Paradiso, Canto XXVIII
W. Blake, Gerarchie angeliche
...un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume...
L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla...
"... Questi ordini di sù tutti s'ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano..."
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume...
L'incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla...
"... Questi ordini di sù tutti s'ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano..."
Argomento del Canto
Ancora nel IX Cielo (Primo Mobile). Dante vede un punto luminosissimo, circondato da nove cerchi luminosi. Beatrice enumera e spiega le gerarchie celesti. Distinzione fra l'angelologia di Dionigi Areopagita e Gregorio Magno.
È la sera di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È la sera di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Dante vede un punto luminosissimo e nove cerchi lucenti (1-39)
G. Doré, I cori angelici
Dopo che Beatrice ha terminato la rampogna contro la corruzione umana, Dante vede qualcosa riflesso nei suoi occhi e si volta a vedere di che si tratta, come colui che scorge in uno specchio la luce di un candeliere alle sue spalle e si gira per accertarsi della verità dell'immagine. Il poeta vede un punto talmente luminoso che chi lo guarda deve abbassare gli occhi per non restarne abbagliato, e talmente piccolo che anche la stella più fioca sembrerebbe la Luna se paragonata ad esso. Intorno al punto c'è un cerchio fiammeggiante, che ruota così rapidamente da superare la velocità pur altissima del Primo Mobile, simile all'alone che circonda un corpo celeste ed è visibile quando nel cielo ci sono spessi vapori. Il primo cerchio è circondato da un secondo, cui seguono un terzo, un quarto, un quinto, un sesto e un settimo che è talmente ampio che un intero arcobaleno non potrebbe contenerlo; esso è avvolto da un ottavo e da un nono cerchio, anch'essi molto grandi, e ciascuno di essi si muove tanto più lentamente ed è tanto meno luminoso quanto più è distante dal punto al centro.
Dubbio di Dante sull'ordine dell'Universo (40-57)
Serafini (ms. del XIV sec.)
Beatrice si accorge che Dante è tormentato da un dubbio, quindi spiega al poeta che il punto e i nove cerchi (Dio e i cori angelici) sono il principio che informa tutto l'Universo, per cui il cerchio più interno e più vicino al punto (i Serafini) si muove tanto in fretta perché maggiormente irraggiato dall'amore di Dio. Dante ribatte che, se il mondo fosse ordinato in modo conforme a ciò che ha visto, lui non avrebbe altri dubbi, ma in realtà avviene il contrario, in quanto le sfere celesti sono tanto più ampie quanto più sono lontane dal centro, ovvero dalla Terra. Quindi, se il poeta deve conoscere il rapporto tra mondo sensibile e mondo ideale, è necessario per lui capire in che modo la copia e il modello si accordino fra loro.
Beatrice spiega il rapporto tra i nove cerchi e i Cieli (58-87)
La donna non si stupisce del fatto che l'intelletto umano di Dante sia insufficiente a dirimere la questione, che non è mai stata affrontata da altri, per cui lo invita ad ascoltare attentamente la sua spiegazione. Le sfere celesti, afferma Beatrice, sono più o meno ampie a seconda della virtù maggiore o minore che essi contengono, per cui un maggior bene produce maggiore salvezza, che è a sua volta contenuta in un corpo più esteso e assolutamente perfetto. Dunque il Cielo (Primo Mobile) che, essendo più esteso, racchiude l'intero Universo, è anche quello che contiene più amore e saggezza, essendo governato dai Serafini: se Dante guarda alla virtù e non alla dimensione dei cerchi luminosi, capirà che essi sono tanto più luminosi e veloci quanto più sono vicini al centro, cioè a Dio, indipendentemente da quanto sono estesi. La spiegazione di Beatrice è tale che Dante la comprende perfettamente, come si vede il cielo limpido dopo che il vento di maestrale ha spazzato via tutte le nubi e le impurità.
Beatrice spiega il rapporto tra i nove cerchi e i Cieli (58-87)
La donna non si stupisce del fatto che l'intelletto umano di Dante sia insufficiente a dirimere la questione, che non è mai stata affrontata da altri, per cui lo invita ad ascoltare attentamente la sua spiegazione. Le sfere celesti, afferma Beatrice, sono più o meno ampie a seconda della virtù maggiore o minore che essi contengono, per cui un maggior bene produce maggiore salvezza, che è a sua volta contenuta in un corpo più esteso e assolutamente perfetto. Dunque il Cielo (Primo Mobile) che, essendo più esteso, racchiude l'intero Universo, è anche quello che contiene più amore e saggezza, essendo governato dai Serafini: se Dante guarda alla virtù e non alla dimensione dei cerchi luminosi, capirà che essi sono tanto più luminosi e veloci quanto più sono vicini al centro, cioè a Dio, indipendentemente da quanto sono estesi. La spiegazione di Beatrice è tale che Dante la comprende perfettamente, come si vede il cielo limpido dopo che il vento di maestrale ha spazzato via tutte le nubi e le impurità.
Beatrice enumera e spiega le gerarchie angeliche (88-129)
A. da Messina, Gregorio Magno
Alla fine delle parole di Beatrice, Dante vede i cerchi sfavillare come un ferro incandescente che sprizza scintille, e le luci (cioè gli angeli) sono talmente tante che il loro numero supera il raddoppiare delle caselle del gioco degli scacchi. Il poeta sente i nove cori angelici cantare «Osanna» rivolti al punto centrale, quindi Beatrice (che legge nella sua mente altri dubbi) spiega che i primi due cerchi luminosi corrispondono a Serafini e Cherubini, che ruotano velocissimi per la loro vicinanza all'amore di Dio. Il terzo cerchio è quello dei Troni, che chiudono la prima gerarchia, e la loro gioia è commisurata alla profondità della loro visione della mente divina, dal che si comprende che la beatitudine dipende prima dalla fruizione dell'aspetto divino e dopo dall'amore. L'altra gerarchia che racchiude tre ordini canta eternamente «Osanna» in tre melodie distinte, ed è formata da Dominazioni, Virtù e Potestà. Il settimo e ottavo cerchio corrispondono a Principati e Arcangeli, mentre l'ultimo è formato dagli Angeli. Questi ordini angelici ammirano tutti verso l'alto, cioè verso Dio, mentre fanno sentire i loro influssi verso il basso, cioè verso la Terra, cosicché tutti sono attratti verso Dio e attraggono il mondo a sé.
