Inferno, Canto VII
G. Stradano, Avari e prodighi (1587)
Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia
e disse: "Taci, maladetto lupo!
Consuma dentro te con la tua rabbia..."
"...In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi..."
L'acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giù per una via diversa...
e disse: "Taci, maladetto lupo!
Consuma dentro te con la tua rabbia..."
"...In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi..."
L'acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giù per una via diversa...
Argomento del Canto
Minacce di Pluto. Ingresso nel IV Cerchio e descrizione della pena di avari e prodighi. Discorso di Virgilio sulla Fortuna. Ingresso nel V Cerchio (Stige) e descrizione della pena degli iracondi, tra cui gli accidiosi.
È la notte tra venerdì 8 aprile (o 25 marzo) e sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È la notte tra venerdì 8 aprile (o 25 marzo) e sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
Incontro con Pluto (1-15)
All'ingresso nel IV Cerchio i due poeti incontrano Pluto, custode di quella zona infernale. Il mostro, che ha sembianze di lupo, inveisce contro di loro pronunciando parole incomprensibili, ma Virgilio rassicura Dante del fatto che non potrà impedire il loro cammino, quindi rimprovera il demone e lo zittisce ricordandogli la sconfitta subita da Lucifero ad opera dell'arcangelo Michele. A questo punto Pluto cade a terra prostrato e i due poeti possono proseguire.
Gli avari e i prodighi (16-66)
G. Doré, Avari e prodighi
Dante e Virgilio entrano nel IV Cerchio, dove sono stipate moltissime anime. I dannati spingono faticosamente enormi macigni, divisi in due schiere che procedono lungo il Cerchio in senso opposto. Quando cozzano gli uni contro gli altri, si gridano a vicenda: «Perché tieni stretto il masso?» e «Perché lo fai rotolare?», quindi si girano indietro e riprendono la loro bizzarra giostra.
Dante, sopraffatto dall'angoscia, chiede a Virgilio chi siano quei dannati e in particolare se le anime che vede con la tonsura siano effettivamente tutti chierici. Il maestro spiega che tutti loro in vita non spesero il denaro con giusta misura, peccando gli uni di avarizia e gli altri di prodigalità. Le anime con la tonsura furono effettivamente chierici, tutti peccatori di avarizia e fra loro ci sono anche papi e cardinali. Dante si stupisce di non riconoscere nessuno di loro, ma Virgilio chiarisce che il carattere immondo del loro peccato ora li rende del tutto irriconoscibili. Per l'eternità le due schiere di dannati si scontreranno nei due punti del Cerchio, finché il giorno del Giudizio gli avari risorgeranno col pugno chiuso e i prodighi coi capelli tagliati. Virgilio conclude dicendo che i beni terreni, affidati alla fortuna, sono effimeri e tutto l'oro del mondo sarebbe insufficiente a placare queste anime afflitte.
Dante, sopraffatto dall'angoscia, chiede a Virgilio chi siano quei dannati e in particolare se le anime che vede con la tonsura siano effettivamente tutti chierici. Il maestro spiega che tutti loro in vita non spesero il denaro con giusta misura, peccando gli uni di avarizia e gli altri di prodigalità. Le anime con la tonsura furono effettivamente chierici, tutti peccatori di avarizia e fra loro ci sono anche papi e cardinali. Dante si stupisce di non riconoscere nessuno di loro, ma Virgilio chiarisce che il carattere immondo del loro peccato ora li rende del tutto irriconoscibili. Per l'eternità le due schiere di dannati si scontreranno nei due punti del Cerchio, finché il giorno del Giudizio gli avari risorgeranno col pugno chiuso e i prodighi coi capelli tagliati. Virgilio conclude dicendo che i beni terreni, affidati alla fortuna, sono effimeri e tutto l'oro del mondo sarebbe insufficiente a placare queste anime afflitte.
La teoria della Fortuna (67-99)
La dea Fortuna (incisione del '500)
Dante è colto da un dubbio e chiede a Virgilio cosa sia questa Fortuna, che sembra avere i beni materiali tra i suoi artigli. Il poeta latino dapprima biasima l'ignoranza del mondo, quindi spiega che Dio ha disposto varie intelligenze angeliche a governare i vari Cieli, e allo stesso modo ha creato un'intelligenza che amministri i beni terreni. Essa, la Fortuna, stabilisce quando le ricchezze debbano cambiare di mano e quali genti debbano prosperare o decadere, secondo l'imperscrutabile giudizio divino. La saggezza umana non può contrastare le sue decisioni ed è inevitabile che i mutamenti siano rapidi. Molti sciocchi la maledicono, mentre dovrebbero lodarla e ringraziarla: essa non sente neppure queste lamentele, gira la sua ruota e opera serenamente insieme agli altri angeli. A questo punto Virgilio invita Dante a proseguire il cammino, poiché sono già passate dodici ore da quando ha lasciato il Limbo su invito di Beatrice.
