Paradiso, Canto XXI
G. Doré, Lo scaleo d'oro
...di color d'oro in che raggio traluce
vid'io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce...
"...Tu hai l'udir mortal sì come il viso",
rispuose a me; "onde qui non si canta
per quel che Beatrice non ha riso..."
"...In quel loco fu'io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu' ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano..."
vid'io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce...
"...Tu hai l'udir mortal sì come il viso",
rispuose a me; "onde qui non si canta
per quel che Beatrice non ha riso..."
"...In quel loco fu'io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu' ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano..."
Argomento del Canto
Ascesa di Dante e Beatrice al VII Cielo di Saturno. Lo scaleo d'oro; apparizione degli spiriti contemplanti. Incontro con Pier Damiani. Discorso sulla predestinazione; il beato parla di se stesso. Invettiva contro il lusso dei prelati.
È la tarda mattinata di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È la tarda mattinata di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Ascesa al Cielo di Saturno (1-24)
G. Doré, Dante e Beatrice
Dante torna a volgere il suo sguardo a Beatrice e si accorge che la donna non sorride come solitamente fa. È Beatrice stessa a spiegargli che se sorridesse il poeta verrebbe ridotto in cenere come accadde a Semele di fronte a Giove, dal momento che la sua bellezza accresce man mano che si sale di Cielo in Cielo, per cui il suo splendore dev'essere temperato agli occhi mortali di Dante. I due, aggiunge la donna, sono appena saliti al VII Cielo di Saturno, che è congiunto alla costellazione del Leone e diffonde sulla Terra il suo influsso mescolato a quello della costellazione stessa. Dante dovrà osservare con molta attenzione quello che vedrà e fissarne l'immagine nei propri occhi: il godimento del poeta nel guardare l'aspetto di Beatrice è intenso, ma quando passa a guardare lo spettacolo del VII Cielo l'ubbidirle gli causa un piacere altrettanto grande, per cui è come se le due cose si bilanciassero.
Lo scaleo d'oro (25-42)
A. Vellutello, Lo scaleo d'oro
Nel Cielo di Saturno, il dio sotto il cui dominio il mondo conobbe l'età dell'oro, Dante vede una scala scintillante di colore dorato, che si erge verso l'alto a perdita d'occhio, tanto che il poeta non può vederne la fine. Moltissime luci di beati (gli spiriti contemplanti) scendono lungo la scala, fermandosi e compiendo vari movimenti sui diversi gradini, simili ai corvi grigi quando si muovono al mattino per scaldarsi e alcuni volano via senza fare ritorno, altri tornano al punto donde erano partiti, altri ancora volteggiano nello stesso posto. Così fanno le anime quando scendono e incontrano i gradini della scala, per cui alcune si fermano, altre vanno senza tornare e altre ancora ruotano intorno ad essi.
Incontro con l'anima di Pier Damiani (43-72)
Uno degli spiriti (san Pier Damiani) si ferma vicino a Dante e Beatrice, splendendo con tale intensità che il poeta capisce quanto è l'amore che manifesta nei suoi riguardi. Dante vorrebbe rivolgergli delle domande, ma si trattiene poiché Beatrice non ha ancora detto nulla; dopo che la donna ha intuito il desiderio del poeta, leggendolo nella mente di Dio, lo invita a parlare liberamente al beato. Dante a questo punto si rivolge allo spirito e gli chiede la ragione per cui si è avvicinato a lui, e il motivo per cui le anime in questo Cielo tacciono, contrariamente agli altri Cieli in cui intonavano un canto sublime. Il beato risponde anzitutto a questa domanda, spiegando che Dante ha un udito mortale come la vista e quindi le anime non cantano per lo stesso motivo per cui Beatrice non sorride. In seguito dichiara di essere sceso lungo la scala solo per manifestare la gioia dei beati per la presenza di Dante e non perché provi un amore più intenso verso di lui, in quanto le altre anime provano un amore pari o superiore al suo (come dimostrato dal loro splendore fiammeggiante). È stata la volontà divina a incaricare il beato di farsi incontro a Dante, facendo leva sul suo ardore di carità.
Incontro con l'anima di Pier Damiani (43-72)
Uno degli spiriti (san Pier Damiani) si ferma vicino a Dante e Beatrice, splendendo con tale intensità che il poeta capisce quanto è l'amore che manifesta nei suoi riguardi. Dante vorrebbe rivolgergli delle domande, ma si trattiene poiché Beatrice non ha ancora detto nulla; dopo che la donna ha intuito il desiderio del poeta, leggendolo nella mente di Dio, lo invita a parlare liberamente al beato. Dante a questo punto si rivolge allo spirito e gli chiede la ragione per cui si è avvicinato a lui, e il motivo per cui le anime in questo Cielo tacciono, contrariamente agli altri Cieli in cui intonavano un canto sublime. Il beato risponde anzitutto a questa domanda, spiegando che Dante ha un udito mortale come la vista e quindi le anime non cantano per lo stesso motivo per cui Beatrice non sorride. In seguito dichiara di essere sceso lungo la scala solo per manifestare la gioia dei beati per la presenza di Dante e non perché provi un amore più intenso verso di lui, in quanto le altre anime provano un amore pari o superiore al suo (come dimostrato dal loro splendore fiammeggiante). È stata la volontà divina a incaricare il beato di farsi incontro a Dante, facendo leva sul suo ardore di carità.
Imperscrutabilità della predestinazione (73-102)
G. Di Paolo, Il Cielo di Saturno
Dante riprende la parola e afferma di capire come la carità spinga ad obbedire alla Provvidenza divina, ma vorrebbe sapere come mai proprio lui è stato destinato al compito di accoglierlo nel Cielo di Saturno. Dante non ha ancora finito la domanda, quando il beato inizia a ruotare velocemente sul proprio asse come una mola, quindi lo spirito spiega che la grazia divina penetra in lui e, unita al suo intelletto, lo eleva a tal punto che egli può vedere la somma essenza di Dio. Da qui nasce il suo splendore, che è pari alla gioia che prova nella visione divina: tuttavia, aggiunge, neppure il Serafino che è più vicino a Dio potrebbe dare una risposta adeguata alla sua domanda, poiché tale materia affonda nell'abisso del giudizio divino ed è lontanissima da ogni sguardo di creature umane o angeliche. Il beato esorta Dante ad ammonire il mondo, una volta tornato sulla Terra, a non presumere di comprendere tali misteri divini, poiché la mente che in Cielo è illuminata in Terra è come offuscata dal fumo, quindi l'uomo non può comprendere l'enigma della predestinazione da vivo dal momento che non può farlo neppure quando è beato.
