Purgatorio, Canto XIV
S. Dalì, Gli invidiosi della II Cornice
E io: "Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia..."
"...Io veggio tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta..."
"...Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m'ha nostra ragion la mente stretta"...
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia..."
"...Io veggio tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta..."
"...Ma va via, Tosco, omai; ch'or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m'ha nostra ragion la mente stretta"...
Argomento del Canto
Ancora tra gli invidiosi della II Cornice. Incontro con Guido del Duca e Rinieri da Calboli.
Apostrofe di Guido contro gli abitanti di Valdarno e profezia su
Fulcieri da Calboli. Condanna della corruzione morale della Romagna.
Esempi di invidia punita e ammonimento di Virgilio agli uomini.
È il pomeriggio di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, alle tre.
È il pomeriggio di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, alle tre.
Due invidiosi parlano fra loro e con Dante (1-21)
Dante sente due invidiosi della II Cornice che parlano fra loro: uno chiede chi sia l'uomo che scala il Purgatorio essendo ancora vivo e con gli occhi aperti, l'altro risponde di non saperlo ma di essere certo che non è solo, per cui invita il compagno a rivolgersi a lui gentilmente per indurlo a parlare. I due spiriti sono chinati l'uno verso l'altro, alla destra di Dante, quindi alzano il viso e uno dei due chiede al poeta chi sia e da dove venga, poiché la grazia che gli è concessa di essere lì da vivo li fa meravigliare. Dante risponde dicendo che dal Falterona nasce un fiume (l'Arno) che attraversa la parte centrale della Toscana per più di cento miglia, e che lui proviene dalla sua valle. Dire il proprio nome sarebbe inutile, giacché egli non è ancora così famoso.
Corruzione degli abitanti di Valdarno (22-54)
La sorgente dell'Arno, sul Falterona
Una delle due anime (Guido del Duca) osserva che Dante sta parlando dell'Arno, mentre l'altra (Rinieri da Calboli) chiede al compagno di pena perché il poeta abbia omesso di pronunciare il nome del fiume, come se fosse qualcosa di orribile. Guido risponde di non saperlo, ma di essere certo che il nome della Valle dell'Arno dovrebbe scomparire. Infatti l'Arno, dalla sua sorgente sull'Appennino da cui il Peloro si è staccato e dove il rilievo è particolarmente alto, fino alla foce dove il fiume restituisce al mare l'acqua che è evaporata da esso, scorre in terre dove tutti fuggono la virtù e gli abitanti della valle si sono trasformati in bestie. L'Arno scorre dapprima tra sudici porci (i Casentinesi) più degni di mangiare ghiande che cibo umano, poi trova dei botoli (gli Aretini) che ringhiano più di quanto essi siano forti, allontanandosi poi da loro. Nel suo basso corso, dove la valle è più ampia, l'Arno trova una fossa dove i cani sono diventati lupi (i Fiorentini), poi scende in bacini profondi e trova volpi dedite alla frode (i Pisani), tanto che non temono alcuna astuzia.
Profezia su Fulcieri da Calboli (55-72)
Una mappa medievale di Firenze
Guido non smetterà di parlare solo perché altri lo ascoltano, e anzi ciò che sta per dire sarà utile a Dante, se si ricorderà la verace profezia che sta per fare. Egli prevede che il nipote di Rinieri (Fulcieri da Calboli) diventerà cacciatore dei lupi (i Guelfi Bianchi di Firenze) e li riempirà di terrore sulle rive del fiume feroce. Ne venderà la carne quando saranno ancora vivi, per poi ucciderli come una belva, privando molti della vita e se stesso di onore. Uscirà dalla triste selva (Firenze) tutto sporco di sangue e la lascerà in un tale stato che ci vorranno mille anni perché si ripopoli. Mentre Guido parla, Rinieri assume l'espressione di chi sente preannunciare gravi danni e perciò si turba e rattrista, mentre ascolta con grande attenzione.
Guido del Duca presenta se stesso e Rinieri da Calboli (73-96)
Le parole di Guido e l'aspetto corrucciato di Rineri rendono Dante desideroso di sapere i nomi dei due penitenti, per cui li prega di rivelare la loro identità. Guido, che ha parlato prima, ribatte che Dante chiede a loro ciò che lui non vuole fare, ovvero dire il suo nome, ma poiché Dio gli ha riservato una tale grazia non si negherà e si presenta come Guido del Duca. In vita egli fu talmente roso dall'invidia che, se avesse visto qualcuno allietarsi, sarebbe diventato livido. Ora sconta la pena per i suoi peccati e si chiede perché gli uomini desiderano quei beni il cui possesso comporta l'esclusione di altri (i beni materiali). Guido presenta il suo compagno come Rinieri da Calboli, che ha fatto onore al suo casato a differenza dei suoi discendenti. Non è solo la sua famiglia in Romagna ad essere priva delle virtù intellettuali e morali, poiché quella regione è piena di sterpi velenosi e ormai sarebbe tardi per estirparli.
