Purgatorio, Canto I
G. Doré, Dante e Catone
...vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo...
"...Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso,
sì ch'ogne sucidume quindi stinghe..."
L'alba vinceva l'ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina...
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo...
"...Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso,
sì ch'ogne sucidume quindi stinghe..."
L'alba vinceva l'ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina...
Argomento del Canto
Proemio della Cantica; Dante e Virgilio arrivano sulla spiaggia del Purgatorio. Dante vede le quattro stelle. Apparizione di Catone Uticense. Virgilio prega Catone di ammettere Dante al Purgatorio, poi cinge il discepolo col giunco.
È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba.
È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, all'alba.
Proemio della Cantica (1-12)
La nave dell'ingegno di Dante si appresta a lasciare il mare crudele dell'Inferno e a percorrere acque migliori, poiché il poeta sta per cantare del secondo regno dell'Oltretomba (il Purgatorio) in cui l'anima umana si purifica e diventa degna di salire al cielo. La poesia morta deve quindi risorgere e Dante invoca le Muse, in particolare Calliope, perché lo assistano con lo stesso canto con cui vinsero sulle figlie di Pierio trasformandole in gazze.
Dante osserva le quattro stelle. Catone (13-39)
G. Doré, La spiaggia del Purgatorio
L'aria, pura fino all'orizzonte, ha un bel colore di zaffiro orientale e restituisce a Dante la gioia di osservarlo, non appena lui e Virgilio sono usciti fuori dall'Inferno che ha rattristato lo sguardo e il cuore del poeta. La stella Venere illumina tutto l'oriente, offuscando con la sua luce la costellazione dei Pesci che la segue. Dante si volta alla sua destra osservando il cielo australe, e vede quattro stelle che nessuno ha mai visto eccetto i primi progenitori. Il cielo sembra gioire della loro luce e l'emisfero settentrionale dovrebbe dolersi dell'esserne privato.
Non appena Dante distoglie lo sguardo dalle stelle, rivolgendosi al cielo boreale da cui è ormai tramontato il Carro dell'Orsa Maggiore, vede accanto a sé un vecchio (Catone) dall'aspetto molto autorevole. Ha la barba lunga e brizzolata, come i suoi capelli dei quali due lunghe trecce ricadono sul petto. La luce delle quattro stelle illumina il suo volto, tanto che Dante lo vede come se fosse di fronte al sole.
Non appena Dante distoglie lo sguardo dalle stelle, rivolgendosi al cielo boreale da cui è ormai tramontato il Carro dell'Orsa Maggiore, vede accanto a sé un vecchio (Catone) dall'aspetto molto autorevole. Ha la barba lunga e brizzolata, come i suoi capelli dei quali due lunghe trecce ricadono sul petto. La luce delle quattro stelle illumina il suo volto, tanto che Dante lo vede come se fosse di fronte al sole.
Rimprovero di Catone e risposta di Virgilio (40-84)
G.B. Langetti, suicidio di Catone
Il vecchio si rivolge subito ai due poeti chiedendo chi essi siano, scambiandoli per due dannati che risalendo il corso del fiume sotterraneo sono fuggiti dall'Inferno. Chiede chi li abbia guidati fin lì, facendoli uscire dalle profondità della Terra, domandandosi se le leggi infernali siano prive di valore o se in Cielo sia stato deciso che i dannati possono accedere al Purgatorio. A questo punto Virgilio afferra Dante e lo induce a inchinarsi di fronte a Catone, abbassando lo sguardo in segno di deferenza. Quindi il poeta latino risponde di non essere venuto lì di sua iniziativa, ma di esserne stato incaricato da una beata (Beatrice) che gli aveva chiesto di soccorrere Dante e fargli da guida. In ogni caso, poiché Catone vuole maggiori spiegazioni, Virgilio sarà ben lieto di dargliele: dichiara che Dante non è ancora morto, anche se per i suoi peccati ha rischiato seriamente la dannazione; Virgilio fu inviato a lui per salvarlo e non c'era altro modo se non percorrere questa strada. Gli ha mostrato tutti i dannati e adesso intende mostrargli le anime dei penitenti che si purificano sotto il controllo di Catone. Sarebbe lungo spiegare tutte le vicissitudini passate all'Inferno: il viaggio dantesco è voluto da Dio e Catone dovrebbe gradire la sua venuta, dal momento che Dante cerca la libertà che è preziosa, come sa chi per essa rinuncia alla vita. Catone, che in nome di essa si suicidò a Utica pur essendo destinato al Paradiso, dovrebbe saperlo bene. Virgilio ribadisce che le leggi di Dio non sono state infrante, poiché Dante non è morto e lui proviene dal Limbo dove si trova la moglie di Catone, Marzia, che è ancora innamorata di lui. Virgilio prega Catone di lasciarli andare in nome dell'amore per la moglie, promettendo di parlare di lui alla donna una volta che sarà tornato nel Limbo.