Discesa al V Cerchio: gli iracondi (100-130)
I due poeti attraversano il Cerchio fino all'estremità opposta, dove c'è una vena d'acqua che sgorga dalla roccia e si immette in un fossato. L'acqua è di colore scuro e i due poeti ne seguono il corso verso il basso: il ruscello si impaluda nello Stige, dove nel fango sono immerse delle anime che Dante osserva con attenzione, vedendo che hanno aspetto crucciato. Questi dannati si percuotono con schiaffi, pugni e morsi, arrivando persino a sbranarsi a vicenda. Virgilio spiega a Dante che si tratta degli iracondi e ci sono altre anime completamente immerse nello Stige, che non si vedono ma sospirano e fanno gorgogliare l'acqua in superficie: sono gli iracondi amari e difficili (accidiosi), che ripetono come un ritornello una frase che riassume il loro peccato. I due poeti costeggiano la palude percorrendo l'argine roccioso, finché giungono ai piedi di una torre.
Discesa al V Cerchio: gli iracondi (100-130)
I due poeti attraversano il Cerchio fino all'estremità opposta, dove c'è una vena d'acqua che sgorga dalla roccia e si immette in un fossato. L'acqua è di colore scuro e i due poeti ne seguono il corso verso il basso: il ruscello si impaluda nello Stige, dove nel fango sono immerse delle anime che Dante osserva con attenzione, vedendo che hanno aspetto crucciato. Questi dannati si percuotono con schiaffi, pugni e morsi, arrivando persino a sbranarsi a vicenda. Virgilio spiega a Dante che si tratta degli iracondi e ci sono altre anime completamente immerse nello Stige, che non si vedono ma sospirano e fanno gorgogliare l'acqua in superficie: sono gli iracondi amari e difficili (accidiosi), che ripetono come un ritornello una frase che riassume il loro peccato. I due poeti costeggiano la palude percorrendo l'argine roccioso, finché giungono ai piedi di una torre.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube Video Letteratura Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto è in gran parte dedicato al peccato di avarizia, che come già visto nel Canto I è considerato da Dante la radice di tutti i mali del mondo e la causa prima del disordine politico e morale rappresentato dalla selva oscura del paesaggio iniziale: simbolo di tale peccato, nonché guardiano demoniaco del IV Cerchio, è Pluto, il cui aspetto animalesco rimanda alla lupa dalla quale Dante era stato soccorso da Virgilio, per quanto non sia possibile stabilire da dove Dante abbia tratto questa curiosa trasformazione del dio classico (problema analogo si è visto nel caso di Minosse, mentre per Pluto si aggiunge la difficoltà di stabilire con precisione se si tratti del dio greco delle ricchezze Pluto o di Ade-Plutone, sposo di Proserpina). Secondo uno schema narrativo ricorrente nel corso della Cantica, anche Pluto tenta vanamente di opporsi al passaggio di Dante e anche in questo caso l'ostacolo è superato da Virgilio, che sembra afferrare il senso delle sue misteriose parole e lo mette a tacere con la solita formula che rammenta l'ineluttabilità del viaggio dantesco, anche col riferimento all'arcangelo Michele che aveva punito Lucifero di cui, forse, Pluto è figura come Cerbero e le altre divinità classiche demonizzate. Sta di fatto che Pluto si acquieta non diversamente dal cane trifauce, simile alle vele di una nave che cadono a terra quando non sono più gonfiate dal vento, a signifcare forse l'inconsistenza della sua minaccia.
Protagonisti della parte centrale del Canto sono poi avari e prodighi, il cui numero in questo Cerchio è tale da suscitare la più viva sorpresa da parte di Dante: la loro pena ha qualcosa di grottesco ed è infatti descritta con toni fortemente comico-realistici, in quanto questi dannati sono costretti a voltolare dei massi, come in una assurda giostra, dicendosi parole ingiuriose che alludono reciprocamente ai loro peccati. Questo è l'unico Cerchio infernale in cui è detto chiaramente che ad essere puniti sono due peccati opposti, secondo il principio aristotelico in medio stat virtus, per cui tanto gli avari quanto i prodighi non hanno saputo osservare una giusta misura nelle loro spese e i primi sono stati troppo stretti, i secondi troppo larghi: non sappiamo se ciò valga anche per le altre zone, o se sia un caso unico nella topografia morale dell'Inferno, mentre è evidente che il peccato commesso dai prodighi è diverso da quello degli scialacquatori, che non si sono limitati a spendere troppo ma hanno sperperato in maniera dissennata tutto il loro patrimonio, per cui li troveremo tra i peccatori di violenza del VII Cerchio. Distinzione analoga tra avari e prodighi ci sarà anche nella V Cornice del Purgatorio, anche in quel caso col dubbio se essa sia riservata a quel luogo o da estendere a tutto il secondo regno (le parole del poeta in proposito non sono esaustive nemmeno in quella circostanza). Quel che è certo è che qui Dante vuole condannare soprattutto l'avarizia e, attraverso di essa, rivolgere un'aspra critica alla corruzione ecclesiastica: infatti tra le anime degli avari il poeta vede moltissimi chierici (riconoscibili per il