attese; volse ’l viso ver me, e: «Or aspetta», disse «a costor si vuole esser cortese. 15 E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i’ dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta». 18 Ricominciar, come noi restammo, ei l’antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei. 21 Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, 24 così, rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che ’n contraro il collo faceva ai piè continuo viaggio. 27 E «Se miseria d’esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi», cominciò l’uno «e ’l tinto aspetto e brollo, 30 la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se’, che i vivi piedi così sicuro per lo ’nferno freghi. 33 Questi, l’orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: 36 nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. 39 L’altro, ch’appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovrìa esser gradita. 42 E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui; e certo la fiera moglie più ch’altro mi nuoce». 45 S’i’ fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che ’l dottor l’avrìa sofferto; 48 ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 51 Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, 54 tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i’ mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. 57 Di vostra terra sono, e sempre mai l’ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. 60 Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi». 63 «Se lungamente l’anima conduca le membra tue», rispuose quelli ancora, «e se la fama tua dopo te luca, 66 cortesia e valor dì se dimora ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se n’è gita fora; 69 ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole». 72 «La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». 75 Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l’un l’altro com’al ver si guata. 78 «Se l’altre volte sì poco ti costa», rispuoser tutti «il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta! 81 Però, se campi d’esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere "I’ fui", 84 fa che di noi a la gente favelle». Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle. 87 Un amen non saria potuto dirsi tosto così com’e’ fuoro spariti; per ch’al maestro parve di partirsi. 90 Io lo seguiva, e poco eravam iti, che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi. 93 Come quel fiume c’ha proprio cammino prima dal Monte Viso ’nver’ levante, da la sinistra costa d’Apennino, 96 che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante, 99 rimbomba là sovra San Benedetto de l’Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; 102 così, giù d’una ripa discoscesa, trovammo risonar quell’acqua tinta, sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa. 105 Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. 108 Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta, sì come ’l duca m’avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta. 111 Ond’ei si volse inver’ lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell’alto burrato. 114 ’E’ pur convien che novità risponda’ dicea fra me medesmo, ’al novo cenno che ’l maestro con l’occhio sì seconda’. 117 Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l’ovra, ma per entro i pensier miran col senno! 120 El disse a me: «Tosto verrà di sovra ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna: tosto convien ch’al tuo viso si scovra». 123 Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote, però che sanza colpa fa vergogna; 126 ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s’elle non sien di lunga grazia vòte, 129 ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro, 132 sì come torna colui che va giuso talora a solver l’àncora ch’aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che ’n sù si stende, e da piè si rattrappa. 136 |
ParafrasiMi trovavo già in un punto da cui si sentiva il rimbombo dell'acqua che si gettava nel Cerchio sottostante, simile al ronzio delle api dentro l'arnia,
quando tre anime si separarono insieme, correndo, da una schiera che passava sotto la pioggia di fuoco che le tormentava. Venivano verso di noi e ognuna gridava: «Fermati, tu che dall'abito sembri essere concittadino della nostra patria malvagia (Firenze)». Ahimè, che piaghe vidi sui loro corpi, recenti e vecchie, provocate dalle falde infuocate! Me ne rammarico ancora oggi, al solo pensarci. Alle loro grida il mio maestro si fermò; volse il viso a me e disse: «Aspetta, bisogna essere cortesi con questi dannati. E se non fosse per la pioggia che rende infuocato questo luogo, io ti direi che la fretta si addice più a te che a loro». Come noi ci fermammo, essi iniziarono a parlare come prima; e quando ci raggiunsero, iniziarono a camminare tutti e tre in cerchio. Come erano soliti fare i lottatori nudi e cosparsi d'olio, studiando l'avversario per tentare una presa