Paradiso, Canto XX
Traiano e la vedova (P. Ducale, Venezia)
"...Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s'accosta,
la vedovella consolò del figlio..."
"...Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifeo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante? ..."
"...O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggon tota! ..."
colui che più al becco mi s'accosta,
la vedovella consolò del figlio..."
"...Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifeo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante? ..."
"...O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggon tota! ..."
Argomento del Canto
Ancora nel VI Cielo di Giove. Gli spiriti giusti che formano l'occhio dell'aquila: Rifeo e Traiano. La salvezza dei pagani; la predestinazione.
È la tarda mattinata di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È la tarda mattinata di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Canto dei beati. L'aquila riprende a parlare (1-30)
G. Doré, Gli spiriti giusti
Dante paragona le luci dei beati che formano l'aquila alle stelle che appaiono in cielo la sera, quando il sole è ormai tramontato e la sua luce si riflette negli astri: infatti gli spiriti, non appena l'aquila ha smesso di parlare, aumentano il loro splendore e intonano un canto il cui ricordo è ormai svanito dalla memoria del poeta. L'ardore di carità si manifesta nello scintillio delle luci e quando queste smettono di cantare, Dante ode una specie di mormorio, simile a un corso d'acqua che scende dal monte o al suono della cetra che vibra nel suo manico, o ancora alla zampogna quando emette il soffio. L'aquila infatti riprende a parlare e il suono sembra uscire dal suo collo, come se fosse forato, trasformandosi poi in voce e in parole distinte che il poeta è ansioso di ascoltare.
L'aquila indica gli spiriti giusti che formano l'occhio (31-72)
G. Di Paolo, L'aquila
L'aquila invita Dante a osservare con attenzione il suo occhio, perché gli spiriti giusti che risiedono lì sono, fra tutti quelli che compongono la figura, i più degni in assoluto. Colui che è posto al centro dell'occhio come se fosse la pupilla è David, cantore dello Spirito Santo che trasportò l'Arca dell'Alleanza e che ora comprende il valore del proprio canto grazie alla ricompensa che riceve. L'aquila presenta poi i cinque beati che formano il ciglio dell'occhio: quello più vicino al becco è l'imperatore Traiano, che fece giustizia alla vedova e ora capisce quanto costa non avere fede, visto che ha conosciuto la vita nel Limbo e in Paradiso. Colui che viene dopo è Ezechia, il re biblico che differì la propria morte e ora comprende che il giudizio divino può essere solo rimandato, non annullato. Viene dopo di lui Costantino, l'imperatore che cedette Roma al papa e fece una cosa sbagliata con giusta intenzione, per cui tale atto non gli ha pregiudicato la salvezza. Il beato nella parte discendente dell'arco è Guglielmo il Buono, rimpianto da Napoli e dalla Sicilia malgovernate, che comprende quanto sia apprezzato da Dio un buon sovrano. Nessuno infine crederebbe che la quinta luce dell'occhio sia il troiano Rifeo, che ora conosce molto più di quello che gli uomini sanno della grazia divina.
Meraviglia di Dante per i pagani in Paradiso (73-84)
J. Flaxman, Il troiano Rifeo
L'aquila sembra a Dante simile all'allodola, che prima vola cantando nell'aria e poi tace compiacendosi del proprio canto, mentre i beati manifestano il piacere di Dio. Dante è assalito da un dubbio e non trattiene un'esclamazione di stupore, nonostante le anime leggano bene nella sua mente, e gli spiriti manifestano la gioia di potere rispondere aumentando il proprio splendore.
La fede e la salvezza (85-129)
L'occhio dell'aquila sfavilla e l'uccello sacro riprende a parlare, per risolvere il dubbio di Dante. L'aquila dice di capire che Dante crede a ciò che ha udito ma non ne comprende la ragione, come chi conosce una cosa per il suo nome e non per la sostanza. Il Regno dei Cieli sopporta violenza dall'ardore di carità e dalla speranza, che può vincere la volontà divina, non come un uomo che ne sopraffà un altro ma semplicemente perché essa vuole esser vinta e, una volta vinta, vince a sua volta con la bontà. Dante è stupito della beatitudine dei pagani Rifeo e Traiano , ma in realtà essi non uscirono dai loro corpi pagani, bensì Cristiani, avendo creduto il primo in Cristo venturo e il secondo in Cristo venuto. Infatti l'anima di Traiano fu evocata dal Limbo e tornò a vivere per breve tempo, grazie alla viva speranza di san Gregorio che pregò intensamente per la sua resurrezione: Traiano, tornato in vita, credette in Cristo e si riempì di una tale carità da guadagnarsi la salvezza, dunque andò in Cielo. Rifeo, attraverso il dono della grazia divina, fu sommamente giusto in vita e ricevette da Dio la conoscenza della futura Redenzione: egli vi credette e da quel giorno rinnegò il paganesimo, venendo battezzato per infusione diretta delle virtù teologali, mille anni prima che il battesimo fosse istituito.
La fede e la salvezza (85-129)
L'occhio dell'aquila sfavilla e l'uccello sacro riprende a parlare, per risolvere il dubbio di Dante. L'aquila dice di capire che Dante crede a ciò che ha udito ma non ne comprende la ragione, come chi conosce una cosa per il suo nome e non per la sostanza. Il Regno dei Cieli sopporta violenza dall'ardore di carità e dalla speranza, che può vincere la volontà divina, non come un uomo che ne sopraffà un altro ma semplicemente perché essa vuole esser vinta e, una volta vinta, vince a sua volta con la bontà. Dante è stupito della beatitudine dei pagani Rifeo e Traiano , ma in realtà essi non uscirono dai loro corpi pagani, bensì Cristiani, avendo creduto il primo in Cristo venturo e il secondo in Cristo venuto. Infatti l'anima di Traiano fu evocata dal Limbo e tornò a vivere per breve tempo, grazie alla viva speranza di san Gregorio che pregò intensamente per la sua resurrezione: Traiano, tornato in vita, credette in Cristo e si riempì di una tale carità da guadagnarsi la salvezza, dunque andò in Cielo. Rifeo, attraverso il dono della grazia divina, fu sommamente giusto in vita e ricevette da Dio la conoscenza della futura Redenzione: egli vi credette e da quel giorno rinnegò il paganesimo, venendo battezzato per infusione diretta delle virtù teologali, mille anni prima che il battesimo fosse istituito.
