Purgatorio, Canto III
Busto di Manfedi di Svevia
"...State contenti, umana gente, al 'quia',
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria..."
Io mi volsi ver' lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso...
"...Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei..."
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria..."
Io mi volsi ver' lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso...
"...Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei..."
Argomento del Canto
Ancora sulla spiaggia del Purgatorio. Discorso di Virgilio sulla giustizia divina. Incontro con le anime dei contumaci. Colloquio con Manfredi di Svevia.
È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle sette.
È la mattina di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle sette.
Ripresa del cammino (1-18)
Dopo i rimproveri di Catone e la fuga precipitosa delle anime verso la montagna, Dante si stringe a Virgilio, senza la cui guida fidata non potrebbe certo proseguire il viaggio. Il maestro sembra essere punto dalla propria coscienza, così monda e dignitosa che anche il più piccolo errore le provoca un forte rimorso. Quando Virgilio prende a camminare senza la fretta che toglie decoro a ogni gesto, Dante inizia a guardarsi attorno e osserva la montagna, che si erge verso il cielo più alta di qualunque altra. Il sole brilla rossastro dietro di lui e proietta l'ombra davanti, dal momento che Dante ne scherma i raggi col proprio corpo.
Paura di Dante e rimprovero di Virgilio (19-45)
Dante vede all'improvviso che c'è solo la sua ombra sul terreno e non quella di Virgilio, quindi si volta a lato col terrore di essere abbandonato: il maestro ovviamente è lì e lo rimprovera perché continua a diffidare e non crede che sia accanto a lui per guidarlo. Virgilio spiega che il corpo mortale nel quale lui faceva ombra riposa a Napoli, dove fu traslato da Brindisi e dove adesso è già sera, quindi Dante non deve stupirsi che la sua anima non proietti un'ombra proprio come i cieli non fanno schermo al passaggio della luce. La giustizia divina fa in modo che i corpi inconsistenti delle anime soffrano tormenti fisici, in un modo che non vuole che si sveli agli uomini, per cui è folle chi spera con la sola ragione umana di poter capire i misteri della fede. La gente deve accontentarsi di ciò che è stato rivelato, perché se avesse potuto veder tutto non sarebbe stato necessario che Gesù nascesse. Grandi filosofi hanno desiderato vanamente di conoscere questi misteri, e il loro ingegno glielo avrebbe permesso se ciò fosse stato possibile, mentre ora tale desiderio è la loro pena. Virgilio parla di Aristotele, di Platone e molti altri; poi resta in silenzio, china la fronte e rimane turbato.
Incontro coi contumaci (46-102)
G. Doré, Le anime dei contumaci
I due poeti intanto sono giunti ai piedi del monte: la parete è così ripida che è impossibile scalarla, tanto che la roccia più impervia della Liguria sarebbe un'agevole scala al confronto. Virgilio si ferma e si chiede da quale parte ci sia un accesso più facile al monte; e mentre lui riflette guardando a terra, e Dante osserva in alto la montagna, da sinistra appare un gruppo di anime che si muovono lentissime verso di loro. Virgilio esorta il discepolo ad andare verso di esse poiché si muovono piano, e lo invita a rafforzare la speranza poiché saranno loro a fornire indicazioni. Dopo mille passi le anime sono ancora molto lontane, quando esse si accorgono dei due poeti e si stringono alla roccia. Virgilio chiede loro dove sia l'accesso al monte, dal momento che essi non vogliono perdere tempo. Le anime iniziano ad avanzare, simili alle pecorelle che escono dal recinto una dietro l'altra senza sapere dove vanno e perché, poi le prime vedono che Dante proietta l'ombra e si arrestano, tirandosi indietro e inducendo le altre a fare lo stesso. Virgilio le rassicura dicendo che Dante è effettivamente vivo, ma non è certo contro il volere divino che egli cerca di scalare il monte. I penitenti fanno cenno con le mani di tornare indietro e procedere nella loro stessa direzione.
Incontro con Manfredi (103-145)
Battaglia di Benevento, min. del XIV sec.