Replica di Catone a Virgilio (85-111)
Catone risponde di aver molto amato Marzia in vita, tanto che la donna ottenne sempre da lui ciò che voleva, ma adesso che è confinata al di là dell'Acheronte non può più commuoverlo, in forza di una legge che fu stabilita quando lui fu tratto fuori dal Limbo. Tuttavia, poiché Virgilio afferma di essere guidato da una donna del Paradiso, è sufficiente invocare quest'ultima e non c'è bisogno di ricorrere a lusinghe. Catone invita dunque i due poeti a proseguire, ma raccomanda Virgilio di cingere i fianchi di Dante con un giunco liscio e di lavargli il viso, togliendo da esso ogni segno dell'Inferno, poiché non sarebbe opportuno presentarsi in quello stato davanti all'angelo guardiano alla porta del Purgatorio. L'isola su cui sorge la montagna, nelle sue parti più basse dov'è battuta dalle onde, è piena di giunchi che crescono nel fango, in quanto tale pianta è l'unica che può crescere lì col suo fusto flessibile. Dopo che i due avranno compiuto tale rito non dovranno tornare in questa direzione, ma seguire il corso del sole che sta sorgendo e trovare così un facile accesso al monte. Alla fine delle sue parole Catone svanisce e Dante si alza senza parlare, accostandosi a Virgilio.
Virgilio lava il viso di Dante e lo cinge con un giunco (112-136)
S. Botticelli, La spiaggia del Purgatorio
Virgilio dice a Dante di seguire i suoi passi e lo invita a tornare indietro, lungo il pendio che da lì conduce alla parte bassa della spiaggia. È ormai quasi l'alba e sta facendo giorno, così che Dante può guardare in lontananza il tremolio della superficie del mare. Lui e Virgilio proseguono sulla spiaggia deserta, come qualcuno che finalmente torna alla strada che aveva perso: giungono in un punto in cui la rugiada è all'ombra e ancora non evapora. Virgilio pone entrambe le mani sull'erba bagnata e Dante, che ha capito cosa vuol fare il maestro, gli porge le guance bagnate ancora di lacrime. Virgilio gli lava il viso e lo fa tornare del colore che l'Inferno aveva coperto, quindi i due raggiungono il bagnasciuga e il maestro estrae dal suolo un giunco, col quale cinge i fianchi di Dante proprio come Catone gli aveva chiesto di fare. Con grande meraviglia di Dante, là dove Virgilio ha strappato il giunco ne rinasce subito un altro.
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Qui è possibile vedere un breve video sul ruolo degli angeli nel «Purgatorio» tratto dal canale YouTube Video Letteratura Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto si apre col proemio della II Cantica, in modo analogo al Canto II dell'Inferno in cui Dante aveva invocato genericamente le Muse: qui il poeta chiede l'assistenza di Calliope, la Musa della poesia epica che dovrà guidare la navicella del suo ingegno in un mare meno «crudele» di quello dell'Inferno che si è lasciato alle spalle (la metafora della poesia come di una nave che solca il mare era un tòpos già della letteratura classica e tornerà nell'esordio del Canto II del Paradiso). Rispetto al proemio dell'Inferno, quello del Purgatorio è più ampio e si arricchisce del mito delle figlie del re della Tessaglia Pierio, che osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte proprio da Calliope, venendo poi trasformate in uccelli dal verso sgraziato (le piche, cioè le gazze); Dante avvisa il lettore dell'innalzamento della materia rispetto alla I Cantica, ma ribadisce ulteriormente che il suo canto dovrà essere assistito dall'ispirazione divina, di cui le Muse sono personificazione, e che la sua poesia non avrà certo l'ardire di gareggiare follemente con Dio nel descrivere la dimensione dell'Oltretomba, troppo elevata per essere pianemente compresa dall'intelletto umano (è la concezione dell'arte del Medioevo che tornerà a più riprese nel corso della Cantica, nonché un preannuncio della poetica dell'inesprimibile che sarà al centro del Paradiso).