prima di percuotersi e ferirsi a vicenda, così, pur girando la testa, ciascuno dei tre dannati fissava il suo sguardo su di me, in modo tale che torceva il collo in senso opposto ai suoi passi. E uno cominciò: «Se la miseria di questo luogo sabbioso e il nostro aspetto cotto e spellato inducono a disprezzare noi e le nostre preghiere, tuttavia la nostra fama spinga il tuo animo a dirci chi sei, visto che cammini così sicuro nell'Inferno. Costui, del quale mi vedi calpestare le orme, anche se cammina nudo e spellato, ebbe condizione più elevata di quanto non credi: fu nipote della valente Gualdrada ed ebbe nome Guido Guerra: nella sua vita compì grandi opere, col senno e con la spada. L'altro, che calpesta la sabbia dietro di me, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce doveva essere più gradita nel mondo. E io, che condivido la loro pena, fui Iacopo Rusticucci; e certo mi ha nuociuto più di ogni altra cosa la mia intrattabile moglie». Se io fossi stato protetto dal fuoco, mi sarei gettato tra loro nel sabbione e credo che il maestro l'avrebbe tollerato; ma poiché mi sarei bruciato e ustionato, la paura prevalse sul mio desiderio di abbracciarli. Poi iniziai: «La vostra condizione mi ha ispirato non disprezzo ma dolore, al punto che cesserà fra molto tempo, dal momento in cui il mio maestro mi disse parole per cui ho pensato che venisse gente nobile quale voi effettivamente siete. Sono di Firenze e ho sempre appreso ascoltando le vostre opere e i vostri nomi onorevoli, con grande affetto. Lascio una vita amara e vado in cerca della salvezza, promessami dalla mia guida sincera; ma prima devo scendere fino in fondo all'Inferno». Quello allora rispose: «Possa la tua anima restare ancora a lungo legata al corpo, e tu avere lunga fama dopo la morte; dicci se nella nostra città albergano ancora la cortesia e il valore, o se queste virtù l'hanno del tutto abbandonata; infatti Guglielmo Borsiere, che è nostro compagno di pena da poco tempo e cammina là con gli altri, ci cruccia non poco parlando di Firenze». «I nuovi cittadini (arrivati dal contado) e gli improvvisi guadagni hanno creato alterigia ed eccesso dentro di te, o Firenze, così che tu ne piangi già le conseguenze». Così gridai levando il viso in alto; e i tre, che interpretarono questo come la mia risposta, si guardarono l'un l'altro come di fronte a una verità sgradita. Tutti risposero: «Se anche le altre volte ti costa così poco soddisfare le domande altrui, felice te che parli in modo così schietto! Perciò, se uscirai da questi luoghi oscuri e tornerai a rivedere le stelle, quando ti sarà gradito dire "Io fui all'Inferno", parla di noi ai vivi». Quindi smisero di girare in tondo e se andarono così veloci che le loro gambe snelle sembravano ali. Non sarebbe stato possibile dire un "amen" nel breve tempo in cui sparirono; perciò al maestro sembrò opportuno che ce ne andassimo. Io lo seguivo, e avevamo percorso poca strada quando il suono dell'acqua (il Flegetonte) sembrava così vicino che, parlando, ci saremmo sentiti a malapena. Come quel fiume, che ha per primo il proprio corso partendo dal Monviso verso levante, dalla pendice destra dell'Appennino, che in alto si chiama Acquacheta prima di scendere in pianura e a Forlì cambia nome (in Montone), rimbomba sopra San Benedetto dell'Alpe per cadere in una sola cascata là dove dovrebbe essere ricevuto in mille cascatelle; così vedemmo che quel fiume rosso (il Flegetonte) ricadeva giù per un burrone scosceso, facendo tanto rumore che in poco tempo avrebbe danneggiato l'udito. Io avevo intorno ai fianchi una corda, con la quale tempo prima avevo pensato di catturare la lonza dalla pelle chiazzata. Dopo che l'ebbi sciolta del tutto, come Virgilio mi aveva ordinato, la porsi a lui legata e aggrovigliata. Quindi lui si voltò sulla sua destra e la gettò in quel profondo burrone, stando alquanto lontano dall'orlo. Io dicevo tra me e me: 'Eppure è necessario che qualcosa di nuovo risponda al nuovo cenno, che il mio maestro segue con tanta attenzione'. Ahimè, quanto devono essere prudenti gli uomini quando sono accanto a coloro (i saggi) che non vedono solo gli atti esteriori, ma col loro senno scrutano dentro i pensieri! Lui mi disse: «Ben presto verrà qui di sopra ciò che io aspetto e che tu immagini col pensiero: è inevitabile che presto si mostri ai tuoi occhi». L'uomo deve sempre evitare di dire una verità che sembra falsa, per non essere tacciato ingiustamente di essere bugiardo; ma qui non posso tacere; e io, lettore, ti giuro sulle parole di questa Commedia (che possa godere di lunga fama) che io vidi avvicinarsi una figura verso l'alto, che nuotava in quell'aria oscura e spessa, che faceva meravigliare anche il cuore più coraggioso, proprio come il marinaio che va sott'acqua a sciogliere l'ancora che si è impigliata o a rimuovere un altro ostacolo dentro il mare, e che (nel tornare a galla) stende le braccia verso l'alto e ritrae le gambe (per darsi maggiore slancio). |