Inferno, Canto XXV
G. Stradano, Le metamorfosi dei ladri
Lo mio maestro disse: "Questi è Caco,
che, sotto 'l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco... "
Poi s'appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l'un né l'altro già parea qual era...
Taccia Lucano omai, là dove tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch'or si scocca...
che, sotto 'l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco... "
Poi s'appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l'un né l'altro già parea qual era...
Taccia Lucano omai, là dove tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch'or si scocca...
Argomento del Canto
Ancora nella VII Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti i ladri. Incontro col centauro Caco. Dante e Virgilio vedono cinque ladri di Firenze,
ovvero Cianfa Donati, Agnello Brunelleschi, Buoso Donati, Puccio
Sciancato e Fracesco dei Cavalcanti; alcuni di loro subiscono orrende
metaformosi.
È la mattina di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, verso mezzogiorno.
È la mattina di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, verso mezzogiorno.
Bestemmia di Vanni Fucci. Il centauro Caco (1-33)
Terminata la sua profezia, Vanni Fucci solleva le mani in un gesto scurrile e pronuncia una bestemmia contro Dio, per cui una serpe gli si avvolge intorno al collo e lo strozza, mentre un'altra gli lega le braccia in modo da impedirgli qualunque movimento. Dante prorompe in una violenta invettiva contro Pistoia, patria del ladro, che dovrebbe incenerirsi da sé visto che ha dato i natali al dannato più superbo che il poeta abbia visto all'Inferno, persino più di Capaneo. Vanni si allontana e Dante vede avvicinarsi un centauro pieno d'ira, che insegue il ladro con l'intenzione di punirlo. Il mostro ha sulle spalle un'incredibile massa di serpenti e un drago che erutta fuoco contro chiunque incontri. Virgilio spiega a Dante che si tratta di Caco, che spesso commise rapine e omicidi presso l'Aventino e non è insieme ai suoi fratelli centauri per il furto che compì ai danni di Ercole, che lo uccise a colpi di clava.
I tre ladri fiorentini. Metamorfosi di Agnello Brunelleschi (34-78)
G. Doré, Le metamorfosi dei ladri
Mentre Virgilio parla e Caco si allontana, tre dannati vengono sotto i due poeti che non se ne accorgono se non quando sentono uno dei tre chiedere loro a gran voce chi siano. I due tacciono e li osservano: Dante non li riconosce, ma per caso uno dei tre si chiede dove sia rimasto Cianfa e il poeta capisce che sono fiorentini, per cui prega Virgilio di restare in silenzio. Ciò che poi Dante descrive è tale da suscitare incredulità nel lettore, ma il poeta è il primo ad avere dubbi nel riferire ciò che ha visto: un serpente a sei piedi si avventa su uno dei tre ladri e gli si aggrappa attorno, aderendo al ventre coi piedi di mezzo e alle braccia con quelli anteriori, mordendo poi entrambe le guance; appoggia i piedi posteriori alle cosce, mettendo la coda in mezzo ad esse e distendendola su per la schiena. Il mostro aderisce al dannato come l'edera abbarbicata a un albero, quindi i due esseri si scaldano e si fondono in una sola creatura, proprio come il papiro cui si appicca il fuoco e che cambia colore a poco a poco, passando gradualmente dal bianco al nero. Gli altri due dannati osservano e dicono al compagno, Agnello Brunelleschi, che si sta tramutando mirabilmente.
La metamorfosi prosegue e ormai i due esseri sono fusi in una sola creatura, con le braccia umane e i piedi posteriori del serpente che diventano due membra, mentre tutte le altri parti del corpo assumono un aspetto mai visto. Il mostro è diventato qualcosa di ben diverso dai due esseri originari e se ne va con passo lento.
La metamorfosi prosegue e ormai i due esseri sono fusi in una sola creatura, con le braccia umane e i piedi posteriori del serpente che diventano due membra, mentre tutte le altri parti del corpo assumono un aspetto mai visto. Il mostro è diventato qualcosa di ben diverso dai due esseri originari e se ne va con passo lento.