Una delle anime si rivolge a Dante e lo invita a guardarlo, per capire se lo ha mai visto sulla Terra. Il poeta lo osserva e lo guarda con attenzione, vedendo che è biondo, bello e di nobile aspetto, e ha uno dei sopraccigli diviso da un colpo. Dopo che il poeta gli ha risposto di non averlo mai visto, il penitente gli mostra una piaga che gli attraversa la parte alta del petto, quindi di presenta come Manfredi di Svevia, nipote dell'imperatrice Costanza d'Altavilla. Egli prega Dante, quando sarà tornato nel mondo, di dire a sua figlia Costanza la verità sul suo stato ultraterreno. Manfredi racconta che dopo essere stato colpito a morte nella battaglia di Benevento, piangendo si pentì dei suoi peccati e nonostante le sue colpe fossero gravissime fu perdonato dalla grazia divina. Male fece il vescovo di Cosenza, istigato da papa Clemente IV, a far disseppellire il suo corpo che giaceva sotto un mucchio di pietre vicino a un ponte e a farlo trasportare a lume spento fuori dai confini del regno di Napoli, lungo il fiume Liri. La scomunica della Chiesa infatti non impedisce di salvarsi finché c'è un po' di speranza, anche se chi muore in contumacia deve poi attendere nell'Antipurgatorio un tempo superiore trenta volte al periodo trascorso come scomunicato, a meno che qualcuno con le sue preghiere non accorci questo periodo. Manfredi prega dunque Dante di rivelare tutto questo alla figlia Costanza, perché lei con le sue preghiere abbrevi la sua permanenza nell'Antipurgatorio.
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Qui è possibile vedere un breve video con l'analisi del Canto, tratto dal canale YouTube Video Letteratura Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto si divide strutturalmente in tre parti, che corrispondono al rimprovero di Virgilio a Dante (1-45), all'incontro con le anime dei contumaci (46-102) e al colloquio col protagonista dell'episodio, Manfredi di Svevia (103-145). I tre momenti sono strettamente legati dal punto di vista tematico, perché ruotano intorno al complesso e delicato problema della grazia e della giustizia divina imperscrutabile: la paura di Dante che crede di essere abbandonato poiché non vede l'ombra di Virgilio accanto alla sua (una situazione che non poteva presentarsi all'Inferno, nel buio delle viscere della Terra) provoca il rimprovero di Virgilio che spiega il carattere inconsistente e umbratile delle anime, sottolineando però il fatto che la volontà divina fa in modo che questi corpi aerei possano subire pene e tormenti fisici. Come ciò possa avvenire è inspiegabile con la sola ragione umana, il che dà modo al maestro di pronunciare un duro rimprovero a tutti coloro che hanno la folle pretesa di svelare i misteri della fede con l'ausilio del solo intelletto. È un tema centrale nel poema, già affrontato nell'episodio di Ulisse (il cui folle volo oltre le colonne d'Ercole costituiva il superamento dei limiti della ragione umana, peccaminoso e punito con la morte) e alla base probabilmente del «traviamento» che ha condotto Dante nella selva: la ragione può condurci alla sola felicità terrena, al possesso delle virtù cardinali che non assicurano la salvezza eterna per la quale è indispensabile la grazia divina. Nello sfogo di Virgilio c'è anche il suo dramma personale, di un uomo saggio che è vissuto in modo retto ma non ha conosciuto Dio ed è quindi relegato per sempre nel Limbo senza alcuna possibilità di redenzione; gli uomini non possono conoscere tutto e per le questioni di fede devono accontentarsi del quia, di ciò che è stato rivelato, senza la pretesa di spiegare con l'intelletto ciò che non è razionalmente spiegabile (come cercarono di fare i filosofi pagani, tra i quali Virgilio include forse anche se stesso, esclusi per sempre dalla redenzione in base al giudizio divino che è appunto imperscrutabile, inesplicabile col solo ausilio della ragione).
