Inferno, Canto VIII
E. Delacroix, Il pasaggio dello Stige (1822)
"Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto,"
disse lo mio segnore, "a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto"...
Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!";
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti...
Lo buon maestro disse: "Omai, figliuolo,
s'appressa la città c'ha nome Dite,
co' gravi cittadin, col grande stuolo"...
disse lo mio segnore, "a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto"...
Tutti gridavano: "A Filippo Argenti!";
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti...
Lo buon maestro disse: "Omai, figliuolo,
s'appressa la città c'ha nome Dite,
co' gravi cittadin, col grande stuolo"...
Argomento del Canto
Ancora nel V Cerchio; apparizione di Flegiàs, che traghetta Dante e Virgilio nella palude dello Stige. Incontro con Filippo Argenti. Arrivo alla città di Dite. I diavoli negano il passaggio ai due poeti.
È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
Apparizione di Flegiàs (1-30)
Già prima che i due poeti siano giunti ai piedi dell'alta torre sulla sponda della palude Stigia, Dante aveva notato che da essa era partito un segnale luminoso, cui aveva risposto un segnale identico proveniente da un'altra torre, che sorge più lontano. Allarmato, Dante chiede a Virgilio il significato delle luci e chi ne sia l'autore, e il maestro spiega che attraverso il vapore della palude Dante potrà scorgere colui che stanno aspettando. Dante osserva il pantano e vede avvicinarsi una piccola imbarcazione, che si muove assai più rapida di qualunque freccia scoccata da un arco. La barca è governata da un solo traghettatore (Flegiàs) che apostrofa Dante scambiandolo per un dannato, finché Virgilio lo zittisce dicendogli che lui dovrà solo trasportarli attraverso la palude. Il demone reagisce con stizza, poi i due poeti salgono sulla barca (che affonda lievemente solo quando vi sale Dante) e Flegiàs lascia la proda.
Incontro con Filippo Argenti (31-63)
G. Doré, Filippo Argenti
Mentre la barca attraversa la palude, si avvicina l'anima di un dannato che chiede a Dante chi sia lui per giungere all'Inferno quando è ancora vivo. Dante risponde che lui presto ripartirà e chiede a sua volta chi sia il dannato: questi non risponde e Dante lo riconosce come Filippo Adimari, detto Filippo Argenti, al quale rivolge parole di condanna. Il dannato si protende verso la barca cercando di afferrare Dante, ma Virgilio lo spinge via e pronuncia parole di elogio a Dante. Il poeta latino rivolge poi una ammonizione a tutti gli uomini alteri e orgogliosi, come lo fu l'Argenti, che in vita si credono grandi re e all'Inferno finiranno come porci nel fango.
Dante manifesta il desiderio di vedere il dannato azzuffarsi coi compagni di pena, prima di lasciare lo Stige, e Virgilio afferma che ne avrà presto l'occasione. Poco dopo, infatti, Dante vede gli altri dannati avventarsi su Filippo Argenti facendone strazio, spettacolo che Dante gode pienamente (lo stesso Filippo morde rabbiosamente se stesso).
La città di Dite (64-81)
Mentre la barca di Flegiàs si allontana dagli iracondi, Dante sente un coro di voci dolorose che lo riempiono di angoscia. Virgilio lo informa che ormai sono vicini alla città infernale di Dite, popolata dal grande stuolo dei demoni. Dante drizza lo sguardo e vede le torri della città simili a quelle delle moschee, rosse come se fossero roventi. Virgilio spiega che il fuoco eterno che vi è dentro la città ne arroventa le mura rendendole di colore rossastro. La barca si avvicina ai profondi fossati che cingono Dite, le cui mura sembrano di ferro: la barca fa un ampio giro prima di approdare all'argine, dove Flegiàs invita con fare imperioso i due poeti a scendere perché lì c'è l'accesso alla città.