Trasformazione del Guercio e di Buoso Donati (79-135)
D'improvviso un serpentello acceso d'ira, simile al ramarro che sotto il sole estivo cambia siepe e attraversa la via come un fulmine, nero come un granello di pepe, si avvicina al ventre degli altri due (il serpente è Buoso Donati, gli altri sono il Guercio e Puccio Sciancato) e trafigge il primo all'ombelico, cadendo disteso davanti a lui. Il dannato resta istupidito, come assalito dalla febbre, guardandosi a vicenda col serpente mentre esce del fumo dalla piaga del dannato e dalla bocca del serpente, che si mescola. Lucano farebbe meglio a tacere, là dove nella Pharsalia narra delle metamorfosi di Sabello e Nasidio, così come Ovidio là dove nelle Metamorfosi descrive la trasformazione di Cadmo e Aretusa rispettivamente in serpente e in fonte, poiché non ha mai narrato la contemporanea trasmutazione di due esseri l'uno di fronte all'altro come si appresta a fare Dante. Infatti il serpente divide la coda in due, l'uomo unisce i piedi e congiunge le cosce in modo tale che diventano subito una cosa sola; la coda del serpente divisa in due prende forma di gambe umane, ammorbidendo la pelle mentre quella dell'uomo si indurisce. Le braccia dell'uomo si ritirano nelle ascelle, mentre i piedi del serpente si allungano e quelli posteriori si uniscono a formare il membro virile, mentre quello dell'uomo si divide in due. Uno si copre di peli, l'altro li perde; uno si alza e l'altro cade a terra, senza però che entrambi smettando di fissarsi con gli occhi maligni. L'essere in piedi ritrae il muso verso le tempie e fa uscire ai lati le orecchie, formando poi naso e labbra; quello a terra sporge in avanti il muso e ritrae le orecchie, come la lumaca fa con le corna, e divide in due la lingua mentre quella dell'altro si unisce.
Fine della metamorfosi e presentazione dei ladri (136-151)
P. Della Quercia, I ladri
Lo spirito trasformatosi in serpente striscia via sibilando, mentre l'altro divenuto uomo lo insegue sputando e poi si volta verso il terzo ladro, dicendo di volere che il compagno di pena, Buoso Donati, strisci come ha fatto lui fino a quel momento. Così Dante ha assistito alle mutazioni dei ladri della VII Bolgia, che la sua penna ha descritto in modo forse imperfetto per la novità del tema; e anche se i suoi occhi hanno osservato confusi quell'orribile spettacolo, non ha potuto fare a meno di riconoscere Puccio Sciancato nel solo dannato che non ha subìto metamorfosi, mentre il serpente divenuto uomo è Francesco dei Cavalcanti, detto il Guercio.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude l'ampia parentesi dedicata ai ladri della VII Bolgia dell'VIII Cerchio, in cui Dante descrive le orribili trasformazioni subite da alcuni fiorentini e gareggia orgogliosamente con i maggiori poeti classici che trattarono il tema, Lucano e Ovidio. L'episodio si può dividere in tre parti, che hanno come protagonisti Vanni Fucci e Caco (vv. 1-33), Agnello Brunelleschi (34-78), Buoso e il Guercio che si mutano nello stesso tempo (79-151).
L'apertura vede ancora il ladro di Pistoia che conclude la sua profezia di sventura facendo un gesto osceno rivolto a Dio e pronunciando in modo empio il suo nome, per cui i serpenti gli bloccano subito bocca e braccia. È la degna conclusione dell'episodio che ha per protagonista Vanni Fucci, definito da Dante il dannato più superbo da lui visto all'Inferno (persino più di Capaneo, anche lui bestemmiatore ma che non aveva pronunciato direttamente il nome di Dio come fa qui il ladro, cosa che all'Inferno non avviene quasi mai). Il commento del poeta è un'apostrofe contro Pistoia, che anticipa quella contro Pisa di Inf., XXXIII, 151-153 e trae origine sia dagli odi municipali che opponevano i Comuni del Trecento, sia dalla leggenda che voleva Pistoia fondata dai superstiti dell'esercito di Catilina, per cui Dante osserva che la città supera 'n mal fare i suoi progenitori. Compare poi il personaggio di Caco che sembra inseguire Vanni per punirlo ulteriormente: è Virgilio a presentarlo, descrivendolo come un centauro e spiegando che il suo destino è diverso dai suoi fratelli in quanto sconta il furto della mandria che Ercole aveva a sua volta sottratto a Gerione, furto che l'eroe aveva punito uccidendolo. Caco è molto probabilmente un dannato e porta sulle spalle una gran massa di bisce e un drago che emette fiamme, mentre la sua trasformazione in centauro crea non pochi problemi dal momento che il personaggio nel mito classico (Eneide di Virgilio, Metamorfosi di Ovidio) è una specie di gigante che erutta fiamme e nulla ha a che fare coi centauri. Può darsi che Dante lo abbia associato ai centauri che una tradizione voleva uccisi da Ercole anziché da Teseo, come peraltro Dante afferma in Purg., XXIV, 121-123, oppure che all'origine vi sia la confusione di qualche commentatore medievale, come potrebbe essere avvenuto per lo stesso Gerione. Non stupisce che sia collocato in questa zona dell'Inferno, dato che Virgilio lo descrive appunto nell'Eneide come un feroce ladro e assassino.
