Purgatorio, Canto XIX
Amos Nattini, Gli avari e i prodighi
"Io son", cantava, "io son dolce serena,
che' marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena! ..."
Com'io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso...
Ed elli a me: "Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
'scias quod ego fui successor Petri' ..."
che' marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena! ..."
Com'io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso...
Ed elli a me: "Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
'scias quod ego fui successor Petri' ..."
Argomento del Canto
Ancora nella IV Cornice: sogno di Dante (la femmina balba). L'angelo della sollecitudine; salita alla V Cornice. Le anime degli avari e prodighi. Incontro con papa Adriano V.
È martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, dall'alba alle prime ore del mattino.
È martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, dall'alba alle prime ore del mattino.
Il sogno di Dante: la femmina balba (1-33)
S. Dalì, La femmina balba
È l'ora in cui il calore della Terra è svanito e la costellazione dei Pesci sorge sull'orizzonte, poco prima dell'alba, quando Dante sogna una donna balbuziente, con gli occhi storti e zoppa, dalle dita rattrappite e di colorito smorto. Lo sguardo del poeta nel sogno la rende bellissima, come il calore del sole riscalda le membra infreddolite nella notte: la donna prende a parlare con scioltezza e dichiara di essere una dolce sirena che tenta i marinai nell'oceano, proprio come aveva fatto con Ulisse, ed è in grado di legare a sé chi la ascolta. La donna non ha ancora smesso di parlare, quando ne appare una seconda dall'aspetto di santa, che chiede a Virgilio chi sia l'altra: quest'ultima è avvicinata dal maestro, che le strappa la veste e mostra a Dante il suo ventre da cui esce un gran puzzo, tale da risvegliare immediatamente il poeta.
L'angelo della sollecitudine (34-51)
G. Dorè, L'angelo della sollecitudine
Dante si sveglia e Virgilio gli dice di averlo già chiamato tre volte, invitandolo ad alzarsi e a seguirlo, così da trovare il passaggio alla Cornice seguente. Dante obbedisce e segue il maestro, procedendo col sole nascente alle spalle (quindi verso occidente). Il poeta cammina curvo e pensoso, simile a un mezzo arco di ponte, quando sente la voce dell'angelo della sollecitudine che li esorta a salire la scala con voce dolce e benevola. L'angelo apre le ali bianche come quelle di un cigno e li introduce alla scala, stretta tra due pareti rocciose, quindi muove le penne e fa vento verso i due poeti, affermando che sono beati coloro che piangono e che saranno consolati.
Virgilio interpreta il sogno di Dante (52-69)
Mentre i due iniziano a salire la scala, Virgilio chiede a Dante perché cammini così pensieroso e con lo sguardo a terra e il discepolo risponde che a renderlo dubbioso è il sogno da lui fatto poco prima. Virgilio gli spiega che la femmina che ha sognato rappresenta la cupidigia dei beni materiali, ovvero il peccato punito nelle tre Cornici soprastanti, e ha visto il modo con cui l'uomo può liberarsene (con l'aiuto della ragione). Virgilio invita dunque Dante ad affrettare il passo e a rivolgere lo sguardo ai beni celesti, che devono essere il solo richiamo per l'uomo. Dante è come il falcone che fino a quel momento ha guardato in basso e poi drizza il collo al richiamo del padrone che gli porge il cibo, poiché egli si affretta a percorrere la scala fino all'ingresso nella V Cornice.
Virgilio interpreta il sogno di Dante (52-69)
Mentre i due iniziano a salire la scala, Virgilio chiede a Dante perché cammini così pensieroso e con lo sguardo a terra e il discepolo risponde che a renderlo dubbioso è il sogno da lui fatto poco prima. Virgilio gli spiega che la femmina che ha sognato rappresenta la cupidigia dei beni materiali, ovvero il peccato punito nelle tre Cornici soprastanti, e ha visto il modo con cui l'uomo può liberarsene (con l'aiuto della ragione). Virgilio invita dunque Dante ad affrettare il passo e a rivolgere lo sguardo ai beni celesti, che devono essere il solo richiamo per l'uomo. Dante è come il falcone che fino a quel momento ha guardato in basso e poi drizza il collo al richiamo del padrone che gli porge il cibo, poiché egli si affretta a percorrere la scala fino all'ingresso nella V Cornice.