fatto di avere la tonsura) e Virgilio non tarda a spiegargli che tra loro ci sono papi e cardinali, dichiarando dunque che la corruzione è largamente diffusa nelle alte gerarchie della Chiesa dato l'elevato numero di dannati stipati dalla giustizia di Dio in questo Cerchio. Per la prima e unica volta Dante omette di fare i nomi di anime dannate, adducendo come motivo il loro aspetto irriconoscibile per via del peccato, in maniera analoga per certi versi a quanto già detto per Ciacco; c'è chi ha pensato a una naturale prudenza da parte dell'autore, trattandosi del delicato tema della responsabilità degli alti vertici della Chiesa, ma nel Canto XIX Dante non esiterà a porre tra i papi simoniaci Niccolò III e a fargli predire addirittura la dannazione di due papi futuri, Bonifacio VIII e Clemente V, mentre in altri momenti del poema egli rivolgerà aspre invettive sia contro papa Bonifacio, in carica al momento dell'immaginario viaggio, sia contro Giovanni XXII, che invece era pontefice quando venivano composti gli ultimi Canti della Commedia (durissimo il suo attacco contro di lui in Par., XVIII, 130-136). Virgilio qui si limita a condannare la cieca cupidigia di queste anime e a ricordare il loro destino dopo il Giudizio finale, quando gli avari risorgeranno col pugno chiuso e i prodighi coi crin mozzi, a simboleggiare per l'eternità il loro peccato e ad affermare che l'attaccamento alle ricchezze terrene le ha escluse irrimediabilmente dalla salvezza, mentre tutto l'oro del mondo adesso diventa inutile ai loro occhi. Va aggiunto che tutta questa descrizione è sottolineata da suoni aspri e rime difficili, come -erci, -erchio, -ozzi, -ulcro, -uffa, -anche (in cui abbondano le consonanti gutturali e c'è ampio uso di metafore animalesche e termini rari), mentre nel successivo discorso di Virgilio sulla Fortuna il tono si farà più disteso e i suoni assai più morbidi, forse per creare un voluto contrasto con la materia trattata in precedenza.
Gli antichi interpretavano la Fortuna come una dea capricciosa e volubile, che teneva tra branche (tra gli artigli) i beni terreni, come una creatura animalesca, e dispensava e toglieva le ricchezze agli uni e agli altri in modo del tutto casuale e senza alcuna considerazione razionale: Dante ha ben presente questa concezione e ne chiede conto a Virgilio, la cui risposta smentisce decisamente a lume di filosofia i luoghi comuni che nel Medioevo ancora esistevano su questa divinità. Virgilio chiarisce che essa è in realtà un'intelligenza angelica, ministra ed esecutrice della volontà divina, che trasmuta le ricchezze di mano in mano secondo il suo giudizio inconoscibile agli uomini che, è evidente, si conforma a quello di Dio: tale visione è propria della cultura medievale, profondamente diversa dalla concezione classica e umanistica che riconduceva la fortuna al caso e quindi la subordinava alla virtù umana (Virgilio spiega invece che la prudenza umana non può nulla contro il volere della Fortuna, il cui giudizio è occulto come in erba l'angue); se gli uni si arricchiscono e gli altri si impoveriscono ciò non è dovuto al caso o al capriccio della dea, ma al disegno provvidenziale di Dio in cui tutto ha un senso e nulla avviene per caso, anche se ciò non è immediatamente comprensibile agli uomini il cui intelletto non può penetrare nell'abisso della saggezza divina. Ciò ribadisce la scarsa importanza delle ricchezze materiali, in cui carattere transitorio dimostra che ben poco peso devono avere nella vicenda degli uomini sulla Terra e nulla possono determinare quanto alla salvezza ultraterrena che dipende da ben altro, per cui l'eccessivo confidare nella Fortuna rischia di portare alla dannazione come capitato alle anime di questo Cerchio.
L'ultima parte del Canto introduce gli iracondi immersi nella palude Stigia che circonda la città di Dite: tra di essi vi sono gli «accidiosi», ovvero gli iracondi che covarono a lungo il risentimento e meditarono vendetta, posti sott'acqua e intenti a pronunciare parole che fanno ripullulare la superficie della palude, con cui ammettono la loro colpa e il fatto di essere stati tristi nella vita felice. Da scartare l'ipotesi che Dante intendesse con questi i peccatori di accidia, il quarto peccato capitale, e ancor più l'opinione che nello Stige sarebbero immersi anche superbi e invidiosi, per completare il quadro dei peccati di eccesso puniti nei primi sei Cerchi. Questo è anche il primo Canto dell'Inferno in cui la conclusione non coincide con la visione di un determinato luogo e tutto viene lasciato in sospeso, creando un'atmosfera di attesa che verrà sciolta all'inizio dell'episodio seguente: nel Canto VIII verrà infatti mostrata con ulteriori dettagli la pena degli altri iracondi, e verrà in parte spiegata anche la funzione della torre che è indicata alla fine di questo Canto, con la segnalazione luminosa che (forse) sarà il richiamo convenuto per Flegiàs, il demone col compito di traghettare le anime attraverso la palude (benché su questa figura, come già per Pluto, vi sia più di un'incertezza tra gli interpreti).