Differenza tra l'angelologia di Dionigi e Gregorio Magno (130-139)
Fu Dionigi Areopagita, spiega ancora Beatrice, a contemplare nella sua meditazione questi ordini angelici e a descriverli in tal modo, mentre Gregorio Magno li elencò in un ordine differente: non appena quest'ultimo salì al Primo Mobile, si avvide del proprio errore e rise di se stesso. Dante però non deve stupirsi se Dionigi, un mortale, poté afferrare la verità su una così alta materia, in quanto egli si rifece a quanto detto da san Paolo che aveva visto queste ed altre cose durante la sua ascesa al III Cielo.
Differenza tra l'angelologia di Dionigi e Gregorio Magno (130-139)
Fu Dionigi Areopagita, spiega ancora Beatrice, a contemplare nella sua meditazione questi ordini angelici e a descriverli in tal modo, mentre Gregorio Magno li elencò in un ordine differente: non appena quest'ultimo salì al Primo Mobile, si avvide del proprio errore e rise di se stesso. Dante però non deve stupirsi se Dionigi, un mortale, poté afferrare la verità su una così alta materia, in quanto egli si rifece a quanto detto da san Paolo che aveva visto queste ed altre cose durante la sua ascesa al III Cielo.
Interpretazione complessiva
Il Canto forma con quello che segue una sorta di «dittico» dedicato alla descrizione delle gerarchie angeliche e alle loro caratteristiche, affidata naturalmente alle parole di Beatrice che dapprima, nel XXVIII, descrive ed enumera gli ordini degli angeli confutando le opinioni già espresse da Dante nel Convivio, e in seguito (XXIX) affronta questioni più dettagliate sull'angelologia, attaccando duramente i falsi predicatori che diffondono falsità e leggende su questa delicata materia. L'insolita ampiezza della trattazione può stupire il lettore moderno, ma è chiaro che l'argomento riveste un'importanza tutta particolare nella dottrina cristiana del tempo, tanto più che sugli angeli circolavano parecchie nozioni errate che qui Dante intende almeno in parte correggere: gli angeli possono essere oggetto di speculazione filosofica, ma data la loro distanza dal mondo sensibile è impossibile che la sola ragione possa giungere a conclusioni attendibili sulla loro natura e le loro caratteristiche, per cui deve intervenire la rivelazione come fonte privilegiata di conoscenza (non a caso Beatrice cita proprio san Paolo che vide coi suoi occhi ciò che Dante stesso vede nel Primo Mobile, mentre le sue affermazioni nel Convivio si rivelano inesatte come quelle di Gregorio Magno). Il Canto si apre infatti con la visione da parte del poeta di un punto infinitamente piccolo e luminosissimo, circondato da nove cerchi fiammeggianti che raffigurano Dio e gli ordini angelici: il poeta ne scorge in realtà il riflesso negli occhi di Beatrice-teologia, per poi voltarsi a osservare lo spettacolo direttamente (che è come dire che la dottrina rivelata ci fornisce un'ombra di verità su qualcosa che è impossibile comprendere col solo intelletto), e li descrive come tanto più veloci e lucenti quanto più si avvicinano al centro, cioè all'amore divino. È molto discusso se Dante veda i cori angelici nel Primo Mobile o nell'Empireo attraverso la sfera trasparente del IX Cielo, oppure se tale visione sia infusa da Dio direttamente nella sua mente, ma quel che è certo è che la struttura di tale spettacolo suscita dubbi nel poeta, in quanto ciò che dev'essere il modello ideale per il mondo sensibile (ed è Beatrice stessa poco oltre a confermare questa corrispondenza) sembra differente rispetto alla struttura dell'Universo, in cui i Cieli sono tanto più ampi quanto più si allontanano dalla Terra. È ovviamente Beatrice a sciogliere il dubbio con la prima parte della sua spiegazione, su un argomento che non è mai stato affrontato prima da nessuno e per il quale l'intelletto di Dante è di per sé insufficiente: la soluzione sta nel fatto che non conta la dimensione dei cerchi luminosi, ma la maggiore o minore vicinanza a Dio, per cui non è strano che le sfere celesti (che sono corpi fisici, mentre le intelligenze angeliche sono esseri spirituali) siano tanto più ampie quanto maggiore è la virtù che contengono, fino al Primo Mobile che racchiude l'intero Universo sensibile. La spiegazione è tutt'altro che banale, in quanto illustra il rapporto tra mondo ideale e mondo fisico, giustificando in fondo la struttura che costituisce l'impalcatura dottrinale dell'intero poema: più avanti Beatrice aggiungerà che ogni ordine angelico guarda a Dio come suo principio, diffondendo poi sulla Terra il proprio benefico influsso, per cui tutti tirati sono e tutti tirano (su questo rapporto di amore e virtù si regge tutto l'Universo, in quanto la gioia delle intelligenze angeliche è commisurata alla profondità con cui fruiscono della visione di Dio, e la loro letizia si riverbera poi su tutti gli elementi del Creato). L'importanza della disquisizione di Beatrice è sottolineata dalla complessa similitudine con cui Dante descrive la chiarezza che si produce nella sua mente, per cui come stella in cielo il ver si vide, che è anche l'alta coscienza di aver affrontato e sciolto un nodo dottrinale mai tentato prima da alcuno, nel che si ritrova il motivo del primus ego che tornerà varie volte nel finale di Cantica e soprattutto nel Canto XXXIII.