Gli avari e i prodighi. Incontro con papa Adriano V (70-114)
G. Doré, Avari e prodighi
Appena entrato nella Cornice, Dante vede le anime dei penitenti (gli avari e i prodighi) stese con la faccia a terra, intente a piangere, mentre recitano il salmo Adhaesit pavimento anima mea con profondi sospiri. Virgilio si rivolge alle anime e chiede loro di indicare l'accesso alla Cornice successiva: una di queste risponde invitandoli a procedere col fianco destro verso la parte esterna della Cornice. Dante intuisce che il penitente vorrebbe dire altro, per cui guarda interrogativamente Virgilio che gli consente di parlare con un cenno, quindi il poeta si porta vicino all'anima che ha parlato e le chiede di rivelare chi sono questi peccatori e di dirgli il suo nome, così da giovargli una volta tornato sulla Terra. Il peccatore (papa Adriano V) risponde presentandosi come successore di Pietro e spiega di essere originario della terra di Lavagna, in Liguria, come la nobile casata cui appartenne in vita. Fu papa per poco più di un mese, in cui tuttavia sperimentò quanto sia gravoso ricoprire quell'alta carica. Egli si convertì tardivamente, ma non appena divenne papa capì i suoi errori passati e si avvide che i beni terreni non danno la felicità, dal momento che non poteva aspirare a una più alta dignità. Fino a quel momento era stato ambizioso e avaro e ora, in Purgatorio, sconta la pena per i suoi peccati.
Adriano spiega la pena degli avari. Le sue ultime parole (115-145)
Papa Adriano V
La pena degli avari rispecchia il loro peccato in vita ed è la più amara di tutto il Purgatorio: come sulla Terra essi non hanno rivolto lo sguardo in alto ma lo hanno tenuto fisso sulle cose terrene, così ora la giustizia divina li tiene stesi e rivolti a terra, con piedi e mani legati, e li terrà in quelle condizioni fin tanto che piacerà a Dio per purificare le loro colpe. Dante si inginocchia davanti a Adriano e sta per parlare, quando il penitente gli chiede per quale motivo si sia inchinato. Dante risponde di averlo fatto in segno di rispetto per la sua dignità di pontefice, ma il penitente lo esorta ad alzarsi in piedi, poiché lui e Dante sono egualmente soggetti alla stessa autorità di Dio. Nell'Oltremondo si è tutti uguali e le dignità terrene non contano più, quindi Adriano invita Dante ad allontanarsi, poiché il protrarsi del colloquio gli impedisce di espiare la colpa in modo conveniente. Aggiunge di avere una nipote di nome Alagia, piena di virtù a patto che la sua famiglia non la corrompa, che è la sola che possa pregare per lui sulla Terra.
Interpretazione complessiva
Il Canto è diviso in due parti, la prima delle quali dedicata al sogno della femmina balba e all'incontro con l'angelo della sollecitudine, la seconda all'ingresso nella V Cornice e all'incontro con papa Adriano V, incentrato prevalentemente sulla condanna del peccato di avarizia. L'inizio dell'episodio è sostenuto, con l'indicazione dell'ora (siamo in prossimità dell'alba, il momento in cui i sogni secondo la tradizione medievale sono veritieri) attraverso una complessa perifrasi, come nel Canto IX: è il momento in cui il freddo della Luna e di Saturno vince il calore della Terra, e in cui la costellazione dei Pesci sorge sull'orizzonte, simile nella forma alla figura della Fortuna Maior ricercata dai geomanti. Dante sogna una donna deforme e balbuziente, che il suo sguardo trasforma in una donna bellissima e seducente: essa si presenta come una sirena capace di incantare i marinai, come già fece con Ulisse, finché sopraggiunge una santa donna che fa intervenire Virgilio, il quale mostra come essa abbia il ventre marcio. È Virgilio stesso a spiegarne il significato a Dante, presentando la femmina balba come il simbolo dei beni materiali concupiti dall'uomo: essi danno una falsa illusione di felicità ed è l'occhio avido degli uomini a renderli appetibili, mentre la ragione umana (allegorizzata da Virgilio) ne svela la reale natura e il carattere vile. Si è molto discusso sull'identità da attribuire alla donna che si oppone alla femmina balba, che è stata interpretata come Beatrice (il che è poco probabile, in quanto Dante l'avrebbe riconosciuta), la Ragione (ma essa è raffigurata dal poeta latino), la Temperanza (cioè la virtù opposta alla cupidigia, ipotesi che forse è la più verosimile); certo il richiamo di Virgilio è a drizzare lo sguardo al cielo, dove Dio alletta gli uomini col suo logoro, ovvero il richiamo che il falconiere usava per richiamare il falcone e addestrarlo. Il monito del maestro ricorda molto quello alla fine del Canto XIV, quando aveva detto che il cielo 'ntorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze eterne, mentre gli uomini abboccano all'esca ammannita dal demonio: qui la reazione di Dante alle parole di Virgilio è di grande sollecitudine, affrettandosi a salire la scala che conduce alla V Cornice come il falcone che risponde al richiamo del suo padrone, proseguendo la similitudine dei versi precedenti (e l'immagine del volo verso l'alto anticipa l'accesso al Paradiso Terrestre che condurrà Dante a sollevarsi fisicamente verso il Cielo, dopo aver espiato le sue colpe ed essersi purificato l'anima).