Lo spirito si presenta come Pier Damiani (103-126)
Busto di Pier Damiani (foto: Srnec)
La risposta dello spirito soddisfà a tal punto Dante che il poeta abbandona la questione della predestinazione e si limita umilmente a domandare l'identità del suo interlocutore. Questi spiega che sull'Appennino non lontano da Firenze sorge il monte Catria, al di sotto del quale si trova l'eremo camaldolese di Fonte Avellana che, un tempo, era destinato unicamente al culto di Dio. Qui il beato, quand'era sulla Terra, si ritirò a vita monastica e condusse un'esistenza umile, accontendandosi di cibi modesti e dedicandosi alla contemplazione di Dio. Un tempo, spiega il beato, quel monastero forniva molte anime sante al Paradiso, mentre oggi ne è privo e presto la cosa sarà evidente a tutti; in quel chiostro egli fu Pier Damiani e col nome di Pietro Peccatore fu nel monastero di S. Maria in Porto presso Ravenna, sul lido adriatico. Era vicino alla morte quando fu inisignito della dignità cardinalizia, indossando il cappello che ora passa da un individuo indegno a un altro ancora peggiore.
Invettiva di Pier Damiani contro il lusso dei prelati (127-142)
Un papa e i cardinali (XV sec.)
San Pietro e san Paolo, prosegue Pier Damiani, vissero poveramente e chiedendo l'elemosina, accettando il cibo da chiunque, mentre ora i cardinali vogliono essere circondati da servi che li sorreggano da entrambi i lati, che li portino in carrozza e che sollevino lo strascico del mantello, tanto essi sono corpulenti e pesanti. Coi loro ampi mantelli coprono i loro cavalli, così che sotto di essi sembrano esserci non una ma due bestie: grande è la pazienza di Dio che sopporta un lusso così sfrenato! Dopo le ultime parole del beato, Dante vede scendere dall'alto molte luci di altre anime, facendosi più belle e luminose da un gradino all'altro; esse si fermano attorno a Pier Damiani ed emettono un grido fragoroso come un tuono, il cui significato Dante non riesce a comprendere.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti XVII-XXII, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto è dedicato come parte del successivo alla descrizione del Cielo di Saturno, in cui a Dante si manifestano le anime di coloro che in vita, subendo l'influsso di questa stella, si diedero alla vita contemplativa e alla meditazione religiosa: sarà san Benedetto a spiegarlo con chiarezza in XXII, 46-48, mentre protagonista di questo Canto è il camaldolese san Pier Damiani che era forse la figura di spicco del monachesimo al tempo del poeta, che tuttavia (come si vedrà) mostra di non avere informazioni accurate sulla sua biografia. L'ascesa a questo Cielo non è avvertita da Dante contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, neppure grazie all'accresciuto splendore di Beatrice, la quale infatti spiega che il suo sorriso ridurrebbe il poeta in cenere e questa è la stessa ragione per cui i beati non cantano (sarà Pier Damiani a precisare la cosa su domanda di Dante). Alcuni interpreti hanno visto nell'insolito silenzio di questo Cielo una similitudine con la pace e la tranquillità dei monasteri dove gli spiriti contemplanti hanno vissuto sulla Terra, mentre fin troppo chiara è la simbologia della scala dorata che si alza verso l'alto a perdita d'occhio e lungo la quale scendono le luci dei beati per parlare con Dante: sempre san Benedetto spiegherà che essa ha termine nell'Empireo dove queste anime normalmente risiedono (XXII, 68-72) e che si tratta della stessa scala vista in sogno da Giacobbe in Gen., XXVIII, 12 ss., generalmente interpretata come immagine della vita contemplativa. Anche l'insieme dei movimenti compiuti dalla anime intorno ai gradini della scala dorata rimandano a quelli degli angeli che Giacobbe vide scendere lungo quella sognata, senza per forza voler vedere una simbologia troppo precisa in ognuno di essi (come nella similitudine delle pole, i corvi grigi accostati forse agli eremiti per la loro natura solitaria) ed è da ricordare che il simbolo della scala verso il Cielo era assai frequente nella letteratura religiosa dei secc. XIII-XIV e anche nella tradizione benedettino-camaldolese, tanto che i monaci morti lontano dal loro eremo erano portati in chiesa sopra una scala. Altri commentatori hanno visto nel movimento delle luci che vanno e vengono, così come gli angeli del sogno di Giacobbe, un richiamo alla vera natura del monachesimo, che non deve sprofondarsi nella meditazione senza all'occorrenza prodigarsi in concrete azioni per aiutare il prossimo, come in effetti fece in vita Pier Damiani che, non a caso, è il protagonista di questo episodio.