La giustizia divina ha invece salvato il gruppo di anime che i due poeti incontrano successivamente, dopo essersi fermati di fronte alla parete scoscesa e inaccessibile del monte che sembra invalicabile a chi va sanz'ala: sono le anime dei contumaci, di coloro che sono morti dopo essere stati scomunicati dalla Chiesa e devono trascorrere un tempo lunghissimo nell'Antipurgatorio prima di poter accedere alle Cornici (fra loro Dante incontrerà Manfredi). L'episodio è come un intermezzo narrativo posto tra la parte iniziale, molto sostenuta stilisticamente, e il successivo colloquio col re di Sicilia, caratterizzato dall'estrema lentezza con cui si muovono le anime e dalla similitudine delle pecorelle che escono dal recinto una dietro l'altra, senza sapere dove vanno e perché. È stato osservato che questo paragone non è casuale, sia perché la pecora è animale simbolo di mansuetudine ed è spesso citato nei Vangeli come immagine del buon fedele cristiano, sia soprattutto perché l'attitudine di queste anime (il fatto di muoversi senza opporre resistenza, senza sapere dove vanno) è la traduzione visiva del discorso fatto prima da Virgilio, del dovere del cristiano di accontentarsi del quia lasciandosi guidare dai ministri della Chiesa verso la salvezza, senza avere la pretesa intellettuale di veder tutto (al contrario della capra, animale anch'esso citato spesso nei Vangeli come l'esempio opposto e caratterizzato da riottosità e selvatichezza, immagine del cattivo fedele che si ribella all'autorità della Chiesa: cfr. XXVII, 76 ss., dove le capre sono definite rapide e proterve / sovra le cime). Il paragone acquista ancor più significato se si pensa che queste sono appunto le anime degli scomunicati, che per motivi giusti o sbagliati si sono ribellati all'autorità della Chiesa e non hanno certo dimostrato mansuetudine quand'erano in vita.
Tra loro c'è anche Manfredi e il suo personaggio consente a Dante di fare un importante discorso intorno alla salvezza e alla giustizia divina, che opera una sintesi tra la prima e la seconda parte del Canto. Da un lato, infatti, il re svevo è il cattivo cristiano che si è mostrato riottoso all'autorità ecclesiastica e che per motivi politici si è attirato la punizione della Chiesa (questo indipendentemente dal giudizio che Dante può dare sulla sua vicenda), ma al tempo stesso è salvo in Purgatorio e rappresenta dunque un esempio clamoroso e inatteso di come la grazia divina possa beneficare anche un personaggio che con la sua fama è stato posto fuori dalla comunità del fedeli. Manfredi rappresenta un vero e proprio «scandalo», ben più di Catone in quanto il sovrano era un protagonista della storia recente dell'Italia di Dante: morto violentemente a Benevento, scomunicato dalla Chiesa come ribelle all'autorità papale, colpito dalla durissima pubblicistica guelfa che lo dipingeva come una specie di Anticristo (essendo anche figlio illegittimo di Federico II), tutto lasciava presupporre che fosse dannato all'Inferno, mentre il suo sincero pentimento in punto di morte gli ha guadagnato la salvezza e lo colloca tra le anime del Purgatorio. Dante vuole affermare che la giustizia divina si muove secondo criteri che non sono sempre evidenti al mondo e che il destino ultraterreno degli uomini dipende non solo dalle loro azioni terrene (i peccati di Manfredi erano stati, per sua stessa ammissione, orrendi), ma soprattutto dalla sincerità del loro pentimento che solo Dio può leggere nel profondo del cuore (è il caso opposto a quello di Guido da Montefeltro, che tutti credevano salvo perché fattosi francescano, ma che invece è dannato perché il suo pentimento non era sincero). La polemica di Dante è quindi rivolta contro le istituzioni ecclestiastiche corrotte, che si arrogano il diritto di stabilire in modo irrevocabile il destino ultraterreno dei loro nemici, mentre solo Dio può sapere con certezza se uno, dopo la morte, sia salvo o dannato: le parole di Manfredi sono rivolte soprattutto alla figlia Costanza, che sapendo della sua salvezza può pregare per lui e accorciare il periodo di attesa nell'Antipurgatorio (il che è un'ulteriore polemica contro la Chiesa che lucrava sulle preghiere per i defunti, che invece sono demandate alla fede dei congiunti rimasti in vita). Lo «scandalo» di Manfredi riafferma dunque il discorso di Virgilio in apertura di Canto, ovvero il fatto che l'uomo non può sapere tutto e che c'è un limite alla ragione umana, per cui la giustizia divina non è sempre spiegabile razionalmente o alla luce soltanto delle azioni pubbliche di un personaggio: occorre l'umiltà, anche da parte di papi e vescovi, di rimettersi al giudizio divino, come ha fatto Manfredi che non ha parole astiose nei confronti di chi (come papa Clemente IV o il vescovo di Cosenza) ha disseppellito i suoi resti e li ha dispersi come si usava fare con gli scomunicati. Il tema della giustizia divina è ovviamente al centro del poema e presenterà altri esempi di salvezze inattese, come quella di Bonconte da Montefeltro o di Rifeo e Traiano in Paradiso, ed è parte della durissima polemica contro le istituzioni della Chiesa corrotte che grande spazio avrà specie nella III Cantica, in particolare nei Canti XIX-XX che si svolgeranno nel Cielo di Giove dove si manifestano gli spiriti che hanno operato in nome della giustizia.