L'allegoria della femmina balba e dei beni terreni ci introduce alla Cornice dove sono puniti gli avari, stesi sul pavimento roccioso e con le spalle rivolte a quel cielo che essi disdegarono in vita, contrariamente al richiamo che Virgilio ha rivolto nel passo precedente: l'attenzione di Dante è per il peccato di cupidigia, anche se apprenderemo in seguito che qui si sconta anche quello opposto di prodigalità. Significativa è la scelta del protagonista, quel papa Adriano V che fu pontefice per pochi giorni e si rese conto dell'enorme responsabilità di portare il gran manto, pentendosi dell'ambizione e dell'avarizia dimostrata sino a quel momento: la sua figura è speculare rispetto a quella di papa Niccolò III, il protagonista del Canto XIX dell'Inferno dedicato ai simoniaci e condannato per sempre a causa delle sua corruzione nell'esercitare la stessa carica. Va detto che Dante confonde sicuramente Ottobono Fieschi con Adriano IV, la cui avidità è ben nota e testimoniata nei documenti, ma ciò non toglie che il poeta abbia voluto creare un perfetto parallelismo con l'episodio della I Cantica (a cominciare dal numero del Canto, che è il XIX in entrambi i casi, e dall'espressione gran manto usata da ambedue i pontefici per indicare la loro carica). Sia Niccolò III sia Adriano V erano nobili, entrambi ambiziosi e cupidi di ricchezze materiali, ma mentre il papa Orsini è diventato pontefice per arricchirsi e privilegiare i suoi parenti, Adriano V ha capito proprio sul soglio di Pietro che quei beni terreni non danno la vera felicità, poiché ottenere una carica più alta non era possibile ed essa non soddisfaceva i suoi desideri. I due personaggi sono speculari anche sul piano stilistico, in quanto Niccolò usava un linguaggio comico e pieno di amaro sarcasmo, mentre il discorso di Adriano è retoricamente elevato, a iniziare dalla perifrasi latina con cui si presenta in qualità di successor Petri, passando poi all'elegante descrizione geografica dei luoghi natali, arrivando infine alla presentazione della propria conversione una volta arrivato alla massima carica ecclesiastica. Diverso e opposto anche l'atteggiamento di Dante, che contro Niccolò aveva rivolto un'aspra invettiva dai toni biblici e solenni, mentre qui si inginocchia in segno di rispetto per la dignità pontificale del penitente, che si affretta a farlo rialzare: nella dimensione ultraterrena si è tutti uguali, le dignità terrene non contano più nulla e tutto ciò che interessa al peccatore è espiare prima possibile la sua colpa, per cui Dante è invitato ad allontanarsi per non rallentare la sua purificazione.
In questo senso va interpretato l'ultimo accenno del papa alla nipote Alagia, giovane dai costumi virtuosi che è la sola sulla Terra della sua famiglia che possa pregare per la sua anima: Alagia fu moglie di Moroello Malaspina e Dante la conobbe personalmente durante il suo soggiorno in Lunigiana, quando fu ospite di quella nobile casata (da lui celebrata nell'incontro con Corrado Malaspina, nel Canto VIII). Il discorso intorno all'avarizia proseguirà nel Canto successivo, strettamente legato a questo quanto al tema, il cui protagonista sarà il re di Francia Ugo Capeto: dopo un pontefice verrà presentato un sovrano, scelta motivata dal fatto che l'avarizia era il peccato più di ogni altro responsabile, secondo Dante, del degrado morale del suo tempo, tanto in campo ecclesiastico quanto in quello politico.