La seconda parte della spiegazione riguarda l'esatto ordine delle intelligenze angeliche e, dunque, dei Cieli che esse governano, materia nella quale Dante corregge le precedenti affermazioni di Conv., II, 5: lì il poeta si era rifatto alle teorie angelologiche di san Gregorio Magno, il quale però era in errore in quanto aveva basato il suo ragionamento solo sulla filosofia e non sulla verità rivelata, come invece fece Dionigi Areopagita (cui si attribuiva il De coelesti Hierarchia) a sua volta seguendo la testimonianza di san Paolo. Quest'ultimo vide gli ordini angelici coi propri occhi quando venne rapito in estasi in Cielo, esattamente come li vede ora Dante e come li vide lo stesso Gregorio dopo la morte, ridendo del proprio errore: per l'ennesima volta Dante ribadisce l'insufficienza della sola ragione nel dirimere complesse questioni dottrinali, che possono essere oggetto di fede ma non sempre di indagine filosofica, per cui solo nell'Oltretomba vedremo sensibilmente ciò che qui, sulla Terra, è invisibile e pertanto indimostrabile secondo i procedimenti della speculazione. Tale spiegazione anticipa quelle più dettagliate che seguiranno nel Canto XXIX circa il numero degli angeli, la loro natura e le loro facoltà, volte anch'esse a ribadire che solo la rivelazione può dire una parola definitiva su argomenti tanto delicati e a condannare le vanità di filosofi e predicatori senza scrupoli: bersaglio polemico di Beatrice saranno non solo i ciarlatani che diffondono fole su questioni dottrinali, ma anche i cattivi filosofi che vaneggiano con eccessiva leggerezza su materie di questo tipo e finiscono, più o meno volutamente, per distorcere la parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture. È chiaro che fra essi non va incluso Gregorio Magno e neppure Dante, che pure nella sua indagine filosofica precedente il poema espresse varie opinioni errate, ma questo richiamo sembra un chiaro riferimento al suo «traviamento» intellettuale che è alla base della Commedia e che poteva costargli caro sul piano della salvezza: le parole di Beatrice, qui come nel Canto seguente, rappresentano l'insegnamento veridico della teologia che sola può spazzare via i dubbi che offuscano la mente e far risplendere il vero come stella in cielo, mentre al di fuori di essa vi è spazio solamente per teorie azzardate sul piano dell'esattezza dottrinale, quando non decisamente inclini all'eresia e al distorcimento di quanto affermato nel testo sacro.
La seconda parte della spiegazione riguarda l'esatto ordine delle intelligenze angeliche e, dunque, dei Cieli che esse governano, materia nella quale Dante corregge le precedenti affermazioni di Conv., II, 5: lì il poeta si era rifatto alle teorie angelologiche di san Gregorio Magno, il quale però era in errore in quanto aveva basato il suo ragionamento solo sulla filosofia e non sulla verità rivelata, come invece fece Dionigi Areopagita (cui si attribuiva il De coelesti Hierarchia) a sua volta seguendo la testimonianza di san Paolo. Quest'ultimo vide gli ordini angelici coi propri occhi quando venne rapito in estasi in Cielo, esattamente come li vede ora Dante e come li vide lo stesso Gregorio dopo la morte, ridendo del proprio errore: per l'ennesima volta Dante ribadisce l'insufficienza della sola ragione nel dirimere complesse questioni dottrinali, che possono essere oggetto di fede ma non sempre di indagine filosofica, per cui solo nell'Oltretomba vedremo sensibilmente ciò che qui, sulla Terra, è invisibile e pertanto indimostrabile secondo i procedimenti della speculazione. Tale spiegazione anticipa quelle più dettagliate che seguiranno nel Canto XXIX circa il numero degli angeli, la loro natura e le loro facoltà, volte anch'esse a ribadire che solo la rivelazione può dire una parola definitiva su argomenti tanto delicati e a condannare le vanità di filosofi e predicatori senza scrupoli: bersaglio polemico di Beatrice saranno non solo i ciarlatani che diffondono fole su questioni dottrinali, ma anche i cattivi filosofi che vaneggiano con eccessiva leggerezza su materie di questo tipo e finiscono, più o meno volutamente, per distorcere la parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture. È chiaro che fra essi non va incluso Gregorio Magno e neppure Dante, che pure nella sua indagine filosofica precedente il poema espresse varie opinioni errate, ma questo richiamo sembra un chiaro riferimento al suo «traviamento» intellettuale che è alla base della Commedia e che poteva costargli caro sul piano della salvezza: le parole di Beatrice, qui come nel Canto seguente, rappresentano l'insegnamento veridico della teologia che sola può spazzare via i dubbi che offuscano la mente e far risplendere il vero come stella in cielo, mentre al di fuori di essa vi è spazio solamente per teorie azzardate sul piano dell'esattezza dottrinale, quando non decisamente inclini all'eresia e al distorcimento di quanto affermato nel testo sacro.