La giustizia divina ha invece salvato il gruppo di anime che i due poeti incontrano successivamente, dopo essersi fermati di fronte alla parete scoscesa e inaccessibile del monte che sembra invalicabile a chi va sanz'ala: sono le anime dei contumaci, di coloro che sono morti dopo essere stati scomunicati dalla Chiesa e devono trascorrere un tempo lunghissimo nell'Antipurgatorio prima di poter accedere alle Cornici (fra loro Dante incontrerà Manfredi). L'episodio è come un intermezzo narrativo posto tra la parte iniziale, molto sostenuta stilisticamente, e il successivo colloquio col re di Sicilia, caratterizzato dall'estrema lentezza con cui si muovono le anime e dalla similitudine delle pecorelle che escono dal recinto una dietro l'altra, senza sapere dove vanno e perché. È stato osservato che questo paragone non è casuale, sia perché la pecora è animale simbolo di mansuetudine ed è spesso citato nei Vangeli come immagine del buon fedele cristiano, sia soprattutto perché l'attitudine di queste anime (il fatto di muoversi senza opporre resistenza, senza sapere dove vanno) è la traduzione visiva del discorso fatto prima da Virgilio, del dovere del cristiano di accontentarsi del quia lasciandosi guidare dai ministri della Chiesa verso la salvezza, senza avere la pretesa intellettuale di veder tutto (al contrario della capra, animale anch'esso citato spesso nei Vangeli come l'esempio opposto e caratterizzato da riottosità e selvatichezza, immagine del cattivo fedele che si ribella all'autorità della Chiesa: cfr. XXVII, 76 ss., dove le capre sono definite rapide e proterve / sovra le cime). Il paragone acquista ancor più significato se si pensa che queste sono appunto le anime degli scomunicati, che per motivi giusti o sbagliati si sono ribellati all'autorità della Chiesa e non hanno certo dimostrato mansuetudine quand'erano in vita.
Tra loro c'è anche Manfredi e il suo personaggio consente a Dante di fare un importante discorso intorno alla salvezza e alla giustizia divina, che opera una sintesi tra la prima e la seconda parte del Canto. Da un lato, infatti, il re svevo è il cattivo cristiano che si è mostrato riottoso all'autorità ecclesiastica e che per motivi politici si è attirato la punizione della Chiesa (questo indipendentemente dal giudizio che Dante può dare sulla sua vicenda), ma al tempo stesso è salvo in Purgatorio e rappresenta dunque un esempio clamoroso e inatteso di come la grazia divina possa beneficare anche un personaggio che con la sua fama è stato posto fuori dalla comunità del fedeli. Manfredi rappresenta un vero e proprio «scandalo», ben più di Catone in quanto il sovrano era un protagonista della storia recente dell'Italia di Dante: morto violentemente a Benevento, scomunicato dalla Chiesa come ribelle all'autorità papale, colpito dalla durissima pubblicistica guelfa che lo dipingeva come una specie di Anticristo (essendo anche figlio illegittimo di Federico II), tutto lasciava presupporre che fosse dannato all'Inferno, mentre il suo sincero pentimento in punto di morte gli ha guadagnato la salvezza e lo colloca tra le anime del Purgatorio. Dante vuole affermare che la giustizia divina si muove secondo criteri che non sono sempre evidenti al mondo e che il destino ultraterreno degli uomini dipende non solo dalle loro azioni terrene (i peccati di Manfredi erano stati, per sua stessa ammissione, orrendi), ma soprattutto dalla sincerità del loro pentimento che solo Dio può leggere nel profondo del cuore (è il caso opposto a quello di Guido da Montefeltro, che tutti credevano salvo perché fattosi francescano, ma che invece è dannato perché il suo pentimento non era sincero). La polemica di Dante è quindi rivolta contro le istituzioni ecclestiastiche corrotte, che si arrogano il diritto di stabilire in modo irrevocabile il destino ultraterreno dei loro nemici, mentre solo Dio può sapere con certezza se uno, dopo la morte, sia salvo o dannato: le parole di Manfredi sono rivolte soprattutto alla figlia Costanza, che sapendo