La predestinazione (130-148)
Il Giudizio Universale (ms. XI sec.)
La predestinazione, dichiara l'aquila, ha la propria radice lontanissima dagli sguardi degli uomini che non possono certo vedere Dio nella sua interezza. Gli uomini devono essere cauti nel pronunciare giudizi, dal momento che i beati, che vedono direttamente Dio, non conoscono ancora il numero esatto degli eletti; tale incompleta conoscenza è tuttavia dolce per loro, poiché la loro felicità è riflesso di quella di Dio e pertanto vogliono solo quello che Dio stesso vuole per loro. L'aquila pone così fine al suo discorso, che è stato per Dante una dolcissima medicina: e come il bravo citarista accompagna il canto con il suono delle corde, rendendolo più piacevole, allo stesso modo mentre l'aquila parlava Dante ha visto le due luci che corrispondevano alle anime di Rifeo e Traiano far lampeggiare all'unisono il proprio splendore, come due occhi che sbattono simultaneamente.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti XVII-XXII, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto completa il «dittico» iniziato col XIX e dedicato al complesso problema della salvezza, attraverso l'esempio clamoroso di Rifeo e Traiano che ne costuituisce quasi un corollario e sottolinea per l'ennesima volta l'imperscrutabiltà del giudizio divino, che agisce in base a logiche non sempre razionalmente comprensibili alla mente umana: se nel Canto precedente l'aquila ha affrontato la questione della mancata salvezza degli uomini virtuosi privi di fede, come i pagani vissuti prima di Cristo e relegati nel Limbo senza alcuna colpa, qui presenta due esempi opposti di pagani cui è stato possibile salvarsi attraverso la concessione della grazia per i loro meriti speciali. L'episodio si apre con la descrizione dello sfavillio delle luci dell'aquila, paragonate alle stelle in cielo dopo il tramonto del sole che si riflette in esse, proprio come Dio si riverbera nei beati che formano l'aquila mentre intonano un canto ineffabile per la labile memoria del poeta; poi l'aquila riprende a parlare, emettendo un mormorio che esce dal collo e si trasforma in voce umana, reso attraverso la complessa similitudine del corso d'acqua che scende a valle e del suono della cetra o della zampogna che sale verso l'alto, paragone che sarà ripreso alla fine con l'immagine del citarista che accompagna le note del cantore (nel Canto precedente Dante aveva sottolineato il carattere singolare della voce dell'aquila, pur essendo composta da migliaia di spiriti). Proprio questi spiriti vengono ora presentati dall'uccello sacro, limitatamente ai sei beati che formano l'occhio e che, a suo dire, sono li sommi di tutti gli spiriti giusti, il che ha fatto pensare che i beati di questo Cielo siano in prevalenza principi che hanno ben governato: ciò si accorda con il senso della scritta formata dall'aquila nel Canto XVIII che esortava coloro che giudicano la Terra ad amare la giustizia, nonché con la rassegna dei cattivi principi cristiani del XIX di cui questo elenco rappresenta un rovesciamento positivo; del resto cinque dei sei beati che l'aquila nomina (ad eccezione del solo Rifeo) sono stati buoni sovrani sulla Terra, a cominciare da David ricordato come cantor de lo Spirito Santo, cioè autore di Salmi che trasportò anche l'Arca Santa di città in città, come già ricordato nell'esempio di umiltà scolpito nella I Cornice del Purgatorio (Purg., X, 55-69). In quel passo David era accostato a Traiano, protagonista del celebre episodio della vedova che chiedeva giustizia per il figlio ucciso, e così in questo Canto al re biblico segue proprio l'imperatore romano, che insieme a Rifeo costituisce l'esempio inatteso di salvezza possibile anche ai pagani: l'aquila sottolinea il fatto che Traiano sperimentò sia la vita all'Inferno che in Paradiso, per cui adesso sa quanto costa il non avere fede in Dio, e anche la presenza di Rifeo è in seguito rivelata come fatto del tutto imprevedibile, al punto che nessuno in Terra potrebbe credere alla sua beatitudine in Cielo, come del resto testimoniato dallo stupore di Dante. Tra gli altri esempi di giusti sovrani è sorprendente anche quello di Costantino, reo agli occhi di Dante di aver compiuto la famigerata donazione che ha distrutto il mondo, provocando tante nefaste conseguenze per la corruzione della Chiesa al di là della retta intenzione dell'imperatore, che infatti è comunque salvo (cfr. Inf., XIX, 115-117). Gli altri due beati sono Ezechia, il re biblico che differì di quindici anni la propria morte grazie alle preghiere e al pianto (per quanto l'identificazione di questo personaggio, non nominato da Dante, sia piuttosto problematica) e Guglielmo II d'Altavilla, re di Sicilia e di Puglia che rappresenta un esempio assai più degno di sovrano rispetto a Carlo II d'Angiò e Federico II d'Aragona, che ora governano a Napoli e a Palermo (l'aquila riprende la rampogna contro i malvagi sovrani che chiudeva il Canto precedente).