Corruzione morale della Romagna (97-126)
Immagine medievale di Bologna
Guido inizia una lunga rassegna di antichi romagnoli virtuosi, chiedendosi dove siano ormai Lizio di Valbona e Arrigo Mainardi, Pier Traversaro e Guido di Carpegna, lamentando il fatto che i Romagnoli si sono imbastarditi. A Bologna ormai non esiste più un uomo come Fabbro dei Lambertazzi, né a Faenza uno come Bernardino di Fosco. Dante non deve stupirsi se Guido piange, quando ricorda Guido da Prata, Ugolino d'Azzo, Federigo Tignoso e la sua brigata, la famiglia dei Traversari e gli Anastagi, entrambe rimaste senza eredi, e quando rammenta le nobildonne e i cavalieri del suo tempo, gli affanni delle guerre e gli agi signorili a cui erano invogliati dall'amore e dalla cortesia. Ora i cuori sono diventati malvagi, per cui la città di Bertinoro dovrebbe scomparire in quanto non è più abitata da nobili cavalieri. Fanno bene quelle famiglie che non hanno discendenti, come Bagnacavallo, mentre fa male Castrocaro e ancor peggio Conio, che si ostina a generare conti così corrotti. I Pagani si comporteranno bene, dopo che sarà morto Maghinardo, ma non al punto di cancellare il ricordo della cattiva fama. Ugolino dei Fantolini è sicuro, poiché la sua discendenza si è interrotta. A questo punto Guido invita Dante ad allontanarsi, poiché questi discorsi gli hanno messo in cuore una gran voglia di piangere.
Esempi di invidia punita. Ammonimento di Virgilio (127-151)
Mercurio e Erse (vaso del IV sec. a.C.)
Dante e Virgilio si allontanano in silenzio dalle due anime, sicuri di andare nella giusta direzione in quanto esse non dicono nulla. I due poeti sono ormai soli quando sentono una voce dall'alto simile a un fulmine, che dice: «Chiunque mi troverà, mi ucciderà». La voce svanisce come un tuono quando squarcia una nube, quindi se ne sente un'altra che produce un gran fracasso, come un tuono che ne segue un altro, e dice: «Io sono Aglauro, che fui tramutata in pietra». Allora Dante si stringe a Virgilio, procedendo alla sua destra e non davanti a sé. Torna il silenzio e il maestro spiega a Dante che ciò che ha udito è il richiamo che dovrebbe indurre l'uomo a restare nei suoi limiti; l'uomo, invece, è attratto dalle lusinghe del demonio, per cui ogni freno risulta inefficace. Il cielo ruota intorno all'uomo mostrandogli le sue bellezze eterne, ma egli si ostina a volgere lo sguardo a terra, per cui incorre nella dura punizione divina.
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude l'episodio dedicato agli invidiosi iniziato con il XIII e che prosegue senza alcuna introduzione con il dialogo di Guido del Duca e Rinieri da Calboli, stupiti della presenza in Purgatorio di un vivo di cui vorrebbero conoscere il nome e la provenienza: in realtà il vero protagonista del Canto è Guido, il nobile ravennate che nella prima parte dell'episodio condanna la degenerazione dei popoli di Valdarno, nella seconda critica il declino morale e il tramonto delle virtù cavalleresche della Romagna. L'occasione per il primo discorso di Guido è offerta da Dante personaggio, che si presenta allusivamente come un viaggiatore venuto dalla valle dell'Arno, fiume che non viene nominato ma indicato con una perifrasi che contiene precise indicazioni geografiche (il poeta non rivela il proprio nome perché non ancora famoso, gesto che ad alcuni è sembrato un atto di umiltà che segue la confessione di superbia del Canto precedente). Guido giustifica la reticenza sul nome dell'Arno condannando come poco virtuosi i popoli che ne abitano la valle, anche da lui descritta con una complessa perifrasi che ne illustra i confini geografici e ricorda in parte l'excursus di Virgilio su Mantova di Inf., XX, 55 ss.: Casentinesi, Aretini, Fiorentini e Pisani sono paragonati ad animali come se avessero subìto una trasformazione da parte della maga Circe, ed è chiaro che ciascun animale rispecchia un difetto o un vizio di ognuno (i Casentinesi sono porci in quanto sudici, gli Aretini sono botoli perché bravi a parlare ma non altrettanto ad agire, i Fiorentini sono lupi per la loro cupidigia e avarizia, i Pisani sono volpi in quanto astuti e imbroglioni). Il quadro è dominato dagli odi e dalle rivalità dei Comuni toscani al tempo di Dante, il quale attacca anche il governo dei Neri a Firenze attraverso la profezia sul nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli: durante la sua podesteria a Firenze nel 1303 eseguì in nome dei Guelfi Neri persecuzioni e vendette nei confronti dei Bianchi, diventando uno spietato cacciatore che sgomenta i lupi fiorentini sulle sponde del fero fiume; l'immagine è decisamente cupa e degna di una descrizione infernale, con Fulcieri che vende la carne dei Fiorentini ancor vivi, li uccide come antica belva, esce tutto sporco di sangue dalla città definita triste selva, ridotta in tale stato che ci vorranno mille anni perché torni allo stato originale (è l'ennesimo preannuncio dell'esilio sia pure in termini molto indiretti, nonché un duro attacco contro il declino politico e morale della Toscana del tempo e, in generale, dell'Italia intera che si ricollega all'invettiva del Canto VI).