L'allegoria della femmina balba e dei beni terreni ci introduce alla Cornice dove sono puniti gli avari, stesi sul pavimento roccioso e con le spalle rivolte a quel cielo che essi disdegarono in vita, contrariamente al richiamo che Virgilio ha rivolto nel passo precedente: l'attenzione di Dante è per il peccato di cupidigia, anche se apprenderemo in seguito che qui si sconta anche quello opposto di prodigalità. Significativa è la scelta del protagonista, quel papa Adriano V che fu pontefice per pochi giorni e si rese conto dell'enorme responsabilità di portare il gran manto, pentendosi dell'ambizione e dell'avarizia dimostrata sino a quel momento: la sua figura è speculare rispetto a quella di papa Niccolò III, il protagonista del Canto XIX dell'Inferno dedicato ai simoniaci e condannato per sempre a causa delle sua corruzione nell'esercitare la stessa carica. Va detto che Dante confonde sicuramente Ottobono Fieschi con Adriano IV, la cui avidità è ben nota e testimoniata nei documenti, ma ciò non toglie che il poeta abbia voluto creare un perfetto parallelismo con l'episodio della I Cantica (a cominciare dal numero del Canto, che è il XIX in entrambi i casi, e dall'espressione gran manto usata da ambedue i pontefici per indicare la loro carica). Sia Niccolò III sia Adriano V erano nobili, entrambi ambiziosi e cupidi di ricchezze materiali, ma mentre il papa Orsini è diventato pontefice per arricchirsi e privilegiare i suoi parenti, Adriano V ha capito proprio sul soglio di Pietro che quei beni terreni non danno la vera felicità, poiché ottenere una carica più alta non era possibile ed essa non soddisfaceva i suoi desideri. I due personaggi sono speculari anche sul piano stilistico, in quanto Niccolò usava un linguaggio comico e pieno di amaro sarcasmo, mentre il discorso di Adriano è retoricamente elevato, a iniziare dalla perifrasi latina con cui si presenta in qualità di successor Petri, passando poi all'elegante descrizione geografica dei luoghi natali, arrivando infine alla presentazione della propria conversione una volta arrivato alla massima carica ecclesiastica. Diverso e opposto anche l'atteggiamento di Dante, che contro Niccolò aveva rivolto un'aspra invettiva dai toni biblici e solenni, mentre qui si inginocchia in segno di rispetto per la dignità pontificale del penitente, che si affretta a farlo rialzare: nella dimensione ultraterrena si è tutti uguali, le dignità terrene non contano più nulla e tutto ciò che interessa al peccatore è espiare prima possibile la sua colpa, per cui Dante è invitato ad allontanarsi per non rallentare la sua purificazione.
In questo senso va interpretato l'ultimo accenno del papa alla nipote Alagia, giovane dai costumi virtuosi che è la sola sulla Terra della sua famiglia che possa pregare per la sua anima: Alagia fu moglie di Moroello Malaspina e Dante la conobbe personalmente durante il suo soggiorno in Lunigiana, quando fu ospite di quella nobile casata (da lui celebrata nell'incontro con Corrado Malaspina, nel Canto VIII). Il discorso intorno all'avarizia proseguirà nel Canto successivo, strettamente legato a questo quanto al tema, il cui protagonista sarà il re di Francia Ugo Capeto: dopo un pontefice verrà presentato un sovrano, scelta motivata dal fatto che l'avarizia era il peccato più di ogni altro responsabile, secondo Dante, del degrado morale del suo tempo, tanto in campo ecclesiastico quanto in quello politico.
Note e passi controversi
I vv. 1-3 indicano le ultime ore della notte, quando secondo la tradizione i sogni erano veritieri, attraverso l'immagine del calore della Terra ormai dissolto dal freddo dei raggi lunari e di Saturno (questi due astri erano considerati entrambi molto freddi dalla fisica aristotelica). La Maggior Fortuna è la figura della Fortuna Maior, una di quelle individuate dai geomanti (erano degli indovini) che collegavano con linee sulla sabbia dei punti segnati a caso: essa aveva forma simile alla costellazione dei Pesci, che poco prima dell'alba sorge sull'orizzonte ma è presto offuscata dal sole nascente (cfr. I, 19-21).
La femmina balba ha il volto di colore smorto, di un pallore scialbo (v. 9), mentre lo sguardo di Dante le dà un colore com'amor vuol (v. 15), ovvero un pallore luminoso simile alle perle, come voleva il canone della bellezza femminile degli Stilnovisti.
Il vb. dismago (v. 20) vuol dire probabilmente «affascino», «incanto».
L'agg. vago (v. 22) riferito a Ulisse può significare «bramoso» del suo viaggio, oppure «invaghito» dal canto della sirena; meno probabile che sia riferito al cammino e che significhi «errabondo». Dante non conosceva il testo omerico e ha tratto l'immagine delle sirene che tentano Ulisse da fonti indirette, anche se non c'è un collegamento diretto col Canto XXVI dell'Inferno.
La donna santa e presta che richiama Virgilio contro la femmina balba è stata interpretata come Beatrice, la Ragione, santa Lucia, la Temperanza, la Grazia divina.
La rima Almen tre / entre (vv. 34-36) è composta (cfr. Inf., VII, 28; Purg., XVII, 55).
Il mezzo arco di ponte citato al v. 42 potrebbe essere un arco a sesto acuto, raro tuttavia nei ponti del Medioevo, oppure un frammento di un'arcata di un ponte rotto.