Il beato si avvicina a Dante e alla sua guida manifestando il suo amore per lui con un maggiore splendore, il che suscita la curiosità di Dante circa il motivo di questa particolare attenzione: è questa la sua prima domanda allo spirito, mentre la seconda riguarda il motivo del silenzio di cui già si è detto (ed è anche la prima a cui il santo dà una risposta). La soluzione dell'altro dubbio dà invece modo a Pier Damiani di affrontare la prima importante questione del Canto, ovvero la predestinazione, in quanto lo spirito afferma che non un particolare affetto per Dante lo ha condotto da lui, ma che a tale compito è stato designato dal volere divino per manifestargli la gioia di tutte le anime di questo Cielo. Alla successiva domanda del poeta, cioè per quale motivo proprio lui sia stato sortito a questo particolare ufficio, il santo risponde con il consueto richiamo all'imperscrutabilità del disegno divino, dicendo che neppure il Serafino più vicino a Dio potrebbe dare una risposta soddisfacente: nessun essere creato può comprendere razionalmente il giudizio divino e ciò riprende il concetto tante volte espresso nel poema, dal discorso di Virgilio di Purg., III, 31-45 fino a quello dell'aquila di Par., XX, 130-138, con la differenza che qui non si parla del destino ultraterreno ma, piuttosto, dell'influsso astrale che indirizza gli uomini alle loro scelte di vita sulla Terra a seconda dei criteri insondabili della saggezza divina. Ciò si rifà alla teoria degli influssi celesti più volte toccata, specie da Carlo Martello in Par., VIII, 97-148 e che sarà ripresa da Dante alla fine del Canto seguente con l'accenno alla costellazione dei Gemelli a cui, dirà, deve tutto il suo ingegno poetico; il richiamo all'umiltà e il duro monito agli uomini affinché non presumano di capire con la sola ragione i misteri divini è invece un implicito riferimento al cosiddetto «traviamento» intellettuale di Dante, che proprio questo aveva tentato di fare in una fase precedente della sua esperienza filosofico-letteraria e che infatti qui lascia la quistione impregiudicata, limitandosi a chiedere umilmente l'identità del beato. L'accenno alla predestinazione è dunque di segno molto diverso rispetto al discorso del Canto precedente e dà modo a Pier Damiani di entrare nell'altro tema che occupa la parte finale di questo, ovvero la condanna del lusso dei prelati per la quale egli prende spunto dalla descrizione dell'eremo dove trascorse gran parte della sua vita, un tempo foriero di anime sante per il Paradiso e ora fatto vano a causa della corruzione della Chiesa (anche questo tema è in fondo collegato alla predestinazione, in quanto il santo fu chiamato alla vita contemplativa dalla sua personale inclinazione e dall'influsso del Cielo di Saturno).
L'autopresentazione di Pier Damiani si apre con una dettagliata descrizione geografica dell'ubicazione del monastero di Fonte Avellana, secondo uno schema che si ripete spesso in questa Cantica (IX, 82-96, la prosopopea di Folchetto di Marsiglia; XI, 43-54, la descrizione del luogo natale di san Francesco; XII, 46-57, la descrizione di Calaruega, patria di san Domenico), quindi prosegue con il racconto della vita monastica del santo, in cui spicca soprattutto la scelta della povertà, di servire Dio accontentandosi di cibi di liquor d'ulivi in contrasto col lusso sfrenato dei cardinali contro cui si appunteranno le critiche del beato subito dopo. A ciò Pier Damiani giunge attraverso l'evento centrale della sua scarna biografia, ovvero la dignità cardinalizia cui fu elevato in tarda età (qui Dante mostra di ignorare i fatti, poiché il santo divenne porporato a quindici anni dalla morte), mentre al tempo di Dante tale onore tocca a individui degeneri, dediti ai piaceri corporali e alla ricchezza assai più che alla meditazione: è quasi scontato il paragone per contrasto con Pietro e Paolo, che vissero poveramente e accettando elemosine (il riferimento è anche a Francesco e alla sua severa Regola, qui non espressamente citato e che sarà invece nominato da san Benedetto nel Canto XXII), mentre i cardinali del Trecento vivono nel lusso più sfarzoso e si circondano di servi il cui compito è aiutarli in ogni sorta di movimento, tale è la grassezza flaccida di questi cattivi pastori. Il discorso di Pier Damiani è sferzante e ironico, col dire che i mantelli porporini dei prelati coprono i loro cavalli e che sotto la stessa cappa cardinalizia stanno in realtà due bestie, anticipando l'invettiva altrettanto dura di san Benedetto contro la corruzione del suo Ordine (XXII, 43-96) e quella dai toni corrosivi e virulenti di san Pietro del Canto XXVII, diretta contro Bonifacio VIII e i papi simoniaci e che sarà sottolineata dal colore rossastro che assumerà il Cielo delle Stelle Fisse, simbolo dello sdegno condiviso da tutta la corte celeste. Anche qui le ultime vibranti parole di Pier Damiani sono sottolineate dal movimento delle altre anime, che scendono dalla scala e ruotano attorno al santo come se approvassero il suo rimprovero, per poi esplodere in un grido fragoroso che sembra a Dante un tuono e il cui significato non riesce ad afferrare: Beatrice affermerà nel Canto seguente che si è trattato del preannuncio della futura punizione divina, che gli interpreti hanno letto come la morte di Bonifacio VIII o di Clemente V, mentre è più probabile che Dante alluda semplicemente a un prossimo evento destinato a riportare la giustizia sulla Terra e già tante volte evocato nel corso del poema, dalla profezia del «veltro» a quella del «DXV», sino alle parole consolatorie e minacciose di Cacciaguida relative a Cangrande Della Scala. Di sicuro la figura di Pier Damiani è «propedeutica» a quella assai più autorevole di san Benedetto, che occuperà il Canto seguente e che col suo discorso proporrà un raffronto tra il monachesimo delle origini e quello degenere dei tempi di Dante, tema che (come si è visto) è già stato toccato soprattutto nei Canti XI-XII, col panegirico dei fondatori degli altri due Ordini religiosi più importanti del Medioevo e in cui l'attacco ai frati corrotti era parte importante delle parole di san Tommaso e di san Bonaventura.