Solo a questo punto Guido presenta se stesso e il compagno di pena, su preghiera di Dante che è rimasto colpito dalle parole del penitente e dall'aspetto corrucciato di Rinieri per ciò che ha udito del nipote: la presentazione dell'altro invidioso permette a Guido di iniziare un secondo discorso sulla decadenza morale della sua terra, la Romagna, un tempo dominata da signori in pieno possesso di quelle virtù cavalleresche che ora, invece, non esistono più. Dante rimpiange la scomparsa del mondo cavalleresco-feudale a vantaggio della civiltà comunale e mercantile, dominata dall'avarizia e dalla bramosia di denaro (lo stesso tema sarà affrontato da Marco Lombardo nel Canto XVI e, più ampiamente, nei Canti XV-XVI del Paradiso attraverso la rievocazione dell'antica Firenze da parte dell'avo Cacciaguida). Guido del Duca esalta Rinieri come esempio delle virtù cortesi di un mondo scomparso, iniziando una lunga rassegna di nobili uomini del passato che illustravano la Romagna, attraverso la formula dell'ubi sunt...? che risale ai testi patristici: è la rievocazione di una società in cui si coltivavano le virtù cavalleresche della liberalità, della cortesia, del valore guerresco, dove le donne e' cavalier si dedicavano ad affanni e agi, ovvero ai doveri militari del rango nobiliare e ai signorili riposi cui erano spinti da amore e cortesia (sono gli elementi tipici del mondo cortese, al punto che Ludovico Ariosto riprenderà questi versi nel proemio dell'Orlando Furioso). Quella società ora non esiste più e gli eredi di quegli uomini nobili non dimostrano le stesse virtù, per cui fanno bene quelle famiglie che non hanno lasciato discendenti che sarebbero degeneri rispetto a quel glorioso passato; Guido interrompe bruscamente il discorso congedando Dante, poiché le sue stesse parole lo spingono a piangere per l'amarezza dei concetti espressi e per la constatazione del declino morale della sua terra, proprio come poco prima egli aveva aspramente condannato quello politico della Toscana (non a caso questo Canto è stato definito «tosco-romagnolo»).
Il Canto si chiude con gli esempi di invidia punita, ovvero quello di Caino uccisore del fratello e di Aglauro, tramutata in pietra perché invidiosa degli amori della sorella Erse per Mercurio; le ultime parole sono di Virgilio, che sottolinea la follia degli uomini che si lasciano attrarre dalle lusinghe del male anziché scegliere il bene offerto dal Cielo, per cui è ovvio che siano duramente puniti da chi tutto discerne, cioè da Dio. La condanna di Virgilio è rivolta contro la corruzione umana, collegandosi al discorso di Guido che aveva in fondo lo stesso significato e che sottolineava proprio come la gente umana desideri più spesso i beni materiali, ovvero quelli il cui possesso esclude la partecipazione altrui (al contrario di quelli celesti: e l'allusione di Guido darà modo a Virgilio di chiarirne il significato nel Canto seguente, preparando il terreno all'ampia descrizione della struttura morale del Purgatorio contenuta nel Canto XVII).