Protagonisti della parte centrale del Canto sono poi avari e prodighi, il cui numero in questo Cerchio è tale da suscitare la più viva sorpresa da parte di Dante: la loro pena ha qualcosa di grottesco ed è infatti descritta con toni fortemente comico-realistici, in quanto questi dannati sono costretti a voltolare dei massi, come in una assurda giostra, dicendosi parole ingiuriose che alludono reciprocamente ai loro peccati. Questo è l'unico Cerchio infernale in cui è detto chiaramente che ad essere puniti sono due peccati opposti, secondo il principio aristotelico in medio stat virtus, per cui tanto gli avari quanto i prodighi non hanno saputo osservare una giusta misura nelle loro spese e i primi sono stati troppo stretti, i secondi troppo larghi: non sappiamo se ciò valga anche per le altre zone, o se sia un caso unico nella topografia morale dell'Inferno, mentre è evidente che il peccato commesso dai prodighi è diverso da quello degli scialacquatori, che non si sono limitati a spendere troppo ma hanno sperperato in maniera dissennata tutto il loro patrimonio, per cui li troveremo tra i peccatori di violenza del VII Cerchio. Distinzione analoga tra avari e prodighi ci sarà anche nella V Cornice del Purgatorio, anche in quel caso col dubbio se essa sia riservata a quel luogo o da estendere a tutto il secondo regno (le parole del poeta in proposito non sono esaustive nemmeno in quella circostanza). Quel che è certo è che qui Dante vuole condannare soprattutto l'avarizia e, attraverso di essa, rivolgere un'aspra critica alla corruzione ecclesiastica: infatti tra le anime degli avari il poeta vede moltissimi chierici (riconoscibili per il fatto di avere la tonsura) e Virgilio non tarda a spiegargli che tra loro ci sono papi e cardinali, dichiarando dunque che la corruzione è largamente diffusa nelle alte gerarchie della Chiesa dato l'elevato numero di dannati stipati dalla giustizia di Dio in questo Cerchio. Per la prima e unica volta Dante omette di fare i nomi di anime dannate, adducendo come motivo il loro aspetto irriconoscibile per via del peccato, in maniera analoga per certi versi a quanto già detto per Ciacco; c'è chi ha pensato a una naturale prudenza da parte dell'autore, trattandosi del delicato tema della responsabilità degli alti vertici della Chiesa, ma nel Canto XIX Dante non esiterà a porre tra i papi simoniaci Niccolò III e a fargli predire addirittura la dannazione di due papi futuri, Bonifacio VIII e Clemente V, mentre in altri momenti del poema egli rivolgerà aspre invettive sia contro papa Bonifacio, in carica al momento dell'immaginario viaggio, sia contro Giovanni XXII, che invece era pontefice quando venivano composti gli ultimi Canti della Commedia (durissimo il suo attacco contro di lui in Par., XVIII, 130-136). Virgilio qui si limita a condannare la cieca cupidigia di queste anime e a ricordare il loro destino dopo il Giudizio finale, quando gli avari risorgeranno col pugno chiuso e i prodighi coi crin mozzi, a simboleggiare per l'eternità il loro peccato e ad affermare che l'attaccamento alle ricchezze terrene le ha escluse irrimediabilmente dalla salvezza, mentre tutto l'oro del mondo adesso diventa inutile ai loro occhi. Va aggiunto che tutta questa descrizione è sottolineata da suoni aspri e rime difficili, come -erci, -erchio, -ozzi, -ulcro, -uffa, -anche (in cui abbondano le consonanti gutturali e c'è ampio uso di metafore animalesche e termini rari), mentre nel successivo discorso di Virgilio sulla Fortuna il tono si farà più disteso e i suoni assai più morbidi, forse per creare un voluto contrasto con la materia trattata in precedenza.
Gli antichi interpretavano la Fortuna come una dea capricciosa e volubile, che teneva tra branche (tra gli artigli) i beni terreni, come una creatura animalesca, e dispensava e toglieva le ricchezze agli uni e agli altri in modo del tutto casuale e senza alcuna considerazione razionale: Dante ha ben presente questa concezione e ne chiede conto a Virgilio, la cui risposta smentisce decisamente a lume di filosofia i luoghi comuni che nel Medioevo ancora esistevano su questa divinità. Virgilio chiarisce che essa è in realtà un'intelligenza angelica, ministra ed esecutrice della volontà divina, che trasmuta le ricchezze di mano in mano secondo il suo giudizio inconoscibile agli uomini che, è evidente, si conforma a quello di Dio: tale visione è propria della cultura medievale, profondamente diversa dalla concezione classica e umanistica che riconduceva la fortuna al caso e quindi la subordinava alla virtù umana (Virgilio spiega invece che la prudenza umana non può nulla contro il volere della Fortuna, il cui giudizio è occulto come in erba l'angue); se gli uni si arricchiscono e gli altri si impoveriscono ciò non è dovuto al caso o al capriccio della dea, ma al disegno provvidenziale di Dio in cui tutto ha un senso e nulla avviene per caso, anche se ciò non è immediatamente comprensibile agli uomini il cui intelletto non può penetrare nell'abisso della saggezza divina. Ciò ribadisce la scarsa importanza delle ricchezze materiali, in cui carattere transitorio dimostra che ben poco peso devono avere nella vicenda degli uomini sulla Terra e nulla possono determinare quanto alla salvezza ultraterrena che dipende da ben altro, per cui l'eccessivo confidare nella Fortuna rischia di portare alla dannazione come capitato alle anime di questo Cerchio.
