Inferno, Canto XIV
W. Blake, Capaneo
Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento...
"...chi è quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che 'l marturi?" ...
"...Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come suo speglio..."
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento...
"...chi è quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che 'l marturi?" ...
"...Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come suo speglio..."
Argomento del Canto
Ingresso nel III girone del VII Cerchio,
dove sono puniti i violenti contro Dio (tra cui i bestemmiatori).
Descrizione del sabbione infuocato e della pioggia di fiamme. Incontro
con Capaneo. Origine dei fiumi infernali e spiegazione di Virgilio sul Veglio di Creta.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
Il sabbione infuocato (1-42)
Dante raccoglie i rami spezzati dell'albero del fiorentino suicida e li pone alle sue radici, quindi segue Virgilio sino al confine tra il secondo e il terzo girone del VII Cerchio. Questo è una landa desolata dove non cresce alcuna pianta ed è attorniato dalla selva dei suicidi come una dolorosa corona. Il suolo è formato da una spessa sabbia, simile a quella del deserto libico attraversato da Catone l'Uticense, su cui le anime dannate giacciono in modo diverso: alcune sono sdraiate supine (bestemmiatori), altre siedono raccolte, (usurai) altre ancora camminano senza posa (sodomiti). Queste ultime sono più numerose di quelle sdraiate, le quali tuttavia sono più facili al lamento. Su tutto il sabbione cade una pioggia di larghe falde infuocate, simili a fiocchi di neve che cadono senza essere sospinti dal vento e paragonabili alla pioggia di fuoco che Alessandro Magno vide cadere dal cielo in India. Le fiammelle surriscaldano la sabbia che, arroventata, tormenta le anime che tentano continuamente di scacciare da sé il fuoco agitando le mani.
Apparizione di Capaneo (43-75)
G. Doré, I bestemmiatori
Dante nota che un dannato dall'aspetto imponente è sdraiato sul sabbione infuocato e non sembra preoccuparsi delle fiammelle, tanto che ha uno sguardo sprezzante e dà l'impressione che la pioggia di fuoco non gli dia dolore. Mentre ne chiede il nome a Virgilio, il dannato sente la sua domanda e risponde lui stesso dicendo di essere da morto tal quale era da vivo: anzi, se Giove gli scagliasse contro tutte le folgori fabbricate da Vulcano e dai Ciclopi nell'Etna non potrebbe vendicarsi di lui.
Allora Virgilio ribatte con un tono di voce adirato, quale Dante non ha mai sentito, accusando il dannato di nome Capaneo di essere maggiormente punito proprio per la sua smisurata superbia. Poi il maestro si rivolge a Dante con voce più pacata e gli spiega che lo spirito è uno dei sette re che assediarono Tebe e sembra disprezzare Dio così come ne disconosce la potenza; tuttavia la sua alterigia è degno ornamento al suo petto. A questo punto Virgilio invita Dante a seguirlo e a badare bene dove mette i piedi, camminando strettamente vicino alla selva.
Allora Virgilio ribatte con un tono di voce adirato, quale Dante non ha mai sentito, accusando il dannato di nome Capaneo di essere maggiormente punito proprio per la sua smisurata superbia. Poi il maestro si rivolge a Dante con voce più pacata e gli spiega che lo spirito è uno dei sette re che assediarono Tebe e sembra disprezzare Dio così come ne disconosce la potenza; tuttavia la sua alterigia è degno ornamento al suo petto. A questo punto Virgilio invita Dante a seguirlo e a badare bene dove mette i piedi, camminando strettamente vicino alla selva.
Il Flegetonte (73-93)
I due poeti proseguono in silenzio e giungono al punto in cui sgorga dalla selva un fiumiciattolo di sangue (il Flegetonte), caldo come una fonte d'acqua sulfurea chiamata Bulicame che veniva usata dalle prostitute come lavacro. Il fiume scorre su un fondale e tra due argini rocciosi, per cui Dante capisce che lì è il passaggio dove potranno procedere per attraversare il girone. Virgilio inizia a parlare e spiega a Dante che tutto ciò che ha visto dopo aver varcato la porta dell'Inferno è meno interessante di questo fiume, che spegne tutte le falde infuocate che vi cadono dentro. Dante, incuriosito da questo discorso, prega il maestro di proseguire la spiegazione.