Solo a questo punto Guido presenta se stesso e il compagno di pena, su preghiera di Dante che è rimasto colpito dalle parole del penitente e dall'aspetto corrucciato di Rinieri per ciò che ha udito del nipote: la presentazione dell'altro invidioso permette a Guido di iniziare un secondo discorso sulla decadenza morale della sua terra, la Romagna, un tempo dominata da signori in pieno possesso di quelle virtù cavalleresche che ora, invece, non esistono più. Dante rimpiange la scomparsa del mondo cavalleresco-feudale a vantaggio della civiltà comunale e mercantile, dominata dall'avarizia e dalla bramosia di denaro (lo stesso tema sarà affrontato da Marco Lombardo nel Canto XVI e, più ampiamente, nei Canti XV-XVI del Paradiso attraverso la rievocazione dell'antica Firenze da parte dell'avo Cacciaguida). Guido del Duca esalta Rinieri come esempio delle virtù cortesi di un mondo scomparso, iniziando una lunga rassegna di nobili uomini del passato che illustravano la Romagna, attraverso la formula dell'ubi sunt...? che risale ai testi patristici: è la rievocazione di una società in cui si coltivavano le virtù cavalleresche della liberalità, della cortesia, del valore guerresco, dove le donne e' cavalier si dedicavano ad affanni e agi, ovvero ai doveri militari del rango nobiliare e ai signorili riposi cui erano spinti da amore e cortesia (sono gli elementi tipici del mondo cortese, al punto che Ludovico Ariosto riprenderà questi versi nel proemio dell'Orlando Furioso). Quella società ora non esiste più e gli eredi di quegli uomini nobili non dimostrano le stesse virtù, per cui fanno bene quelle famiglie che non hanno lasciato discendenti che sarebbero degeneri rispetto a quel glorioso passato; Guido interrompe bruscamente il discorso congedando Dante, poiché le sue stesse parole lo spingono a piangere per l'amarezza dei concetti espressi e per la constatazione del declino morale della sua terra, proprio come poco prima egli aveva aspramente condannato quello politico della Toscana (non a caso questo Canto è stato definito «tosco-romagnolo»).
Il Canto si chiude con gli esempi di invidia punita, ovvero quello di Caino uccisore del fratello e di Aglauro, tramutata in pietra perché invidiosa degli amori della sorella Erse per Mercurio; le ultime parole sono di Virgilio, che sottolinea la follia degli uomini che si lasciano attrarre dalle lusinghe del male anziché scegliere il bene offerto dal Cielo, per cui è ovvio che siano duramente puniti da chi tutto discerne, cioè da Dio. La condanna di Virgilio è rivolta contro la corruzione umana, collegandosi al discorso di Guido che aveva in fondo lo stesso significato e che sottolineava proprio come la gente umana desideri più spesso i beni materiali, ovvero quelli il cui possesso esclude la partecipazione altrui (al contrario di quelli celesti: e l'allusione di Guido darà modo a Virgilio di chiarirne il significato nel Canto seguente, preparando il terreno all'ampia descrizione della struttura morale del Purgatorio contenuta nel Canto XVII).
Note e passi controversi
Il Falterona (v. 17) è il monte dell'Appennino da cui nasce l'Arno, che in effetti all'inizio è poco più di un fiumicel.
Il verbo accarno (v. 22) significa «penetro profondamente nella carne», detto solitamente di un'arma o dei denti; chi sta parlando usa una metafora animalesca e venatoria, che introduce le immagini della successiva descrizione dei popoli di Valdarno.
I vv. 31-36 indicano il corso dell'Arno dalla sorgente alla foce: la sorgente è indicata come l'Appennino (l'alpestro monte) che è pregno, nel senso che è ricco d'acqua o forse massiccio, e che è stato separato dai monti Peloritani che ne sono la continuazione orografica in Sicilia (la definizione è geologicamente esatta); la foce è definita come il mare cui il fiume restituisce l'acqua che dal mare è evaporata e ha alimentato il fiume stesso attraverso pioggia e neve.
Le galle (v. 43) sono le ghiande di cui sono ghiotti i maiali, cui sono paragonati i Casentinesi: può darsi che Dante si riferisca al castello di Porciano nell'alto Casentino, uno dei feudi dei conti Guidi.
Gli Aretini (vv. 46-48) sono definiti botoli... ringhiosi, forse perché sullo stemma di Arezzo si leggeva a cane non magno saepe tenetur aper, cioè «spesso un cinghiale è preso da un piccolo cane».
I pelaghi cupi del v. 52 sono i bacini profondi in cui l'Arno scorre nel suo corso inferiore, verso Pisa.
Non è chiaro a chi si riferisca Guido dicendo altri al v. 55, potendo trattarsi di Dante oppure di Rinieri (più probabile la prima ipotesi).
I vv. 86-87 indicano i beni materiali, il cui possesso esclude che possano essere condivisi con altri, come i beni spirituali. L'espressione di Guido, volutamente oscura, sarà spiegata a Dante da Virgilio nel Canto seguente.
Il vero e il trastullo (v. 93) sono l'oggetto delle virtù cavalleresche, che devono portare a coltivare il bene e a concedersi piaceri signorili (li affanni e li agi citati al v.109: questo verso sarà imitato da Ariosto nel Proemio del Furioso, che inizia proprio dicendo Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori...).