della sua salvezza può pregare per lui e accorciare il periodo di attesa nell'Antipurgatorio (il che è un'ulteriore polemica contro la Chiesa che lucrava sulle preghiere per i defunti, che invece sono demandate alla fede dei congiunti rimasti in vita). Lo «scandalo» di Manfredi riafferma dunque il discorso di Virgilio in apertura di Canto, ovvero il fatto che l'uomo non può sapere tutto e che c'è un limite alla ragione umana, per cui la giustizia divina non è sempre spiegabile razionalmente o alla luce soltanto delle azioni pubbliche di un personaggio: occorre l'umiltà, anche da parte di papi e vescovi, di rimettersi al giudizio divino, come ha fatto Manfredi che non ha parole astiose nei confronti di chi (come papa Clemente IV o il vescovo di Cosenza) ha disseppellito i suoi resti e li ha dispersi come si usava fare con gli scomunicati. Il tema della giustizia divina è ovviamente al centro del poema e presenterà altri esempi di salvezze inattese, come quella di Bonconte da Montefeltro o di Rifeo e Traiano in Paradiso, ed è parte della durissima polemica contro le istituzioni della Chiesa corrotte che grande spazio avrà specie nella III Cantica, in particolare nei Canti XIX-XX che si svolgeranno nel Cielo di Giove dove si manifestano gli spiriti che hanno operato in nome della giustizia.
Note e passi controversi
L'onestade citata al v. 11 è il decoro dei comportamenti esteriori, che la fretta dismaga, «sminuisce» (cfr. il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, ma anche oltre il v. 87: pudica in faccia e ne l'andare onesta, che è anche un chiasmo).
Il verbo dislaga (v. 15), che vuol dire «esce di lago» (quindi si erge dal mare) è invenzione dantesca.
Il v. 25 intende dire che se nel Purgatorio è appena spuntato il sole e sono circa le 8 del mattino, in Italia (posta a 45° da Gerusalemme, agli antipodi del Purgatorio) sono circa le 18 e quindi è il Vespero.
Il v. 27 allude al fatto che Virgilio fu sepolto a Brindisi, dove morì, quindi Augusto fece traslare i suoi resti a Napoli, sulla via di Pozzuoli.
La particella quia (v. 37) nel latino medievale introduceva una proposizione dichiarativa, quindi equivaleva al nostro che: Virgilio intende dire che gli uomini devono accontentarsi di sapere ciò che è stato loro dichiarato nelle Sacre Scritture (cfr. Dante, Quaestio de aqua et terra: Desinant ergo, desinant homines querere que supra eos sunt, et querant usque eo possunt, cioè: «Smettano dunque gli uomini di indagare quelle cose che sono al di sopra di loro, e indaghino su quelle che sono alla loro portata»).
Il v. 49 indica con Lerice e Turbia gli estremi a oriente e a occidente della Liguria, che al tempo di Dante era di difficile accesso per via delle sue scogliere impervie (Lerici è vicino alla Spezia, La Turbie è nei pressi di Nizza).
La figlia di Manfredi, Costanza, è detta da lui genitrice / de l'onor di Cicilia e d'Aragona (vv. 115-116) in quanto sposa di Pietro III d'Aragona e madre di Giacomo e Federico, sovrani rispettivamente di Aragona e di Sicilia. Onor significa «dinastia», «corona» e non ha valore elogiativo (Dante del resto giudicava severamente entrambi i re).
La grave mora del v. 129 è un mucchio di sassi, sotto la quale Manfredi sarebbe stato sepolto dopo la sua morte a Benevento, presso la testa (in co) di un ponte. La traslazione dei suoi resti a lume spento, come per gli scomunicati e gli eretici, e la loro dispersione lungo il fiume Liri fuori dal regno di Napoli (per ordine di papa Clemente IV) è un fatto di cui non ci sono documenti.
Il v. 135 (mentre che la speranza ha fior del verde) è stato ripreso dallo scrittore statunitense Robert Penn Warren nel romanzo All the King's Men («Tutti gli uomini del re», 1946) che in epigrafe recita «As long as hope still has its bit of green».
Contumacia (v. 136) vale «disobbedienza» (i contumaci erano gli scomunicati che si erano ostinati a disobbedire alla Chiesa).
Il verbo dislaga (v. 15), che vuol dire «esce di lago» (quindi si erge dal mare) è invenzione dantesca.