Il primo dato che si offre al poeta è visivo, in quanto lui e Virgilio sono tornati all'aperto dopo la terribile discesa all'Inferno e Dante può respirare di nuovo aria pura, ammirando il cielo prima dell'alba che è di un bell'azzurro intenso; è la mattina di Pasqua, il giorno della liturgia che segna la Resurrezione di Cristo e la vittoria sul peccato, mentre Dante sta per intraprendere l'ascesa del Purgatorio che avrà per lui lo stesso effetto. Nel cielo non ancora illuminato dal sole brillano quattro stelle, la cui luce intensa colpisce Dante e gli fa compiangere l'emisfero settentrionale che non ha mai visto quella costellazione: nonostante vari tentativi di identificarla (alcuni hanno pensato alla Croce del Sud, forse nota a Dante attraverso cronache di viaggio), è probabile che le stelle simboleggino le quattro virtù cadinali, ovvero fortezza, prudenza, temperanza e giustizia, il cui pieno possesso è condizione indispensabile per il conseguimento della grazia e, quindi, della salvezza eterna. Possedere le virtù cardinali permette di raggiungere la felicità terrena, a sua volta rappresentata dal colle che Dante aveva invano tentato di scalare nel Canto I dell'Inferno, mentre ora c'è un altro monte che dovrà ascendere con la guida di Virgilio, allegoria della ragione che alla felicità terrena deve condurre; il paesaggio di questo episodio ricorda volutamente quello del Canto iniziale dell'Inferno, fatto che lo stesso Dante ribadisce nei versi finali dicendo che gli sembra di tornare a la perduta strada, che altro non è se non la diritta via che aveva smarrito e che lo aveva fatto perdere nella selva oscura.
La luce delle stelle illumina del resto anche il volto di Catone l'Uticense, il custode del Purgatorio che accoglie i due poeti accusandoli di essere dannati appena fuggiti dall'Inferno: la sua presenza in questo luogo e con il ruolo di custode del secondo regno ha creato molti dubbi fra i commentatori, in quanto sembra assai strano che un pagano, per giunta nemico di Cesare e morto suicida, possa trovarsi tra le anime salve (è Virgilio a dichiarare che la vesta, il corpo lasciato da Catone ad Utica risplenderà il Giorno del Giudizio, quando sarà ammesso in Paradiso). In realtà Dante riserva a lui questo ruolo sulla scorta di una lunga tradizione antica, che riconosceva in Catone un altissimo esempio di vita morale e dignitosa, anche fra gli scrittori cristiani che addirittura interpretavano allegoricamente la vicenda personale sua e della moglie Marzia. Dante, più semplicemente, vede in lui il simbolo di chi lotta tenacemente per la libertà politica e ne fa il simbolo della lotta per la libertà dal peccato, che è il motivo essenziale nella rappresentazione del Purgatorio; Catone è anche un esempio di salvezza clamorosa e inattesa dovuta al giudizio divino imperscrutabile, come si è visto in alcuni casi nell'Inferno (Brunetto Latini, Guido da Montefeltro) e come si vedrà nel caso ancor più «scandaloso» rappresentato da Manfredi, protagonista del Canto III. Del resto Dante afferma chiamaramente che Catone è stato nel Limbo fino a quando Cristo trionfante non lo ha tratto fuori insieme ai patriarchi biblici, quindi nonostante la sua condotta peccaminosa era già collocato fra gli antichi spiriti che si erano distinti per il possesso delle virtù terrene, come Virgilio; e la sua descrizione lo accosta proprio a un patriarca, con i suoi lunghi capelli e la barba che Dante trovava peraltro nella rappresentazione che di lui offre Lucano nel Bellum Civile (II, 373-374).
I rimproveri di Catone ai due poeti danno modo a Virgilio di riepilogare le vicende della I Cantica in una sorta di breve flashback, forse a beneficio dei lettori che non avevano letto tutto l'Inferno, e il suo discorso è un'abile suasoria con tanto di captatio benevolentiae in cui il poeta latino ricorda a Catone il suo sucidio come atto di suprema protesta per la libertà politica, gli rammenta che lui è comunque salvo e cita la moglie Marzia che lui ha conosciuto nel Limbo, promettendo di parlarle di lui se Catone li ammetterà nel Purgatorio. Il discorso di Virgilio è sostanzialmente inutile, dal momento che il viaggio di Dante è voluto da Dio e non può certo essere ostacolato da Catone, il quale infatti si affretta a dire che Marzia non ha più alcun potere su di lui e che la sola donna a legittimare il viaggio di Dante è Beatrice, che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia. Dante può quindi procedere, ma non prima di aver compiuto un duplice atto rituale: prima di presentarsi all'angelo guardiano dovrà lavare il viso, sporco del fumo dell'Inferno e delle lacrime che l'hanno segnato in più di un'occasione, e dovrà anche cingere i fianchi di un giunco liscio, in segno di umiltà e sottomissione alla volontà divina. Il giunco è la sola pianta a crescere sul bagnasciuga della spiaggia del Purgatorio, in quanto col suo fusto flessibile asseconda il battere delle onde (segno anch'esso di sottomissione, come dimostra il fatto che il giunco è poi definito umile pianta); Dante se ne deve cingere i fianchi dopo essersi già liberato da un'altra corda, che era servita a Virgilio per richiamare Gerione alla cine del Canto XVI dell'Inferno. Non sappiamo se la cosa sia casuale o abbia un preciso significato allegorico, ma il rito conclude il Canto preannunciando ciò che avverrà negli episodi successivi e segnando il passaggio ad un luogo retto da leggi del tutto diverse rispetto a quelle del doloroso regno: la pianta strappata da Virgilio rinasce immediatamente tale qual era, il che riempie Dante di meraviglia e ci fa capire che gli orrori dell'Inferno sono definitivamente alle spalle (giova ricordare in quale ben diversa atmosfera Dante aveva strappato un altro ramoscello, quello di un albero della selva dei suicidi nel Canto XIII dell'Inferno, episodio dal quale siamo evidentemente lontanissimi).