L'ultima parte del Canto introduce gli iracondi immersi nella palude Stigia che circonda la città di Dite: tra di essi vi sono gli «accidiosi», ovvero gli iracondi che covarono a lungo il risentimento e meditarono vendetta, posti sott'acqua e intenti a pronunciare parole che fanno ripullulare la superficie della palude, con cui ammettono la loro colpa e il fatto di essere stati tristi nella vita felice. Da scartare l'ipotesi che Dante intendesse con questi i peccatori di accidia, il quarto peccato capitale, e ancor più l'opinione che nello Stige sarebbero immersi anche superbi e invidiosi, per completare il quadro dei peccati di eccesso puniti nei primi sei Cerchi. Questo è anche il primo Canto dell'Inferno in cui la conclusione non coincide con la visione di un determinato luogo e tutto viene lasciato in sospeso, creando un'atmosfera di attesa che verrà sciolta all'inizio dell'episodio seguente: nel Canto VIII verrà infatti mostrata con ulteriori dettagli la pena degli altri iracondi, e verrà in parte spiegata anche la funzione della torre che è indicata alla fine di questo Canto, con la segnalazione luminosa che (forse) sarà il richiamo convenuto per Flegiàs, il demone col compito di traghettare le anime attraverso la palude (benché su questa figura, come già per Pluto, vi sia più di un'incertezza tra gli interpreti).
La fortuna nel pensiero rinascimentale: Machiavelli
S. di Tito, Ritratto di N. Machiavelli
Nel Canto VII dell'Inferno Dante descrive la fortuna come un'intelligenza angelica, una specie di «ministra» incaricata di trasmutare le ricchezze materiali da un individuo all'altro e da una famiglia all'altra in base al giudizio divino imperscrutabile all'uomo: questa è la visione della cultura teocentrica del Medioevo che trova ampia espressione nel poema dantesco, ma già pochi decenni più tardi nel Decameron di G. Boccaccio la fortuna verrà rappresentata come il semplice caso, che interviene nelle vicende umane senza alcun disegno preordinato e a cui l'uomo è in grado di opporsi grazie al ricorso all'industria, ovvero l'insieme delle virtù del mercante e di chi è in grado di costruirsi il proprio destino. Tale visione anticipa per molti aspetti quella che sarà elaborata più tardi in età umanistico-rinascimentale, in cui il teocentrismo del Due-Trecento verrà sostituito dal cosiddetto antropocentrismo e si riconoscerà all'uomo l'effettiva capacità di forgiare la propria sorte, senza essere per forza subordinato al volere divino che, pur non essendo negato, viene tuttavia ridimensionato e posto all'esterno delle vicende umane. È ovvio che il tema della fortuna era destinato ad essere affrontato in una luce nuova, e tra i molti scrittori del Cinquecento che si occuparono a vario titolo della questione spicca N. Machiavelli (1469-1527), il fondatore della politica come scienza disgiunta dalla morale e autore del trattato più importante dell'età rinascimentale, il Principe: nel cap. XXV lo scrittore fiorentino parla proprio della fortuna e parte dalla considerazione che grande sembra essere il suo peso nelle vicende storiche, specie guardando all'Italia e alla grave crisi politica che il Paese attraversa all'inizio del XVI sec., anche se Machiavelli è convinto che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, mentre l'altra metà ricade nel libero arbitrio dell'uomo e dunque questi è in grado, con opportuni accorgimenti, di opporsi ai rovesci della malasorte. L'azione della fortuna è paragonata a quella rovinosa di un fiume in piena che esonda e distrugge campi e coltivazioni, ma i cui danni possono essere limitati da opere quali ripari e argini, per cui la fortuna dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle (l'Italia nel primo Cinquecento dimostra questo assunto, poiché essa appare allo scrittore come una campagna senza argini ed esposta alle invasioni straniere, diversamente da Francia, Germania, Spagna). È chiaro che nella visione di Machiavelli la fortuna è lontanissima dalla visione dantesca dell'intelligenza angelica ed è assimilata al caso che scombina i progetti degli uomini, come del resto dimostra l'esempio del duca Valentino (Cesare Borgia) proposto nel cap. VII: il nobile era riuscito a creare dal nulla un vasto dominio grazie a un'azione politica spregiudicata e all'appoggio di papa Alessandro VI, di cui era figlio naturale, ma l'improvvisa e inattesa morte di questi lo colse di sorpresa e ne causò la rovina, poiché il Valentino non si era premunito ottenendo l'elezione di un nuovo papa a lui favorevole. La fortuna è vista allora come il mutare inopinato delle circostanze in cui agisce l'uomo politico, che deve essere preparato a ogni evenienza ed essere pronto ad adattare il suo modus operandi al cambiamento di situazione, anche se Machiavelli giudica che una condotta impetuosa e irruenta sia comunque da preferire ad una eccessivamente cauta e guardinga: ne è un felice esempio papa Giulio II che, agendo d'impulso, ebbe sempre successo nei suoi progetti politici, per cui lo scrittore può concludere dicendo che la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, battere e urtarla... come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi [riflessivi, cauti], più feroci, e con più audacia la comandano. È appena il caso di osservare quanto tale descrizione della fortuna sia distante da quella dantesca, poiché la mentalità di Machiavelli è ormai saldamente ancorata in quel sistema di pensiero che costituisce la modernità e che, fatte salve le debite differenze, è assai più vicino al nostro di quanto non lo fosse quello in cui nacque la Commedia.