Origine dei fiumi infernali. Il vecchio di Creta (94-120)
Il veglio di Creta (sulla destra), ms. XIV sec.
Virigilio spiega che in mezzo al Mediterraneo c'è un'isola, Creta, ora distrutta ma un tempo governata da un re, Saturno, sotto il quale tutto il mondo fu innocente. A Creta sorge una montagna che in passato era ricca di corsi d'acqua e foreste, il monte Ida, ora abbandonato e un tempo scelta da Rea come il nascondiglio per il figlio Giove. Dantro alla montagna si erge un gran vecchio, che volta le spalle a Damietta e guarda dritto verso Roma: ha la testa in oro, il petto e le braccia d'argento, il ventre di rame, le gambe e il piede sinistro di ferro e il piede destro di terracotta. Ogni parte del suo corpo, eccetto la testa, è piena di fessure da cui escono lacrime le quali, raccogliendosi ai piedi della statua, forano la roccia sottostante. Le lacrime, divenute un corso s'acqua, scendono all'Inferno e formano i fiumi infernali, vale a dire Acheronte, Stige e Flegetonte; il corso d'acqua prosegue poi più a valle, fino al fondo della voragine, dove si raccoglie a formare il lago di Cocito.
Altri fiumi dell'Oltretomba (121-142)
Dante è stupito, poiché ha visto il fiume di sangue sgorgare solo nel VII Cerchio mentre esso nasce sulla Terra. Virgilio spiega che la voragine infernale è rotonda e anche se Dante ne ha sceso già una buona parte, sempre procedento verso sinistra, non ha comunque ancora compiuto un giro completo e non deve stupirsi se gli appaiono cose che non ha ancora potuto vedere. Dante chiede ancora a Virgilio dove siano il Flegetonte e il Lete, poiché il primo sarebbe formato dalle lacrime del vecchio e del secondo non dice nulla. Virgilio ribatte che la domanda sul Flegetonte è inutile, visto che si tratta proprio del fiume di sangue appena visto. Quanto al Lete, Dante lo vedrà ma al di fuori della voragine infernale, essendo uno dei due fiumi che scorrono nell'Eden e in cui si bagnano le anime purificate per dimenticare i peccati. A questo punto Virgilio pone fine al discorso e invita Dante a seguirlo, allontandosi dalla selva e procedendo lungo uno degli argini rocciosi entro cui scorre il Flegetonte.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto si può dividere simmetricamente in due parti, dedicate rispettivamente alla descrizione del sabbione infuocato in cui giacciono i bestemmiatori (tra cui Capaneo) e alla storia del vecchio di Creta da cui hanno origine i fiumi infernali. Tra esse c'è un sottile collegamento, poiché entrambe presentano numerosi riferimenti alla letteratura e al mito classico (specie a scrittori come Stazio e lo stesso Virgilio).
Il terzo girone del VII Cerchio, in cui sono puniti i violenti contro Dio, è descritto come un sabbione sul quale cade una pioggia di falde infuocate, simili a fiocchi di neve che scendono dal cielo lentamente. Il contrappasso è riferito alla punizione divina contro le città bibliche di Sodoma e Gomorra, ma anche alla figura di Capaneo, uno dei leggendari sette re che assediarono Tebe e che secondo il mito era stato colpito da Giove con un fulmine per aver pronunciato empie bestemmie contro gli dei dalle mura della città greca (le falde di fuoco sarebbero parodia delle folgori divine, data la lentezza con cui cadono al suolo pur colpendo inesorabili i dannati di questo girone). La pioggia di fuoco viene anche paragonata all'episodio leggendario che vide come protagonista Alessandro Magno, che durante una spedizione in India si sarebbe imbattuto in una pioggia di faville infuocate (è lui stesso a narrarlo in una epistola indirizzata ad Aristotele). Probabilmente Dante trae l'aneddoto da un passo di Alberto Magno in cui presenta lievi varianti, ma la citazione contribuisce ad inserire tutta la scena in un contesto fortemente leggendario, anche col riferimento all'episodio di Catone l'Uticense che attraversa il deserto di Libia paragonato anch'esso alla landa infuocata (questi elementi fantastici riguardanti la storia antica rientrano pienamente nel gusto degli scrittori medievali).