Il beato si avvicina a Dante e alla sua guida manifestando il suo amore per lui con un maggiore splendore, il che suscita la curiosità di Dante circa il motivo di questa particolare attenzione: è questa la sua prima domanda allo spirito, mentre la seconda riguarda il motivo del silenzio di cui già si è detto (ed è anche la prima a cui il santo dà una risposta). La soluzione dell'altro dubbio dà invece modo a Pier Damiani di affrontare la prima importante questione del Canto, ovvero la predestinazione, in quanto lo spirito afferma che non un particolare affetto per Dante lo ha condotto da lui, ma che a tale compito è stato designato dal volere divino per manifestargli la gioia di tutte le anime di questo Cielo. Alla successiva domanda del poeta, cioè per quale motivo proprio lui sia stato sortito a questo particolare ufficio, il santo risponde con il consueto richiamo all'imperscrutabilità del disegno divino, dicendo che neppure il Serafino più vicino a Dio potrebbe dare una risposta soddisfacente: nessun essere creato può comprendere razionalmente il giudizio divino e ciò riprende il concetto tante volte espresso nel poema, dal discorso di Virgilio di Purg., III, 31-45 fino a quello dell'aquila di Par., XX, 130-138, con la differenza che qui non si parla del destino ultraterreno ma, piuttosto, dell'influsso astrale che indirizza gli uomini alle loro scelte di vita sulla Terra a seconda dei criteri insondabili della saggezza divina. Ciò si rifà alla teoria degli influssi celesti più volte toccata, specie da Carlo Martello in Par., VIII, 97-148 e che sarà ripresa da Dante alla fine del Canto seguente con l'accenno alla costellazione dei Gemelli a cui, dirà, deve tutto il suo ingegno poetico; il richiamo all'umiltà e il duro monito agli uomini affinché non presumano di capire con la sola ragione i misteri divini è invece un implicito riferimento al cosiddetto «traviamento» intellettuale di Dante, che proprio questo aveva tentato di fare in una fase precedente della sua esperienza filosofico-letteraria e che infatti qui lascia la quistione impregiudicata, limitandosi a chiedere umilmente l'identità del beato. L'accenno alla predestinazione è dunque di segno molto diverso rispetto al discorso del Canto precedente e dà modo a Pier Damiani di entrare nell'altro tema che occupa la parte finale di questo, ovvero la condanna del lusso dei prelati per la quale egli prende spunto dalla descrizione dell'eremo dove trascorse gran parte della sua vita, un tempo foriero di anime sante per il Paradiso e ora fatto vano a causa della corruzione della Chiesa (anche questo tema è in fondo collegato alla predestinazione, in quanto il santo fu chiamato alla vita contemplativa dalla sua personale inclinazione e dall'influsso del Cielo di Saturno).
L'autopresentazione di Pier Damiani si apre con una dettagliata descrizione geografica dell'ubicazione del monastero di Fonte Avellana, secondo uno schema che si ripete spesso in questa Cantica (IX, 82-96, la prosopopea di Folchetto di Marsiglia; XI, 43-54, la descrizione del luogo natale di san Francesco; XII, 46-57, la descrizione di Calaruega, patria di san Domenico), quindi prosegue con il racconto della vita monastica del santo, in cui spicca soprattutto la scelta della povertà, di servire Dio accontentandosi di cibi di liquor d'ulivi in contrasto col lusso sfrenato dei cardinali contro cui si appunteranno le critiche del beato subito dopo. A ciò Pier Damiani giunge attraverso l'evento centrale della sua scarna biografia, ovvero la dignità cardinalizia cui fu elevato in tarda età (qui Dante mostra di ignorare i fatti, poiché il santo divenne porporato a quindici anni dalla morte), mentre al tempo di Dante tale onore tocca a individui degeneri, dediti ai piaceri corporali e alla ricchezza assai più che alla meditazione: è quasi scontato il paragone per contrasto con Pietro e Paolo, che vissero poveramente e accettando elemosine (il riferimento è anche a Francesco e alla sua severa Regola, qui non espressamente citato e che sarà invece nominato da san Benedetto nel Canto XXII), mentre i cardinali del Trecento vivono nel lusso più sfarzoso e si circondano di servi il cui compito è aiutarli in ogni sorta di movimento, tale è la grassezza flaccida di questi cattivi pastori. Il discorso di Pier Damiani è sferzante e ironico, col dire che i mantelli porporini dei prelati coprono i loro cavalli e che sotto la stessa cappa cardinalizia stanno in realtà due bestie, anticipando l'invettiva altrettanto dura di san Benedetto contro la corruzione del suo Ordine (XXII, 43-96) e quella dai toni corrosivi e virulenti di san Pietro del Canto XXVII, diretta contro Bonifacio VIII e i papi simoniaci e che sarà sottolineata dal colore rossastro che assumerà il Cielo delle Stelle Fisse, simbolo dello sdegno condiviso da tutta la corte celeste. Anche qui le ultime vibranti parole di Pier Damiani sono sottolineate dal movimento delle altre anime, che scendono dalla scala e ruotano attorno al santo come se approvassero il suo rimprovero, per poi esplodere in un grido fragoroso che sembra a Dante un tuono e il cui significato non riesce ad afferrare: Beatrice affermerà nel Canto seguente che si è trattato del preannuncio della futura punizione divina, che gli interpreti hanno letto come la morte di Bonifacio VIII o di Clemente V, mentre è più probabile che Dante alluda semplicemente a un prossimo evento destinato a riportare la giustizia sulla Terra e già tante volte evocato nel corso del poema, dalla profezia del «veltro» a quella del «DXV», sino alle parole consolatorie e minacciose di Cacciaguida relative a Cangrande Della Scala. Di sicuro la figura di Pier Damiani è «propedeutica» a quella assai più autorevole di san Benedetto, che occuperà il Canto seguente e che col suo discorso proporrà un raffronto tra il monachesimo delle origini e quello degenere dei tempi di Dante, tema che (come si è visto) è già stato toccato soprattutto nei Canti XI-XII, col panegirico dei fondatori degli altri due Ordini religiosi più importanti del Medioevo e in cui l'attacco ai frati corrotti era parte importante delle parole di san Tommaso e di san Bonaventura.
Boccaccio contro il lusso dei prelati: l'abate di Cluny
Ghino di Tacco e Bonifacio VIII (min. XIV sec.)