Il v. 25 intende dire che se nel Purgatorio è appena spuntato il sole e sono circa le 8 del mattino, in Italia (posta a 45° da Gerusalemme, agli antipodi del Purgatorio) sono circa le 18 e quindi è il Vespero.
Il v. 27 allude al fatto che Virgilio fu sepolto a Brindisi, dove morì, quindi Augusto fece traslare i suoi resti a Napoli, sulla via di Pozzuoli.
La particella quia (v. 37) nel latino medievale introduceva una proposizione dichiarativa, quindi equivaleva al nostro che: Virgilio intende dire che gli uomini devono accontentarsi di sapere ciò che è stato loro dichiarato nelle Sacre Scritture (cfr. Dante, Quaestio de aqua et terra: Desinant ergo, desinant homines querere que supra eos sunt, et querant usque eo possunt, cioè: «Smettano dunque gli uomini di indagare quelle cose che sono al di sopra di loro, e indaghino su quelle che sono alla loro portata»).
Il v. 49 indica con Lerice e Turbia gli estremi a oriente e a occidente della Liguria, che al tempo di Dante era di difficile accesso per via delle sue scogliere impervie (Lerici è vicino alla Spezia, La Turbie è nei pressi di Nizza).
La figlia di Manfredi, Costanza, è detta da lui genitrice / de l'onor di Cicilia e d'Aragona (vv. 115-116) in quanto sposa di Pietro III d'Aragona e madre di Giacomo e Federico, sovrani rispettivamente di Aragona e di Sicilia. Onor significa «dinastia», «corona» e non ha valore elogiativo (Dante del resto giudicava severamente entrambi i re).
La grave mora del v. 129 è un mucchio di sassi, sotto la quale Manfredi sarebbe stato sepolto dopo la sua morte a Benevento, presso la testa (in co) di un ponte. La traslazione dei suoi resti a lume spento, come per gli scomunicati e gli eretici, e la loro dispersione lungo il fiume Liri fuori dal regno di Napoli (per ordine di papa Clemente IV) è un fatto di cui non ci sono documenti.
Il v. 135 (mentre che la speranza ha fior del verde) è stato ripreso dallo scrittore statunitense Robert Penn Warren nel romanzo All the King's Men («Tutti gli uomini del re», 1946) che in epigrafe recita «As long as hope still has its bit of green».
Contumacia (v. 136) vale «disobbedienza» (i contumaci erano gli scomunicati che si erano ostinati a disobbedire alla Chiesa).
TestoAvvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga, 3 i’ mi ristrinsi a la fida compagna: e come sare’ io sanza lui corso? chi m’avria tratto su per la montagna? 6 El mi parea da sé stesso rimorso: o dignitosa coscienza e netta, come t’è picciol fallo amaro morso! 9 Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l’onestade ad ogn’atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta, 12 lo ‘ntento rallargò, sì come vaga, e diedi ‘l viso mio incontr’al poggio che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga. 15 Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio, rotto m’era dinanzi a la figura, ch’avea in me de’ suoi raggi l’appoggio. 18 Io mi volsi dallato con paura d’essere abbandonato, quand’io vidi solo dinanzi a me la terra oscura; 21 e ‘l mio conforto: «Perché pur diffidi?», a dir mi cominciò tutto rivolto; «non credi tu me teco e ch’io ti guidi? 24 Vespero è già colà dov’è sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra: Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto. 27 Ora, se innanzi a me nulla s’aombra, non ti maravigliar più che d’i cieli che l’uno a l’altro raggio non ingombra. 30 A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virtù dispone che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. 33 Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. 36 State contenti, umana gente, al quia; ché se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria; 39 e disiar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto: 42 io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri»; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato. 45 Noi divenimmo intanto a piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che ‘ndarno vi sarien le gambe pronte. 48 Tra Lerice e Turbìa la più diserta, la più rotta ruina è una scala, verso di quella, agevole e aperta. 51 «Or chi sa da qual man la costa cala», disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo, «sì che possa salir chi va sanz’ala?». 54 E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso essaminava del cammin la mente, e io mirava suso intorno al sasso, 57 da man sinistra m’apparì una gente d’anime, che movieno i piè ver’ noi, e non pareva, sì venian lente. 60 «Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne darà consiglio, se tu da te medesmo aver nol puoi». 