Naturalmente è la presenza di Rifeo e Traiano a porre i maggiori problemi, suscitando tra l'altro il vivo stupore di Dante che non può trattenere un'esclamazione (Che cose son queste?), specie pensando a quanto detto dall'aquila nel Canto XIX e cioè che nessuno è salito in Cielo senza aver creduto in Cristo venuto o venturo. La salvezza clamorosa dei due pagani dimostra l'impossibilità per l'uomo di comprendere fino in fondo il giudizio divino, come del resto affermato già nel Canto precedente, e sottolinea la necessità di essere cauti nell'emettere giudizi precipitosi in materia di salvezza, come l'aquila affermerà nel finale col discorso sulla predestinazione, col dire che neppure i beati sanno quali e quanti saranno gli eletti il Giorno del Giudizio (è lo stesso monito di san Tommaso d'Aquino in XIII, 130 ss.). La salvezza dei due pagani viene spiegata dall'aquila con argomenti teologici, che almeno nel caso di Traiano si rifanno strettamente a testi assai diffusi al tempo di Dante: Gregorio Magno, colpito dalla pietà dell'imperatore riguardo all'aneddoto della vedova, aveva pregato intensamente per lui e ottenuto di farlo resuscitare per breve tempo, così da permettergli di credere in Cristo venuto e guadagnare in tal modo la salvezza (Dante leggeva tale spiegazione nella Summa theol. di san Tommaso, dove la cosa era narrata in modo pressoché identico alle parole dell'aquila). Più problematica la salvezza di Rifeo, oscuro personaggio dell'Eneide di cui nulla poteva far pensare alla conversione e per il quale Dante si è forse rifatto a commenti o chiose medievali altrimenti ignote: il compagno di Enea sarebbe stato illuminato dalla grazia in virtù della sua eccezionale giustizia, quindi avrebbe creduto nella prossima Redenzione e avrebbe ricevuto le virtù teologali direttamente infuse, ben mille anni prima che il battesimo fosse istituito come sacramento; il suo esempio sarebbe dunque analogo a quello di Stazio, con la differenza che il poeta latino entrò a contatto con la predicazione dei primi Cristiani e, dopo la conversione, ebbe paura di manifestare la nuova religone e ostentò a lungo il paganesimo, cosa che gli costò una lunga permanenza fra gli accidiosi della IV Cornice. In entrambi i casi, tanto per Rifeo quanto per Traiano, un vero e proprio battesimo non ci fu e questo avvalora la tesi secondo cui per la salvezza è sufficiente il possesso della fede, come in parte già detto nel Canto XIX riguardo all'uomo nato in terre lontane (muore non battezzato e senza fede) e poi con l'affermazione per cui A questo regno / non salì mai chi non credette in Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno. L'aquila aveva del resto ribadito che tanti Cristiani solo in apparenza devoti saranno meno vicini a Dio, il Giorno del Giudizio, degli Etiopi e dei Persiani che non hanno mai conosciuto il Vangelo, e per i quali non si può in fondo escludere a priori una possibile salvezza in virtù dei loro meriti come avvenne per Rifeo e Traiano, quindi in ultima analisi è impossibile per l'uomo (e per la Chiesa) conoscere con certezza il destino ultraterreno di ciascun fedele.
È questo in fondo il senso del monito finale dell'aquila riguardo la predestinazione, argomento assai spinoso della dottrina cristiana e che qui viene risolto dicendo che nessuno, a parte Dio, sa con certezza il numero di eletti predestinati alla salvezza il Giorno del Giudizio: tale mancata conoscenza non è per i beati motivo di amarezza ma è anzi parte della loro beatitudine, in quanto ciò è conforme alla volontà divina e la loro volontà non può che annullarsi in essa (stesso discorso di Piccarda Donati, III, 70-87, e di Giustiniano, VI, 118-126). Mentre l'aquila parla sono proprio le luci delle anime di Rifeo e Traiano a lampeggiare e sottolineare così le importanti parole relative alla salvezza, simili a due occhi che sbattano simultaneamente: Dante riprende il paragone iniziale della cetra descrivendo lo scintillio delle anime come una sorta di accompagnamento al discorso dell'aquila, come quando il citaredo accompagna con la musica il canto rendendolo più piacevole, e sarà il caso di ricordare che lo stesso David è descritto nel testo biblico come esperto suonatore di cetra e autore di Salmi, fatto non casuale visto che il re d'Israele è posto proprio al centro dell'occhio dell'aquila come sua pupilla.
Naturalmente è la presenza di Rifeo e Traiano a porre i maggiori problemi, suscitando tra l'altro il vivo stupore di Dante che non può trattenere un'esclamazione (Che cose son queste?), specie pensando a quanto detto dall'aquila nel Canto XIX e cioè che nessuno è salito in Cielo senza aver creduto in Cristo venuto o venturo. La salvezza clamorosa dei due pagani dimostra l'impossibilità per l'uomo di comprendere fino in fondo il giudizio divino, come del resto affermato già nel Canto precedente, e sottolinea la necessità di essere cauti nell'emettere giudizi precipitosi in materia di salvezza, come l'aquila affermerà nel finale col discorso sulla predestinazione, col dire che neppure i beati sanno quali e quanti saranno gli eletti il Giorno del Giudizio (è lo stesso monito di san Tommaso d'Aquino in XIII, 130 ss.). La salvezza dei due pagani viene spiegata dall'aquila con argomenti teologici, che almeno nel caso di Traiano si rifanno strettamente a testi assai diffusi al tempo di Dante: Gregorio Magno, colpito dalla pietà dell'imperatore riguardo all'aneddoto della vedova, aveva pregato intensamente per lui e ottenuto di farlo resuscitare per breve tempo, così da permettergli di credere in Cristo venuto e guadagnare in tal modo la salvezza (Dante leggeva tale spiegazione nella Summa theol. di san Tommaso, dove la cosa era narrata in modo pressoché identico alle parole dell'aquila). Più problematica la salvezza di Rifeo, oscuro personaggio dell'Eneide di cui nulla poteva far pensare alla conversione e per il quale Dante si è forse rifatto a commenti o chiose medievali altrimenti ignote: il compagno di Enea sarebbe stato illuminato dalla grazia in virtù della sua eccezionale giustizia, quindi avrebbe creduto nella prossima Redenzione e avrebbe ricevuto le virtù teologali direttamente infuse, ben mille anni prima che il battesimo fosse istituito come sacramento; il suo esempio sarebbe dunque analogo a quello di Stazio, con la differenza che il poeta latino entrò a contatto con la predicazione dei primi Cristiani e, dopo la conversione, ebbe paura di manifestare la nuova religone e ostentò a lungo il paganesimo, cosa che gli costò una lunga permanenza fra gli accidiosi della IV Cornice. In entrambi i casi, tanto per Rifeo quanto per Traiano, un vero e proprio battesimo non ci fu e questo avvalora la tesi secondo cui per la salvezza è sufficiente il possesso della fede, come in parte già detto nel Canto XIX riguardo all'uomo nato in terre lontane (muore non battezzato e senza fede) e poi con l'affermazione per cui A questo regno / non salì mai chi non credette in Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno. L'aquila aveva del resto ribadito che tanti Cristiani solo in apparenza devoti saranno meno vicini a Dio, il Giorno del Giudizio, degli Etiopi e dei Persiani che non hanno mai conosciuto il Vangelo, e per i quali non si può in fondo escludere a priori una possibile salvezza in virtù dei loro meriti come avvenne per Rifeo e Traiano, quindi in ultima analisi è impossibile per l'uomo (e per la Chiesa) conoscere con certezza il destino ultraterreno di ciascun fedele.