La polemica anti-ecclesiastica attraversa tutto il poema dantesco ed assume particolare importanza soprattutto nella III Cantica, tuttavia Dante non è l'unico autore del Trecento a rivolgere le sue critiche alla corruzione della Chiesa e al lusso dei prelati: diversi sonetti del Canzoniere di F. Petrarca sono diretti contro la Curia papale di Avignone, descritta come empia Babilonia in cui alligna ogni vizio, e G. Boccaccio in molte novelle del Decameron critica vari aspetti della vita religiosa, in particolare l'ipocrisia dei chierici che si dimostrano avidi di ricchezze e dediti ai piaceri carnali. Interessante sotto questo punto di vista è la novella che vede protagonista l'abate di Cluny (X, 2), un ricchissimo prelato che si reca a Roma a rendere visita a papa Bonifacio VIII con tutto il suo seguito di servi e bagagli, ottenendo poi dal pontefice il permesso di recarsi ai bagni di Siena per curare il mal di stomaco di cui soffre, probabilmente per gli eccessi di gola a cui solitamente si abbandona. Il prelato si mette in viaggio con tutto il suo corteo di portatori e paggi, montando a cavallo come un nobile signore feudale, ma quando attraversa il territorio controllato dal famoso masnadiero Ghino di Tacco viene fatto prigioniero con tutto il seguito: Ghino era un nobile senese cacciato dalla sua città, che indusse la città di Radicofani a ribellarsi alla Chiesa di Roma e si diede al brigantaggio, citato anche dallo stesso Dante in Purg., VI, 13 come l'assassino del giudice Benincasa da Laterina posto fra i morti per forza dell'Antipurgatorio. All'inizio l'abate si mostra insofferente alla prigionia e minaccia severi castighi a Ghino, il quale gli si presenta senza rivelare la sua identità e, appresi i problemi di salute del prelato, lo aiuta a guarire facendogli mangiare pane arrostito e vernaccia: la dieta forzata ha il suo benefico effetto, tanto che le condizioni dell'abate migliorano e alla fine Ghino di Tacco si svela finalmente per quello che è, ospitando fra l'altro il prelato e tutto il suo seguito in un raffinato banchetto in cui fa sfoggio di magnificenza e liberalità (è questo il tema della Giornata conclusiva del Decameron). La vicenda dell'abate è una sorta di edificante apologo, poiché egli guarisce il suo stomaco astenendosi dai suoi stravizi culinari (il riferimento evangelico al pane e al vino ha un evidente significato religioso) e moderando anche il suo orgoglio nobiliare, al punto che non solo rinuncia ai suoi propositi vendicativi contro Ghino ma addirittura intercederà presso il papa Bonifacio VIII perché i due possano riconciliarsi, così che il papa nominerà il brigante frate dell'Ordine degli Spedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, in virtù delle buone cure prestate all'abate di Cluny. Quanto meno curioso è poi il giudizio benevolo che Boccaccio dà non solo di Ghino, descritto come un nobile e magnificente signore e non come assassino e predone, ma dello stesso Bonifacio VIII, definito colui che di grande animo fu, e vago (compiaciuto) de' valenti uomini, il che contrasta con la condanna terribilmente severa che contro questo pontefice Dante pronunciò a più riprese nella Commedia: segno che i tempi in cui visse l'autore del Decameron erano decisamente cambiati e lo scrittore del tardo Trecento poteva guardare certi personaggi e episodi storici con occhio meno critico, nonostante il culto che Boccaccio nutrì verso Dante e la sua opera (ben diversa, del resto, era la natura della polemica anticlericale di Boccaccio, rivolta non tanto alla simonia e alla corruzione ma all'ipocrisia dei comportamenti dei religiosi, specie in materia sessuale).
(per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito www.decameron.weebly.com)
(per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito www.decameron.weebly.com)
Note e passi controversi
Il v. 6 allude al mito di Semele (Ovidio, Met., III, 253 ss.), la figlia di Cadmo re di Tebe che divenne amante di Giove e dal quale generò Bacco: Giunone, desiderosa di vendicarsi, le apparve con le sembianze della sua nutrice e la convinse a chiedere a Giove di manifestarsi con tutta la sua maestà divina, cosa che il dio fece dopo aver invano cercato di dissuaderla; al suo apparire la giovane venne tramutata in cenere. Dante accenna al mito di Semele anche in Inf., XXIX, 1 ss.
I vv. 14-15 si riferiscono al fatto che Saturno nel marzo-aprile del 1300 era in congiunzione con la costellazione del Leone.
I vv. 25-27 alludono al mito secondo cui Saturno, dopo essere stato spodestato dal figlio Giove, regnò nel Lazio durante l'età dell'oro in cui l'umanità era felice.
I vv. 28-30 sono stati interpretati in due modi: nel senso che la scala dorata scintilla ai raggi del sole, oppure che essa è trasparente ed è attraversata da essi (più probabile la prima). L'immagine deriva da Gen., XXVIII, 12 ss., secondo quanto detto da san Benedetto nel Canto XXII, ovvero la descrizione del sogno di Giacobbe: viditque in somnis scalam stantem super terram et cacumen illius tangens caelum angelos quoque Dei ascendentes et descendentes per eam («e vide in sogno una scala poggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo, mentre gli angeli di Dio salivano e scendevano attraverso di essa»).
Le pole (v. 35) sono i corvi grigi, accostati agli eremiti per il loro carattere solitario e anche perché secondo una leggenda raccolta da Pier Damiani i corvi furono assai cari a san Benedetto e lo seguirono da Subiaco a Montecassino, dove nidificarono.
Al v. 78 consorte è plur. femm. e significa «consorti», le anime che condividono la stessa sorte di Pier Damiani.
Il v. 81 indica che la luce del beato inizia a ruotare orizzontalmente sul proprio asse, come la macina (mola) di un mulino.
Al v. 84 m'inventro è probabile neologismo dantesco, derivato da «ventre» e significa «sto chiusa», «sto avvolta».
L'alma citata al v. 91 è probabilmente Maria, colei che più a fondo legge nella mente divina.
I Serafini (v. 92) sono la gerarchia angelica associata al IX Cielo del Primo mobile, quindi è la più vicina a Dio.
I vv. 101-102 vogliono dire: «dunque guarda come può la mente umana in Terra comprendere quelle cose che non può capire neppure quando è accolta in Cielo».
I vv. 106-111 indicano gli Appennini (i sassi), nel tratto Tosco-emiliano posto tra le coste del Tirreno e dell'Adriatico (Tra' due liti d'Italia), non molto distanti in effetti da Firenze e dove alcune cime raggiungono quota 2000 metri (quindi i tuoni cadono più bassi delle vette). Qui sorge il monte Catria, sotto il quale venne costruito l'eremo di Fonte Avellana in cui visse Pier Damiani. Làtria (la pronuncia esatta è latrìa) significa «culto riservato a Dio» e il vocabolo era forse noto a Dante attraverso Isidoro di Siviglia, Etym., VIII, 11.
Al v. 115 cibi di liquor d'ulivi indicano cibi di magro, adatti a chi vive di penitenza e preghiera.
Il v. 120 allude a una prossima rivelazione del fatto che simili monasteri ora sono vuoti, ma non sappiamo a cosa Dante si riferisca.