La seconda e la terza parte del Canto vedono invece altri protagonisti, ovvero quattro ladri fiorentini (cinque, contando Cianfa Donati che non compare direttamente) che subiscono orribili metamorfosi serpentine: dapprima è Agnolo Brunelleschi che, assalito da un serpente a sei piedi, si fonde con lui in un solo essere, poi il Guercio è assalito da un serpentello (Buoso Donati) e i due si tramutano rispettivamente da uomo in serpente e da serpente in uomo. Il passo è un pezzo di bravura, in cui Dante non solo si ispira ad analoghi brani di Lucano e Ovidio, ma addirittura gareggia coi modelli latini e afferma orgogliosamente di volerli superare, data la novità del tema mai trattato prima d'ora. Lucano e Ovidio erano del resto già citati nel Canto precedente, con l'accenno ai serpenti del deserto di Libia attraversato dai soldati di Catone (in Phars., IX, 710 ss.) e la descrizione della fenice per rappresentare la mutazione di Vanni Fucci, tratta da Met., XV, 392 ss.; ora i due poeti sono chiamati in causa direttamente al momento della descrizione della doppia trasformazione, in quanto i due avevano descritto delle singole trasformazioni (Lucano quella dei soldati Sabello e Nasidio morsi dai serpenti del deserto di Libia, Ovidio quelle di Cadmo e Aretusa tramutati rispettivamente in serpente e in fonte, Met., IV, 563-603, V, 572-641) ma mai una duplice parallela metamorfosi di due esseri come Dante farà nei versi seguenti. C'è nel poeta moderno l'orgogliosa consapevolezza della propria superiorità stilistica, ma anche la coscienza dell'assoluta novità della materia trattata, dal momento che questo è il poema sacro che descrive lo stato delle anime dopo la morte e al quale hanno posto mano e cielo e terra, cioè l'ispirazione divina e Dante stesso con la sua maestria poetica. L'autore premette alla descrizione le scuse al lettore se scriverà qualcosa di incredibile e alla fine si scuserà ancora se la sua penna ha trattato in modo impreciso e poco chiaro qualcosa di assolutamente mai visto, con un atteggiamento che non è di falsa modestia ma anticipa il tema della inesprimibilità della visione che sarà dominante nel Paradiso, proprio a causa dell'altezza sproporzionata delle cose vedute.
L'orgogliosa affermazione della propria bravura è, in ogni caso, conseguente al discorso sulla fama che aveva occupato buona parte del Canto precedente e che aveva dominato la faticosa scalata lungo la parete della VI Bolgia: Virgilio aveva spronato Dante a darsi da fare per acquistare la fama, senza la quale la vita dell'uomo non ha molto valore, e qui tale fama si concretizza come quella poetica, che Dante a buon diritto può reclamare come l'autore di una straordinaria opera di poesia. In quest'ottica l'affermazione della propria superiorità sui poeti antichi si spiega perfettamente e non pare in contrasto col pensiero per cui la fama mondana è solo un soffio di vento, destinato a passare rapidamente (cfr. Purg., XI, 100 ss.): quella è la fama legata ad opere unicamente terrene, la fama che Dante si attende è quella imperitura che deriva da un'opera (la Commedia) che egli scrive sotto dettatura divina, su un tema mai trattato prima d'ora.