63 Guardò allora, e con libero piglio rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano; e tu ferma la spene, dolce figlio». 66 Ancora era quel popol di lontano, i’ dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano, 69 quando si strinser tutti ai duri massi de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti com’a guardar, chi va dubbiando, stassi. 72 «O ben finiti, o già spiriti eletti», Virgilio incominciò, «per quella pace ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti, 75 ditene dove la montagna giace sì che possibil sia l’andare in suso; ché perder tempo a chi più sa più spiace». 78 Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l’altre stanno timidette atterrando l’occhio e ‘l muso; 81 e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno; 84 sì vid’io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, pudica in faccia e ne l’andare onesta. 87 Come color dinanzi vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, sì che l’ombra era da me a la grotta, 90 restaro, e trasser sé in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto. 93 «Sanza vostra domanda io vi confesso che questo è corpo uman che voi vedete; per che ‘l lume del sole in terra è fesso. 96 Non vi maravigliate, ma credete che non sanza virtù che da ciel vegna cerchi di soverchiar questa parete». 99 Così ‘l maestro; e quella gente degna «Tornate», disse, «intrate innanzi dunque», coi dossi de le man faccendo insegna. 102 E un di loro incominciò: «Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque». 105 Io mi volsi ver lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. 108 Quand’io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto. 111 Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’io ti priego che, quando tu riedi, 114 vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice. 117 Poscia ch’io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. 120 Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei. 123 Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, 126 l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. 129 Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde, dov’e’ le trasmutò a lume spento. 132 Per lor maladizion sì non si perde, che non possa tornar, l’etterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde. 135 Vero è che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, star li convien da questa ripa in fore, 138 per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, in sua presunzion, se tal decreto più corto per buon prieghi non diventa. 141 Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza come m’hai visto, e anco esto divieto; ché qui per quei di là molto s’avanza». 145 |
ParafrasiBenché la fuga improvvisa avesse disperso le anime lungo la spiaggia, verso il monte dove la giustizia divina ci tormenta, io mi strinsi alla mia guida fidata: e come sarei andato senza di lui? chi mi avrebbe fatto salire su per la montagna?
Egli mi sembrava punto dal rimorso: o coscienza dignitosa e pura, quale amaro tormento provoca in te il minimo errore! Quando i suoi piedi lasciarono la fretta che sminuisce a ogni atto il decoro, la mia mente, che prima era fissa su un solo pensiero, si allargò come desiderosa di vedere altro, e così io rivolsi lo sguardo al monte che si erge al cielo più alto di qualunque altro. Il sole, che splendeva rosso alle mie spalle, era interrotto davanti a me dal mio corpo che faceva ostacolo ai suoi raggi (proiettavo sul suolo la mia ombra). Io mi voltai a lato con paura di essere abbandonato, quando vidi che c'era l'ombra solo davanti a me; e Virgilio cominciò a dirmi con grande attenzione: «Perché continui a diffidare? non credi che io sia qui con te a guidarti? È già sera là dove è sepolto il corpo nel quale io facevo ombra: è a Napoli ed è stato traslato lì da Brindisi. Ora, se di fronte a me non proietto un'ombra, non stupirti più del fatto che i cieli non impediscono dall'uno all'altro il passaggio della luce. La volontà divina fa sì che corpi simili (inconsistenti) soffrano tormenti fisici, il caldo e il gelo, e non vuole che noi sappiamo come ciò sia possibile. È folle chi spera che la nostra ragione possa percorrere la via infinita che tiene una sola sostanza in tre persone (possa comprendere il dogma della Trinità). Accontentatevi, uomini, di ciò che vi è stato rivelato; infatti, se aveste potuto vedere tutto, non sarebbe stato necessario che Maria partorisse Gesù; e avete visto desiderare invano (di sapere tutto) filosofi tanto profondi che, se ciò fosse possibile, avrebbero appagato il loro desiderio, il quale