Nei vv. 97-111 Guido del Duca cita una serie di personaggi nobili della Romagna antica: Lizio di Valbona fu guelfo e aiutò Rinieri da Calboli contro i Ghibellini di Forlì; Arrigo Mainardi, di Bertinoro, fu amico di Guido; Pier Traversaro, di origini bizantine, fu signore di Ravenna nella prima metà del Duecento; Guido di Carpegna fu guelfo e si oppose a Federico II; Fabbro dei Lambertazzi fu capo dei Ghibellini bolognesi e combatté valorosamente contro Modena e Ravenna; Bernardino di Fosco, di umili origini, divenne uno dei principali cittadini di Faenza; Guido da Prata era un gentiluomo faentino; Ugolino d'Azzo appartenne alla nobile famiglia toscana degli Ubaldini che visse in Romagna (da qui la lezione vivette nosco) e fu parente dell'arcivescovo Ruggieri; Federigo Tignoso, forse di Rimini, era detto così per antifrasi avendo dei bellissimi capelli biondi e si circondava di una brigata di giovani noti per la loro liberalità; i Traversari e gli Anastagi erano nobili famiglie ravennati.
Ai vv. 112 ss. sono citate alcune città le cui nobili famiglie erano note per la loro liberalità: Bertinoro era una cittadina tra Forlì e Cesena, i cui signori erano parenti di Guido; Bagnacavallo era dominata dai Malvicini; Castrocaro e Conio erano castelli posseduti da signori con titolo di conti; i Pagani erano i signori di Faenza e il demonio è Maghinardo da Susinana, con cui la stirpe ebbe fine; Ugolino dei Fantolini era un nobiliuomo di Cerfugnano, signore di parecchi castelli in territorio faentino e morto intorno al 1278.
Il v. 133 cita le parole dette da Caino a Dio dopo l'uccisione di Abele (Gen., IV, 14: omnis igitur qui invenerit me, occidet me).
I vv. 134-135 alludono alla credenza medievale per cui il tuono era il rumore prodotto dalla nube squarciata dal vapore igneo, ovvero il fulmine che vi si dilatava.
Il camo citato da Virgilio (v. 143) è il freno che deve guidare l'uomo (è immagine biblica: Ps., XXI, 9).
Il verbo accarno (v. 22) significa «penetro profondamente nella carne», detto solitamente di un'arma o dei denti; chi sta parlando usa una metafora animalesca e venatoria, che introduce le immagini della successiva descrizione dei popoli di Valdarno.
I vv. 31-36 indicano il corso dell'Arno dalla sorgente alla foce: la sorgente è indicata come l'Appennino (l'alpestro monte) che è pregno, nel senso che è ricco d'acqua o forse massiccio, e che è stato separato dai monti Peloritani che ne sono la continuazione orografica in Sicilia (la definizione è geologicamente esatta); la foce è definita come il mare cui il fiume restituisce l'acqua che dal mare è evaporata e ha alimentato il fiume stesso attraverso pioggia e neve.
Le galle (v. 43) sono le ghiande di cui sono ghiotti i maiali, cui sono paragonati i Casentinesi: può darsi che Dante si riferisca al castello di Porciano nell'alto Casentino, uno dei feudi dei conti Guidi.
Gli Aretini (vv. 46-48) sono definiti botoli... ringhiosi, forse perché sullo stemma di Arezzo si leggeva a cane non magno saepe tenetur aper, cioè «spesso un cinghiale è preso da un piccolo cane».
I pelaghi cupi del v. 52 sono i bacini profondi in cui l'Arno scorre nel suo corso inferiore, verso Pisa.
Non è chiaro a chi si riferisca Guido dicendo altri al v. 55, potendo trattarsi di Dante oppure di Rinieri (più probabile la prima ipotesi).
I vv. 86-87 indicano i beni materiali, il cui possesso esclude che possano essere condivisi con altri, come i beni spirituali. L'espressione di Guido, volutamente oscura, sarà spiegata a Dante da Virgilio nel Canto seguente.
Il vero e il trastullo (v. 93) sono l'oggetto delle virtù cavalleresche, che devono portare a coltivare il bene e a concedersi piaceri signorili (li affanni e li agi citati al v.109: questo verso sarà imitato da Ariosto nel Proemio del Furioso, che inizia proprio dicendo Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori...).
Nei vv. 97-111 Guido del Duca cita una serie di personaggi nobili della Romagna antica: Lizio di Valbona fu guelfo e aiutò Rinieri da Calboli contro i Ghibellini di Forlì; Arrigo Mainardi, di Bertinoro, fu amico di Guido; Pier Traversaro, di origini bizantine, fu signore di Ravenna nella prima metà del Duecento; Guido di Carpegna fu guelfo e si oppose a Federico II; Fabbro dei Lambertazzi fu capo dei Ghibellini bolognesi e combatté valorosamente contro Modena e Ravenna; Bernardino di Fosco, di umili origini, divenne uno dei principali cittadini di Faenza; Guido da Prata era un gentiluomo faentino; Ugolino d'Azzo appartenne alla nobile famiglia toscana degli Ubaldini che visse in Romagna (da qui la lezione vivette nosco) e fu parente dell'arcivescovo Ruggieri; Federigo Tignoso, forse di Rimini, era detto così per antifrasi avendo dei bellissimi capelli biondi e si circondava di una brigata di giovani noti per la loro liberalità; i Traversari e gli Anastagi erano nobili famiglie ravennati.