L'apertura vede ancora il ladro di Pistoia che conclude la sua profezia di sventura facendo un gesto osceno rivolto a Dio e pronunciando in modo empio il suo nome, per cui i serpenti gli bloccano subito bocca e braccia. È la degna conclusione dell'episodio che ha per protagonista Vanni Fucci, definito da Dante il dannato più superbo da lui visto all'Inferno (persino più di Capaneo, anche lui bestemmiatore ma che non aveva pronunciato direttamente il nome di Dio come fa qui il ladro, cosa che all'Inferno non avviene quasi mai). Il commento del poeta è un'apostrofe contro Pistoia, che anticipa quella contro Pisa di Inf., XXXIII, 151-153 e trae origine sia dagli odi municipali che opponevano i Comuni del Trecento, sia dalla leggenda che voleva Pistoia fondata dai superstiti dell'esercito di Catilina, per cui Dante osserva che la città supera 'n mal fare i suoi progenitori. Compare poi il personaggio di Caco che sembra inseguire Vanni per punirlo ulteriormente: è Virgilio a presentarlo, descrivendolo come un centauro e spiegando che il suo destino è diverso dai suoi fratelli in quanto sconta il furto della mandria che Ercole aveva a sua volta sottratto a Gerione, furto che l'eroe aveva punito uccidendolo. Caco è molto probabilmente un dannato e porta sulle spalle una gran massa di bisce e un drago che emette fiamme, mentre la sua trasformazione in centauro crea non pochi problemi dal momento che il personaggio nel mito classico (Eneide di Virgilio, Metamorfosi di Ovidio) è una specie di gigante che erutta fiamme e nulla ha a che fare coi centauri. Può darsi che Dante lo abbia associato ai centauri che una tradizione voleva uccisi da Ercole anziché da Teseo, come peraltro Dante afferma in Purg., XXIV, 121-123, oppure che all'origine vi sia la confusione di qualche commentatore medievale, come potrebbe essere avvenuto per lo stesso Gerione. Non stupisce che sia collocato in questa zona dell'Inferno, dato che Virgilio lo descrive appunto nell'Eneide come un feroce ladro e assassino.
La seconda e la terza parte del Canto vedono invece altri protagonisti, ovvero quattro ladri fiorentini (cinque, contando Cianfa Donati che non compare direttamente) che subiscono orribili metamorfosi serpentine: dapprima è Agnolo Brunelleschi che, assalito da un serpente a sei piedi, si fonde con lui in un solo essere, poi il Guercio è assalito da un serpentello (Buoso Donati) e i due si tramutano rispettivamente da uomo in serpente e da serpente in uomo. Il passo è un pezzo di bravura, in cui Dante non solo si ispira ad analoghi brani di Lucano e Ovidio, ma addirittura gareggia coi modelli latini e afferma orgogliosamente di volerli superare, data la novità del tema mai trattato prima d'ora. Lucano e Ovidio erano del resto già citati nel Canto precedente, con l'accenno ai serpenti del deserto di Libia attraversato dai soldati di Catone (in Phars., IX, 710 ss.) e la descrizione della fenice per rappresentare la mutazione di Vanni Fucci, tratta da Met., XV, 392 ss.; ora i due poeti sono chiamati in causa direttamente al momento della descrizione della doppia trasformazione, in quanto i due avevano descritto delle singole trasformazioni (Lucano quella dei soldati Sabello e Nasidio morsi dai serpenti del deserto di Libia, Ovidio quelle di Cadmo e Aretusa tramutati rispettivamente in serpente e in fonte, Met., IV, 563-603, V, 572-641) ma mai una duplice parallela metamorfosi di due esseri come Dante farà nei versi seguenti. C'è nel poeta moderno l'orgogliosa consapevolezza della propria superiorità stilistica, ma anche la coscienza dell'assoluta novità della materia trattata, dal momento che questo è il poema sacro che descrive lo stato delle anime dopo la morte e al quale hanno posto mano e cielo e terra, cioè l'ispirazione divina e Dante stesso con la sua maestria poetica. L'autore premette alla descrizione le scuse al lettore se scriverà qualcosa di incredibile e alla fine si scuserà ancora se la sua penna ha trattato in modo impreciso e poco chiaro qualcosa di assolutamente mai visto, con un atteggiamento che non è di falsa modestia ma anticipa il tema della inesprimibilità della visione che sarà dominante nel Paradiso, proprio a causa dell'altezza sproporzionata delle cose vedute.