Il parallelismo tra Dante e san Paolo
A. Vanni, S. Paolo (1390)
In vari momenti chiave del poema Dante paragona se stesso a san Paolo, specie quando allude all'ascesa al III Cielo che l'Apostolo descrive nella II Epistola ai Corinzi: in Inf., II, 28-30 il poeta cita espressamente il Vas d'elezione (secondo l'espressione Vas electionis, «strumento della scelta», di Act. Ap., IX, 15) come colui che dopo Enea fu protagonista di un viaggio ultraterreno, venendo appunto rapito in estasi e condotto in Cielo, per recare conforto a quella fede / ch'è principio alla via di salvazione. Poco dopo Dante afferma di non essere né Enea né Paolo e di non sentirsi pronto ad affrontare un simile viaggio, ma Virgilio lo convincerà del contrario e che proprio lui, in forza dei suoi meriti letterari, è stato prescelto dalla Provvidenza divina all'alto compito di vedere lo stato delle anime dopo la morte e riferire la visione nella Commedia, non diversamente da quanto Paolo fece in modo allusivo nella lettera del Nuovo Testamento. Del resto anche l'avo Cacciaguida, accogliendo Dante nel V Cielo di Marte (Par., XV, 28-30), si chiede a chi oltre a lui sia stato concesso di visitare due volte il Paradiso, domanda retorica in quanto la risposta è appunto san Paolo; e più avanti, nel Cielo delle Stelle Fisse, il poeta perderà temporaneamente la vista per aver fissato troppo intensamente la luce di san Giovanni Evangelista, e sarà Beatrice a ridargliela col suo sguardo in cui, è detto esplicitamente, c'è la stessa virtù delle mani con cui Anania guarì gli occhi a san Paolo folgorato sulla via di Damasco (Par., XXVI, 10-12). Tale insistenza non è certo casuale e deriva dal fatto che analogo è il percorso affrontato dai due personaggi, peraltro molto diversi, in quanto entrambi protagonisti di una sorta di «conversione» e, in seguito, di un'eccezionale esperienza di «rivelazione» del mondo ultraterreno con la missione di riferire ogni cosa al mondo per rafforzare la fede nella vita dopo la morte: Saulo era un persecutore di Cristiani e dopo la folgorazione si convertì diventando il più zelante degli Apostoli, ma anche Dante si smarrisce nella selva oscura in seguito al suo «traviamento» e viene soccorso da Beatrice-teologia, ricevendo poi l'incarico del viaggio nei tre regni dell'Oltretomba (e specie nel Paradiso il viaggio assume i caratteri di un rapimento mistico, simile dunque all'esperienza paolina). Alla base di questo parallelismo non c'è solo l'importanza centrale del pensiero e dell'opera di Paolo nella teologia cristiana, ma anche la considerazione che la rivelazione della verità è fondamentale nella conoscenza delle cose celesti, essendo la sola speculazione filosofica insufficiente: Paolo fu rapito al III Cielo e della sua esperienza parlò una volta tornato sulla Terra, ed è ciò che fa anche Dante nel poema non limitandosi, come in fondo aveva fatto nel Convivio, ad usare la ragione come mezzo per arrivare alla verità; in Cielo vedremo coi nostri occhi quelle cose invisibili sulla Terra, che possono essere solo oggetto di fede e non sono dimostrabili con l'ausilio dell'intelletto (è la celebre definizione della fede stilata dallo stesso san Paolo e da Dante recitata a san Pietro durante l'esame di Par., XXIV) e ciò è ribadito ancora una volta nel Canto XXVIII della III Cantica, allorché Beatrice illustrerà a Dante l'esatto ordine delle gerarchie angeliche basandosi sulla catalogazione attribuita a Dionigi l'Areopagita, che a sua volta si sarebbe rifatto al suo maestro san Paolo che aveva visto quelle cose nella sua esperienza mistica. Il poema nasce da una potente e straordinaria rivelazione, elargita per grazia divina a Dante in virtù di un incredibile privilegio, ed è chiaro che l'elemento della rivelazione è al centro della stessa religione cristiana, di cui proprio Paolo aveva posto le basi teoretiche nelle Epistole del Nuovo Testamento fra cui quella in cui narrava del suo viaggio celeste (e la Commedia è un libro ispirato proprio come lo è la Bibbia, essendo il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, per cui è come se Dante ritenesse di scrivere sotto dettatura divina, non diversamente da come fece lo stesso san Paolo in quanto autore del testo sacro). Stupisce pertanto che un personaggio così importante non compaia direttamente nella descrizione della III Cantica, pur essendo tante volte evocato e addirittura accostato esplicitamente alla figura del poeta come protagonista del viaggio: non sappiamo neppure quale posto egli occupi nella rosa dei beati e questo è quanto meno sorprendente, benché non sia l'unica assenza di rilievo nella descrizione del Paradiso (un'altra è quella di san Domenico, protagonista del Canto XII ma ignorato al momento della presentazione della rosa celeste). Ignoriamo quale sia la ragione di tale scelta da parte di Dante, se non quella forse di adombrare anche in tal modo l'identificazione fra se stesso e il santo, che dunque non compare accentuando il ruolo provvidenziale assunto dal poeta: la questione è probabilmente destinata a restare insoluta, ma è innegabile che uno dei pensatori più importanti nell'impalcatura dottrinale dell'opera, almeno quanto lo è san Tommaso d'Aquino, rimane stranamente dietro le quinte e ciò costituisce uno degli enigmi della straordinaria opera dantesca (in cui, è fin troppo evidente, non tutto è chiaramente comprensibile per decisione del suo stesso autore).
Note e passi controversi
Il vb. imparadisa («esalta a gioie paradisiache», v. 3) è un probabile neologismo dantesco, affine a inciela (Par., III, 97) e impola (XXII, 67).
Il doppiero (v. 4) era una sorta di candelabro con due ceri, detto così dal lat. doplerus (cfr. Guinizelli, Al cor gentil, v. 22).
Il v. 9 vuol dire probabilmente «come il canto (nota) si accorda con la musica (metro)».
Il volume del v. 14 è il Primo Mobile, detto così in quanto avvolge tutto il Creato (esso è il real manto di tutti i volumi / del mondo, XXIII, 112-113), benché i vv. 13-15 siano variamente interpretati per la difficoltà di stabilire se il punto e i nove cerchi siano visibili a Dante nel IX Cielo, o nell'Empireo, o solo nella sua mente (molte le ipotesi a riguardo, ma nessuna davvero convincente).
Al v. 23 alo vuol dire «alone», dal lat. halos; anche igne (v. 25) è lat. per «fuoco».
Il moto che più tosto il mondo cigne (v. 27) è il movimento rapidissimo del Primo Mobile.
Al v. 32 il messo di Iuno è l'arcobaleno, ovvero la scia che secondo il mito lasciava in cielo Iride quando recava i messaggi di Giunone ai mortali sulla Terra.
Il cerchio citato al v. 43 è il più vicino a Dio, quindi corrisponde ai Serafini: il nome di queste intelligenze angeliche voleva dire «ardenti» d'amore per Dio, etimologia nota a Dante attraverso san Tommaso d'Aquino (Summa theol., I, q. LXIII: Seraphim vero denominatur ab ardore caritatis).
I vv. 53-54 indicano il IX Cielo, che ha per confine l'Empireo (solo amore e luce).