Note e passi controversi
Il v. 1 è stato variamente interpretato, dando luogo a una vera e propria letteratura critica. Da scartare l'ipotesi che le parole di Pluto siano senza senso, mentre più probabilmente si tratta di una invocazione a Satana-Lucifero di cui forse lo stesso Pluto è figura allegorica (la frase vorrebbe dire pressappoco: «Oh, Satana, oh, Satana, re dell'Inferno», in cui gli studiosi hanno visto analogie col francese, col greco, con l'ebraico e persino con l'arabo). Virgilio zittisce Pluto con una formula simile a quelle già usate per Caronte e Minosse.
I vv. 11-12 alludono alla punizione di Lucifero e degli altri angeli ribelli ad opera dell'arcangelo Michele (strupo è metatesi per «stupro», nel senso di «ribellione»).
Al v. 14 fiacca vuol dire «si spezza» e ha come soggetto l'albero; altri pensano invece che soggetto sia il vento e che il verbo abbia significato transitivo.
Al v. 16 lacca è termine raro per «china», «discesa».
I vv. 22-24 indicano che le due schiere di dannati «riddano», ballano cioè la «ridda» (una danza che procedeva in tondo a un ritmo frenetico), come le onde tra Scilla e Cariddi presso lo Stretto di Messina si infrangono l'una contro l'altra.
Al v. 28 pur lì è rima composta e si legge pùrli (cfr. XXVIII, 123; XXX, 87, ecc.).
Il verbo burlare (v. 30) significa «far rotolare», quindi per estensione spendere, buttare via il denaro (forse lo stesso significato spiega anche il contrappasso, qui meno chiaro che altrove).
Al v. 33 anche è avverbio («ancora»).
Al v. 58 mondo pulcro è metafora per indicare il Paradiso. Appulcro (v. 61) è neologismo dantesco, dal lat. pulcher, «bello» («non aggiungo belle parole»).
Nel v. 61 buffa può significare vento, soffio, instabilità, ma anche «beffa» come in Inf., XXII, 133.
I vv. 64-66 possono indicare che tutto l'oro del mondo non avrebbe soddisfatto le brame di questi dannati quand'erano in vita, ma anche che ora non potrebbe alleviare la loro pena (sembra preferibile la seconda ipotesi).
Al v. 84 angue è lat. per «serpente» (cfr. Virgilio, Egl., III, 96: latet anguis in herba).
Al v. 85 contasto è lectio difficilior per «contrasto».
La spera del v. 96 può essere il Cielo che, metaforicamente, la Fortuna deve governare, ma anche la ruota che fa parte dell'iconografia classica della divinità pagana.
È evidente il contrappasso degli iracondi, intenti a lacerarsi l'un l'altro come nella vita terrena (vv. 109 ss.), mentre non molto chiaro è il rapporto con il fiume Stige che nel libro VI dell'Eneide circonda con nove giri le anime di coloro che morirono suicidi.
Al v. 128 mézzo significa «bagnato».
I vv. 11-12 alludono alla punizione di Lucifero e degli altri angeli ribelli ad opera dell'arcangelo Michele (strupo è metatesi per «stupro», nel senso di «ribellione»).
Al v. 14 fiacca vuol dire «si spezza» e ha come soggetto l'albero; altri pensano invece che soggetto sia il vento e che il verbo abbia significato transitivo.
Al v. 16 lacca è termine raro per «china», «discesa».
I vv. 22-24 indicano che le due schiere di dannati «riddano», ballano cioè la «ridda» (una danza che procedeva in tondo a un ritmo frenetico), come le onde tra Scilla e Cariddi presso lo Stretto di Messina si infrangono l'una contro l'altra.
Al v. 28 pur lì è rima composta e si legge pùrli (cfr. XXVIII, 123; XXX, 87, ecc.).
Il verbo burlare (v. 30) significa «far rotolare», quindi per estensione spendere, buttare via il denaro (forse lo stesso significato spiega anche il contrappasso, qui meno chiaro che altrove).
Al v. 33 anche è avverbio («ancora»).