È questo in fondo il senso del monito finale dell'aquila riguardo la predestinazione, argomento assai spinoso della dottrina cristiana e che qui viene risolto dicendo che nessuno, a parte Dio, sa con certezza il numero di eletti predestinati alla salvezza il Giorno del Giudizio: tale mancata conoscenza non è per i beati motivo di amarezza ma è anzi parte della loro beatitudine, in quanto ciò è conforme alla volontà divina e la loro volontà non può che annullarsi in essa (stesso discorso di Piccarda Donati, III, 70-87, e di Giustiniano, VI, 118-126). Mentre l'aquila parla sono proprio le luci delle anime di Rifeo e Traiano a lampeggiare e sottolineare così le importanti parole relative alla salvezza, simili a due occhi che sbattano simultaneamente: Dante riprende il paragone iniziale della cetra descrivendo lo scintillio delle anime come una sorta di accompagnamento al discorso dell'aquila, come quando il citaredo accompagna con la musica il canto rendendolo più piacevole, e sarà il caso di ricordare che lo stesso David è descritto nel testo biblico come esperto suonatore di cetra e autore di Salmi, fatto non casuale visto che il re d'Israele è posto proprio al centro dell'occhio dell'aquila come sua pupilla.
La donazione di Costantino: il più celebre «falso» della storia
Ritratto dell'umanista L. Valla
Dante ribadisce a più riprese nella Commedia le conseguenze nefaste della cosiddetta «donazione di Costantino», ovvero la presunta cessione da parte del primo imperatore cristiano di un territorio nel Lazio a papa Silvestro I per governarlo politicamente, base delle successive pretese temporali della Chiesa a scapito dell'autorità imperiale: in Inf., XIX, 115-117 il poeta biasima Costantino per aver alimentato la corruzione ecclesiastica e la simonia con quella dote concessa al primo ricco patre, mentre in Purg., XXXII, 124 ss. l'allegoria delle vicende del carro (simbolo della Chiesa) mostra l'aquila imperiale che compie la donazione lasciando su di esso delle piume, che trasformano in seguito il carro in un orribile mostro (una voce dal cielo biasima l'accaduto e poco dopo Dante ricorda che la piuma fu forse offerta / con intenzion sana e benigna). In Par., VI, 1-3 Giustiniano sembra accusare il suo precedessore di aver portato l'aquila imperiale contr'al corso del ciel, trasferendo la capitale da Roma a Bisanzio per cedere il Lazio al papa e compiendo quasi un percorso contro natura, il che non ha comunque precluso la salvezza all'imperatore che è incluso dal poeta fra gli spiriti giusti che formano proprio l'aquila nel VI Cielo di Giove (XX, 55-60, dove si dice che Costantino per cedere al pastor si fece greco e si ricorda che il suo bene operar ha comunque causato gravi danni alla Chiesa e al mondo, che è addirittura distrutto). La posizione estremamente critica di Dante si spiega alla luce della corruzione che nel Trecento pervadeva la Chiesa di Roma in tutte le sue gerarchie ed era causa di gravi malversazioni e ingiustizie, non ultimo l'esilio patito dal poeta in cui aveva avuto parte non piccola Bonifacio VIII, papa simoniaco incluso tra i futuri dannati dell'VIII Cerchio: non stupisce dunque che la cosiddetta donazione venisse aspramente condannata, per quanto essa fosse attestata da un documento che risaliva in realtà all'VIII-IX sec. ed era dunque il falso forse più clamoroso della storia della filologia medievale e moderna. Il merito di aver svelato questa mistificazione, di cui peraltro c'erano già sospetti nei secoli precedenti, va all'umanista piacentino Lorenzo Valla (1407-1457), che nell'opuscolo De falso credita et ementita Costantini donatione («Sulla donazione falsamente ed erroneamente attribuita a Costantino») dimostrò, con strumenti filologici, che il documento non poteva risalire all'età di Costantino ma era probabilmente stato redatto nella Curia papale all'epoca di Pipino il Breve, forse dalla cancelleria di papa Stefano II che, com'è noto, strinse col re dei Franchi padre di Carlo Magno una duratura alleanza. Il falso serviva a corroborare, da un lato, l'autorità del sovrano carolingio che veniva così riconosciuto quale legittimo erede dell'Impero romano, dall'altro valeva a sancire il potere temporale che il pontefice aveva di fatto acquisito nel Lazio e nell'Esarcato di Ravenna, derivante nientemeno che dalla decisione ufficiale del primo imperatore romano convertitosi al Cristianesimo. Che poi tale supposta cessione avesse realmente alimentato la corruzione che dilagava nella Chiesa del XIII-XIV sec. e fosse causa dei contrasti tra Papato e Impero è vero solo in parte e deriva da un'eccessiva semplificazione di cui Dante non è solo a dare prova nel suo tempo: certo è curioso che la cattiva fama di Costantino per più di sei secoli derivasse da un documento falso redatto più di trecento anni dopo la sua morte, e che solo alle soglie dell'età moderna si sia ristabilita la verità facendo, almeno su questo, giustizia a un imperatore che non fu certo un santo e si macchiò di altre gravi colpe, non ultima quella di aver usato la religione come strumento di affermazione politica e di non essersi forse mai convertito realmente. Curioso è anche che Dante lo collochi in Paradiso nonostante una colpa che in realtà non ebbe mai, mentre avrebbe dovuto valutare diversamente le malefatte che realmente questo controverso imperatore compì durante la sua vita.