Il primo dato che si offre al poeta è visivo, in quanto lui e Virgilio sono tornati all'aperto dopo la terribile discesa all'Inferno e Dante può respirare di nuovo aria pura, ammirando il cielo prima dell'alba che è di un bell'azzurro intenso; è la mattina di Pasqua, il giorno della liturgia che segna la Resurrezione di Cristo e la vittoria sul peccato, mentre Dante sta per intraprendere l'ascesa del Purgatorio che avrà per lui lo stesso effetto. Nel cielo non ancora illuminato dal sole brillano quattro stelle, la cui luce intensa colpisce Dante e gli fa compiangere l'emisfero settentrionale che non ha mai visto quella costellazione: nonostante vari tentativi di identificarla (alcuni hanno pensato alla Croce del Sud, forse nota a Dante attraverso cronache di viaggio), è probabile che le stelle simboleggino le quattro virtù cadinali, ovvero fortezza, prudenza, temperanza e giustizia, il cui pieno possesso è condizione indispensabile per il conseguimento della grazia e, quindi, della salvezza eterna. Possedere le virtù cardinali permette di raggiungere la felicità terrena, a sua volta rappresentata dal colle che Dante aveva invano tentato di scalare nel Canto I dell'Inferno, mentre ora c'è un altro monte che dovrà ascendere con la guida di Virgilio, allegoria della ragione che alla felicità terrena deve condurre; il paesaggio di questo episodio ricorda volutamente quello del Canto iniziale dell'Inferno, fatto che lo stesso Dante ribadisce nei versi finali dicendo che gli sembra di tornare a la perduta strada, che altro non è se non la diritta via che aveva smarrito e che lo aveva fatto perdere nella selva oscura.
La luce delle stelle illumina del resto anche il volto di Catone l'Uticense, il custode del Purgatorio che accoglie i due poeti accusandoli di essere dannati appena fuggiti dall'Inferno: la sua presenza in questo luogo e con il ruolo di custode del secondo regno ha creato molti dubbi fra i commentatori, in quanto sembra assai strano che un pagano, per giunta nemico di Cesare e morto suicida, possa trovarsi tra le anime salve (è Virgilio a dichiarare che la vesta, il corpo lasciato da Catone ad Utica risplenderà il Giorno del Giudizio, quando sarà ammesso in Paradiso). In realtà Dante riserva a lui questo ruolo sulla scorta di una lunga tradizione antica, che riconosceva in Catone un altissimo esempio di vita morale e dignitosa, anche fra gli scrittori cristiani che addirittura interpretavano allegoricamente la vicenda personale sua e della moglie Marzia. Dante, più semplicemente, vede in lui il simbolo di chi lotta tenacemente per la libertà politica e ne fa il simbolo della lotta per la libertà dal peccato, che è il motivo essenziale nella rappresentazione del Purgatorio; Catone è anche un esempio di salvezza clamorosa e inattesa dovuta al giudizio divino imperscrutabile, come si è visto in alcuni casi nell'Inferno (Brunetto Latini, Guido da Montefeltro) e come si vedrà nel caso ancor più «scandaloso» rappresentato da Manfredi, protagonista del Canto III. Del resto Dante afferma chiamaramente che Catone è stato nel Limbo fino a quando Cristo trionfante non lo ha tratto fuori insieme ai patriarchi biblici, quindi nonostante la sua condotta peccaminosa era già collocato fra gli antichi spiriti che si erano distinti per il possesso delle virtù terrene, come Virgilio; e la sua descrizione lo accosta proprio a un patriarca, con i suoi lunghi capelli e la barba che Dante trovava peraltro nella rappresentazione che di lui offre Lucano nel Bellum Civile (II, 373-374).