La terzina ai vv. 121-123 è assai tormentata, per l'ambiguo significato di fu' che può voler dire «fui» o «fu» e quindi per l'incertezza dell'identità di Pietro Peccatore: potrebbe trattarsi di un altro personaggio effettivamente vissuto nella chiesa ravennate di S. Maria in Porto, un tempo accostato alla famiglia degli Onesti, oppure dello stesso Pier Damiani che talvolta si firmava Petrus peccator monacus (la questione è aperta). Il lito adriano (v. 123) è la costa adriatica.
Non risponde a verità quanto detto ai vv. 124-125, poiché Pier Damiani divenne cardinale nel 1057 e dunque quindici anni prima della morte, avvenuta nel 1072 (Dante aveva sicuramente notizie incerte sulla sua biografia). Il cappello (v. 125) è il copricapo rosso simbolo della dignità cardinalizia, ma questa è un'altra inesattezza in quanto esso fu istituito solo nel 1252 da papa Innocenzo IV, anche se forse il personaggio vi allude in modo metaforico.
Cefàs (v. 127) è il nome dato a Simone (san Pietro) da Gesù e vuol dire «pietra» in aramaico; il gran vasello / de lo Spirito Santo è invece san Paolo, detto così dall'espressione Vas electionis («strumento della scelta»: cfr. Inf., II, 28).
L'espressione chi di rietro li alzi (v. 132) può alludere sia ai caudatari, i servi che sollevavano l'ampio strascico dei prelati, sia agli staffieri che li aiutavano a montare in groppa al cavallo; i palafreni (v. 133) sono in effetti le cavalcature.
I vv. 14-15 si riferiscono al fatto che Saturno nel marzo-aprile del 1300 era in congiunzione con la costellazione del Leone.
I vv. 25-27 alludono al mito secondo cui Saturno, dopo essere stato spodestato dal figlio Giove, regnò nel Lazio durante l'età dell'oro in cui l'umanità era felice.
I vv. 28-30 sono stati interpretati in due modi: nel senso che la scala dorata scintilla ai raggi del sole, oppure che essa è trasparente ed è attraversata da essi (più probabile la prima). L'immagine deriva da Gen., XXVIII, 12 ss., secondo quanto detto da san Benedetto nel Canto XXII, ovvero la descrizione del sogno di Giacobbe: viditque in somnis scalam stantem super terram et cacumen illius tangens caelum angelos quoque Dei ascendentes et descendentes per eam («e vide in sogno una scala poggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo, mentre gli angeli di Dio salivano e scendevano attraverso di essa»).
Le pole (v. 35) sono i corvi grigi, accostati agli eremiti per il loro carattere solitario e anche perché secondo una leggenda raccolta da Pier Damiani i corvi furono assai cari a san Benedetto e lo seguirono da Subiaco a Montecassino, dove nidificarono.
Al v. 78 consorte è plur. femm. e significa «consorti», le anime che condividono la stessa sorte di Pier Damiani.
Il v. 81 indica che la luce del beato inizia a ruotare orizzontalmente sul proprio asse, come la macina (mola) di un mulino.
Al v. 84 m'inventro è probabile neologismo dantesco, derivato da «ventre» e significa «sto chiusa», «sto avvolta».
L'alma citata al v. 91 è probabilmente Maria, colei che più a fondo legge nella mente divina.
I Serafini (v. 92) sono la gerarchia angelica associata al IX Cielo del Primo mobile, quindi è la più vicina a Dio.
I vv. 101-102 vogliono dire: «dunque guarda come può la mente umana in Terra comprendere quelle cose che non può capire neppure quando è accolta in Cielo».
I vv. 106-111 indicano gli Appennini (i sassi), nel tratto Tosco-emiliano posto tra le coste del Tirreno e dell'Adriatico (Tra' due liti d'Italia), non molto distanti in effetti da Firenze e dove alcune cime raggiungono quota 2000 metri (quindi i tuoni cadono più bassi delle vette). Qui sorge il monte Catria, sotto il quale venne costruito l'eremo di Fonte Avellana in cui visse Pier Damiani. Làtria (la pronuncia esatta è latrìa) significa «culto riservato a Dio» e il vocabolo era forse noto a Dante attraverso Isidoro di Siviglia, Etym., VIII, 11.
Al v. 115 cibi di liquor d'ulivi indicano cibi di magro, adatti a chi vive di penitenza e preghiera.
Il v. 120 allude a una prossima rivelazione del fatto che simili monasteri ora sono vuoti, ma non sappiamo a cosa Dante si riferisca.
La terzina ai vv. 121-123 è assai tormentata, per l'ambiguo significato di fu' che può voler dire «fui» o «fu» e quindi per l'incertezza dell'identità di Pietro Peccatore: potrebbe trattarsi di un altro personaggio effettivamente vissuto nella chiesa ravennate di S. Maria in Porto, un tempo accostato alla famiglia degli Onesti, oppure dello stesso Pier Damiani che talvolta si firmava Petrus peccator monacus (la questione è aperta). Il lito adriano (v. 123) è la costa adriatica.
Non risponde a verità quanto detto ai vv. 124-125, poiché Pier Damiani divenne cardinale nel 1057 e dunque quindici anni prima della morte, avvenuta nel 1072 (Dante aveva sicuramente notizie incerte sulla sua biografia). Il cappello (v. 125) è il copricapo rosso simbolo della dignità cardinalizia, ma questa è un'altra inesattezza in quanto esso fu istituito solo nel 1252 da papa Innocenzo IV, anche se forse il personaggio vi allude in modo metaforico.
Cefàs (v. 127) è il nome dato a Simone (san Pietro) da Gesù e vuol dire «pietra» in aramaico; il gran vasello / de lo Spirito Santo è invece san Paolo, detto così dall'espressione Vas electionis («strumento della scelta»: cfr. Inf., II, 28).
L'espressione chi di rietro li alzi (v. 132) può alludere sia ai caudatari, i servi che sollevavano l'ampio strascico dei prelati, sia agli staffieri che li aiutavano a montare in groppa al cavallo; i palafreni (v. 133) sono in effetti le cavalcature.