Segue poi l'apparizione di Capaneo, descritto da Dante come un grande che giace incurante della pioggia di fuoco e con apparente disprezzo verso la pena subita e tutto ciò che lo circonda. È il dannato stesso a presentarsi a Dante, dichiarando con incredibile superbia che Giove (da intendersi come il Dio cristiano) non potrebbe vendicarsi di lui neppure se gli scagliasse contro tutte le folgori costruite da Vulcano e dai Ciclopi. Capaneo giganteggia sulla scena al pari di altri dannati già visti (pensiamo soprattutto a Farinata), anche se il rimprovero di Virgilio è severo e gli rinfaccia di subire in realtà una più dura punizione proprio a causa della sua tracotante alterigia. Il bestemmiatore non è dunque affatto grande come era sembrato a Dante, visto che è inchiodato al suolo e viene colpito dalle falde infuocate che cadono ben più lente della folgore che lo uccise quand'era in vita. La fonte di Dante è certamente la Tebaide di Stazio, dove il poeta latino diceva di Capaneo che confidava solo nella sua destra, considerava come dio il suo valore personale e la sua spada, disprezzava gli dei di cui, diceva, è stolto avere paura (X, 872 ss.).
La seconda parte del Canto trae spunto dal Flegetonte, la cui fonte sgorga proprio in prossimità del sabbione infuocato e che dà modo a Virgilio di spiegare l'origine dei fiumi infernali. La leggenda del vecchio di Creta deriva da un passo biblico (Dan., II, 31), con l'aggiunta da parte di Dante del particolare delle lacrime che è di sua invenzione. Il vecchio rappresenta quasi certamente la storia dell'umanità, che dalla mitica età dell'oro è poi degenerata nelle età successive sino a giungere al disordine morale del tempo di Dante, per cui dalla statua gocciolano le lacrime che formano i fiumi dell'Inferno. Se la fonte è biblica, molteplici sono di nuovo i riferimenti al mito classico: Creta è indicata come l'isola che sorge al centro del Mediterraneo, al confine delle tre parti del mondo (Europa, Africa, Asia), dominata un tempo da Saturno e che conobbe l'età dell'oro prima di decadere (è ricordata anche come il nascondiglio del figlio di Saturno, Giove, che avrebbe posto fine al periodo felice). La statua del vecchio è poi formata dai metalli corrispondenti alle età del mito (oro, argento, rame, ferro), mentre i due piedi sono probabilmente l'Impero e la Chiesa: di ferro il primo e di terracotta la seconda, a indicare la debolezza della Chiesa rispetto al potere temporale. Il vecchio volge le spalle a Damietta, in Egitto, e guarda Roma, cioè è rivolto verso l'Occidente e la città che è centro della cristianità, sede (secondo Dante) dell'imperatore e del papa. La digressione spiega l'origine dei fiumi infernali e cita anche il Lete, uno dei due fiumi che attraversano l'Eden, non a caso spesso identificato dai poeti medievali proprio con il mondo dell'età dell'oro descritto dai poeti classici (ciò sarà confermato anche da Matelda in Purg., XXVIII, 139-141, proprio alla presenza di Virgilio e di Stazio autore della Tebaide più volte citata in questo Canto).