I vv. 50-51 parafrasano la terza beatitudine, Beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur (Matth., V, 5: «Beati coloro che piangono, perché saranno consolati»). Dante dice che avranno le anime donne, posseditrici di consolazione, modificando in parte il testo evangelico; non molto chiaro il rapporto tra la beatitudine e il peccato di accidia della IV Cornice.
L'espressione batti a terra le calcagne (v. 61) può voler dire «affretta il passo», ma anche «calpesta e disprezza i beni terreni».
Il logoro (v. 62) era un bastone con due ali posticce in punta, usato dal falconiere come richiamo per il falcone da caccia.
Il v. 73 (Adhaesit pavimento anima mea) riproduce il versetto 25 del Salmo CXVIII, che in realtà ha tutt'altro significato; non è improbabile che questa immagine abbia suggerito al poeta l'idea della pena di avari e prodighi.
Il v. 84 può indicare che Dante avverte qualcosa di inespresso, di sottaciuto nelle parole del penitente, ma anche semplicemente che egli ha capito chi ha parlato, quale anima si cela dietro le parole udite.
Il v. 99 (scias quod fui successor Petri) vuol dire «sappi che fui successore di Pietro», come veniva abitualmente chiamato il pontefice; cfr. Inf., XIX, 69: sappi ch'i' fui vestito del gran manto.
I vv. 100-102 indicano il luogo geografico dove s'adima, cioè «scende a valle» il fiume Entella, che nasce dal Lavagna e divide Sestri Levante da Chiavari; non è molto chiaro cosa intenda Adriano V quando dice del suo nome / lo titolo del mio sangue fa sua cima, ma forse indica che il nome Entella era riportato sulla parte alta del blasone dei conti di Lavagna, la famiglia di Ottobono Fieschi (far cima sarebbe termine tecnico dell'araldica).
I vv. 136-138 alludono al passo evangelico (Matth., XXII, 30) in cui i Sadducei chiedono a Cristo di chi sarà moglie nel regno dei Cieli una donna che ha sposato in successione sette fratelli: Gesù risponde in resurrectione enim neque nubent neque nubentur, «dopo la resurrezione non ci si ammoglia né ci si marita», intendendo dire che nel mondo ultraterreno i rapporti umani non hanno alcun valore.
La femmina balba ha il volto di colore smorto, di un pallore scialbo (v. 9), mentre lo sguardo di Dante le dà un colore com'amor vuol (v. 15), ovvero un pallore luminoso simile alle perle, come voleva il canone della bellezza femminile degli Stilnovisti.
Il vb. dismago (v. 20) vuol dire probabilmente «affascino», «incanto».
L'agg. vago (v. 22) riferito a Ulisse può significare «bramoso» del suo viaggio, oppure «invaghito» dal canto della sirena; meno probabile che sia riferito al cammino e che significhi «errabondo». Dante non conosceva il testo omerico e ha tratto l'immagine delle sirene che tentano Ulisse da fonti indirette, anche se non c'è un collegamento diretto col Canto XXVI dell'Inferno.
La donna santa e presta che richiama Virgilio contro la femmina balba è stata interpretata come Beatrice, la Ragione, santa Lucia, la Temperanza, la Grazia divina.
La rima Almen tre / entre (vv. 34-36) è composta (cfr. Inf., VII, 28; Purg., XVII, 55).
Il mezzo arco di ponte citato al v. 42 potrebbe essere un arco a sesto acuto, raro tuttavia nei ponti del Medioevo, oppure un frammento di un'arcata di un ponte rotto.
I vv. 50-51 parafrasano la terza beatitudine, Beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur (Matth., V, 5: «Beati coloro che piangono, perché saranno consolati»). Dante dice che avranno le anime donne, posseditrici di consolazione, modificando in parte il testo evangelico; non molto chiaro il rapporto tra la beatitudine e il peccato di accidia della IV Cornice.
L'espressione batti a terra le calcagne (v. 61) può voler dire «affretta il passo», ma anche «calpesta e disprezza i beni terreni».
Il logoro (v. 62) era un bastone con due ali posticce in punta, usato dal falconiere come richiamo per il falcone da caccia.
Il v. 73 (Adhaesit pavimento anima mea) riproduce il versetto 25 del Salmo CXVIII, che in realtà ha tutt'altro significato; non è improbabile che questa immagine abbia suggerito al poeta l'idea della pena di avari e prodighi.
Il v. 84 può indicare che Dante avverte qualcosa di inespresso, di sottaciuto nelle parole del penitente, ma anche semplicemente che egli ha capito chi ha parlato, quale anima si cela dietro le parole udite.
Il v. 99 (scias quod fui successor Petri) vuol dire «sappi che fui successore di Pietro», come veniva abitualmente chiamato il pontefice; cfr. Inf., XIX, 69: sappi ch'i' fui vestito del gran manto.