I rimproveri di Catone ai due poeti danno modo a Virgilio di riepilogare le vicende della I Cantica in una sorta di breve flashback, forse a beneficio dei lettori che non avevano letto tutto l'Inferno, e il suo discorso è un'abile suasoria con tanto di captatio benevolentiae in cui il poeta latino ricorda a Catone il suo sucidio come atto di suprema protesta per la libertà politica, gli rammenta che lui è comunque salvo e cita la moglie Marzia che lui ha conosciuto nel Limbo, promettendo di parlarle di lui se Catone li ammetterà nel Purgatorio. Il discorso di Virgilio è sostanzialmente inutile, dal momento che il viaggio di Dante è voluto da Dio e non può certo essere ostacolato da Catone, il quale infatti si affretta a dire che Marzia non ha più alcun potere su di lui e che la sola donna a legittimare il viaggio di Dante è Beatrice, che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia. Dante può quindi procedere, ma non prima di aver compiuto un duplice atto rituale: prima di presentarsi all'angelo guardiano dovrà lavare il viso, sporco del fumo dell'Inferno e delle lacrime che l'hanno segnato in più di un'occasione, e dovrà anche cingere i fianchi di un giunco liscio, in segno di umiltà e sottomissione alla volontà divina. Il giunco è la sola pianta a crescere sul bagnasciuga della spiaggia del Purgatorio, in quanto col suo fusto flessibile asseconda il battere delle onde (segno anch'esso di sottomissione, come dimostra il fatto che il giunco è poi definito umile pianta); Dante se ne deve cingere i fianchi dopo essersi già liberato da un'altra corda, che era servita a Virgilio per richiamare Gerione alla cine del Canto XVI dell'Inferno. Non sappiamo se la cosa sia casuale o abbia un preciso significato allegorico, ma il rito conclude il Canto preannunciando ciò che avverrà negli episodi successivi e segnando il passaggio ad un luogo retto da leggi del tutto diverse rispetto a quelle del doloroso regno: la pianta strappata da Virgilio rinasce immediatamente tale qual era, il che riempie Dante di meraviglia e ci fa capire che gli orrori dell'Inferno sono definitivamente alle spalle (giova ricordare in quale ben diversa atmosfera Dante aveva strappato un altro ramoscello, quello di un albero della selva dei suicidi nel Canto XIII dell'Inferno, episodio dal quale siamo evidentemente lontanissimi).
Note e passi controversi
Calliope (v. 9) è la Musa della poesia epica, qui invocata da Dante probabilmente sull'esempio di Virgilio in Aen., IX, 525: Vos, o Calliope, precor, aspirate canenti... («Voi Muse, e tu, Calliope, vi prego, ispirate colui che canta»).
Le Piche (v. 11) sono le Pieridi, le mitiche figlie di Pierio re di Tessaglia che osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte da Calliope, che poi le trasformò in gazze dal gracchiare stridulo (Dante segue Ovidio, Met., V, 302 ss.).
Il mezzo citato al v. 15 è l'aria, mentre il primo giro è certamente la linea dell'orizzonte e non il Cielo della Luna, fino al quale non arriva l'atmosfera secondo le teorie del tempo di Dante.
Al v. 16 ricominciò diletto vuol dire «restituì gioia» (diletto è sostantivo).
Lo bel pianeto (v. 19) è Venere mattutina, che con la sua luce offusca la costellazione dei Pesci che in quel momento è sull'orizzonte. Secondo calcoli astronomici moderni sembra che nella primavera del 1300 Venere fosse in realtà vespertina, il che ha indotto alcuni studiosi a sostenere che il viaggio è immaginato nel 1301.
La prima gente (v. 24) sono Adamo ed Eva, gli unici a vedere dall'Eden le quattro stelle.
La descrizione di Catone (vv. 34-36) si rifà a Lucano, che nel Bellum Civile (II, 373 ss.) dice che l'uomo non si sarebbe più tagliato la barba né i capelli prima della sconfitta di Cesare.
Il cieco fiume (v. 40) è il ruscelletto che dal Purgatorio scorre nella natural burella fino all'Inferno, il cui corso i due poeti hanno risalito.
I vv. 71-72 sono rimasti famosi e più volte citati da scrittori successivi, come Ugo Foscolo nel descrivere il suicidio di Jacopo Ortis.
La vesta (v. 75) è il corpo mortale di Catone, che risplenderà il Giorno del Giudizio (ciò ne preannuncia la salvezza eterna).
I vv. 85-87 con cui Catone risponde a Virgilio su Marzia, forse, si riferiscono al fatto che Catone storicamente ripudiò la moglie per poi riprenderla con sé cedendo alle sue preghiere; al fatto allude anche Dante nel Conv., IV, 28, dove la cosa è interpretata allegoricamente (il ritorno di Marzia a Catone sarebbe quello dell'anima a Dio dopo la fine della vita).
