La Divina Commedia
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Spiriti giusti

Sono i beati che appaiono a Dante nel VI Cielo del Paradiso e che hanno operato secondo giustizia avendo subìto in Terra l'influsso del pianeta Giove: sono descritti nei Canti XVIII, XIX e XX della III Cantica e si presentano come luci dorate che si stagliano sullo sfondo argenteo del pianeta, dapprima (XVIII) formando la scritta 'DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM' («amate la giustizia, o voi che giudicate la Terra»), quindi dando luogo a una complessa figurazione simbolica, formando la lettera 'M' che si trasforma in un giglio araldico e poi nell'insegna dell'aquila imperiale (l'uccello era sacro anche a Giove). In seguito (XIX) l'aquila inizia a parlare come se fosse una sola persona, pur essendo formata da innumerevoli beati, e spiega che essi sono in questo Cielo per aver operato con giustizia. Quindi Dante esprime un antico dubbio relativo all'imperscrutabilità della giustizia divina e l'aquila risponde che ciò è materia di fede, quindi è un argomento non pienamente conoscibile all'uomo il cui intelletto è infinitamente inferiore a quello di Dio (l'aquila porta l'esempio di un uomo nato in India e che non ha conosciuto Cristo, pure destinato a non esser salvo senza sua colpa). Alla fine delle sue parole l'aquila inizia a volare intorno a Dante e intona un canto che lui non può comprendere, proprio come l'uomo non può penetrare l'ineffabile giustizia di Dio. Aggiunge che solo Dio può conoscere coloro che sono destinati alla salvezza e conclude con una impietosa rassegna dei principi cristiani, biasimandone il malgoverno e le loro malefatte (tra di essi spiccano l'imperatore Alberto I d'Asburgo, Filippo il Bello, Ferdinando di Castiglia, Carlo II d'Angiò).
Nel Canto successivo (XX) le anime che formano l'aquila intonano un Canto, poi l'uccello sacro riprende a parlare e invita Dante a guardare il suo occhio, formato dalle anime che furono più degne sulla Terra. L'aquila indica al poeta sei di questi beati, uno dei quali è al centro a formare la pupilla e gli altri cinque intorno, tutti personaggi che ben governarono nella vita mortale e amministrarono rettamente la giustizia, quasi un contrappunto alla precedente rassegna dei principi malvagi: tra essi vi è David, il re d'Israele che succedette a Saul e governò il regno tra il 1000 e il 960 a.C. (compare nei due libri di Samuele, nelle Cronache e nei titoli di alcuni Salmi che gli sono attribuiti). Unto re di nascosto da Samuele, si distinse secondo il racconto biblico come cantore alla corte di Saul e come uccisore del gigante Golia; in seguito sposò Micol, la figlia del re e fu da lui perseguitato, per poi succedergli dopo la sua morte a Gelboè. Dante lo indica come cantor de lo Spirito Santo, in quanto autore supposto dei Salmi, e intento a trasferire l'Arca dell'Alleanza da Gabaon a Geth e da qui a Gerusalemme (cfr. Purg., X, 55 ss.). Tra gli altri cinque beati spicca l'imperatore Traiano, indicato come colui che fece giustizia alla vedovella (all'episodio si accenna anche in Purg., X, 73 ss.); vi è poi Ezechia, re di Giuda figlio e successore di Acaz (morì nel 685 a.C.), indicato dalla Bibbia come sovrano giusto, che all'annuncio della propria morte imminente da parte del profeta Isaia pregò con molto pianto Dio, che gli concesse di vivere altri quindici anni. L'aquila indica poi l'imperatore Costantino il Grande (274-337 d.C.), che trasferì la sede imperiale a Bisanzio per cedere Roma al papa e che con questa supposta «donazione» causò il male della Chiesa, il che tuttavia non gli ha impedito di ottenere la salvezza. Gli ultimi due beati sono Guglielmo II d'Altavilla, re di Sicilia e di Puglia dal 1166 al 1189 (fu celebrato dai cronisti del tempo come ottimo sovrano e acconsentì alle nozze della zia Costanza con Enrico VI, da cui poi nacque Federico II di Svevia) e il troiano Rifeo, compagno di Enea indicato dall'aquila come spirito sommamente giusto. La presenza in Paradiso fra i beati dei pagani Traiano e Rifeo suscita la forte sorpresa di Dante, per cui l'aquila spiega in che modo essi poterono ottenere la salvezza e sottolinea il carattere imperscrutabile della predestinazione, per cui neppure i beati sanno quali e quanti saranno gli eletti futuri (durante questa spiegazione, le anime di Traiano e Rifeo fanno scintillare la loro luce).




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