L'orgogliosa affermazione della propria bravura è, in ogni caso, conseguente al discorso sulla fama che aveva occupato buona parte del Canto precedente e che aveva dominato la faticosa scalata lungo la parete della VI Bolgia: Virgilio aveva spronato Dante a darsi da fare per acquistare la fama, senza la quale la vita dell'uomo non ha molto valore, e qui tale fama si concretizza come quella poetica, che Dante a buon diritto può reclamare come l'autore di una straordinaria opera di poesia. In quest'ottica l'affermazione della propria superiorità sui poeti antichi si spiega perfettamente e non pare in contrasto col pensiero per cui la fama mondana è solo un soffio di vento, destinato a passare rapidamente (cfr. Purg., XI, 100 ss.): quella è la fama legata ad opere unicamente terrene, la fama che Dante si attende è quella imperitura che deriva da un'opera (la Commedia) che egli scrive sotto dettatura divina, su un tema mai trattato prima d'ora.
Note e passi controversi
Il v. 2 indica il gesto scurrile di Vanni Fucci, che alza le mani mettendo il pollice tra l'indice e il medio piegati, in segno di scherno. Le parole del ladro vogliono dire: «Prendi, Dio, poiché le dirigo verso di te».
Il v. 12 allude alle mitiche origini di Pistoia, che sarebbe stata fondata dai superstiti dell'esercito di Catilina.
Il grande armento (v. 30) che Caco sottrasse a Ercole era la mandria di Gerione, che l'eroe portava con sé dalla Spagna.
Il papiro del v. 65 è quasi certamente il foglio di carta, ma alcuni lo hanno interpretato come il lucignolo della candela (che però brucia dall'alto verso il basso e non viceversa come dice Dante).
La fusione dei due esseri in uno solo (vv. 60-69) ricorda quella della ninfa Salmace e di Ermafrodito in Ovidio, Met., IV, 378 ss: nec duo sunt sed forma duplex, nec femina dici / nec puer ut possit; neutrumque et utrumque videtur («non sono più due ma una forma doppia, e non si possono più definire una femmina e un giovane; sono l'uno e l'altro, pur non sembrando nessuno dei due»). Anche i vv. 71-72 ricordano Met., IV, 373-375: nam mixta duorum / corpora iunguntur faciesque inducitur illis / una («infatti i corpi dei due si uniscono e i due assumono un solo aspetto»).
Il v. 73 vuol dire probabilmente che le due braccia umane e le due zampe posteriori del serpente (le quattro liste) si fondono in due membra, ma l'espressione non è molto chiara.
Casso (vv. 74 e 76) è rima equivoca e significa rispettivamente «petto» e «cancellato».
Al v. 83 acceso vuol dire probabilmente «acceso d'ira», ma potrebbe indicare che «emette fuoco», anche se è poco probabile.
Sabello e Nasidio (v. 95 ) sono due soldati dell'esercito di Catone, che durante la traversata del deserto di Libia (Phars., IX, 761-804) vengono morsi da serpenti e subiscono orrende metamorfosi (Sabello è ridotto in cenere, Nasidio gonfia sino a spezzare la corazza e il suo corpo si riduce a una massa informe).
Cadmo (v. 97) era il mitico fondatore di Tebe, trasformatosi in serpente (Met., IV, 563 ss.); Aretusa era una ninfa che, inseguita da Alfeo, fu tramutata in fonte (Met., V, 572 ss.).
Le orme (V. 105) sono i piedi, per metonimia (effetto per la causa).
Le lucerne empie (v. 122) sono gli occhi maligni dei due dannati.
Al v. 144 il verbo abborrare significa «abboracciare», «scrivere alla buona» (da borra, «imbottitura di lana», con cui si indicava il buttare le cose alla rinfusa). Fior vuol dire «un po'» ed è frequente nella lingua delle Origini.