Il primo / ministro citato ai vv. 98-99 è molto probabilmente l'angelo guardiano sulla porta del Purgatorio, e non quello nocchiero che Dante incontrerà in modo casuale nel Canto seguente (ma la questione è aperta).
Il v. 115 (L'alba vinceva l'ora mattutina) significa che l'alba prevaleva sull'ultima ora della notte, il «mattutino» appunto, quindi ora non vuol dire «aura» o «ombra».
I vv. 131-132 sembrano un'allusione scoperta all'episodio di Ulisse (Inf., XXVI, 85 ss.), il quale navigò sino a intravedere la montagna del Purgatorio per morire nel naufragio provocato dalla volontà divina.
Il giunco che rinasce dove è stato strappato (vv. 134-136) ricorda il passo virgiliano di Aen., VI, 143-144, in cui si dice che Enea strappa il ramoscello d'oro come offerta a Proserpina e che questo subito rinasce.
Le Piche (v. 11) sono le Pieridi, le mitiche figlie di Pierio re di Tessaglia che osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte da Calliope, che poi le trasformò in gazze dal gracchiare stridulo (Dante segue Ovidio, Met., V, 302 ss.).
Il mezzo citato al v. 15 è l'aria, mentre il primo giro è certamente la linea dell'orizzonte e non il Cielo della Luna, fino al quale non arriva l'atmosfera secondo le teorie del tempo di Dante.
Al v. 16 ricominciò diletto vuol dire «restituì gioia» (diletto è sostantivo).
Lo bel pianeto (v. 19) è Venere mattutina, che con la sua luce offusca la costellazione dei Pesci che in quel momento è sull'orizzonte. Secondo calcoli astronomici moderni sembra che nella primavera del 1300 Venere fosse in realtà vespertina, il che ha indotto alcuni studiosi a sostenere che il viaggio è immaginato nel 1301.
La prima gente (v. 24) sono Adamo ed Eva, gli unici a vedere dall'Eden le quattro stelle.
La descrizione di Catone (vv. 34-36) si rifà a Lucano, che nel Bellum Civile (II, 373 ss.) dice che l'uomo non si sarebbe più tagliato la barba né i capelli prima della sconfitta di Cesare.
Il cieco fiume (v. 40) è il ruscelletto che dal Purgatorio scorre nella natural burella fino all'Inferno, il cui corso i due poeti hanno risalito.
I vv. 71-72 sono rimasti famosi e più volte citati da scrittori successivi, come Ugo Foscolo nel descrivere il suicidio di Jacopo Ortis.
La vesta (v. 75) è il corpo mortale di Catone, che risplenderà il Giorno del Giudizio (ciò ne preannuncia la salvezza eterna).
I vv. 85-87 con cui Catone risponde a Virgilio su Marzia, forse, si riferiscono al fatto che Catone storicamente ripudiò la moglie per poi riprenderla con sé cedendo alle sue preghiere; al fatto allude anche Dante nel Conv., IV, 28, dove la cosa è interpretata allegoricamente (il ritorno di Marzia a Catone sarebbe quello dell'anima a Dio dopo la fine della vita).
Il primo / ministro citato ai vv. 98-99 è molto probabilmente l'angelo guardiano sulla porta del Purgatorio, e non quello nocchiero che Dante incontrerà in modo casuale nel Canto seguente (ma la questione è aperta).
Il v. 115 (L'alba vinceva l'ora mattutina) significa che l'alba prevaleva sull'ultima ora della notte, il «mattutino» appunto, quindi ora non vuol dire «aura» o «ombra».
I vv. 131-132 sembrano un'allusione scoperta all'episodio di Ulisse (Inf., XXVI, 85 ss.), il quale navigò sino a intravedere la montagna del Purgatorio per morire nel naufragio provocato dalla volontà divina.
Il giunco che rinasce dove è stato strappato (vv. 134-136) ricorda il passo virgiliano di Aen., VI, 143-144, in cui si dice che Enea strappa il ramoscello d'oro come offerta a Proserpina e che questo subito rinasce.