Il terzo girone del VII Cerchio, in cui sono puniti i violenti contro Dio, è descritto come un sabbione sul quale cade una pioggia di falde infuocate, simili a fiocchi di neve che scendono dal cielo lentamente. Il contrappasso è riferito alla punizione divina contro le città bibliche di Sodoma e Gomorra, ma anche alla figura di Capaneo, uno dei leggendari sette re che assediarono Tebe e che secondo il mito era stato colpito da Giove con un fulmine per aver pronunciato empie bestemmie contro gli dei dalle mura della città greca (le falde di fuoco sarebbero parodia delle folgori divine, data la lentezza con cui cadono al suolo pur colpendo inesorabili i dannati di questo girone). La pioggia di fuoco viene anche paragonata all'episodio leggendario che vide come protagonista Alessandro Magno, che durante una spedizione in India si sarebbe imbattuto in una pioggia di faville infuocate (è lui stesso a narrarlo in una epistola indirizzata ad Aristotele). Probabilmente Dante trae l'aneddoto da un passo di Alberto Magno in cui presenta lievi varianti, ma la citazione contribuisce ad inserire tutta la scena in un contesto fortemente leggendario, anche col riferimento all'episodio di Catone l'Uticense che attraversa il deserto di Libia paragonato anch'esso alla landa infuocata (questi elementi fantastici riguardanti la storia antica rientrano pienamente nel gusto degli scrittori medievali).
Segue poi l'apparizione di Capaneo, descritto da Dante come un grande che giace incurante della pioggia di fuoco e con apparente disprezzo verso la pena subita e tutto ciò che lo circonda. È il dannato stesso a presentarsi a Dante, dichiarando con incredibile superbia che Giove (da intendersi come il Dio cristiano) non potrebbe vendicarsi di lui neppure se gli scagliasse contro tutte le folgori costruite da Vulcano e dai Ciclopi. Capaneo giganteggia sulla scena al pari di altri dannati già visti (pensiamo soprattutto a Farinata), anche se il rimprovero di Virgilio è severo e gli rinfaccia di subire in realtà una più dura punizione proprio a causa della sua tracotante alterigia. Il bestemmiatore non è dunque affatto grande come era sembrato a Dante, visto che è inchiodato al suolo e viene colpito dalle falde infuocate che cadono ben più lente della folgore che lo uccise quand'era in vita. La fonte di Dante è certamente la Tebaide di Stazio, dove il poeta latino diceva di Capaneo che confidava solo nella sua destra, considerava come dio il suo valore personale e la sua spada, disprezzava gli dei di cui, diceva, è stolto avere paura (X, 872 ss.).
La seconda parte del Canto trae spunto dal Flegetonte, la cui fonte sgorga proprio in prossimità del sabbione infuocato e che dà modo a Virgilio di spiegare l'origine dei fiumi infernali. La leggenda del vecchio di Creta deriva da un passo biblico (Dan., II, 31), con l'aggiunta da parte di Dante del particolare delle lacrime che è di sua invenzione. Il vecchio rappresenta quasi certamente la storia dell'umanità, che dalla mitica età dell'oro è poi degenerata nelle età successive sino a giungere al disordine morale del tempo di Dante, per cui dalla statua gocciolano le lacrime che formano i fiumi dell'Inferno. Se la fonte è biblica, molteplici sono di nuovo i riferimenti al mito classico: Creta è indicata come l'isola che sorge al centro del Mediterraneo, al confine delle tre parti del mondo (Europa, Africa, Asia), dominata un tempo da Saturno e che conobbe l'età dell'oro prima di decadere (è ricordata anche come il nascondiglio del figlio di Saturno, Giove, che avrebbe posto fine al periodo felice). La statua del vecchio è poi formata dai metalli corrispondenti alle età del mito (oro, argento, rame, ferro), mentre i due piedi sono probabilmente l'Impero e la Chiesa: di ferro il primo e di terracotta la seconda, a indicare la debolezza della Chiesa rispetto al potere temporale. Il vecchio volge le spalle a Damietta, in Egitto, e guarda Roma, cioè è rivolto verso l'Occidente e la città che è centro della cristianità, sede (secondo Dante) dell'imperatore e del papa. La digressione spiega l'origine dei fiumi infernali e cita anche il Lete, uno dei due fiumi che attraversano l'Eden, non a caso spesso identificato dai poeti medievali proprio con il mondo dell'età dell'oro descritto dai poeti classici (ciò sarà confermato anche da Matelda in Purg., XXVIII, 139-141, proprio alla presenza di Virgilio e di Stazio autore della Tebaide più volte citata in questo Canto).