invece è la loro pena eterna: io parlo di Aristotele, di Platone e di molti altri»; e a quel punto chinò la fronte, senza aggiungere altro e restando turbato. Noi intanto eravamo giunti ai piedi del monte; qui trovammo la parete rocciosa così ripida che invano avremmo cercato di scalarla con le nostre gambe. La roccia più scoscesa e impervia in Liguria (tra Lerici e La Turbie) al confronto di quella è una scala di facile accesso. Il mio maestro, fermando il passo, disse: «Ora chissà da quale parte la parete è meno ripida, così che possa salire chi non è dotato di ali?» E mentre lui, tenendo lo sguardo a terra, rifletteva sul cammino da intraprendere, e io guardavo in alto intorno alla roccia, vidi da sinistra arrivare un gruppo di anime che camminavano verso di noi, e non sembrava neppure tanto procedevano lentamente. Io dissi: «Maestro, alza lo sguardo: ecco chi ci fornirà indicazioni, se tu non le puoi trovare da te stesso». Lui allora guardò e con aspetto sereno rispose: «Andiamo in là, poiché essi vengono piano verso di noi; e tu rafforza la tua speranza, dolce figlio». Dopo che avevamo percorso mille passi, quella schiera distava ancora da noi lo spazio che un buon lanciatore coprirebbe scagliando un sasso con la mano, quando essi si strinsero tutti alla parete rocciosa del monte e rimasero fermi lì, proprio come si ferma a guardare chi va ed è in dubbio. Virgilio iniziò: «O spiriti morti in grazia di Dio e scelti per la salvezza, in nome di quella pace che credo tutti voi attendiate, diteci dove la montagna è meno ripida, così che sia possibile salire; infatti, quanto più uno sa tanto più gli spiace attardarsi». Come le pecorelle escono dall'ovile, a una, a due, a tre, e le altre stanno indietro timorose e tengono il muso e l'occhio in basso; e ciò che fa la prima fanno anche le altre, addossandosi a lei se essa si ferma, semplici e mansuete, e non sanno il motivo; così io vidi muoversi verso di noi la testa di quella schiera di anime fortunate, pudiche nell'aspetto e dignitose nei movimenti. Appena quelli videro che io proiettavo un'ombra alla mia destra, da me alla parete rocciosa, si fermarono e si tirarono un po' indietro, e tutti gli altri spiriti che venivano dietro, pur senza sapere il motivo, fecero lo stesso. «Senza che voi lo domandiate, io vi dico subito che questo corpo che vedete è di carne e ossa; per questo la luce del sole è da lui interrotta, a terra. Non vi stupite, ma credete che Dante non cerca di scalare questa parete senza l'aiuto di una virtù che viene dal Cielo». Così disse il maestro; e quelle anime degne dissero: «Tornate sui vostri passi», facendo segno col dorso delle mani. E uno di loro iniziò: «Chiunque tu sia, mentre continui a camminare, voltati verso di me e dimmi se mi hai mai visto sulla Terra». Io mi voltai verso di lui e lo guardai attentamente: era biondo, bello e di nobile aspetto, ma uno dei sopraccigli era diviso da un colpo. Quando gli ebbi detto umilmente di non averlo mai visto, lui ribatté: «Ora guarda»; e mi mostrò una piaga in alto sul petto. Poi sorridendo disse: «Io sono Manfredi, nipote dell'imperatrice Costanza; allora io ti prego, quando tornerai sulla Terra, di andare dalla mia bella figlia (Costanza), madre dei due eredi della corona di Sicilia e Aragona, e di dirle la verità su di me, se si racconta altro sulla mia sorte ultraterrena. Dopo che io ricevetti (a Benevento) due ferite mortali, io mi rivolsi pentito e in lacrime a Colui che perdona volentieri. I miei peccati furono orrendi, ma la bontà divina ha delle braccia così ampie che accoglie tutti coloro che si rivolgono a lei. Se il vescovo di Cosenza, che allora fu incitato contro di me da papa Clemente IV, avesse letto questo volto del perdono di Dio, le ossa del mio corpo sarebbero ancora sepolte sotto il mucchio di sassi presso la testa del ponte, a Benevento. Ora invece le bagna la pioggia e le disperde il vento fuori dal regno di Napoli, quasi lungo il fiume Liri, dove egli le fece traslare a lume spento. Per la maledizione della Chiesa l'eterno amore divino non si perde al punto che non possa tornare, finché c'è un po' di speranza. È pur vero che chi muore in contumacia della Santa Chiesa, anche se si pente in punto di morte, deve stare nell'Antipurgatorio trenta volte il tempo che ha trascorso nella sua ribellione, se questo decreto non viene abbreviato grazie a delle buone preghiere. Vedi ormai se puoi farmi felice, rivelando alla mia buona Costanza come mi hai visto (tra le anime salve) e anche questo divieto; qui, infatti, si traggono grandi benefici grazie alle preghiere dei vivi». |