Ai vv. 55-56 essemplo ed essemplare vogliono dire «modello» e «copia», ma le opinioni sono discordi sull'esatto valore da dare ai due termini.
Al v. 64 arti è lat. per «stretti» (cfr. Purg., XXVII, 132).
Al v. 68 cape è ancora lat. per «contiene», «racchiude».
Al v. 70 costui indica il Primo Mobile; al v. 72 il cerchio che più ama e che più sape è l'ordine dei Serafini, dotati di maggior ardore di carità e maggiore sapienza, essendo gli angeli che vedono più addentro alla mente di Dio (cfr. XXI, 92).
Al v. 81 Borea indica il vento di maestrale, qui rappresentato secondo l'iconografia del Medioevo come un volto umano intento a soffiare con le guance gonfie in tre direzioni diverse: Borea soffiava il maestrale, il vento più dolce (leno), gonfiando la guancia destra.
Al v. 82 roffia è una parola usata solo qui nel poema e di difficile interpretazione: alcuni pensano a una voce toscana che indica le impurità derivanti dalla concia delle pelli, mentre altri collegano il termine all'ant. fr. roife, «crosta». In entrambi i casi, il senso è che le parole di Beatrice hanno spazzato via ogni impurità del cielo, ogni nuvolaglia.
Al v. 84 paroffia vuol dire «parte», «plaga» e deriva prob. da una voce antica per «parrocchia».
Il v. 91 è stato variamente interpretato, ma forse vuol dire solo che gli angeli seguono il proprio cerchio come scintille, senza per questo staccarsi da esso.
I vv. 92-93 alludono alla leggenda dell'inventore degli scacchi, che chiese al re persiano come ricompensa un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza, e così via, in progressione geometrica (il tema ricorre nella lett. medievale, ad esempio nel Mare amoroso e in Folchetto di Marsiglia). Il numero che si ricava è astronomico, essendo formato da venti cifre, quindi Dante intende dire che il numero degli angeli entra nelle migliaia più del raddoppiare degli scacchi, nel senso che è più alto. Sul numero degli angeli Beatrice tornerà in XXIX, 127-135.
Al v. 93 s'inmilla è neologismo dantesco, analogo a s'incinqua (IX, 40) e s'intrea (XIII, 57).
Al v. 100 i vimi sono i legami d'amore che uniscono Serafini e Cherubini a Dio.
I vv. 103-105 hanno creato difficoltà agli interpreti, perché Dante sembra dire che i Troni si chiamano così perché chiudono il primo ternaro, ovvero la prima gerarchia, cosa non spiegabile: è probabile che il v. 105 vada legato al 103, dunque la terzina vuol dire «Quelle altre intelligenze angeliche che girano intorno, per cui chiusero al momento della creazione la prima gerarchia, si chiamano 'Troni dell'aspetto divino'». Dubbi suscita anche il passato terminonno, in quanto i Troni chiudono tuttora la gerarchia e si può forse riferire al momento della loro creazione.
Nei vv. 109-111 Dante afferma, seguendo san Tommaso e discostandosi dal pensiero dei mistici, che la beatitudine si fonda sulla visione di Dio e che l'amore che ne segue è un atto successivo; anche in Mon., III, 16 il poeta aveva affermato ...beatitudinem vite eterne que consistit in fruitione divini aspectus («...la beatitudine che consiste nella fruizione della visione di Dio»).
Al v. 117 notturno Ariete indica l'autunno, quando la costellazione dell'Ariete è opposta alla posizione del Sole, per cui sorge quando il Sole tramonta e viceversa: Dante intende dire che la primavera sempiterna del Cielo (forse nel senso di «fioritura» e non della stagione) non è mai spogliata dall'autunno come sulla Terra.
Il vb. sberna (v. 118) vuol dire propriamente «esce dall'inverno» e, metaforicamente, indica il canto degli uccelli in primavera, quindi ha il significato di «canta».
Il vb. vincon (v. 128) ha il significato di «attrarre verso di sé».
I vv. 130 ss. alludono alle teorie angelologiche di Dionigi Areopagita (a lui era attribuito il trattato De coelesti Hierarchia, forse scritto nel V sec. da un filosofo neoplatonico), incluso da Dante fra gli spiriti sapienti del IV Cielo e preso a modello per l'esatto ordine delle gerarchie in quanto egli era stato discepolo di san Paolo. Da Dionigi si era allontanato Gregorio Magno, che nei Moralia citava le gerarchie nello stesso ordine seguito da Dante in Conv., II, 5, citandolo forse dal Trésor di Brunetto Latini.
I vv. 138-139 alludono a san Paolo e alla sua ascesa in Paradiso, citata anche in Inf., II, 28-30: lo pseudo-Dionigi nel De coelesti Hierarchia affermava Has autem in tres ternarios ordines digerit inclytus initiator noster... is qui ad tertium coelum evectus, ...raptus in Paradisum; magnus, inquam, Paulus («Questi ordini furono rivelati in tre gerarchie dal nostro nobile maestro, colui che fu portato al III Cielo e rapito in Paradiso; mi riferisco al grande Paolo»).
Il doppiero (v. 4) era una sorta di candelabro con due ceri, detto così dal lat. doplerus (cfr. Guinizelli, Al cor gentil, v. 22).
Il v. 9 vuol dire probabilmente «come il canto (nota) si accorda con la musica (metro)».
Il volume del v. 14 è il Primo Mobile, detto così in quanto avvolge tutto il Creato (esso è il real manto di tutti i volumi / del mondo, XXIII, 112-113), benché i vv. 13-15 siano variamente interpretati per la difficoltà di stabilire se il punto e i nove cerchi siano visibili a Dante nel IX Cielo, o nell'Empireo, o solo nella sua mente (molte le ipotesi a riguardo, ma nessuna davvero convincente).
Al v. 23 alo vuol dire «alone», dal lat. halos; anche igne (v. 25) è lat. per «fuoco».
Il moto che più tosto il mondo cigne (v. 27) è il movimento rapidissimo del Primo Mobile.