Il v. 12 allude alle mitiche origini di Pistoia, che sarebbe stata fondata dai superstiti dell'esercito di Catilina.
Il grande armento (v. 30) che Caco sottrasse a Ercole era la mandria di Gerione, che l'eroe portava con sé dalla Spagna.
Il papiro del v. 65 è quasi certamente il foglio di carta, ma alcuni lo hanno interpretato come il lucignolo della candela (che però brucia dall'alto verso il basso e non viceversa come dice Dante).
La fusione dei due esseri in uno solo (vv. 60-69) ricorda quella della ninfa Salmace e di Ermafrodito in Ovidio, Met., IV, 378 ss: nec duo sunt sed forma duplex, nec femina dici / nec puer ut possit; neutrumque et utrumque videtur («non sono più due ma una forma doppia, e non si possono più definire una femmina e un giovane; sono l'uno e l'altro, pur non sembrando nessuno dei due»). Anche i vv. 71-72 ricordano Met., IV, 373-375: nam mixta duorum / corpora iunguntur faciesque inducitur illis / una («infatti i corpi dei due si uniscono e i due assumono un solo aspetto»).
Il v. 73 vuol dire probabilmente che le due braccia umane e le due zampe posteriori del serpente (le quattro liste) si fondono in due membra, ma l'espressione non è molto chiara.
Casso (vv. 74 e 76) è rima equivoca e significa rispettivamente «petto» e «cancellato».
Al v. 83 acceso vuol dire probabilmente «acceso d'ira», ma potrebbe indicare che «emette fuoco», anche se è poco probabile.
Sabello e Nasidio (v. 95 ) sono due soldati dell'esercito di Catone, che durante la traversata del deserto di Libia (Phars., IX, 761-804) vengono morsi da serpenti e subiscono orrende metamorfosi (Sabello è ridotto in cenere, Nasidio gonfia sino a spezzare la corazza e il suo corpo si riduce a una massa informe).
Cadmo (v. 97) era il mitico fondatore di Tebe, trasformatosi in serpente (Met., IV, 563 ss.); Aretusa era una ninfa che, inseguita da Alfeo, fu tramutata in fonte (Met., V, 572 ss.).
Le orme (V. 105) sono i piedi, per metonimia (effetto per la causa).
Le lucerne empie (v. 122) sono gli occhi maligni dei due dannati.
Al v. 144 il verbo abborrare significa «abboracciare», «scrivere alla buona» (da borra, «imbottitura di lana», con cui si indicava il buttare le cose alla rinfusa). Fior vuol dire «un po'» ed è frequente nella lingua delle Origini.
TestoAl fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche, gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». 3 Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch’una li s’avvolse allora al collo, come dicesse ’Non vo’ che più diche’; 6 e un’altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi, che non potea con esse dare un crollo. 9 Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d’incenerarti sì che più non duri, poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi? 12 Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da’ muri. 15 El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». 18 Maremma non cred’io che tante n’abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia. 21 Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l’ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s’intoppa. 24 Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, che sotto ’l sasso di monte Aventino di sangue fece spesse volte laco. 27 Non va co’ suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch’elli ebbe a vicino; 30 onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d’Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece». 33 Mentre che sì parlava, ed el trascorse e tre spiriti venner sotto noi, de’ quali né io né ’l duca mio s’accorse, 36 se non quando gridar: «Chi siete voi?»; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi. 39 Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l’un nomar un altro convenette, 42 dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento, mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 45 Se tu se’ or, lettore, a creder lento ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. 48 Com’io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. 51 Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia, e con li anterior le braccia prese; poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 54 li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra ’mbedue, e dietro per le ren sù la ritese. 57 Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l’orribil fiera per l’altrui membra avviticchiò le sue. 60 Poi s’appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 63 come procede innanzi da l’ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e ’l bianco more. 66 Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! Vedi che già non se’ né due né uno». 