I vv. 100-102 indicano il luogo geografico dove s'adima, cioè «scende a valle» il fiume Entella, che nasce dal Lavagna e divide Sestri Levante da Chiavari; non è molto chiaro cosa intenda Adriano V quando dice del suo nome / lo titolo del mio sangue fa sua cima, ma forse indica che il nome Entella era riportato sulla parte alta del blasone dei conti di Lavagna, la famiglia di Ottobono Fieschi (far cima sarebbe termine tecnico dell'araldica).
I vv. 136-138 alludono al passo evangelico (Matth., XXII, 30) in cui i Sadducei chiedono a Cristo di chi sarà moglie nel regno dei Cieli una donna che ha sposato in successione sette fratelli: Gesù risponde in resurrectione enim neque nubent neque nubentur, «dopo la resurrezione non ci si ammoglia né ci si marita», intendendo dire che nel mondo ultraterreno i rapporti umani non hanno alcun valore.
Testo Ne l’ora che non può ‘l calor diurno
intepidar più ‘l freddo de la luna, vinto da terra, e talor da Saturno 3 - quando i geomanti lor Maggior Fortuna veggiono in oriente, innanzi a l’alba, surger per via che poco le sta bruna -, 6 mi venne in sogno una femmina balba, ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, con le man monche, e di colore scialba. 9 Io la mirava; e come ‘l sol conforta le fredde membra che la notte aggrava, così lo sguardo mio le facea scorta 12 la lingua, e poscia tutta la drizzava in poco d’ora, e lo smarrito volto, com’ amor vuol, così le colorava. 15 Poi ch’ell’avea ‘l parlar così disciolto, cominciava a cantar sì, che con pena da lei avrei mio intento rivolto. 18 «Io son», cantava, «io son dolce serena, che’ marinari in mezzo mar dismago; tanto son di piacere a sentir piena! 21 Io volsi Ulisse del suo cammin vago al canto mio; e qual meco s’ausa, rado sen parte; sì tutto l’appago!». 24 Ancor non era sua bocca richiusa, quand’ una donna apparve santa e presta lunghesso me per far colei confusa. 27 «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», fieramente dicea; ed el venìa con li occhi fitti pur in quella onesta. 30 L’altra prendea, e dinanzi l’apria fendendo i drappi, e mostravami ‘l ventre; quel mi svegliò col puzzo che n’uscia. 33 Io mossi li occhi, e ‘l buon maestro: «Almen tre voci t’ho messe!», dicea, «Surgi e vieni; troviam l’aperta per la qual tu entre». 36 Sù mi levai, e tutti eran già pieni de l’alto dì i giron del sacro monte, e andavam col sol novo a le reni. 39 Seguendo lui, portava la mia fronte come colui che l’ha di pensier carca, che fa di sé un mezzo arco di ponte; 42 quand’ io udi’ «Venite; qui si varca» parlare in modo soave e benigno, qual non si sente in questa mortal marca. 45 Con l’ali aperte, che parean di cigno, volseci in sù colui che sì parlonne tra due pareti del duro macigno. 48 Mosse le penne poi e ventilonne, ‘Qui lugent’ affermando esser beati, ch’avran di consolar l’anime donne. 51 «Che hai che pur inver’ la terra guati?», la guida mia incominciò a dirmi, poco amendue da l’angel sormontati. 54 E io: «Con tanta sospeccion fa irmi novella vision ch’a sé mi piega, sì ch’io non posso dal pensar partirmi». 57 «Vedesti», disse, «quell’antica strega che sola sovr’ a noi omai si piagne; vedesti come l’uom da lei si slega. 60 Bastiti, e batti a terra le calcagne; li occhi rivolgi al logoro che gira lo rege etterno con le rote magne». 63 Quale ‘l falcon, che prima a’ pié si mira, indi si volge al grido e si protende per lo disio del pasto che là il tira, 66 tal mi fec’ io; e tal, quanto si fende la roccia per dar via a chi va suso, n’andai infin dove ‘l cerchiar si prende. 69 Com’io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea, giacendo a terra tutta volta in giuso. 72 ’Adhaesit pavimento anima mea’ sentia dir lor con sì alti sospiri, che la parola a pena s’intendea. 75 «O eletti di Dio, li cui soffriri e giustizia e speranza fa men duri, drizzate noi verso li alti saliri». 78 «Se voi venite dal giacer sicuri, e volete trovar la via più tosto, le vostre destre sien sempre di fori». 81 Così pregò ‘l poeta, e sì risposto poco dinanzi a noi ne fu; per ch’io nel parlare avvisai l’altro nascosto, 84 e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond’ elli m’assentì con lieto cenno ciò che chiedea la vista del disio. 