Note e passi controversi
Il v. 6 allude alla credenza erronea in base alla quale le stelle brillerebbero della luce riflessa del Sole, colui che tutto 'l mondo alluma.
Il termine flailli al v. 14 ha questa sola occorrenza nel poema e ha dato filo da torcere agli interpreti: si tratta prob. di un hapax legomenon in senso assoluto e potrebbe essere un francesismo da flavel («flauto») con allusione al canto dei beati, oppure una forma derivata dal fr. ant. flael da flacellum, «fiaccola», riferita allo splendore lucente degli spiriti. Allo stato attuale è impossibile propendere per una delle due ipotesi, escludendo un errore nei codici.
Ai vv. 31-33 l'aquila invita Dante a guardare attentamente il suo occhio, la parte... che vede e pate il sole / ne l'aguglie mortali, poiché si riteneva che questo uccello avesse la capacità di sostenere a lungo la vista dell'astro (cfr. Par., I, 48), opinione che risale ad Aristotele (De animalibus) e Brunetto Latini (Trésor). L'aquila parla di un solo occhio perché essa, come il simbolo araldico, ha il capo di profilo.
I vv. 40-42 alludono al fatto che il canto di David poteva sembrare merito solo dello Spirito Santo di cui era pervaso, ma ora che è in Paradiso la beatitudine gli dimostra che ebbe anche merito lui in quanto agì con la propria volontà (consiglio). Alcuni mss. leggono affetto e gli interpreti attribuiscono suo consiglio allo Spirito Santo, ma è ipotesi assai dubbia. L'espressione ora conosce (v. 40) si ripete per sei volte, per ognuno degli spiriti indicati dall'aquila, sempre all'inizio delle due terzine dedicate a ciascuno (vv. 40, 46, 52, 58, 64, 70).
I vv. 43-48 indicano Traiano, beato grazie all'episodio della vedovella già ricordato in Purg., X, 73-93). Il v. 48 allude al fatto che Traiano rimase nel Limbo fino a quando fu resuscitato grazie alle preghiere di san Gregorio Magno.
Il personaggio citato allusivamente ai vv. 49-54 è comunemente interpretato come Ezechia, il re biblico figlio di Acaz che pregò Dio con molto pianto per allontanare la morte che gli era stata annunciata da Isaia, ottenendo di vivere altri quindici anni. La Bibbia lo indica come re giusto (IV Reg., XX, 3) e questo giustifica la sua presenza qui, ma non è chiaro cosa intenda Dante per vera penitenza, dal momento che Ezechia nel testo sacro si limita alle preghiere: a meno che il poeta non intendesse l'abbondante pianto come segno di pentimento, il che pare l'ipotesi meno inverosimile.
Ai vv. 55-60 si parla di Costantino, che trasferì la capitale da Roma a Bisanzio in seguito alla famosa donazione, dal che nacquero (al di là delle sue intenzioni) gravi conseguenze: con le leggi e meco indica che l'imperatore portò in Oriente il simbolo dell'Impero e la legislazione, poiché Roma era governata dal pontefice, ma forse l'espressione è solo un'endiadi che indica il potere imperiale in genere.
La terzina ai vv. 76-78 è di dubbia interpretazione, ma forse conviene intendere l'espressione l'imago de la 'mprenta / dell'etterno piacere come riferita all'aquila, che sarebbe l'immagine dell'impronta divina.
Il termine quiditate (v. 92; alcuni mss. leggono quidditate) è proprio della Scolastica (quidditas) e indica l'essenza della cosa.
I vv. 94-99 traducono e ampliano il testo evangelico, Matth., XI, 12: Regnum caelorum vim patitur et violenti rapiunt illud («Il Regno dei Cieli sopporta la violenza e i violenti se ne impadroniscono»). I vv. 98-99 contengono un chiasmo, vince... vinta... vinta... vince.
Il v. 105 indica che Rifeo credette in Cristo venturo (nei piedi passuri) e Traiano in Cristo venuto (nei piedi passi); piedi è sineddoche a indicare il Messia, inchiodato alla croce, mentre passuri e passi sono due forti latinismi da patior, «provare passione», «soffrire il martirio», nel senso di «piedi che avrebbero sofferto» e di «piedi che avevano sofferto».
La spiegazione ai vv. 106-114 della salvezza di Traiano riprende quasi alla lettera quella offerta da san Tommaso in Summa Theol., Suppl., q. LXXI: de facto Traiani hoc modo potest probabiliter aestimari, quod precibus beati Gregorii ad vitam fuerit revocatus et ita gratiam consecutus sit («circa il fatto di Traiano, probabilmente si può giudicare in tal modo: che grazie alle preghiere del beato Gregorio sia stato riportato alla vita, e in tal modo abbia ottenuto la grazia»).
Al v. 116 morte seconda indica il momento in cui Traiano, dopo essere resuscitato, morì una seconda volta (nulla a che vedere con «dannazione» o «annichilimento totale», come in Inf., I, 111).
I vv. 127-129 alludono alle tre virtù teologali, le tre donne che Dante ha visto alla ruota destra del carro trionfale nella processione mistica di Purg., XXIX, 121-129; XXXI, 130 ss.). Intende dire che fede, speranza e carità furono infuse in Rifeo direttamente da Dio, senza l'atto liturgico del battesimo.
Al v. 132 la prima cagion è Dio.