TestoPer correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele; 3 e canterò di quel secondo regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno. 6 Ma qui la morta poesì resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Caliopè alquanto surga, 9 seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono. 12 Dolce color d’oriental zaffiro, che s’accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, 15 a li occhi miei ricominciò diletto, tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta che m’avea contristati li occhi e ‘l petto. 18 Lo bel pianeto che d’amar conforta faceva tutto rider l’oriente, velando i Pesci ch’erano in sua scorta. 21 I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente. 24 Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle: oh settentrional vedovo sito, poi che privato se’ di mirar quelle! 27 Com’io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l ‘altro polo, là onde il Carro già era sparito, 30 vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo. 33 Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli simigliante, de’ quai cadeva al petto doppia lista. 36 Li raggi de le quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante. 39 «Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?», diss’el, movendo quelle oneste piume. 42 «Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna? 45 Son le leggi d’abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?». 48 Lo duca mio allor mi diè di piglio, e con parole e con mani e con cenni reverenti mi fé le gambe e ‘l ciglio. 51 Poscia rispuose lui: «Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi de la mia compagnia costui sovvenni. 54 Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi di nostra condizion com’ell’è vera, esser non puote il mio che a te si nieghi. 57 Questi non vide mai l’ultima sera; ma per la sua follia le fu sì presso, che molto poco tempo a volger era. 60 Sì com’io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non lì era altra via che questa per la quale i’ mi son messo. 63 Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan sé sotto la tua balìa. 66 Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti; de l’alto scende virtù che m’aiuta conducerlo a vederti e a udirti. 69 Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. 72 Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara. 75 Non son li editti etterni per noi guasti, ché questi vive, e Minòs me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti 78 di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega. 81 Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporterò di te a lei, se d’esser mentovato là giù degni». 84 «Marzia piacque tanto a li occhi miei mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora, «che quante grazie volse da me, fei. 87 Or che di là dal mal fiume dimora, più muover non mi può, per quella legge che fatta fu quando me n’usci’ fora. 90 Ma se donna del ciel ti muove e regge, come tu di’, non c’è mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge. 93 Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d’un giunco schietto e che li lavi ‘l viso, sì ch’ogne sucidume quindi stinghe; 96 ché non si converria, l’occhio sorpriso d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch’è di quei di paradiso. 99 Questa isoletta intorno ad imo ad imo, là giù colà dove la batte l’onda, porta di giunchi sovra ‘l molle limo; 102 null’altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita, però ch’a le percosse non seconda. 105 Poscia non sia di qua vostra reddita; lo sol vi mosterrà, che surge omai, prendere il monte a più lieve salita». 108 Così sparì; e io sù mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai. 111 El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi: volgianci in dietro, ché di qua dichina questa pianura a’ suoi termini bassi». 114 L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina. 117 Noi andavam per lo solingo piano com’om che torna a la perduta strada, che ‘nfino ad essa li pare ire in vano. 120 Quando noi fummo là ‘ve la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove, ad orezza, poco si dirada, 123 ambo le mani in su l’erbetta sparte soavemente ‘l mio maestro pose: ond’io, che fui accorto di sua arte, 126 porsi ver’ lui le guance lagrimose: ivi mi fece tutto discoverto quel color che l’inferno mi nascose. 129 Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto. 132 Quivi mi cinse sì com’altrui piacque: oh maraviglia! ché qual elli scelse l’umile pianta, cotal si rinacque subitamente là onde l’avelse. 136 |
ParafrasiLa navicella del mio ingegno, ormai, alza le vele per percorrere acque migliori e lascia dietro di sé il mare crudele dell'Inferno;