69 Già eran li due capi un divenuti, quando n’apparver due figure miste in una faccia, ov’eran due perduti. 72 Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso divenner membra che non fuor mai viste. 75 Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l’imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo. 78 Come ’l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa, 81 sì pareva, venendo verso l’epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe; 84 e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l’un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso. 87 Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse; anzi, co’ piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l’assalisse. 90 Elli ’l serpente, e quei lui riguardava; l’un per la piaga, e l’altro per la bocca fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 93 Taccia Lucano ormai là dove tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch’or si scocca. 96 Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio; ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo ’nvidio; 99 ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch’amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte. 102 Insieme si rispuosero a tai norme, che ’l serpente la coda in forca fesse, e il feruto ristrinse insieme l’orme. 105 Le gambe con le cosce seco stesse s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse. 108 Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura. 111 Io vidi intrar le braccia per l’ascelle, e i due piè de la fiera, ch’eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle. 114 Poscia li piè di retro, insieme attorti, diventaron lo membro che l’uom cela, e ’l misero del suo n’avea due porti. 117 Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela di color novo, e genera ’l pel suso per l’una parte e da l’altra il dipela, 120 l’un si levò e l’altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso. 123 Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie, e di troppa matera ch’in là venne uscir li orecchi de le gote scempie; 126 ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne. 129 Quel che giacea, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; 132 e la lingua, ch’avea unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 135 L’anima ch’era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l’altro dietro a lui parlando sputa. 138 Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra, com’ho fatt’io, carpon per questo calle». 141 Così vid’io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra. 144 E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l’animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 147 ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni. 151 |
ParafrasiQuand'ebbe finito di parlare, il ladro alzò entrambe le mani col pollice tra l'indice e il medio, gridando: «Prendi, Dio, poiché le rivolgo a te!»
Da quel momento le serpi mi furono amiche, perché una gli si attorcigliò al collo come a dire: "Non voglio che tu dica altro"; e un'altra lo legò attorno alle braccia, annodandosi strettamente davanti, al punto che non poteva fare un solo movimento. Ahimè, Pistoia, perché non stabilisci di incenerirti così da non durare più oltre, dal momento che superi con le tue malefatte i tuoi progenitori? In tutti i Cerchi oscuri dell'Inferno non vidi mai uno spirito tanto superbo contro Dio, neppure quello che cadde giù dalle mura di Tebe (Capaneo). Vanni Fucci fuggì via senza dire altro; e io vidi un centauro pieno d'ira, che lo chiamava: «Dov'è, dov'è quell'empio?» Non credo che la Maremma abbia tante bisce quante erano quelle che lui aveva sulla groppa, là dove inizia l'aspetto umano. Sulle spalle, dietro la nuca, gli giaceva un drago con le ali aperte; e quello infiamma chiunque incontri. Il mio maestro disse: «Quello è Caco, che sotto la rupe dell'Aventino spesso produsse un lago di sangue (commise molti omicidi). Non è insieme agli altri centauri suoi fratelli per il furto che compì fraudolento ai danni della grande mandria che aveva vicina; per cui le sue opere malefiche ebbero fine sotto la mazza di Ercole, che forse gli diede cento colpi e lui morì prima del decimo». Mentre Virgilio parlava così e Caco si fu allontanato, tre spiriti vennero sotto di noi e nessuno di noi due se ne accorse, se non quando gridarono: «Voi chi siete?»; allora smettemmo di parlare e prestammo loro attenzione. Io non li riconobbi; ma poi accadde, come suole accadere per caso, che uno nominò un altro, dicendo: «Cianfa dove sarà rimasto?»; allora io mi misi l'indice dritto dal mento al naso, per indurre il maestro a stare in silenzio e