Al v. 143 seguitar vuol dire semplicemente «accompagnare», non seguire o accordare come alcuni intendono.
Il termine flailli al v. 14 ha questa sola occorrenza nel poema e ha dato filo da torcere agli interpreti: si tratta prob. di un hapax legomenon in senso assoluto e potrebbe essere un francesismo da flavel («flauto») con allusione al canto dei beati, oppure una forma derivata dal fr. ant. flael da flacellum, «fiaccola», riferita allo splendore lucente degli spiriti. Allo stato attuale è impossibile propendere per una delle due ipotesi, escludendo un errore nei codici.
Ai vv. 31-33 l'aquila invita Dante a guardare attentamente il suo occhio, la parte... che vede e pate il sole / ne l'aguglie mortali, poiché si riteneva che questo uccello avesse la capacità di sostenere a lungo la vista dell'astro (cfr. Par., I, 48), opinione che risale ad Aristotele (De animalibus) e Brunetto Latini (Trésor). L'aquila parla di un solo occhio perché essa, come il simbolo araldico, ha il capo di profilo.
I vv. 40-42 alludono al fatto che il canto di David poteva sembrare merito solo dello Spirito Santo di cui era pervaso, ma ora che è in Paradiso la beatitudine gli dimostra che ebbe anche merito lui in quanto agì con la propria volontà (consiglio). Alcuni mss. leggono affetto e gli interpreti attribuiscono suo consiglio allo Spirito Santo, ma è ipotesi assai dubbia. L'espressione ora conosce (v. 40) si ripete per sei volte, per ognuno degli spiriti indicati dall'aquila, sempre all'inizio delle due terzine dedicate a ciascuno (vv. 40, 46, 52, 58, 64, 70).
I vv. 43-48 indicano Traiano, beato grazie all'episodio della vedovella già ricordato in Purg., X, 73-93). Il v. 48 allude al fatto che Traiano rimase nel Limbo fino a quando fu resuscitato grazie alle preghiere di san Gregorio Magno.
Il personaggio citato allusivamente ai vv. 49-54 è comunemente interpretato come Ezechia, il re biblico figlio di Acaz che pregò Dio con molto pianto per allontanare la morte che gli era stata annunciata da Isaia, ottenendo di vivere altri quindici anni. La Bibbia lo indica come re giusto (IV Reg., XX, 3) e questo giustifica la sua presenza qui, ma non è chiaro cosa intenda Dante per vera penitenza, dal momento che Ezechia nel testo sacro si limita alle preghiere: a meno che il poeta non intendesse l'abbondante pianto come segno di pentimento, il che pare l'ipotesi meno inverosimile.
Ai vv. 55-60 si parla di Costantino, che trasferì la capitale da Roma a Bisanzio in seguito alla famosa donazione, dal che nacquero (al di là delle sue intenzioni) gravi conseguenze: con le leggi e meco indica che l'imperatore portò in Oriente il simbolo dell'Impero e la legislazione, poiché Roma era governata dal pontefice, ma forse l'espressione è solo un'endiadi che indica il potere imperiale in genere.
La terzina ai vv. 76-78 è di dubbia interpretazione, ma forse conviene intendere l'espressione l'imago de la 'mprenta / dell'etterno piacere come riferita all'aquila, che sarebbe l'immagine dell'impronta divina.
Il termine quiditate (v. 92; alcuni mss. leggono quidditate) è proprio della Scolastica (quidditas) e indica l'essenza della cosa.
I vv. 94-99 traducono e ampliano il testo evangelico, Matth., XI, 12: Regnum caelorum vim patitur et violenti rapiunt illud («Il Regno dei Cieli sopporta la violenza e i violenti se ne impadroniscono»). I vv. 98-99 contengono un chiasmo, vince... vinta... vinta... vince.
Il v. 105 indica che Rifeo credette in Cristo venturo (nei piedi passuri) e Traiano in Cristo venuto (nei piedi passi); piedi è sineddoche a indicare il Messia, inchiodato alla croce, mentre passuri e passi sono due forti latinismi da patior, «provare passione», «soffrire il martirio», nel senso di «piedi che avrebbero sofferto» e di «piedi che avevano sofferto».
La spiegazione ai vv. 106-114 della salvezza di Traiano riprende quasi alla lettera quella offerta da san Tommaso in Summa Theol., Suppl., q. LXXI: de facto Traiani hoc modo potest probabiliter aestimari, quod precibus beati Gregorii ad vitam fuerit revocatus et ita gratiam consecutus sit («circa il fatto di Traiano, probabilmente si può giudicare in tal modo: che grazie alle preghiere del beato Gregorio sia stato riportato alla vita, e in tal modo abbia ottenuto la grazia»).
Al v. 116 morte seconda indica il momento in cui Traiano, dopo essere resuscitato, morì una seconda volta (nulla a che vedere con «dannazione» o «annichilimento totale», come in Inf., I, 111).
I vv. 127-129 alludono alle tre virtù teologali, le tre donne che Dante ha visto alla ruota destra del carro trionfale nella processione mistica di Purg., XXIX, 121-129; XXXI, 130 ss.). Intende dire che fede, speranza e carità furono infuse in Rifeo direttamente da Dio, senza l'atto liturgico del battesimo.
Al v. 132 la prima cagion è Dio.
Al v. 143 seguitar vuol dire semplicemente «accompagnare», non seguire o accordare come alcuni intendono.