Note e passi controversi
I vv. 1-3 alludono alla fine del Canto XIII, all'incontro con l'anima del suicida fiorentino il cui albero era stato dilaniato dalle nere cagne che inseguivano lo scialacquatore Iacopo da Sant'Andrea: il dannato aveva pregato i due visitatori di raccogliere le sue fronte al piè del tristo cesto (vv. 139-142).
I vv. 13-15 si rifanno a Lucano (Phars., IX, 382 ss.) che descrive il deserto di Libia attraversato da Catone e dalle sue truppe, in cui i soldati saranno attaccati da serpenti e subiranno orrende trasformazioni.
I vv. 28-29 riprendono il passo biblico (Gen., XIX, 24) in cui si descrive la pioggia di fuoco che distrusse Sodoma e Gomorra; il v. 30 si ispira invece a un sonetto di Guido Cavalcanti, Beltà di donna e di saccente core (v. 6, e bianca neve scender senza venti).
La similitudine ai vv. 31-37 è tratta da un passo dell'epistola di Alessandro Magno ad Aristotele, De situ Indiae et itinerum in ea vastitate, in cui però si parla prima di una fitta nevicata che obbligò i soldati a calpestare i fiocchi al suolo e poi delle faville infuocate. Dante fonde i due episodi e trae spunto dal De meteoris di Alberto Magno, dove l'aneddoto è riferito secondo quanto scritto dal poeta.
La similitudine ai vv. 39-39 (com'esca / sotto focile) allude alla pietra focaia battuta dall'acciarino, che produce la scintilla.
Al v. 42 arsura fresca vuol dire «nuovo fuoco», ma è probabilmente un ossimoro con valore ironico.
Mongibello (v. 56) è il nome di origine araba dell'Etna, mentre la pugna di Flegra è la battaglia nella pianura di Flegra in Tessaglia dove, secondo il mito, Giove fulminò i giganti ribelli.
I vv. 79-81 alludono al Bulicame, una fonte d'acqua calda di origine sulfurea presso Viterbo paragonata al Flegetonte (che veniva detto bulicame anche nel Canto XII). Alcuni mss. leggono pectatrici al v. 80, per cui è incerto se la fonte servisse come lavacro alle prostitute che vivevano nei pressi o alle lavoranti addette alla pettinatura del lino, che sfruttavano il Bulicame per macerare il tessuto. È più probabile la lezione a testo, anche perché le prostitute sono dette spartirsi le acque (quindi per lavarsi, non per lavorare).
La porta citata al v. 86 è quella dell'Inferno (III,1 ss.).
Il rege del v. 96 è Saturno, che ne fu il primo mitico sovrano e sotto il cui dominio il mondo conobbe l'età dell'oro (fu casto nel senso di «innocente»).
I vv. 97 ss. alludono al mito classico di Giove, che dopo la nascita fu nascosto dalla madre Rea (o Cibele) presso il monte Ida, a Creta, per sottrarlo al padre Saturno che divorava i figli appena nati per timore che uno di loro lo spodestasse; i Coribanti avevano il compito di coprire i vagiti di Giove con canti e rumore di armi.
Alcuni commentatori hanno ravvisato un'incongruenza tra i vv. 121 ss. e il Canto VII, in cui Dante ha già visto sgorgare un fiume infernale, lo Stige. Può trattarsi di una dimenticanza dell'autore, ma anche di una mutata concezione dell'origine dei fiumi infernali rispetto all'episodio precedente.
I vv. 13-15 si rifanno a Lucano (Phars., IX, 382 ss.) che descrive il deserto di Libia attraversato da Catone e dalle sue truppe, in cui i soldati saranno attaccati da serpenti e subiranno orrende trasformazioni.
I vv. 28-29 riprendono il passo biblico (Gen., XIX, 24) in cui si descrive la pioggia di fuoco che distrusse Sodoma e Gomorra; il v. 30 si ispira invece a un sonetto di Guido Cavalcanti, Beltà di donna e di saccente core (v. 6, e bianca neve scender senza venti).