Al v. 32 il messo di Iuno è l'arcobaleno, ovvero la scia che secondo il mito lasciava in cielo Iride quando recava i messaggi di Giunone ai mortali sulla Terra.
Il cerchio citato al v. 43 è il più vicino a Dio, quindi corrisponde ai Serafini: il nome di queste intelligenze angeliche voleva dire «ardenti» d'amore per Dio, etimologia nota a Dante attraverso san Tommaso d'Aquino (Summa theol., I, q. LXIII: Seraphim vero denominatur ab ardore caritatis).
I vv. 53-54 indicano il IX Cielo, che ha per confine l'Empireo (solo amore e luce).
Ai vv. 55-56 essemplo ed essemplare vogliono dire «modello» e «copia», ma le opinioni sono discordi sull'esatto valore da dare ai due termini.
Al v. 64 arti è lat. per «stretti» (cfr. Purg., XXVII, 132).
Al v. 68 cape è ancora lat. per «contiene», «racchiude».
Al v. 70 costui indica il Primo Mobile; al v. 72 il cerchio che più ama e che più sape è l'ordine dei Serafini, dotati di maggior ardore di carità e maggiore sapienza, essendo gli angeli che vedono più addentro alla mente di Dio (cfr. XXI, 92).
Al v. 81 Borea indica il vento di maestrale, qui rappresentato secondo l'iconografia del Medioevo come un volto umano intento a soffiare con le guance gonfie in tre direzioni diverse: Borea soffiava il maestrale, il vento più dolce (leno), gonfiando la guancia destra.
Al v. 82 roffia è una parola usata solo qui nel poema e di difficile interpretazione: alcuni pensano a una voce toscana che indica le impurità derivanti dalla concia delle pelli, mentre altri collegano il termine all'ant. fr. roife, «crosta». In entrambi i casi, il senso è che le parole di Beatrice hanno spazzato via ogni impurità del cielo, ogni nuvolaglia.
Al v. 84 paroffia vuol dire «parte», «plaga» e deriva prob. da una voce antica per «parrocchia».
Il v. 91 è stato variamente interpretato, ma forse vuol dire solo che gli angeli seguono il proprio cerchio come scintille, senza per questo staccarsi da esso.
I vv. 92-93 alludono alla leggenda dell'inventore degli scacchi, che chiese al re persiano come ricompensa un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza, e così via, in progressione geometrica (il tema ricorre nella lett. medievale, ad esempio nel Mare amoroso e in Folchetto di Marsiglia). Il numero che si ricava è astronomico, essendo formato da venti cifre, quindi Dante intende dire che il numero degli angeli entra nelle migliaia più del raddoppiare degli scacchi, nel senso che è più alto. Sul numero degli angeli Beatrice tornerà in XXIX, 127-135.
Al v. 93 s'inmilla è neologismo dantesco, analogo a s'incinqua (IX, 40) e s'intrea (XIII, 57).
Al v. 100 i vimi sono i legami d'amore che uniscono Serafini e Cherubini a Dio.
I vv. 103-105 hanno creato difficoltà agli interpreti, perché Dante sembra dire che i Troni si chiamano così perché chiudono il primo ternaro, ovvero la prima gerarchia, cosa non spiegabile: è probabile che il v. 105 vada legato al 103, dunque la terzina vuol dire «Quelle altre intelligenze angeliche che girano intorno, per cui chiusero al momento della creazione la prima gerarchia, si chiamano 'Troni dell'aspetto divino'». Dubbi suscita anche il passato terminonno, in quanto i Troni chiudono tuttora la gerarchia e si può forse riferire al momento della loro creazione.
Nei vv. 109-111 Dante afferma, seguendo san Tommaso e discostandosi dal pensiero dei mistici, che la beatitudine si fonda sulla visione di Dio e che l'amore che ne segue è un atto successivo; anche in Mon., III, 16 il poeta aveva affermato ...beatitudinem vite eterne que consistit in fruitione divini aspectus («...la beatitudine che consiste nella fruizione della visione di Dio»).
Al v. 117 notturno Ariete indica l'autunno, quando la costellazione dell'Ariete è opposta alla posizione del Sole, per cui sorge quando il Sole tramonta e viceversa: Dante intende dire che la primavera sempiterna del Cielo (forse nel senso di «fioritura» e non della stagione) non è mai spogliata dall'autunno come sulla Terra.
Il vb. sberna (v. 118) vuol dire propriamente «esce dall'inverno» e, metaforicamente, indica il canto degli uccelli in primavera, quindi ha il significato di «canta».
Il vb. vincon (v. 128) ha il significato di «attrarre verso di sé».
I vv. 130 ss. alludono alle teorie angelologiche di Dionigi Areopagita (a lui era attribuito il trattato De coelesti Hierarchia, forse scritto nel V sec. da un filosofo neoplatonico), incluso da Dante fra gli spiriti sapienti del IV Cielo e preso a modello per l'esatto ordine delle gerarchie in quanto egli era stato discepolo di san Paolo. Da Dionigi si era allontanato Gregorio Magno, che nei Moralia citava le gerarchie nello stesso ordine seguito da Dante in Conv., II, 5, citandolo forse dal Trésor di Brunetto Latini.
I vv. 138-139 alludono a san Paolo e alla sua ascesa in Paradiso, citata anche in Inf., II, 28-30: lo pseudo-Dionigi nel De coelesti Hierarchia affermava Has autem in tres ternarios ordines digerit inclytus initiator noster... is qui ad tertium coelum evectus, ...raptus in Paradisum; magnus, inquam, Paulus («Questi ordini furono rivelati in tre gerarchie dal nostro nobile maestro, colui che fu portato al III Cielo e rapito in Paradiso; mi riferisco al grande Paolo»).