TestoQuando colui che
tutto ‘l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende, che ‘l giorno d’ogne parte si consuma, 3 lo ciel, che sol di lui prima s’accende, subitamente si rifà parvente per molte luci, in che una risplende; 6 e questo atto del ciel mi venne a mente, come ‘l segno del mondo e de’ suoi duci nel benedetto rostro fu tacente; 9 però che tutte quelle vive luci, vie più lucendo, cominciaron canti da mia memoria labili e caduci. 12 O dolce amor che di riso t’ammanti, quanto parevi ardente in que’ flailli, ch’avieno spirto sol di pensier santi! 15 Poscia che i cari e lucidi lapilli ond’io vidi ingemmato il sesto lume puoser silenzio a li angelici squilli, 18 udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro giù di pietra in pietra, mostrando l’ubertà del suo cacume. 21 E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e sì com’al pertugio de la sampogna vento che penètra, 24 così, rimosso d’aspettare indugio, quel mormorar de l’aguglia salissi su per lo collo, come fosse bugio. 27 Fecesi voce quivi, e quindi uscissi per lo suo becco in forma di parole, quali aspettava il core ov’io le scrissi. 30 «La parte in me che vede e pate il sole ne l’aguglie mortali», incominciommi, «or fisamente riguardar si vole, 33 perché d’i fuochi ond’io figura fommi, quelli onde l’occhio in testa mi scintilla, e’ di tutti lor gradi son li sommi. 36 Colui che luce in mezzo per pupilla, fu il cantor de lo Spirito Santo, che l’arca traslatò di villa in villa: 39 ora conosce il merto del suo canto, in quanto effetto fu del suo consiglio, per lo remunerar ch’è altrettanto. 42 Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, colui che più al becco mi s’accosta, la vedovella consolò del figlio: 45 ora conosce quanto caro costa non seguir Cristo, per l’esperienza di questa dolce vita e de l’opposta. 48 E quel che segue in la circunferenza di che ragiono, per l’arco superno, morte indugiò per vera penitenza: 51 ora conosce che ‘l giudicio etterno non si trasmuta, quando degno preco fa crastino là giù de l’odierno. 54 L’altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fé mal frutto, per cedere al pastor si fece greco: 57 ora conosce come il mal dedutto dal suo bene operar non li è nocivo, avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto. 60 E quel che vedi ne l’arco declivo, Guiglielmo fu, cui quella terra plora che piagne Carlo e Federigo vivo: 63 ora conosce come s’innamora lo ciel del giusto rege, e al sembiante del suo fulgore il fa vedere ancora. 66 Chi crederebbe giù nel mondo errante, che Rifeo Troiano in questo tondo fosse la quinta de le luci sante? 69 Ora conosce assai di quel che ‘l mondo veder non può de la divina grazia, ben che sua vista non discerna il fondo». 72 Quale allodetta che ‘n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de l’ultima dolcezza che la sazia, 75 tal mi sembiò l’imago de la ‘mprenta de l’etterno piacere, al cui disio ciascuna cosa qual ell’è diventa. 78 E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio lì quasi vetro a lo color ch’el veste, tempo aspettar tacendo non patio, 81 ma de la bocca, «Che cose son queste?», mi pinse con la forza del suo peso: per ch’io di coruscar vidi gran feste. 84 Poi appresso, con l’occhio più acceso, lo benedetto segno mi rispuose per non tenermi in ammirar sospeso: 87 «Io veggio che tu credi queste cose perch’io le dico, ma non vedi come; sì che, se son credute, sono ascose. 90 Fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate veder non può se altri non la prome. 93 Regnum celorum vïolenza pate da caldo amore e da viva speranza, che vince la divina volontate: 96 non a guisa che l’omo a l’om sobranza, ma vince lei perché vuole esser vinta, e, vinta, vince con sua beninanza. 99 La prima vita del ciglio e la quinta ti fa maravigliar, perché ne vedi la region de li angeli dipinta. 102 D’i corpi suoi non uscir, come credi, Gentili, ma Cristiani, in ferma fede quel d’i passuri e quel d’i passi piedi. 105 Ché l’una de lo ‘nferno, u’ non si riede già mai a buon voler, tornò a l’ossa; e ciò di viva spene fu mercede: 108 di viva spene, che mise la possa ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla, sì che potesse sua voglia esser mossa. 111 L’anima gloriosa onde si parla, tornata ne la carne, in che fu poco, credette in lui che potea aiutarla; 114 e credendo s’accese in tanto foco di vero amor, ch’a la morte seconda fu degna di venire a questo gioco. 117 L’altra, per grazia che da sì profonda fontana stilla, che mai creatura non pinse l’occhio infino a la prima onda, 120 tutto suo amor là giù pose a drittura: per che, di grazia in grazia, Dio li aperse l’occhio a la nostra redenzion futura; 123 ond’ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo più del paganesmo; e riprendiene le genti perverse. 126 Quelle tre donne li fur per battesmo che tu vedesti da la destra rota, dinanzi al battezzar più d’un millesmo. 129 O predestinazion, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota! 132 E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar; ché noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti; 135 ed ènne dolce così fatto scemo, perché il ben nostro in questo ben s’affina, che quel che vole Iddio, e noi volemo». 138 Così da quella imagine divina, per farmi chiara la mia corta vista, data mi fu soave medicina. 141 E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, in che più di piacer lo canto acquista, 144 sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda ch’io vidi le due luci benedette, pur come batter d’occhi si concorda, con le parole mover le fiammette. 148 |
ParafrasiQuando colui che illumina tutto il mondo (il sole) tramonta dal nostro emisfero, così che il giorno scompare in ogni parte, il cielo, che prima è acceso di luce, diventa subito di nuovo lucente per molte stelle, nelle quali si riflette quella del sole;