87 Poi ch’io potei di me fare a mio senno, trassimi sovra quella creatura le cui parole pria notar mi fenno, 90 dicendo: «Spirto in cui pianger matura quel sanza ‘l quale a Dio tornar non pòssi, sosta un poco per me tua maggior cura. 93 Chi fosti e perché vòlti avete i dossi al sù, mi dì, e se vuo’ ch’io t’impetri cosa di là ond’ io vivendo mossi». 96 Ed elli a me: «Perché i nostri diretri rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima scias quod ego fui successor Petri. 99 Intra Sestri e Chiaveri s’adima una fiumana bella, e del suo nome lo titol del mio sangue fa sua cima. 102 Un mese è poco più prova’ io come pesa il gran manto a chi dal fango il guarda, che piuma sembran tutte l’altre some. 105 La mia conversione, omè!, fu tarda; ma, come fatto fui roman pastore, così scopersi la vita bugiarda. 108 Vidi che lì non s’acquetava il core, né più salir potiesi in quella vita; per che di questa in me s’accese amore. 111 Fino a quel punto misera e partita da Dio anima fui, del tutto avara; or, come vedi, qui ne son punita. 114 Quel ch’avarizia fa, qui si dichiara in purgazion de l’anime converse; e nulla pena il monte ha più amara. 117 Sì come l’occhio nostro non s’aderse in alto, fisso a le cose terrene, così giustizia qui a terra il merse. 120 Come avarizia spense a ciascun bene lo nostro amore, onde operar perdési, così giustizia qui stretti ne tene, 123 ne’ piedi e ne le man legati e presi; e quanto fia piacer del giusto Sire, tanto staremo immobili e distesi». 126 Io m’era inginocchiato e volea dire; ma com’ io cominciai ed el s’accorse, solo ascoltando, del mio reverire, 129 «Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?». E io a lui: «Per vostra dignitate mia coscienza dritto mi rimorse». 132 «Drizza le gambe, lèvati sù, frate!», rispuose; «non errar: conservo sono teco e con li altri ad una podestate. 135 Se mai quel santo evangelico suono che dice ‘Neque nubent’ intendesti, ben puoi veder perch’io così ragiono. 138 Vattene omai: non vo’ che più t’arresti; ché la tua stanza mio pianger disagia, col qual maturo ciò che tu dicesti. 141 Nepote ho io di là c’ha nome Alagia, buona da sé, pur che la nostra casa non faccia lei per essempro malvagia; e questa sola di là m’è rimasa». 145 |
ParafrasiNell'ora in cui il calore del giorno non può più affievolire il freddo dei raggi lunari, estinto dal freddo della Terra e talvolta da quello di Saturno, quando i geomanti vedono la figura della Fortuna Maior che sorge a oriente, prima dell'alba, venendo ben presto offuscata dalla luce solare, vidi in sogno una donna balbuziente, con gli occhi storti e i piedi zoppi, con le mani rattrappite e di colorito smorto.
Io la guardavo, e come il sole riscalda le membra infreddolite durante la notte, così il mio sguardo le rendeva la lingua sciolta, e poi le drizzava il corpo in poco tempo, e le colorava il viso smorto di quel colore che l'amore richiede. Poiché ella aveva acquistato una parlantina sciolta, cominciò a cantare in modo tale che con difficoltà avrei distolto da lei la mia attenzione. Cantava: «Io sono una dolce sirena, che affascino i marinai in mezzo al mare, tanto sono piacevole ad ascoltare! Io distolsi Ulisse, pur desideroso del suo cammino, col mio canto; e chi si abitua a stare con me, raramente mi abbandona, così tanto io lo appago!» La sua bocca non si era ancora richiusa, quando apparve accanto a me una donna santa e sollecita, che voleva confondere quell'altra. Ella diceva con fierezza: «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», e lui si avvicinava tenendo lo sguardo fisso su quella onesta. Virgilio prendeva l'altra e le strappava la veste sul davanti, mostrandomi il ventre; esso mi svegliò col puzzo che ne usciva. Io mossi lo sguardo e il buon maestro disse: «Ti ho chiamato almeno tre volte! Alzati e vieni, troviamo il passaggio per passare alla Cornice seguente». Mi alzai e tutte le Cornici del monte sacro erano illuminate dal sole già alto, così che noi camminavamo col sole alle spalle. Seguendo Virgilio, tenevo la fronte bassa come colui che l'ha carica di pensieri, tanto che è simile a un mezzo arco di ponte; quando sentii: «Venite, il passaggio è qui», con una voce tanto dolce e benevola quale non si sente mai in questo mondo mortale. Colui che ci parlò così, spalancando le ali bianche come quelle di un cigno, ci indirizzò in alto tra le due pareti rocciose del monte. Poi mosse le penne