TestoPoscia che ‘ncontro
a la vita presente
d’i miseri mortali aperse ‘l vero quella che ‘mparadisa la mia mente, 3 come in lo specchio fiamma di doppiero vede colui che se n’alluma retro, prima che l’abbia in vista o in pensiero, 6 e sé rivolge per veder se ‘l vetro li dice il vero, e vede ch’el s’accorda con esso come nota con suo metro; 9 così la mia memoria si ricorda ch’io feci riguardando ne’ belli occhi onde a pigliarmi fece Amor la corda. 12 E com’io mi rivolsi e furon tocchi li miei da ciò che pare in quel volume, quandunque nel suo giro ben s’adocchi, 15 un punto vidi che raggiava lume acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca chiuder conviensi per lo forte acume; 18 e quale stella par quinci più poca, parrebbe luna, locata con esso come stella con stella si collòca. 21 Forse cotanto quanto pare appresso alo cigner la luce che ‘l dipigne quando ‘l vapor che ‘l porta più è spesso, 24 distante intorno al punto un cerchio d’igne si girava sì ratto, ch’avria vinto quel moto che più tosto il mondo cigne; 27 e questo era d’un altro circumcinto, e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto, dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. 30 Sopra seguiva il settimo sì sparto già di larghezza, che ‘l messo di Iuno intero a contenerlo sarebbe arto. 33 Così l’ottavo e ‘l nono; e chiascheduno più tardo si movea, secondo ch’era in numero distante più da l’uno; 36 e quello avea la fiamma più sincera cui men distava la favilla pura, credo, però che più di lei s’invera. 39 La donna mia, che mi vedea in cura forte sospeso, disse: «Da quel punto depende il cielo e tutta la natura. 42 Mira quel cerchio che più li è congiunto; e sappi che ‘l suo muovere è sì tosto per l’affocato amore ond’elli è punto». 45 E io a lei: «Se ‘l mondo fosse posto con l’ordine ch’io veggio in quelle rote, sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto; 48 ma nel mondo sensibile si puote veder le volte tanto più divine, quant’elle son dal centro più remote. 51 Onde, se ‘l mio disir dee aver fine in questo miro e angelico templo che solo amore e luce ha per confine, 54 udir convienmi ancor come l’essemplo e l’essemplare non vanno d’un modo, ché io per me indarno a ciò contemplo». 57 «Se li tuoi diti non sono a tal nodo sufficienti, non è maraviglia: tanto, per non tentare, è fatto sodo!». 60 Così la donna mia; poi disse: «Piglia quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti; e intorno da esso t’assottiglia. 63 Li cerchi corporai sono ampi e arti secondo il più e ‘l men de la virtute che si distende per tutte lor parti. 66 Maggior bontà vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape, s’elli ha le parti igualmente compiute. 69 Dunque costui che tutto quanto rape l’altro universo seco, corrisponde al cerchio che più ama e che più sape: 72 per che, se tu a la virtù circonde la tua misura, non a la parvenza de le sustanze che t’appaion tonde, 75 tu vederai mirabil consequenza di maggio a più e di minore a meno, in ciascun cielo, a sua intelligenza». 78 Come rimane splendido e sereno l’emisperio de l’aere, quando soffia Borea da quella guancia ond’è più leno, 81 per che si purga e risolve la roffia che pria turbava, sì che ‘l ciel ne ride con le bellezze d’ogne sua paroffia; 84 così fec’io, poi che mi provide la donna mia del suo risponder chiaro, e come stella in cielo il ver si vide. 87 E poi che le parole sue restaro, non altrimenti ferro disfavilla che bolle, come i cerchi sfavillaro. 90 L’incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che ‘l numero loro più che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla. 93 Io sentiva osannar di coro in coro al punto fisso che li tiene a li ubi, e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro. 96 E quella che vedea i pensier dubi ne la mia mente, disse: «I cerchi primi t’hanno mostrato Serafi e Cherubi. 99 Così veloci seguono i suoi vimi, per somigliarsi al punto quanto ponno; e posson quanto a veder son soblimi. 102 Quelli altri amori che ‘ntorno li vonno, si chiaman Troni del divino aspetto, per che ‘l primo ternaro terminonno; 105 e dei saper che tutti hanno diletto quanto la sua veduta si profonda nel vero in che si queta ogne intelletto. 108 Quinci si può veder come si fonda l’essere beato ne l’atto che vede, non in quel ch’ama, che poscia seconda; 111 e del vedere è misura mercede, che grazia partorisce e buona voglia: così di grado in grado si procede. 114 L’altro ternaro, che così germoglia in questa primavera sempiterna che notturno Ariete non dispoglia, 117 perpetualemente ‘Osanna’ sberna con tre melode, che suonano in tree ordini di letizia onde s’interna. 120 In essa gerarcia son l’altre dee: prima Dominazioni, e poi Virtudi; l’ordine terzo di Podestadi èe. 123 Poscia ne’ due penultimi tripudi Principati e Arcangeli si girano; l’ultimo è tutto d’Angelici ludi. 126 Questi ordini di sù tutti s’ammirano, e di giù vincon sì, che verso Dio tutti tirati sono e tutti tirano. 129 E Dionisio con tanto disio a contemplar questi ordini si mise, che li nomò e distinse com’io. 132 Ma Gregorio da lui poi si divise; onde, sì tosto come li occhi aperse in questo ciel, di sé medesmo rise. 135 E se tanto secreto ver proferse mortale in terra, non voglio ch’ammiri; ché chi ‘l vide qua sù gliel discoperse con altro assai del ver di questi giri». 139 |
ParafrasiDopo che colei (Beatrice) che innalza la mia mente a gioie paradisiache ebbe svelato la verità contro la vita corrotta degli uomini, come colui che ha il lume di un candeliere dietro le spalle lo vede riflesso in uno specchio (prima di vederlo o di pensarlo) e si volta per accertarsi se lo specchio dice la verità, e vede che l'immagine e la realtà si accordano come il canto con la musica;