La similitudine ai vv. 31-37 è tratta da un passo dell'epistola di Alessandro Magno ad Aristotele, De situ Indiae et itinerum in ea vastitate, in cui però si parla prima di una fitta nevicata che obbligò i soldati a calpestare i fiocchi al suolo e poi delle faville infuocate. Dante fonde i due episodi e trae spunto dal De meteoris di Alberto Magno, dove l'aneddoto è riferito secondo quanto scritto dal poeta.
La similitudine ai vv. 39-39 (com'esca / sotto focile) allude alla pietra focaia battuta dall'acciarino, che produce la scintilla.
Al v. 42 arsura fresca vuol dire «nuovo fuoco», ma è probabilmente un ossimoro con valore ironico.
Mongibello (v. 56) è il nome di origine araba dell'Etna, mentre la pugna di Flegra è la battaglia nella pianura di Flegra in Tessaglia dove, secondo il mito, Giove fulminò i giganti ribelli.
I vv. 79-81 alludono al Bulicame, una fonte d'acqua calda di origine sulfurea presso Viterbo paragonata al Flegetonte (che veniva detto bulicame anche nel Canto XII). Alcuni mss. leggono pectatrici al v. 80, per cui è incerto se la fonte servisse come lavacro alle prostitute che vivevano nei pressi o alle lavoranti addette alla pettinatura del lino, che sfruttavano il Bulicame per macerare il tessuto. È più probabile la lezione a testo, anche perché le prostitute sono dette spartirsi le acque (quindi per lavarsi, non per lavorare).
La porta citata al v. 86 è quella dell'Inferno (III,1 ss.).
Il rege del v. 96 è Saturno, che ne fu il primo mitico sovrano e sotto il cui dominio il mondo conobbe l'età dell'oro (fu casto nel senso di «innocente»).
I vv. 97 ss. alludono al mito classico di Giove, che dopo la nascita fu nascosto dalla madre Rea (o Cibele) presso il monte Ida, a Creta, per sottrarlo al padre Saturno che divorava i figli appena nati per timore che uno di loro lo spodestasse; i Coribanti avevano il compito di coprire i vagiti di Giove con canti e rumore di armi.
Alcuni commentatori hanno ravvisato un'incongruenza tra i vv. 121 ss. e il Canto VII, in cui Dante ha già visto sgorgare un fiume infernale, lo Stige. Può trattarsi di una dimenticanza dell'autore, ma anche di una mutata concezione dell'origine dei fiumi infernali rispetto all'episodio precedente.
TestoPoi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte, e rende’le a colui, ch’era già fioco. 3 Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. 6 A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove. 9 La dolorosa selva l’è ghirlanda intorno, come ’l fosso tristo ad essa: quivi fermammo i passi a randa a randa. 12 Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d’altra foggia fatta che colei che fu da’ piè di Caton già soppressa. 15 O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi miei! 18 D’anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. 21 Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continuamente. 24 Quella che giva intorno era più molta, e quella men che giacea al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta. 27 Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. 30 Quali Alessandro in quelle parti calde d’India vide sopra ’l suo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, 33 per ch’ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch’era solo: 36 tale scendeva l’etternale ardore; onde la rena s’accendea, com’esca sotto focile, a doppiar lo dolore. 39 Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l’arsura fresca. 42 I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ’ demon duri ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci, 45 chi è quel grande che non par che curi lo ’ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che ’l marturi?». 48 E quel medesmo, che si fu accorto ch’io domandava il mio duca di lui, gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. 51 Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l’ultimo dì percosso fui; 54 o s’elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!", 57 sì com’el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza, non ne potrebbe aver vendetta allegra». 60 Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito: «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza 63 la tua superbia, se’ tu più punito: nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito». 