e questa cosa mi venne in mente non appena il simbolo del mondo e dei suoi condottieri (l'aquila) tacque nel becco benedetto; infatti, tutte quelle luci splendenti, diventando più luminose, iniziarono dei canti destinati a scomparire dalla mia memoria. O dolce amore che ti illumini del tuo sorriso, come sembravi ardente in quei dolci suoni (o in quelle fiaccole) che erano pervasi solo da uno spirito di pensieri santi! Dopo che le preziose e scintillanti gemme di cui io vidi costellato il VI Cielo cessarono quegli squilli angelici, mi sembrò di sentire il mormorio di un fiume che scende a valle terso, di pietra in pietra, mostrando l'abbondanza d'acqua della sua cima. E come il suono si forma sul manico della cetra, e come si sente il soffio d'aria che entra nel foro della zampogna, così, ponendo fine a ogni indugio, quel mormorio dell'aquila salì su per il suo collo, come se questo fosse forato. Qui si tramutò in voce e di qui uscì attraverso il becco in forma di parole distinte, che il mio cuore, dove io le annotai, attendeva. Iniziò a dire: «La parte di me che nelle aquile mortali vede e sopporta il sole (l'occhio), ora dovrà essere da te fissata con attenzione, perché di tutte le anime di cui sono composta quelli che brillano nel mio occhio sono i più degni di tutti i beati. Colui che splende in mezzo come la pupilla fu il cantore dello Spirito Santo (re David), che trasportò l'Arca Santa di città in città: ora conosce il merito del suo canto, poiché fu effetto della sua volontà, grazie alla beatitudine che è ad esso commisurata. Dei cinque beati che formano il cerchio che mi fa da ciglio, colui che è più vicino al mio becco consolò la vedovella facendo giustizia del figlio (Traiano): ora sa quanto costa caro non seguire Cristo, poiché ha sperimentato sia la vita in Paradiso sia quella all'Inferno. E il beato che lo segue nel cerchio di cui parlo, nella parte alta, ritardò la propria morte con una vera penitenza (re Ezechia): ora sa che il giudizio eterno non viene mutato, quando la preghiera di un'anima degna, sulla Terra, rimanda quello che è già stato pronunciato. L'altro che vien dopo, in base a una buona intenzione che poi diede cattivi frutti, per lasciare Roma al papa trasferì il governo imperiale a Costantinopoli (Costantino): ora vede che il male scaturito dalle sue buone azioni non gli ha nuociuto, benché il mondo ne sia stato guastato. E colui che vedi nell'arco discendente fu re Guglielmo il Buono, che è rimpianto da quelle terre (Napoli e la Sicilia) che ora sono governate dai vivi Carlo II d'Angiò e Federico II d'Aragona: ora sa che il Cielo apprezza un re giusto, e lo dimostra tuttora con lo splendore del suo aspetto. Chi, nel mondo errante, potrebbe credere che il troiano Rifeo fosse la quinta delle luci sante in questo cerchio? Ora sa molto più di quello che gli uomini conoscono della grazia divina, anche se il suo sguardo non può arrivarvi in profondità». Come l'allodola che prima vola nell'aria cantando e poi tace, compiacendosi dell'ultima dolcezza del canto che le dà soddisfazione, così mi sembrò l'immagine dell'impronta divina (l'aquila), per il cui desiderio ogni cosa diventa com'è. E anche se io, dubitando, ero come un vetro che assume il colore di ciò che ricopre, non sopportai di aspettare tacendo, e la forza del dubbio che provavo mi fece uscire dalla bocca l'esclamazione: «Che cos'è tutto questo?»; allora io vidi i beati scintillare per la gioia di rispondermi. Subito dopo, con l'occhio ancora più splendente, il benedetto segno (l'aquila) mi rispose per non tenermi sulle spine nel mio stupore: «Io vedo che tu credi queste cose perché te le dico, ma non ne capisci la ragione; in tal mondo, anche se credute, sono oscure. Tu fai come quello che comprende la cosa dal nome che la indica, ma non ne intende la sostanza se qualcun altro non gliela spiega. Il Regno dei Cieli sopporta la violenza che viene da caldo amore di carità e da viva speranza, che vince la volontà divina: non come un uomo che ne sopraffà un altro, ma la vince perché essa vuol essere vinta, e, una volta vinta, vince con la sua bontà. La prima e la quinta anima che formano il ciglio (Traiano e Rifeo) ti fanno meravigliare, perché vedi che dimorano nella regione degli angeli (in Paradiso). Non uscirono, come tu credi, dai loro corpi pagani, ma Cristiani, Rifeo con fede nel futuro martirio di Cristo e Traiano in quello già avvenuto. Infatti il primo (Traiano) resuscitò dall'Inferno, da dove non si torna mai a una volontà buona, e ciò fu il premio di una viva speranza: di una viva speranza, che nelle preghiere rivolte a Dio mise la forza per farlo resuscitare, così che la volontà di lui fosse convertita a miglior desiderio (quello di credere in Cristo). L'anima gloriosa di cui parlo, tornata nella carne (una volta risorta), in cui rimase poco, credette in Colui (Cristo) che poteva aiutarla; e, credendo, si accese in un tale ardore di autentica carità, che dopo esser morto per la seconda volta fu degno di salire a questa beatitudine. L'altro (Rifeo), in virtù della grazia divina che sgorga da una fonte così profonda che mai una creatura (uomo o angelo) poté penetrare lo sguardo fino alla sorgente, pose tutto il suo amore nella giustizia: per cui, moltiplicando la grazia, Dio gli aprì gli occhi alla nostra futura Redenzione; dunque egli credette in essa e da quel momento non sopportò più il puzzo del paganesimo, criticandone anzi i perversi adepti. Quelle tre donne (le tre virtù teologali) che tu hai visto alla ruota destra del carro di Beatrice, diedero a lui il battesimo più di mille anni prima che questo sacramento fosse istituito. O predestinazione, quanto la tua origine è distante da quegli sguardi (dei mortali) che non possono certo vedere Dio nella sua interezza! E voi, uomini, siate prudenti nel giudicare; infatti noi, che vediamo Dio, non conosciamo ancora il numero esatto degli eletti; e questa nostra mancata conoscenza è tanto dolce, per noi, in quanto la nostra gioia si affina in Paradiso sempre di più e vogliamo solo quanto è voluto da Dio». Così quella immagine divina (l'aquila), per rischiarare la mia vista imperfetta, mi somministrò una dolce medicina. E come un bravo citaredo accompagna col suono delle corde il bravo cantore, ciò che accresce la piacevolezza del canto, così, mentre l'aquila parlava, mi ricordo di aver visto le due luci benedette (Traiano e Rifeo) che lampeggiavano insieme, come il batter degli occhi avviene simultaneamente. |