così la mia mente si ricorda che io feci guardando nei begli occhi (di Beatrice) con cui Amore fabbricò la corda per catturarmi (di cui mi innamorai). E non appena io mi voltai e i miei occhi scorsero ciò che appare in quel Cielo (il Primo Mobile), ogni volta che si osservi con attenzione nella sua sfera, vidi un punto che emanava una luce tanto intensa che per il suo splendore occorre chiudere gli occhi che ne sono colpiti; e ogni stella che sembri più fioca, diventerebbe una Luna se paragonata a quel punto, come due stelle sono accanto nel cielo. Forse, quanto un alone sembra circondare da vicino l'astro che lo fa apparire quando l'atmosfera è pregna di spessi vapori, tutt'intorno a quel punto un cerchio fiammeggiante ruotava così velocemente che avrebbe superato il movimento del Primo Mobile che racchiude il mondo; e questo cerchio era circondato da un altro, e quello da un terzo, e il terzo poi da un quarto, il quarto da un quinto e il quinto da un sesto. Più all'esterno ce n'era un settimo, talmente esteso che il messaggero di Giunone (l'arcobaleno), benché tutto intero, sarebbe troppo piccolo per contenerlo. Così l'ottavo e il nono cerchio; e ognuno di essi era tanto più lento, quanto più il numero d'ordine che occupava era superiore ad uno (quanto più era distante dal centro); e il cerchio che aveva la fiamma più splendente era quello più vicino al punto luminoso, perché - credo - si sostanziava maggiormente della sua verità. La mia donna, che mi vedeva tormentato da un forte dubbio, disse: «Da quel punto dipende il Cielo e l'interno Universo. Osserva quel cerchio che gli è più vicino; sappi che il suo movimento è tanto veloce a causa dell'amore ardente che lo stimola». E io a lei: «Se l'Universo avesse lo stesso ordine che io vedo in quei cerchi, ciò che mi è stato detto mi avrebbe soddisfatto; ma nel mondo sensibile si può constatare che le sfere celesti sono tanto più perfette quanto più lontane sono dalla Terra. Dunque, se io devo soddisfare ogni mio desiderio di conoscenza in questo mirabile tempio degli angeli (il Primo Mobile) che ha solo amore e luce (l'Empireo) come suo confine, è necessario che io comprenda come mai la copia e il modello sono discordanti, in quanto io vanamente cerco di risolvere la questione». «Se le tue dita non sono in grado di sciogliere questo nodo, non c'è da stupirsi: a tal punto esso è stretto, poiché nessuno ha mai tentato di sbrogliarlo!» Così disse Beatrice; poi aggiunse: «Ascolta quello che ti dirò, se vuoi saziarti, e aguzza la tua mente sulle mie parole. Le sfere celesti, che sono corpi fisici, sono grandi o piccole a seconda della maggiore o minore virtù che si estende in ogni loro parte. Un maggior bene produce una maggiore salvezza, e questa è contenuta in un corpo più esteso, se esso è perfetto in ogni suo punto. Dunque, questo Cielo (il Primo Mobile) che trascina nel suo moto tutto quanto l'Universo, corrisponde al cerchio dotato di maggior amore e sapienza (quello più vicino a Dio): e allora, se tu ti concentri sulla virtù e non sull'ampiezza delle sostanze che ti sembrano rotonde (i cerchi fiammeggianti), vedrai come mirabile conseguenza il fatto che a maggiore virtù corrisponde maggiore vicinanza (e viceversa) tra ogni Cielo e la sua intelligenza angelica». Come l'emisfero dell'atmosfera resta terso e sereno, quando Borea soffia da quella guancia da cui spira un vento più dolce (la tramontana), grazie al quale viene spazzata via ogni impurità che prima turbava il cielo e questo sorride con le bellezze di ogni sua parte; così feci io, dopo che la mia donna mi rispose con il suo chiaro discorso, e la verità fu visibile come una stella in cielo. E dopo la fine delle sue parole, i cerchi sfavillarono come un ferro incandescente che sprizza scintille. Ogni scintilla seguiva il cerchio fiammeggiante, ed erano così tante che il loro numero entra nelle migliaia (è alto) più del raddoppiare delle caselle del gioco degli scacchi. Io sentivo intonare 'Osanna' di coro in coro, verso il punto fisso che li tiene e sempre li terrà in quella posizione in cui sempre furono. E colei che vedeva i pensieri dubbiosi nella mia mente, disse: «I primi cerchi ti hanno mostrato i Serafini e i Cherubini. Seguono così velocemente il loro legame d'amore con Dio per rendersi simili quanto più possono al punto centrale; e lo possono fare in quanto la loro visione divina è la più elevata. Quegli altri esseri angelici che gli girano intorno e che fin dalla loro creazione chiusero la prima gerarchia, si chiamano Troni dell'aspetto divino; e devi sapere che tutti provano una gioia commisurata alla profondità della loro visione di Dio, cioè quella verità in cui si acquieta ogni intelletto. Da qui si può vedere come la beatitudine si fonda nella fruizione della visione divina, e non nell'amore che è un atto conseguente; e la profondità di tale visione è la ricompensa che è prodotta dalla grazia e dalla buona volontà: così si procede da un ordine angelico all'altro. La seconda gerarchia, che germoglia così in questa eterna primavera che l'autunno non può mai spogliare, canta per l'eternità 'Osanna' in tre melodie, che risuonano nei tre ordini angelici pieni di gioia che la costituiscono. In questa gerarchia vi sono le altre intelligenze angeliche: prima le Dominazioni, poi le Virtù, infine il terzo ordine è delle Potestà. Poi nel terzultimo e penultimo ordine ruotano Principati e Arcangeli; l'ultimo ordine è tutto di Angeli festanti. Questi ordini ammirano tutti verso l'alto e attirano a sé il mondo inferiore, cosicché tutti sono attratti da Dio e attraggono a loro volta il mondo a sé. E Dionigi Areopagita si mise con tanto desiderio a contemplare questi ordini, che li elencò e li nominò come ho fatto io. Gregorio Magno, in seguito, si allontanò da lui; cosicché, non appena vide coi suoi occhi questo Cielo, rise di se stesso. E se un mortale in Terra poté affrontare una materia così profonda, non devi stupirti; infatti a Dionigi essa venne svelata da chi la vide quassù (san Paolo), insieme a molte altre cose di questi ordini angelici». |