TestoGià eran li occhi
miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi, e da ogne altro intento s’era tolto. 3 E quella non ridea; ma «S’io ridessi», mi cominciò, «tu ti faresti quale fu Semelè quando di cener fessi; 6 ché la bellezza mia, che per le scale de l’etterno palazzo più s’accende, com’hai veduto, quanto più si sale, 9 se non si temperasse, tanto splende, che ‘l tuo mortal podere, al suo fulgore, sarebbe fronda che trono scoscende. 12 Noi sem levati al settimo splendore, che sotto ‘l petto del Leone ardente raggia mo misto giù del suo valore. 15 Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, e fa di quelli specchi a la figura che ‘n questo specchio ti sarà parvente». 18 Qual savesse qual era la pastura del viso mio ne l’aspetto beato quand’io mi trasmutai ad altra cura, 21 conoscerebbe quanto m’era a grato ubidire a la mia celeste scorta, contrapesando l’un con l’altro lato. 24 Dentro al cristallo che ‘l vocabol porta, cerchiando il mondo, del suo caro duce sotto cui giacque ogne malizia morta, 27 di color d’oro in che raggio traluce vid’io uno scaleo eretto in suso tanto, che nol seguiva la mia luce. 30 Vidi anche per li gradi scender giuso tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume che par nel ciel, quindi fosse diffuso. 33 E come, per lo natural costume, le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume; 36 poi altre vanno via sanza ritorno, altre rivolgon sé onde son mosse, e altre roteando fan soggiorno; 39 tal modo parve me che quivi fosse in quello sfavillar che ‘nsieme venne, sì come in certo grado si percosse. 42 E quel che presso più ci si ritenne, si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando: ‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne. 45 Ma quella ond’io aspetto il come e ‘l quando del dire e del tacer, si sta; ond’io, contra ‘l disio, fo ben ch’io non dimando’. 48 Per ch’ella, che vedea il tacer mio nel veder di colui che tutto vede, mi disse: «Solvi il tuo caldo disio». 51 E io incominciai: «La mia mercede non mi fa degno de la tua risposta; ma per colei che ‘l chieder mi concede, 54 vita beata che ti stai nascosta dentro a la tua letizia, fammi nota la cagion che sì presso mi t’ha posta; 57 e di’ perché si tace in questa rota la dolce sinfonia di paradiso, che giù per l’altre suona sì divota». 60 «Tu hai l’udir mortal sì come il viso», rispuose a me; «onde qui non si canta per quel che Beatrice non ha riso. 63 Giù per li gradi de la scala santa discesi tanto sol per farti festa col dire e con la luce che mi ammanta; 66 né più amor mi fece esser più presta; ché più e tanto amor quinci sù ferve, sì come il fiammeggiar ti manifesta. 69 Ma l’alta carità, che ci fa serve pronte al consiglio che ‘l mondo governa, sorteggia qui sì come tu osserve». 72 «Io veggio ben», diss’io, «sacra lucerna, come libero amore in questa corte basta a seguir la provedenza etterna; 75 ma questo è quel ch’a cerner mi par forte, perché predestinata fosti sola a questo officio tra le tue consorte». 78 Né venni prima a l’ultima parola, che del suo mezzo fece il lume centro, girando sé come veloce mola; 81 poi rispuose l’amor che v’era dentro: «Luce divina sopra me s’appunta, penetrando per questa in ch’io m’inventro, 84 la cui virtù, col mio veder congiunta, mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio la somma essenza de la quale è munta. 87 Quinci vien l’allegrezza ond’io fiammeggio; per ch’a la vista mia, quant’ella è chiara, la chiarità de la fiamma pareggio. 90 Ma quell’alma nel ciel che più si schiara, quel serafin che ‘n Dio più l’occhio ha fisso, a la dimanda tua non satisfara, 93 però che sì s’innoltra ne lo abisso de l’etterno statuto quel che chiedi, che da ogne creata vista è scisso. 96 E al mondo mortal, quando tu riedi, questo rapporta, sì che non presumma a tanto segno più mover li piedi. 99 La mente, che qui luce, in terra fumma; onde riguarda come può là giùe quel che non pote perché ‘l ciel l’assumma». 102 Sì mi prescrisser le parole sue, ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi a dimandarla umilmente chi fue. 105 «Tra ‘ due liti d’Italia surgon sassi, e non molto distanti a la tua patria, tanto che ‘ troni assai suonan più bassi, 108 e fanno un gibbo che si chiama Catria, di sotto al quale è consecrato un ermo, che suole esser disposto a sola latria». 111 Così ricominciommi il terzo sermo; e poi, continuando, disse: «Quivi al servigio di Dio mi fe’ sì fermo, 114 che pur con cibi di liquor d’ulivi lievemente passava caldi e geli, contento ne’ pensier contemplativi. 117 Render solea quel chiostro a questi cieli fertilemente; e ora è fatto vano, sì che tosto convien che si riveli. 120 In quel loco fu’ io Pietro Damiano, e Pietro Peccator fu’ ne la casa di Nostra Donna in sul lito adriano. 123 Poca vita mortal m’era rimasa, quando fui chiesto e tratto a quel cappello, che pur di male in peggio si travasa. 126 Venne Cefàs e venne il gran vasello de lo Spirito Santo, magri e scalzi, prendendo il cibo da qualunque ostello. 129 Or voglion quinci e quindi chi rincalzi li moderni pastori e chi li meni, tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. 132 Cuopron d’i manti loro i palafreni, sì che due bestie van sott’una pelle: oh pazienza che tanto sostieni!». 135 A questa voce vid’io più fiammelle di grado in grado scendere e girarsi, e ogne giro le facea più belle. 138 Dintorno a questa vennero e fermarsi, e fero un grido di sì alto suono, che non potrebbe qui assomigliarsi; né io lo ‘ntesi, sì mi vinse il tuono. 142 |
ParafrasiI miei occhi erano ormai nuovamente fissi al volto della mia donna, e insieme ad essi il mio animo, privo di qualunque altro interesse.