Al v. 58 mondo pulcro è metafora per indicare il Paradiso. Appulcro (v. 61) è neologismo dantesco, dal lat. pulcher, «bello» («non aggiungo belle parole»).
Nel v. 61 buffa può significare vento, soffio, instabilità, ma anche «beffa» come in Inf., XXII, 133.
I vv. 64-66 possono indicare che tutto l'oro del mondo non avrebbe soddisfatto le brame di questi dannati quand'erano in vita, ma anche che ora non potrebbe alleviare la loro pena (sembra preferibile la seconda ipotesi).
Al v. 84 angue è lat. per «serpente» (cfr. Virgilio, Egl., III, 96: latet anguis in herba).
Al v. 85 contasto è lectio difficilior per «contrasto».
La spera del v. 96 può essere il Cielo che, metaforicamente, la Fortuna deve governare, ma anche la ruota che fa parte dell'iconografia classica della divinità pagana.
È evidente il contrappasso degli iracondi, intenti a lacerarsi l'un l'altro come nella vita terrena (vv. 109 ss.), mentre non molto chiaro è il rapporto con il fiume Stige che nel libro VI dell'Eneide circonda con nove giri le anime di coloro che morirono suicidi.
Al v. 128 mézzo significa «bagnato».
Testo«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, 3 disse per confortarmi: «Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch’elli abbia, non ci torrà lo scender questa roccia». 6 Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia, e disse: «Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia. 9 Non è sanza cagion l’andare al cupo: vuolsi ne l’alto, là dove Michele fé la vendetta del superbo strupo». 12 Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele. 15 Così scendemmo ne la quarta lacca pigliando più de la dolente ripa che ’l mal de l’universo tutto insacca. 18 Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant’io viddi? e perché nostra colpa sì ne scipa? 21 Come fa l’onda là sovra Cariddi, che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi. 24 Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa, e d’una parte e d’altra, con grand’urli, voltando pesi per forza di poppa. 27 Percoteansi ’ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro, gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?». 30 Così tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l’opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro; 33 poi si volgea ciascun, quand’era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra. E io, ch’avea lo cor quasi compunto, 36 dissi: «Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra». 39 Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci sì de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci. 42 Assai la voce lor chiaro l’abbaia quando vegnono a’ due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia. 45 Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio». 48 E io: «Maestro, tra questi cotali dovre’ io ben riconoscere alcuni che furo immondi di cotesti mali». 51 Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fé sozzi ad ogne conoscenza or li fa bruni. 54 In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. 57 Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa: qual ella sia, parole non ci appulcro. 60 Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d’i ben che son commessi a la fortuna, per che l’umana gente si rabbuffa; 63 ché tutto l’oro ch’è sotto la luna e che già fu, di quest’anime stanche non poterebbe farne posare una». 66 «Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche: questa fortuna di che tu mi tocche, che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?». 69 E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v’offende! Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche. 72 Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce sì ch’ogne parte ad ogne parte splende, 75 distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce 78 che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d’uno in altro sangue, oltre la difension d’i senni umani; 81 per ch’una gente impera e l’altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l’angue. 84 Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi. 87 Le sue permutazion non hanno triegue; necessità la fa esser veloce; sì spesso vien chi vicenda consegue. 90 Quest’è colei ch’è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; 93 ma ella s’è beata e ciò non ode: con l’altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode. 96 Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta». 99 Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva sovr’una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva. 102 L’acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l’onde bige, intrammo giù per una via diversa. 105 In la palude va c’ha nome Stige questo tristo ruscel, quand’è disceso al piè de le maligne piagge grige. 108 E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso. 111 Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co’ denti a brano a brano. 114 Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l’anime di color cui vinse l’ira; e anche vo’ che tu per certo credi 117 che sotto l’acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest’acqua al summo, come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira. 120 Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidioso fummo: 123 or ci attristiam ne la belletta negra". Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra». 126 Così girammo de la lorda pozza grand’arco tra la ripa secca e ’l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. Venimmo al piè d’una torre al da sezzo. 130 |
Parafrasi«Oh, Satana, oh, Satana, re dell'Inferno!» cominciò a dire Pluto con la voce roca; e quel nobile saggio che seppe ogni cosa, per confortarmi disse: «Non farti sopraffare dalla paura, poiché, per potere che abbia questo demone, non ci impedirà di scendere questa roccia».