Ai vv. 112 ss. sono citate alcune città le cui nobili famiglie erano note per la loro liberalità: Bertinoro era una cittadina tra Forlì e Cesena, i cui signori erano parenti di Guido; Bagnacavallo era dominata dai Malvicini; Castrocaro e Conio erano castelli posseduti da signori con titolo di conti; i Pagani erano i signori di Faenza e il demonio è Maghinardo da Susinana, con cui la stirpe ebbe fine; Ugolino dei Fantolini era un nobiliuomo di Cerfugnano, signore di parecchi castelli in territorio faentino e morto intorno al 1278.
Il v. 133 cita le parole dette da Caino a Dio dopo l'uccisione di Abele (Gen., IV, 14: omnis igitur qui invenerit me, occidet me).
I vv. 134-135 alludono alla credenza medievale per cui il tuono era il rumore prodotto dalla nube squarciata dal vapore igneo, ovvero il fulmine che vi si dilatava.
Il camo citato da Virgilio (v. 143) è il freno che deve guidare l'uomo (è immagine biblica: Ps., XXI, 9).
Testo «Chi è costui che ‘l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo, e apre li occhi a sua voglia e coverchia?». 3 «Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo: domandal tu che più li t’avvicini, e dolcemente, sì che parli, acco’lo». 6 Così due spirti, l’uno a l’altro chini, ragionavan di me ivi a man dritta; poi fer li visi, per dirmi, supini; 9 e disse l’uno: «O anima che fitta nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai, per carità ne consola e ne ditta 12 onde vieni e chi se’; ché tu ne fai tanto maravigliar de la tua grazia, quanto vuol cosa che non fu più mai». 15 E io: «Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia. 18 Di sovr’esso rech’io questa persona: dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno, ché ‘l nome mio ancor molto non suona». 21 «Se ben lo ‘ntendimento tuo accarno con lo ‘ntelletto», allora mi rispuose quei che diceva pria, «tu parli d’Arno». 24 E l’altro disse lui: «Perché nascose questi il vocabol di quella riviera, pur com’om fa de l’orribili cose?». 27 E l’ombra che di ciò domandata era, si sdebitò così: «Non so; ma degno ben è che ‘l nome di tal valle pèra; 30 ché dal principio suo, ov’è sì pregno l’alpestro monte ond’è tronco Peloro, che ‘n pochi luoghi passa oltra quel segno, 33 infin là ‘ve si rende per ristoro di quel che ‘l ciel de la marina asciuga, ond’hanno i fiumi ciò che va con loro, 36 vertù così per nimica si fuga da tutti come biscia, o per sventura del luogo, o per mal uso che li fruga: 39 ond’hanno sì mutata lor natura li abitator de la misera valle, che par che Circe li avesse in pastura. 42 Tra brutti porci, più degni di galle che d’altro cibo fatto in uman uso, dirizza prima il suo povero calle. 45 Botoli trova poi, venendo giuso, ringhiosi più che non chiede lor possa, e da lor disdegnosa torce il muso. 48 Vassi caggendo; e quant’ella più ‘ngrossa, tanto più trova di can farsi lupi la maladetta e sventurata fossa. 51 Discesa poi per più pelaghi cupi, trova le volpi sì piene di froda, che non temono ingegno che le occùpi. 54 Né lascerò di dir perch’altri m’oda; e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta di ciò che vero spirto mi disnoda. 57 Io veggio tuo nepote che diventa cacciator di quei lupi in su la riva del fiero fiume, e tutti li sgomenta. 60 Vende la carne loro essendo viva; poscia li ancide come antica belva; molti di vita e sé di pregio priva. 63 Sanguinoso esce de la trista selva; lasciala tal, che di qui a mille anni ne lo stato primaio non si rinselva». 66 Com’a l’annunzio di dogliosi danni si turba il viso di colui ch’ascolta, da qual che parte il periglio l’assanni, 69 così vid’io l’altr’anima, che volta stava a udir, turbarsi e farsi trista, poi ch’ebbe la parola a sì raccolta. 72 Lo dir de l’una e de l’altra la vista mi fer voglioso di saper lor nomi, e dimanda ne fei con prieghi mista; 75 per che lo spirto che di pria parlòmi ricominciò: «Tu vuo’ ch’io mi deduca nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi. 78 Ma da che Dio in te vuol che traluca tanto sua grazia, non ti sarò scarso; però sappi ch’io fui Guido del Duca. 81 Fu il sangue mio d’invidia sì riarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, visto m’avresti di livore sparso. 84 Di mia semente cotal paglia mieto; o gente umana, perché poni ‘l core là ‘v’è mestier di consorte divieto? 87 Questi è Rinier; questi è ‘l pregio e l’onore de la casa da Calboli, ove nullo fatto s’è reda poi del suo valore. 