attento. Se adesso, lettore, tu sarai restio a credere ciò che ti dirò, non dovrai stupirtene, dal momento che io stesso credo a stento a quello che vidi coi miei occhi. Mentre io li guardavo attentamente, un serpente a sei piedi assalì uno di loro e si aggrappò tutto al dannato. Coi piedi di mezzo gli si attaccò al ventre, con gli anteriori afferrò le braccia; poi gli morse entrambe le guance; distese i piedi posteriori sulle cosce e mise la coda in mezzo a entrambe, stendendola in alto lungo la schiena. L'edera non si abbarbicò mai ad un albero come l'orribile serpente era avviticchiato alle membra del dannato. Poi si incollarono l'uno all'altro, come se fossero stati di cera fusa, e mischiarono il loro colore, per cui nessuno dei due sembrava più quello che era prima: come quando si dà fuoco a una carta bianca, davanti alla fiamma avanza verso l'alto un colore bruno che non è più bianco e non è ancora nero. Gli altri due guardavano e ognuno gridava: «Ahimè, Agnello, come ti trasformi! Vedi che non sei più un solo individuo, e non ancora due». Ormai le due teste erano diventate una sola, quando ci apparvero le due figure mescolate in una faccia, dove i due aspetti si erano fusi insieme. Le quattro membra si fecero due sole braccia; le cosce, le gambe, il ventre e il petto diventarono membra che non si sono mai viste. Ogni aspetto iniziale era ormai cancellato: l'orribile immagine sembrava due e nessuno; e quell'essere si allontanò a passi lenti. Come il ramarro, cambiando siepe sotto il sole estivo, sembra un fulmine quando attraversa la via, così sembrava un serpentello acceso d'ira che veniva verso il ventre degli altri due, livido e nero come un granello di pepe; ed esso morse uno dei due in quella parte (ombelico) da dove assumiamo il nostro primo alimento; poi il serpente cadde disteso a terra davanti a lui. Il dannato, morso, lo osservò senza dire nulla; anzi, tenendo i piedi fermi sbadigliava come se fosse colpito dal sonno o dalla febbre. Egli guardava il serpente e quello guardava lui; entrambi emettevano fumo, il dannato dalla piaga e il serpente dalla bocca, e il fumo si mescolava. Lucano farebbe meglio a tacere, là dove scrive del misero Sabello e di Nasidio, e stia attento a quel che si sta per narrare qui. Ovidio non dica più nulla di Cadmo e di Aretusa, perché se nei suoi versi trasforma quello in serpente e quella in fonte, non lo invidio di certo; infatti non tramutò mai due figure l'una di fronte all'altra, così che entrambe le forme fossero pronte a cambiare la loro materia. I due esseri si trasformarono contemporaneamente in tal modo, che il serpente divise la coda in due, e l'uomo unì fra loro i piedi. Le gambe e le cosce si unirono in tal modo, che dopo poco tempo non vi era più alcun segno di giuntura tra le due. La coda divisa in due prendeva la forma che l'uomo perdeva, e la sua pelle si ammorbidiva mentre quella dell'uomo si induriva. Io vidi l'uomo che ritraeva le braccia nelle ascelle, e le due zampe dell'animale, che erano corte, allungarsi tanto quanto le braccia si accorciavano. Poi le zampe posteriori del serpente, attorcigliate assieme, divennero il membro che l'uomo nasconde, mentre il dannato aveva il suo diviso in due. Mentre il fumo copriva entrambi con un nuovo colore, generando pelo su uno dei due e levandolo all'altro, uno dei due si alzò e l'altro cadde a terra, senza però che entrambi smettessero di fissarsi con gli occhi maligni sotto i quali ognuno cambiava il proprio muso. L'essere in piedi ritirò il muso verso le tempie, e della materia in sovrappiù uscirono due orecchie sulle gote che non le avevano; ciò che non ritrasse di quella materia in eccesso formò naso e labbra in quella faccia e si ingrandì tanto quanto era necessario. L'essere a terra sporse in avanti il muso e ritirò le orecchie nella testa, come la lumaca ritira le corna; e la lingua, che prima aveva unita e pronta a parlare, si divise in due, mentre quella biforcuta dell'altro si chiuse; il fumo cessò. L'anima che era divenuta serpente fuggì via per la Bolgia sibilando, mentre l'altro lo seguì parlando e sputando. Poi gli rivolse le spalle appena formate e disse all'altro: «Voglio che Buoso corra carponi per questo luogo, come ho fatto io». Così vidi i ladri della VII Bolgia cambiare e trasformarsi; e qui chiedo scusa se la mia penna abbozza un poco, a causa della assoluta novità. E anche se i miei occhi erano alquanto confusi e il mio animo smarrito, quei dannati non poterono fuggire via di nascosto senza che io riconoscessi Puccio Sciancato; ed era il solo a non essersi trasformato dei tre compagni che prima era venuti lì; l'altro era quello di cui tu, Gaville, ti lamenti. |