Dante manifesta il desiderio di vedere il dannato azzuffarsi coi compagni di pena, prima di lasciare lo Stige, e Virgilio afferma che ne avrà presto l'occasione. Poco dopo, infatti, Dante vede gli altri dannati avventarsi su Filippo Argenti facendone strazio, spettacolo che Dante gode pienamente (lo stesso Filippo morde rabbiosamente se stesso).
La città di Dite (64-81)
Mentre la barca di Flegiàs si allontana dagli iracondi, Dante sente un coro di voci dolorose che lo riempiono di angoscia. Virgilio lo informa che ormai sono vicini alla città infernale di Dite, popolata dal grande stuolo dei demoni. Dante drizza lo sguardo e vede le torri della città simili a quelle delle moschee, rosse come se fossero roventi. Virgilio spiega che il fuoco eterno che vi è dentro la città ne arroventa le mura rendendole di colore rossastro. La barca si avvicina ai profondi fossati che cingono Dite, le cui mura sembrano di ferro: la barca fa un ampio giro prima di approdare all'argine, dove Flegiàs invita con fare imperioso i due poeti a scendere perché lì c'è l'accesso alla città.
L'opposizione dei diavoli di Dite (82-130)
P. della Quercia, Città di Dite (XV sec.)
Dante alza gli occhi e vede migliaia di diavoli sugli spalti della città, che lo guardano minacciosi e si chiedono chi sia lui per entrare, da vivo, nell'Inferno. Virgilio fa cenno di voler parlare con loro in disparte e i diavoli acconsentono, invitando Dante a tornare indietro trovando da solo la strada, mentre il poeta latino dovrà rimanere nella città. Dante è colto da grande paura e invita il maestro a riportarlo indietro, visto che il passaggio sembra loro negato. Virgilio lo rassicura ricordando che il viaggio è voluto da Dio, quindi lo invita ad attenderlo lì e si avvicina alle mura della città, per parlamentare coi diavoli.
Dante attende con impazienza, roso dai dubbi, mentre Virgilio scambia coi diavoli parole che lui non può udire. Dopo poco tempo, però, i diavoli corrono dentro la città chiudendo le porte in faccia a Virgilio, al quale non resta che tornare sconsolato da Dante, con gli occhi bassi e la vergogna dipinta sul volto.
Virgilio rassicura nuovamente Dante sul fatto che egli vincerà la prova, rammentando che l'alterigia dei diavoli non è nuova e fu già una volta vinta da Cristo trionfante, quando il giorno della sua resurrezione entrò all'Inferno sfondandone la porta. Il maestro dichiara infine che un messo celeste sta già percorrendo la discesa infernale dalla porta al punto dove si trovano, e grazie al suo intervento il viaggio potrà proseguire.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto è suddiviso in tre momenti che corrispondono all'apparizione del demone Flegiàs, all'incontro con Filippo Argenti e all'arrivo alla città di Dite, aventi come filo conduttore l'ira e l'immagine del fuoco che al peccato degli iracondi rimanda. L'inizio si ricollega a quanto detto alla fine del Canto precedente, in cui dopo la prima descrizione della pena degli iracondi era stata mostrata la torre che qui, in maniera misteriosa, scambia strani segnali luminosi con un'altra posta più addentro nella palude e il cui significato non è reso esplicito dal poeta. Forse è un richiamo per Flegiàs, il traghettatore demoniaco che non tarda ad arrivare sulla sua barca e reagisce con rabbia alla notizia che non potrà trattenere Dante nello Stige, mentre non è molto chiaro se la sua funzione sia quella di traghettare solo le anime degli iracondi o di tutti i dannati destinati al Basso Inferno: anche in questo caso la demonizzazione del personaggio classico è alquanto deformante rispetto all'originale, anche se è chiaro che il suo nome è da collegare etimologicamente alla fiamma (come il Flegetonte, il fiume caldo di sangue) e va ricordato che Flegiàs nel mito classico aveva incendiato il tempio di Apollo a Delfi, adirato perché il dio aveva sedotto sua figlia. In ogni caso anch'egli, nonostante la stizza con cui accoglie la presenza all'Inferno del vivo Dante, è costretto dal volere divino a farlo salire sulla sua barca e a condurlo attraverso la palude, dove avverrà il tempestoso incontro con Filippo Argenti.