90 E non pur lo suo sangue è fatto brullo, tra ‘l Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno, del ben richesto al vero e al trastullo; 93 ché dentro a questi termini è ripieno di venenosi sterpi, sì che tardi per coltivare omai verrebber meno. 96 Ov’è ‘l buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pier Traversaro e Guido di Carpigna? Oh Romagnuoli tornati in bastardi! 99 Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? quando in Faenza un Bernardin di Fosco, verga gentil di picciola gramigna? 102 Non ti maravigliar s’io piango, Tosco, quando rimembro con Guido da Prata, Ugolin d’Azzo che vivette nosco, 105 Federigo Tignoso e sua brigata, la casa Traversara e li Anastagi (e l’una gente e l’altra è diretata), 108 le donne e ‘ cavalier, li affanni e li agi che ne ‘nvogliava amore e cortesia là dove i cuor son fatti sì malvagi. 111 O Bretinoro, ché non fuggi via, poi che gita se n’è la tua famiglia e molta gente per non esser ria? 114 Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia; e mal fa Castrocaro, e peggio Conio, che di figliar tai conti più s’impiglia. 117 Ben faranno i Pagan, da che ‘l demonio lor sen girà; ma non però che puro già mai rimagna d’essi testimonio. 120 O Ugolin de’ Fantolin, sicuro è il nome tuo, da che più non s’aspetta chi far lo possa, tralignando, scuro. 123 Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta troppo di pianger più che di parlare, sì m’ha nostra ragion la mente stretta». 126 Noi sapavam che quell’anime care ci sentivano andar; però, tacendo, facean noi del cammin confidare. 129 Poi fummo fatti soli procedendo, folgore parve quando l’aere fende, voce che giunse di contra dicendo: 132 ‘Anciderammi qualunque m’apprende’; e fuggì come tuon che si dilegua, se sùbito la nuvola scoscende. 135 Come da lei l’udir nostro ebbe triegua, ed ecco l’altra con sì gran fracasso, che somigliò tonar che tosto segua: 138 «Io sono Aglauro che divenni sasso»; e allor, per ristrignermi al poeta, in destro feci e non innanzi il passo. 141 Già era l’aura d’ogne parte queta; ed el mi disse: «Quel fu ‘l duro camo che dovria l’uom tener dentro a sua meta. 144 Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo de l’antico avversaro a sé vi tira; e però poco val freno o richiamo. 147 Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira, mostrandovi le sue bellezze etterne, e l’occhio vostro pur a terra mira; onde vi batte chi tutto discerne». 151 |
ParafrasiChi è costui che sale lungo il nostro monte prima di essere morto, e apre e chiude gli occhi a suo piacimento?»
«Non so chi sia, ma so che non è da solo: chiediglielo tu che gli sei più vicino, e acccoglilo cortesemente, così da indurlo a parlare». Così due spiriti, chinati l'uno verso l'altro, parlavano di me alla mia destra; poi alzarono i volti, come per parlarmi; e uno di loro disse: «O anima che te ne vai verso il cielo quando ancora sei dentro il corpo, in nome della carità consolaci e dicci da dove vieni e chi sei; infatti, con la grazia di cui sei oggetto ci fai stupire di una cosa che non è mai avvenuta». E io: «Nella parte centrale della Toscana scorre un piccolo fiume che nasce dal Falterona, e il suo corso si estende per più di cento miglia. Io vengo dalla sua valle: se vi dicessi il mio nome parlerei vanamente, perché esso non è ancora molto famoso». Quello che parlava prima mi disse: «Se il mio intelletto comprende bene ciò che vuoi dire, tu parli del fiume Arno». E l'altro chiese: «Perché ha omesso di pronunciare il nome di quel fiume, come si fa con le cose orribili?» E l'anima cui fu domandato questo rispose così: «Non lo so, ma certo è giusto che il nome di quella valle scompaia; infatti dalla sorgente di quel fiume, dove l'Appennino che è separato dal Peloro è tanto massiccio che in pochi altri punti lo è di più, fino alla foce dove restituisce al mare l'acqua che da esso evapora e alimenta il fiume attraverso piogge e nevi, tutti fuggono la virtù come una biscia, o per sfortuna del luogo o per una cattiva abitudine che li induce a questo: per cui gli abitanti della misera valle hanno mutato la loro natura, tanto che sembra che Circe li abbia trasformati in bestie. La valle dell'Arno indirizza dapprima il suo piccolo corso tra sudici porci, più degni di mangiare ghiande che altro cibo per gli uomini. Poi, scorrendo verso il basso, trova botoli che ringhiano più di quanto la loro