E Beatrice non sorrideva; ma cominciò a dirmi: «Se io sorridessi, tu diventeresti tale quale divenne Semele quando fu incenerita; infatti la mia bellezza, che accresce man mano che saliamo le scale del palazzo eterno (il Paradiso), come hai visto, se non fosse temperata splenderebbe a tal punto che la tua vista mortale, al suo fulgore, sarebbe un ramo abbattuto dal fulmine. Noi siamo ascesi al VII Cielo, che sotto la costellazione ardente del Leone diffonde sulla Terra il proprio influsso mescolato a quello della costellazione stessa. Ora guarda con estrema attenzione e fa' della tua mente uno specchio con cui osservare lo spettacolo di questo Cielo». Chi conoscesse la beatitudine del mio sguardo nel fissare Beatrice, quando passai a osservare altro, saprebbe quanto mi era gradito obbedire alla mia guida celeste, poiché l'una cosa bilanciava l'altra. Dentro il Cielo che, ruotando intorno alla Terra, porta il nome (Saturno) del dio sotto il quale ogni malizia fu stroncata (durante l'età dell'oro), io vidi una scala dorata e scintillante dei raggi del Sole che saliva verso l'alto, tanto che non ne potevo vedere la fine. Vidi anche che scendevano lungo la scala tante luci, al punto che pensavo che ogni stella del cielo si diffondesse in essa. E come i corvi grigi, per la loro naturale abitudine, all'alba si muovono a scaldare le loro fredde piume, poi alcuni vanno via senza tornare, altri tornano al punto da cui erano partiti, altri ancora volteggiano nello stesso posto, così mi sembrò che fosse il movimento di quelle luci scintillanti, non appena raggiungevano un gradino della scala. E il beato che si fermò più vicino a noi, divenne così luminoso che io tra me pensavo: 'Io vedo bene l'amore che mi manifesti. Ma colei (Beatrice) dalla quale aspetto che mi suggerisca quando parlare e quando tacere, non fa nulla; per cui io, pur contro il mio desiderio, faccio bene a non domandare'. Allora lei, che vedeva le ragioni del mio silenzio nella mente di Colui (Dio) che vede tutto, mi disse: «Sciogli il tuo ardente desiderio». E io iniziai: «Il mio merito non mi rende degno della tua risposta; ma in nome di colei che mi concede di domandare, o anima beata che ti nascondi dentro la tua stessa gioia, rendimi nota la ragione per cui ti sei avvicinato a me; e dimmi perché in questo Cielo non si sente la dolce sinfonia del Paradiso che suona così devotamente negli altri inferiori». Mi rispose: «Tu hai l'udito mortale come la vista; ecco perché qui non si canta, per la stessa ragione per cui Beatrice non ha sorriso. Sono sceso lungo i gradini della scala santa solo per festeggiare la tua presenza, con parole e con la luce che mi avvolge; non fui più sollecita per un particolare affetto per te; infatti, più in alto l'amore delle anime è pari o superiore al mio, come il loro splendore ti dimostra. Ma l'alta carità, che ci rende pronte a obbedire al giudizio di Dio che governa il mondo, ci assegna dei compiti come tu osservi». Io dissi: «Vedo bene, o sacra luce, come il libero amore in questo Cielo è sufficiente per eseguire il volere della Provvidenza eterna; ma è proprio questo che mi sembra difficile da capire, perché tu sola sei stata destinata a questo particolare compito rispetto alle altre anime». Non feci in tempo a pronunciare l'ultima parola, che la luce iniziò a ruotare orizzontalmente sul proprio asse come una veloce macina di mulino; poi l'amore che vi era dentro rispose: «La luce di Dio penetra in me, attraverso questa luce dentro alla quale io sono avvolto, e la cui virtù, unita alla mia visione intellettuale, mi innalza a tal punto sopra di me che io vedo la suprema essenza (Dio stesso) da cui proviene. Da qui viene la gioia di cui io risplendo; infatti il mio splendore eguaglia la mia visione di Dio, tanto quanto essa è luminosa. Ma quell'anima nel Cielo che più è illuminata da Dio (Maria), quel Serafino che figge maggiormente il suo occhio in Dio, non potrebbe rispondere alla tua domanda, poiché ciò che chiedi si interna a tal punto nell'abisso del giudizio divino che è lontanissimo dallo sguardo di ogni creatura. E quando sarai tornato sulla Terra, porta questo messaggio, affinché gli uomini non abbiano la presunzione di voler comprendere qualcosa di così inconoscibile. La mente umana, che qui è illuminata, sulla Terra è offuscata; dunque, guarda come potrebbe fare laggiù quel che non riesce a fare neppure quando è accolta in Cielo». Così mi ordinarono le sue parole, al punto che abbandonai la questione e mi limitai a chiedere umilmente chi fosse. «Tra le due coste d'Italia (tirrenica e adriatica) ci sono delle montagne (l'Appennino Tosco-Emiliano), non molto distanti da Firenze, così alte che i tuoni cadono molto più bassi, e formano una cima chiamata Catria, al di sotto della quale è consacrato un eremo (Fonte Avellana) che solitamente è riservato al culto di Dio». Così iniziò il suo terzo discorso; poi, continuando, disse: «Qui mi dedicai al servizio di Dio con tale dedizione, che trascorrevo facilmente estati e inverni mangiando cibi di magro, accontentandomi della contemplazione dei misteri divini. Un tempo quel convento era solito fruttare un'abbondante messe di anime a questi Cieli; e ora è vuoto, al punto che ben presto ciò sarà rivelato. In quel luogo fui Pier Damiani, e fui invece Pietro Peccatore nella chiesa di S. Maria di Ravenna in porto, sul lido adriatico. Mi era rimasto poco da vivere, quando fui chiamato a indossare quel cappello (da cardinale) che oggi passa da un individuo indegno a uno peggiore. San Pietro e san Paolo, magri e scalzi, andarono a predicare mendicando il cibo da chiunque glielo concedesse. Ora i pastori moderni vogliono servi che li sorreggano da ambo i lati e che li trasportino, tanto sono pesanti, e che li alzino da dietro. Con i loro mantelli coprono i cavalli, così che due bestie sono coperte dalla stessa pelle: oh, quanto è grande la pazienza di Dio che sopporta tutto questo!» A queste parole vidi tante luci fiammeggianti che scendevano lungo i gradini della scala e ruotavano, e a ogni giro cresceva la loro bellezza. Si fermarono intorno alla luce di Pier Damiani, ed emisero un grido fortissimo, tale che non potrebbe essere descritto; e io non ne compresi il senso, tanto mi assordò il tuono. |