Costui era un fiorentino di parte Nera avverso a Dante e probabilmente suo nemico personale, appartenente alla consorteria degli Adimari e citato da Boccaccio nella stessa novella (IX, 8) in cui compare Ciacco: anch'egli reagisce con stizza alla presenza di Dante, di cui si stupisce che possa viaggiare da vivo nell'Aldilà, e rifiuta di rivelare il proprio nome per orgoglio, salvo poi avventarsi furioso contro il poeta nel momento in cui lui lo riconosce e lo fa oggetto di parole ingiuriose di condanna. Il breve e serrato scambio di battute fra Dante e l'Argenti è simile a un «contrasto» o a una «tenzone» della poesia comico-realistica, il cui tono domina largamente l'intero episodio, e ci riconduce al clima di lotte intestine e rivalità tra consorterie di cui era preda Firenze all'inizio del Trecento e delle quali si è parlato anche nel Canto VI. Le parole di Virgilio che benedice la madre di Dante, dopo avere scacciato con decisione lo spirito, vogliono essere una sorta di approvazione dell'odio e dello sdegno del poeta, che erano rivolti verso tutta la casata degli Adimari (secondo alcune testimonianze, essa si sarebbe opposta al suo rientro in Firenze dopo l'esilio e ne avrebbe usurpato i beni); il poeta latino sottolinea che molti in vita si ritengono altezzosamente dei gran regi, mentre il loro destino ultraterreno è di essere attuffati nel fango dello Stige come porci in brago, quindi Dante mostra qui la verità della condizione nell'Oltretomba che ristabilisce la verità e assegna a ciascuno il posto che merita, per cui il poeta è destinato alla salvezza e l'Adimari a subire l'orribile pena degli iracondi (anche in altri casi la descrizione delle anime rivelerà un destino assai diverso da quello che si pensava comunemente fra vivi sulla Terra). L'episodio si conclude con gli altri dannati che fanno a pezzi l'Argenti, soddisfacendo il personale desiderio di rivalsa del poeta che lascia la descrizione del personaggio con profondo disdegno (più non ne narro), in quanto la sua attenzione è catturata da ben altro spettacolo che si offre ai suoi occhi.
La terza parte del Canto è infatti occupata dalla descrizione della città di Dite, che si staglia con le sue mura e le torri rosse per il fuoco che divampa all'interno, simili alle moschee di una città islamica: anche la reazione dei diavoli al suo interno è di stizza e ira, di fronte al viaggiatore che osa avventurarsi da vivo nel regno dell'Oltretomba, ed essi si oppongono al passaggio dei due poeti non diversamente dalle altre figure diaboliche fin qui incontrate, minacciando addirittura di trattenere lì Virgilio e obbligare Dante a tornare da solo sui suoi passi (la reazione del poeta è di autentico terrore, tanto che giunge a proporre al maestro di porre fine anzitempo al viaggio). Tale timore è in parte giustificato, poiché in questo caso non basterà l'intervento di Virgilio come allegoria della ragione umana (che infatti deve tornare indietro scornato dopo che i demoni gli hanno letteralmente chiuso la porta in faccia), ma si renderà necessario l'arrivo di un messo celeste che avrà la funzione di eliminare l'ostacolo e rimproverare aspramente i diavoli della loro sterile opposizione, cosa che verrà narrata nel Canto successivo. L'episodio presenta analogie col Canto XXI, in cui Virgilio lascerà Dante nascosto dietro una roccia per andare a parlamentare coi Malebranche e ottenere l'aiuto necessario a passare nella Bolgia seguente, poiché neppure in quel caso i demoni daranno corso alla sua richiesta e, anzi, se ne faranno beffe ingannandolo e attirando lui e il discepolo in un tranello; qui l'immagine del poeta latino che deve desistere per il rifiuto dei diavoli che gli hanno negate le dolenti case è molto umana e realistica, proprio come lo sarà quella del Canto XXIII quando frate Catalano (uno degli ipocriti della VI Bolgia) svelerà a Virgilio le bugie dei Malebranche. L'episodio del messo, che si concluderà all'inizio del Canto successivo, rimanda poi alla discesa infernale di un altrettanto importante personaggio, ovvero Cristo trionfante che il giorno della sua resurrezione abbatté la porta dell'Inferno per trarre fuori dal Limbo le anime dei patriarchi biblici: si delinea nelle parole di Virgilio il preannuncio di uno scontro bene-male che avrà il suo scioglimento dopo la fine di questo Canto, mentre il senso allegorico è probabilmente che per superare l'ostacolo del peccato sulla via della salvezza la ragione non sempre è sufficiente, ma è necessaria l'assistenza e il soccorso della grazia (già rappresentata da Beatrice scesa nel Limbo per invitare Virgilio a salvare Dante dalle tre fiere).