e fece vento, affermando che sono beati quelli che piangono, poiché avranno le anime posseditrici di consolazione. La mia guida iniziò a dirmi: «Che cos'hai, che guardi solo verso il basso?», quando eravamo saliti un poco da dove avevamo incontrato l'angelo. E io: «Un sogno che ho fatto e che mi fa pensare, mi spinge a camminare pieno di dubbi, perché non posso distogliermi da esso». Egli disse: «Tu hai visto quell'antica strega (la cupidigia dei beni terreni) che è il solo peccato punito sopra di noi; hai visto come l'uomo se ne può liberare. Questo ti basti e ora affretta il passo; rivolgi lo sguardo al richiamo che il re eterno (Dio) fa girare con le ruote celesti». Come il falcone, che prima guarda a terra e poi si volge al richiamo del padrone e vola per il desiderio del cibo che lo attira, così feci io; e con questa sollecitudine salii tutta la scala scavata tra la roccia, fin dove inizia la V Cornice. Non appena mi trovai nella V Cornice, vidi anime che piangevano e che giacevano tutte col viso rivolto a terra. Sentivo che dicevano 'La mia anima si è attaccata al suolo', con sospiri così profondi che le loro parole si capivano a malapena. «O anime scelte da Dio, le cui pene sono rese meno dure dalla giustizia e dalla speranza, mostrateci la via per salire alla Cornice successiva». «Se voi camminate senza essere costretti a giacere e volete trovare la via più velocemente, procedete col fianco destro verso la parte esterna della Cornice». Così pregò Virgilio e così fu risposto poco lontano da noi; e poiché io capii che quell'anima voleva dire altro, rivolsi lo sguardo al mio maestro: egli mi disse con un lieto cenno che potevo fare ciò che chiedevo col mio sguardo. Quando potei fare come volevo, mi portai sopra quell'anima le cui parole prima mi avevano permesso di individuarla, dicendo: «O spirito, in cui le lacrime fanno maturare ciò (il pentimento) senza il quale non si può tornare a Dio, arresta un momento per me la tua maggior preoccupazione. Dimmi chi tu fosti e perché avete la schiena rivolta in alto, e se vuoi che io ottenga per te qualcosa nel mondo da cui, vivo, provengo». E lui a me: «Saprai perché il cielo rivolge a sé i nostri dorsi, ma prima sappi che io fui successore di Pietro (papa). Tra Sestri Levante e Chiavari scende a valle un bel fiume (l'Entella), e la mia casata pone il suo nome sulla parte alta del suo stemma nobiliare. Io provai per poco più di un mese come pesa il manto papale a chi lo preserva dalla corruzione, tanto che ogni altra carica al confronto sembra leggera come una piuma. La mia conversione, ahimè!, fu tardiva; ma non appena divenni pontefice, scoprii quanto bugiarda era la mia vita. Capii che in quella carica il mio cuore non trovava appagamento e non potevo aspirare a una dignità più alta; allora mi volsi con amore alla vita eterna. Fino a quel momento ero stata un'anima misera e del tutto separata da Dio, piena di avarizia; ora, come vedi, qui ne sconto la giusta pena. Qui la punizione inflitta alle anime convertite dichiara gli effetti dell'avarizia; e il monte non ha alcuna pena più amara di questa. Come il nostro sguardo non si levò in alto, restando fisso ai beni terreni, così la giustizia divina qui lo ha rivolto a terra. E come l'avarizia spense il nostro amore verso ogni bene spirituale, così che perdemmo la possibilità di ben operare, così la giustizia ci tiene stretti qui, legati nelle mani e nei piedi; e staremo qui immobili e stesi a terra tanto quanto piacerà al giusto Signore». Io mi ero inginocchiato e volevo parlare; ma non appena iniziai e lui si accorse, solo ascoltandomi, della mia riverenza, disse: «Per quale motivo ti sei chinato in questo modo?» E io a lui: «La vostra alta dignità mi impedì di restare in piedi». Rispose: «Drizza le gambe, fratello, alzati in piedi! Non cadere in errore: io sono soggetto a una stessa autorità, come te e tutti gli altri qui. Se hai mai compreso quel detto evangelico che dice 'Non ci si ammoglia', puoi ben capire perché dico questo. Ma adesso vattene: non voglio che ti trattieni oltre, poiché se resti qui ciò ostacola il mio pianto, con cui maturo ciò che prima dicevi. Io ho sulla Terra una nipote, chiamata Alagia, di grande virtù purché la nostra casata non la renda malvagia col suo cattivo esempio; mi è rimasta solo lei nel mondo». |