forza consenta, e devia il suo corso disdegnosa da essi. La valle maledetta e sciagurata scende ancora più in basso e quanto più si allarga, tanto più trova cani divenuti dei lupi. Discesa poi in bacini profondi, trova delle volpi così dedite alla frode che non temono alcuna astuzia che possa catturarle. E non cesserò di parlare perché qualcuno mi ascolta; e sarà vantaggioso per costui (Dante), se si rammenterà la verace profezia che sto per fare. Io vedo tuo nipote (Fulcieri) che diventa cacciatore di quei lupi sulle sponde del feroce fiume, e li terrorizza tutti. Vende la loro carne quando sono ancora vivi; poi li uccide come un'antica belva; priva molti della vita e se stesso di onore. Esce dalla triste selva tutto sporco di sangue; la lascia in tale stato, che ci vorranno più di mille anni perché torni alle condizioni iniziali». Come all'annuncio di fatti dolorosi il viso di chi ascolta si turba, da qualunque parti lo assalga il pericolo, così io vidi l'altra anima, che ascoltava con attenzione, turbarsi e rattristarsi, dopo che ebbe sentito quelle parole. Le parole dell'una e l'aspetto dell'altra mi resero desideroso di sapere i loro nomi, cosa che chiesi con preghiere; allora lo spirito che prima mi aveva parlato ricominciò: «Tu vuoi che io mi induca a fare ciò che tu invece mi neghi. Ma poiché Dio vuole che la sua grazia traspaia così tanto attraverso di te, non rifiuterò la tua domanda; sappi dunque che fui Guido del Duca. Il mio sangue fu a tal punto roso dall'invidia, che se io avessi visto un uomo allietarsi mi avresti visto diventare livido. Da quella semente raccolgo questa paglia (sconto la pena per i miei peccati); o gente umana, perché desideri quei beni il cui possesso esclude la condivisione? Questi è Rinieri, questi è il pregio e l'onore della famiglia da Calboli, dove poi nessuno ha raccolto l'eredità del suo valore. E tra il Po, le montagne, il mare Adriatico e il Reno (in Romagna) non è solo la sua stirpe ad aver abbandonato le virtù necessarie al vero e ai piaceri cortesi; infatti entro questi limiti geografici è pieno di sterpi velenosi, al punto che sarebbe tardi estirparli per coltivare la terra. Dove sono il buon Lizio e Arrigo Mainardi? E Pier Traversaro e Guido di Carpegna? Oh, Romagnoli imbastarditi! Quando mai può rinascere a Bologna un Fabbro dei Lambertazzi? e a Faenza un Bernardino di Fosco, nobile rampollo di umili origini? Non stupirti, Toscano, se io piango quando rammento Guido da Prata, Ugolino d'Azzo che visse insieme a noi, Federigo Tignoso e la sua brigata, la famiglia dei Traversari e degli Anastagi (ed entrambe sono prive di eredi), le dame e i cavalieri, le fatiche militari e i piaceri signorili che amore e cortesia ci inducevano a perseguire, mentre ora là i cuori sono malvagi. O Bertinoro, perché non fuggi via ora che se ne è andata la tua casata insieme a molta gente, per non essere malvagia? Fa bene Bagnacavallo a non lasciare eredi, mentre fa male Castrocaro e peggio ancora Conio, che continuano a generare conti così sciagurati. Faranno bene i Pagani, dopo che il loro demonio (Maghinardo) se ne andrà; ma non al punto che il ricordo di lui non si conservi. O Ugolino dei Fantolini, il tuo nome è sicuro dal momento che, non avendo eredi degeneri, non teme di diventare oscuro. Ma ora va' via, Toscano, perché ho troppa voglia di piangere anziché di parlare, a tal punto nostro discorso mi ha afflitto». Noi sapevamo che quelle anime fortunate ci sentivano andar via; perciò, tacendo, ci facevano confidare nel nostro cammino. Dopo che, procedendo, rimanemmo soli, ci venne incontro una voce che sembrò il fulmine quando fende l'aria, dicendo: 'Chiunque mi incontrerà, mi ucciderà'; e se ne andò come il tuono che svanisce, se squarcia subito la nube. Non appena non la sentimmo più, ecco un'altra voce che fece un gran fracasso, come un tuono che ne segue un altro; disse: «Io sono Aglauro che divenni sasso»; allora, per accostarmi a Virgilio, procedetti verso destra e non di fronte. L'aria era tornata silenziosa; ed egli mi disse: «Quello fu il duro freno che dovrebbe tenere l'uomo entro i suoi limiti. Ma voi abboccate all'esca, così che l'amo del demonio vi attira a sé; e dunque servono a poco il freno o il richiamo. Il Cielo vi chiama e vi gira attorno, mostrandovi le sue eterne attrattive, e il vostro sguardo è sempre rivolto a terra: per questo chi vede tutto (Dio) vi castiga». |