Poi si rivolse a quel volto gonfio d'ira e disse: «Taci, maledetto lupo! consuma dentro di te con la tua rabbia. Non è senza ragione il nostro viaggio verso il fondo dell'Inferno: si vuole così in Cielo, dove l'arcangelo Michele vendicò il supremo peccato di Lucifero». Come le vele gonfiate dal vento cadono ravvolte, se l'albero della nave si spezza, così cadde a terra la belva crudele. Allora scendemmo nel IV Cerchio, procedendo più in basso in quella dolorosa voragine che contiene tutto il male del mondo. Ahimè, giustizia divina, chi mai ammassa tante pene e tormenti quanti ne vidi io in quel luogo? e perché la nostra colpa ci strazia in tal modo? Come fa l'onda presso Cariddi, quando si infrange con quella che proviene da Scilla, così quei dannati devono danzare la ridda. Qui vidi più dannati che in qualunque altro luogo d'Inferno, che da una parte e da quella opposta facevano rotolare massi con la forza del petto, urlando. Andavano a cozzare gli uni contro gli altri, quindi ciascuna schiera si voltava indietro e gridavano reciprocamente: «Perché tieni stretto il masso?» e «Perché lo fai rotolare?» Così tornavano indietro nel Cerchio buio da ogni lato al punto opposto, continuando a gridare le parole ingiuriose; poi, una volta arrivati dall'altra parte, tornavano a voltarsi e ricominciavano la giostra. E io, che avevo il cuore gonfio di angoscia, dissi: «Maestro mio, mostrami che dannati sono questi e se questi alla nostra sinistra che hanno la tonsura furono tutti chierici». E lui a me: «Tutti quanti in vita ebbero la mente ottenebrata, così che non fecero alcuna spesa con misura. La loro voce lo esprime chiaramente quando giungono ai due punti del Cerchio, dove la loro colpa opposta li separa in due schiere distinte. Questi, che non hanno i capelli sul capo, furono chierici, e papi e cardinali, in cui l'avarizia esercita il suo eccesso». E io: «Maestro, io dovrei certo riconoscere alcuni fra questi dannati, che si macchiarono di queste colpe». E lui a me: «Il tuo pensiero è vano: la vita dissennata che li fece peccare, ora li rende del tutto irriconoscibili. Verranno a cozzare in eterno: gli avari risorgeranno dalla tomba col pugno chiuso, i prodighi coi capelli tagliati. Il troppo spendere e il troppo risparmio ha tolto loro il Paradiso, e li ha posti a questa contesa: non uso altre parole per descrivere la loro pena. Ora, figliuolo, puoi vedere la corta durata dei beni che sono affidati alla fortuna, per cui l'umanità si affanna tanto; infatti, tutto l'oro del mondo e che già fu in passato, non potrebbe far acquietare neppure una di queste anime». Io dissi: «Maestro mio, ora spiegami: questa fortuna di cui tu mi parli, e che ha i beni del mondo tra i suoi artigli, che cos'è?» E lui mi rispose: «O uomini sciocchi, quanta ignoranza vi danneggia! Ora voglio che ascolti attentamente le mie parole. Colui la cui sapienza supera tutto (Dio) creò i cieli, e dispose delle intelligenze angeliche per governarli, così che la sua luce si rifletta di cielo in cielo e si riverberi egualmente nell'Universo. Allo stesso modo, dispose un'intelligenza per governare e amministrare i beni terreni, che li trasmutasse al momento opportuno tra le varie famiglie e le varie stirpi, al di là dell'opposizione del senno degli uomini; perciò una famiglia prospera e un'altra decade, in base al giudizio della fortuna che è nascosto, come il serpente che si annida tra l'erba. La vostra sapienza non la può contrastare: essa provvede, giudica e attua i suoi decreti, proprio come le altre intelligenze angeliche. Le sue trasmutazioni non hanno tregua; deve essere veloce per ottemperare il volere divino; così succede spesso che vi siano mutamenti di condizione. La fortuna è colei che è tanto criticata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, e che invece la biasimano e insultano a torto: ma lei è felice e non sente tutto ciò: lieta, insieme agli altri angeli, fa girare la sua ruota e gode la sua serenità. Ora è tempo di scendere a una angoscia maggiore; ormai sta tramontando ogni stella che sorgeva quando lasciai il Limbo (sono passate dodici ore) e non possiamo perdere troppo tempo». Noi attraversammo il Cerchio fino all'argine opposto, sopra una sorgente che ribolle e si riversa lungo un fossato che inizia da essa. L'acqua era molto scura e noi, seguendo le onde nere, scendemmo lungo una via malagevole. Questo triste ruscello va nella palude chiamata Stige, una volta che è sceso ai piedi di quel tetro pendio infernale. E io, che guardavo attentamente, vidi dei dannati immersi in quel pantano fangoso, tutti nudi e con aspetto crucciato. Essi si colpivano non solo con le mani, ma con la testa, il petto, i piedi, strappandosi la carne a morsi. Il buon maestro disse: «Figlio, ora vedi le anime che furono sopraffatte dall'ira; e voglio anche che tu creda per certo che sotto l'acqua ci sono anime che sospirano, e fanno gorgogliare la superficie dell'acqua, come puoi vedere ovunque volgi lo sguardo. Coperti dal fango dicono: "Noi fummo tristi nell'aria dolce che trae allegria dal sole, covando dentro l'animo un'ira inespressa: ora ci rattristiamo nel fango nero". Fanno gorgogliare queste parole in gola, poiché non possono pronunciarle con voce chiara». Così costeggiammo quella sozza palude per un grande arco, tra l'argine roccioso e l'acqua, con gli occhi rivolti alle anime immerse nel fango. Alla fine giungemmo ai piedi di una torre. |