e io canterò di quel secondo regno (Purgatorio) in cui l'anima umana si purifica e diventa degna di salire al cielo. Ma qui la poesia morta risorga, o sante Muse, dal momento che sono consacrato a voi; e qui si sollevi alquanto Calliope, assistendo il mio canto con quel suono di cui le misere gazze (le figlie di Pierio) sentirono un tale colpo che disperarono di essere perdonate. Un dolce colore di zaffiro orientale, che si raccoglieva nell'aspetto sereno dell'aria pura fino all'orizzonte, restituì gioia ai miei occhi non appena io uscii fuori dall'aria morta (dell'Inferno), che mi aveva rattristato gli occhi e il cuore. Il bel pianeta (Venere) che spinge ad amare illuminava gioiosamente tutto l'oriente, offuscando con la sua luce la costellazione dei Pesci che lo seguiva. Io mi rivolsi alla mia destra e osservai il cielo australe, vedendo quattro stelle che nessuno ha mai visto eccetto i primi progenitori (Adamo ed Eva). Il cielo sembrava godere della loro luce: o emisfero boreale, sei davvero desolato non potendo ammirare quelle stelle! Non appena ebbi distolto il mio sguardo da esse, volgendomi un poco al cielo boreale da dove ormai l'Orsa Maggiore era tramontata, vidi accanto a me un vecchio solitario, che a guardarlo ispirava tanto rispetto quanto è quello che un figlio deve al proprio padre. Portava la barba lunga e con peli bianchi e neri, simile ai suoi capelli, dei quali ricadevano sul petto due lunghe trecce. La luce delle quattro stelle sante illuminava il suo volto, al punto che io lo vedevo come se avesse avuto il sole di fronte. Egli ci disse, muovendo quella barba dignitosa: «Chi siete voi, che risalendo il fiume sotterraneo siete fuggiti dalla prigione eterna? Chi vi ha guidati e cosa vi ha indicato la strada, uscendo fuori dalla notte profonda che rende sempre oscura la voragine infernale? Le leggi dell'abisso sono così prive di valore? o in Cielo è stata emanata una nuova legge in base alla quale voi, dannati, venite alle rocce (al Purgatorio) che io custodisco?» Allora il mio maestro mi afferrò, e con le parole, con le mani e coi gesti mi indusse a inginocchiarmi e abbassare lo sguardo. Poi gli rispose: «Non sono venuto qui di mia iniziativa: scese dal Cielo una donna (Beatrice), per le cui preghiere aiutai costui con la mia assistenza. Ma poiché il tuo desiderio è che ti spieghiamo con maggiori dettagli la nostra condizione, non è possibile che il mio desiderio sia difforme dal tuo. Questi non è mai morto, ma per il suo peccato fu così vicino ad esserlo che non sarebbe passato molto tempo. Come ti ho detto, fui inviato a soccorrerlo; e non c'era altra strada se non questa per la quale mi sono inoltrato con lui. Gli ho mostrato tutti i dannati; ora voglio mostrargli quelle anime (i penitenti) che si purificano sotto la tua custodia. Sarebbe lungo spiegarti come l'ho condotto fin qui; dal Cielo scende una virtù che mi aiuta a portarlo qui, per vederti e udirti. Ora ti prego di accogliere la sua venuta: va cercando la libertà, che è molto preziosa come sa chi in suo nome rinuncia alla propria vita. Tu lo sai bene, poiché per la libertà affrontasti la morte ad Utica, dove lasciasti il corpo che il Giorno del Giudizio risplenderà. Gli editti eterni non sono infranti da noi, in quanto Dante è vivo e Minosse non ha potere su di me: infatti vengo dal Cerchio (Limbo) dove sono gli occhi puri di tua moglie Marzia, che a vederla sembra pregarti di considerarla ancora tua, o petto santo: in nome del suo amore, dunque, piegati a noi. Lasciaci andare per le sette Cornici del Purgatorio; io ti ringrazierò di fronte a lei, se tu accetti di essere menzionato laggiù». Egli allora disse: «Fin che fui in vita, Marzia fu così diletta ai miei occhi che esaudii ogni suo desiderio. Ora che risiede al di là del fiume infernale (Acheronte) non può più commuovermi, in forza di quella legge che fu emanata quando io ne uscii fuori. Ma se una donna beata, come dici, muove i tuoi passi, non servono lusinghe: è sufficiente pregarmi in suo nome. Va' dunque, e fa' in modo di cingere i fianchi di costui con un giunco liscio e lavagli il viso, in modo tale da eliminare da esso ogni sudiciume; infatti non sarebbe opportuno presentarsi di fronte al primo ministro di Paradiso (l'angelo guardiano) con l'occhio velato da una qualche nebbia. Questa isoletta, nelle sue parti più basse, là dove è battuta dalle onde, è piena di giunchi sul molle fango; nessun'altra pianta che avesse fronde o un tronco rigido vi può crescere, poiché non si piegherebbe all'impeto delle onde. Poi il vostro ritorno non sia da questa parte; il sole, che ormai sorge, vi indicherà la direzione dove trovare un facile accesso alla montagna». Così svanì; e io mi alzai senza parlare, e mi trassi verso la mia guida, rivolgendo a lui il mio sguardo. Egli iniziò: «Figliolo, segui i miei passi: torniamo indietro, poiché di qua la pianura declina dolcemente verso il punto più basso». La luce dell'alba vinceva l'ultima ora della notte che fuggiva di fronte a lei, cosicché da lontano vidi il tremolio della superficie del mare. Noi andavamo lungo la pianura solitaria, come qualcuno che ritrova la strada perduta e che, fino ad essa, ha creduto di camminare invano. Quando fummo là dove la rugiada combatte col sole, poiché è in punto dove c'è ombra ed evapora poco, il mio maestro pose ambo le mani sull'erbetta, a palme aperte: allora io, che avevo capito cosa volesse fare, porsi verso di lui le guance ancora sporche di pianto: lui mi scoprì il colore del viso che l'Inferno aveva nascosto. Giungemmo poi sul lido deserto, che non vide mai navigare nessuno che poi fosse in grado di tornare indietro. Qui Virgilio mi cinse come Catone gli aveva detto: che meraviglia! Infatti, dopo che egli ebbe strappato l'umile pianta che aveva scelto, questa rinacque subito tale quale era nello stesso punto. |