66 Poi si rivolse a me con miglior labbia dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia 69 Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi; ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. 72 Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti». 75 Tacendo divenimmo là ’ve spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. 78 Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello. 81 Lo fondo suo e ambo le pendici fatt’era ’n pietra, e ’ margini dallato; per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici. 84 «Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato, 87 cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com’è ’l presente rio, che sovra sé tutte fiammelle ammorta». 90 Queste parole fuor del duca mio; per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto di cui largito m’avea il disio. 93 «In mezzo mar siede un paese guasto», diss’elli allora, «che s’appella Creta, sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto. 96 Una montagna v’è che già fu lieta d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida: or è diserta come cosa vieta. 99 Rea la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. 102 Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver’ Dammiata e Roma guarda come suo speglio. 105 La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e ’l petto, poi è di rame infino a la forcata; 108 da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che ’l destro piede è terra cotta; e sta ’n su quel più che ’n su l’altro, eretto. 111 Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta d’una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, foran quella grotta. 114 Lor corso in questa valle si diroccia: fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia 117 infin, là ove più non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta». 120 E io a lui: «Se ’l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?». 123 Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo, 126 non se’ ancor per tutto il cerchio vòlto: per che, se cosa n’apparisce nova, non de’ addur maraviglia al tuo volto». 129 E io ancor: «Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l’un taci, e l’altro di’ che si fa d’esta piova». 132 «In tutte tue question certo mi piaci», rispuose; «ma ’l bollor de l’acqua rossa dovea ben solver l’una che tu faci. 135 Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l’anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa». 138 Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, e sopra loro ogne vapor si spegne». 142 |
ParafrasiPoiché l'amore per la patria comune mi commosse, raccolsi i rami sparsi e li deposi alle radici dell'albero, dove l'anima era ormai spossata.
Quindi giungemmo al punto dove il secondo girone si divide dal terzo, e dove si vede la terribile punizione divina. Per spiegare bene la novità del luogo, dico che arrivammo a un luogo pianeggiante che non permette ad alcuna pianta di crescere in essa. La selva dei suicidi le fa da corona tutt'intorno, come il Flegetonte con essa: qui fermammo il passo proprio sull'orlo. Il suolo era formato da sabbia spessa e arida, molto simile a quella che fu già calpestata dai piedi di Catone Uticense. O vendetta divina, quanto tu devi essere temuta da ogni lettore che apprende ciò che io vidi coi miei occhi! Io vidi molti gruppi di anime nude, che piangevano tutte assai dolorosamente, e sembrava che ognuna obbedisse a diverse regole. Alcune anime giacevano a terra supine, altre sedevano raccolte, altre ancora camminavano di continuo. Le anime che giravano in tondo erano più numerose, invece quelle che erano sdraiato erano di meno, ma erano più pronte a lamentarsi. Sopra tutto il sabbione piovevano lentamente delle larghe falde infuocate, simili a fiocchi di neve che cadono in una montagna dove non spira il vento. Come Alessandro Magno nelle calde regioni dell'India vide cadere intatte sino a terra delle fiamme sulle sue truppe, per cui diede ordine ai soldati di scalpicciare il suolo in quanto il vapore si estingueva meglio prima di propagarsi: Così scendevano quelle fiamme eterne; per cui la sabbia si accendeva, proprio come l'esca con l'acciarino, per accrescere il dolore. La danza delle misere mani (dei dannati) era senza posa, mentre scuotevano da un lato e dall'altro il nuovo fuoco. Io cominciai: «Maestro, tu che superi tutte le cose tranne i diavoli ostinati (della città di Dite) che ci uscirono incontro sulla soglia della porta, chi è quel grande che non sembra preoccuparsi dell'incendio e giace sprezzante e torvo, così che la pioggia di fuoco non sembra procurargli dolore?» E quello stesso dannato, che capì che io domandavo di lui alla mia guida, gridò: «Io sono da morto tale quale fui da vivo. Se anche Giove stancasse il suo fabbro (Vulcano) da cui, adirato, prese la folgore acuta che mi colpì il giorno della mia morte; o se stancasse gli altri Ciclopi senza posa nell'Etna, presso la nera fucina, gridando "Buon Vulcano, aiuto, aiuto!, proprio come fece nella battaglia di Flegra, e mi fulminasse con tutta la sua forza, non potrebbe vendicarsi di me». Allora il mio maestro parlò con la voce così alterata come non l'avevo mai sentito: «O Capaneo, nel fatto che la tua superbia non diminuisce tu sei maggiormente punito: nessuna pena sarebbe adeguata al tuo furore, tranne che la tua stessa rabbia!» Poi si rivolse a me con volto più sereno, dicendo: «Quello fu uno dei sette re che assediarono Tebe; e disprezzò Dio, e sembra che lo faccia ancora, e pare che non consideri il suo potere; ma, come gli ho detto, la sua rabbia è degno ornamento al suo petto. Ora seguimi e bada di non mettere i piedi nella sabbia infuocata, ma tienili sempre stretti alla selva». Giungemmo in silenzio là dove fuori dalla selva sgorga un piccolo fiume, il sui rossore (di sangue) mi fa ancora ribrezzo. Come dal Bulicame esce un ruscello che poi le prostitute si dividono, così quel fiumiciattolo scorreva giù per la sabbia. Il fondale ed entrambi gli argini erano fatti in pietra, per cui compresi che lì c'era il passaggio. «Tra tutto ciò che ti ho mostrato dopo aver varcato la soglia infernale il cui passaggio non è negato a nessuno, i tuoi occhi non hanno mai visto nulla che fosse interessante come questo fiume, che estingue in sé tutte le falde di fuoco». Queste parole mi furono dette dalla mia guida; allora lo pregai che mi elargisse il cibo di cui mi aveva suscitato il desiderio. Allora lui disse: «In mezzo al Mediterraneo c'è un paese andato in rovina, chiamato Creta, sotto il cui antico re (Saturno) il mondo fu un tempo innocente (nell'età dell'oro). Vi sorge una montagna chiamata Ida, un tempo ricca di corsi d'acqua e boschi, ora abbandonata come cosa vecchia. Rea la scelse come nascondiglio sicuro per suo figlio (Giove), e per nasconderlo meglio, quando piangeva, vi faceva gridare (i Coribanti). Dentro il monte si erge (la statua di) un vecchio, che volge le spalle a Damietta e guarda Roma come se fosse il suo specchio. La su testa è fatta d'oro zecchino, le braccia e il petto sono in puro argento, poi è fatto di rame fino all'inguine; da qui in giù è tutto fatto di ferro, tranne il piede destro che è in terracotta; e si regge su quello più che sull'altro. Ogni parte della statua, tranne la testa, è spaccata da una fessura che fa sgorgare lacrime, le quali si raccolgono ai piedi e forano la roccia sottostante. Formano un corso d'acqua che scende nella voragine infernale: alimentano l'Acheronte, lo Stige e il Flegetonte; poi scendono ancora per questo stretto canale, fin là dove non si scende più (il fondo dell'Inferno) e dove formano Cocito; e cosa sia quel lago lo vedrai, quindi non ne parliamo qui». E io a lui: «Se questo fiumiciattolo nasce così dal mondo terreno, perché allora lo vediamo solo ora sull'orlo del Cerchio?» E lui a me: «Tu sai che questa voragine è tonda; e anche se tu ne hai percorso un buon tratto, scendendo verso il basso sempre a sinistra, non hai ancora percorso tutta la circonferenza: per cui, se vedi una cosa nuova, non devi assolutamente stupirtene». E dissi ancora: «Maestro, dove sono il Flegetonte e il Lete? del secondo taci, mentre del primo dici che è prodotto da questa pioggia di lacrime». Rispose: «Mi piacciono tutte le tue domande, ma il bollore dell'acqua rossa di sangue doveva risolvere uno dei tuoi dubbi. Vedrai il Lete, ma fuori dall'Inferno, là dove le anime vanno a lavarsi (nell'Eden) quando si sono pentite delle loro colpe e le hanno cancellate». Poi aggiunse: «Ormai è tempo di allontanarsi dal bosco; seguimi lungo gli argini del fiume, poiché non sono bruciati dalla pioggia infuocata e ogni vapore igneo si spegne sopra di loro». |