Costui era un fiorentino di parte Nera avverso a Dante e probabilmente suo nemico personale, appartenente alla consorteria degli Adimari e citato da Boccaccio nella stessa novella (IX, 8) in cui compare Ciacco: anch'egli reagisce con stizza alla presenza di Dante, di cui si stupisce che possa viaggiare da vivo nell'Aldilà, e rifiuta di rivelare il proprio nome per orgoglio, salvo poi avventarsi furioso contro il poeta nel momento in cui lui lo riconosce e lo fa oggetto di parole ingiuriose di condanna. Il breve e serrato scambio di battute fra Dante e l'Argenti è simile a un «contrasto» o a una «tenzone» della poesia comico-realistica, il cui tono domina largamente l'intero episodio, e ci riconduce al clima di lotte intestine e rivalità tra consorterie di cui era preda Firenze all'inizio del Trecento e delle quali si è parlato anche nel Canto VI. Le parole di Virgilio che benedice la madre di Dante, dopo avere scacciato con decisione lo spirito, vogliono essere una sorta di approvazione dell'odio e dello sdegno del poeta, che erano rivolti verso tutta la casata degli Adimari (secondo alcune testimonianze, essa si sarebbe opposta al suo rientro in Firenze dopo l'esilio e ne avrebbe usurpato i beni); il poeta latino sottolinea che molti in vita si ritengono altezzosamente dei gran regi, mentre il loro destino ultraterreno è di essere attuffati nel fango dello Stige come porci in brago, quindi Dante mostra qui la verità della condizione nell'Oltretomba che ristabilisce la verità e assegna a ciascuno il posto che merita, per cui il poeta è destinato alla salvezza e l'Adimari a subire l'orribile pena degli iracondi (anche in altri casi la descrizione delle anime rivelerà un destino assai diverso da quello che si pensava comunemente fra vivi sulla Terra). L'episodio si conclude con gli altri dannati che fanno a pezzi l'Argenti, soddisfacendo il personale desiderio di rivalsa del poeta che lascia la descrizione del personaggio con profondo disdegno (più non ne narro), in quanto la sua attenzione è catturata da ben altro spettacolo che si offre ai suoi occhi.
La terza parte del Canto è infatti occupata dalla descrizione della città di Dite, che si staglia con le sue mura e le torri rosse per il fuoco che divampa all'interno, simili alle moschee di una città islamica: anche la reazione dei diavoli al suo interno è di stizza e ira, di fronte al viaggiatore che osa avventurarsi da vivo nel regno dell'Oltretomba, ed essi si oppongono al passaggio dei due poeti non diversamente dalle altre figure diaboliche fin qui incontrate, minacciando addirittura di trattenere lì Virgilio e obbligare Dante a tornare da solo sui suoi passi (la reazione del poeta è di autentico terrore, tanto che giunge a proporre al maestro di porre fine anzitempo al viaggio). Tale timore è in parte giustificato, poiché in questo caso non basterà l'intervento di Virgilio come allegoria della ragione umana (che infatti deve tornare indietro scornato dopo che i demoni gli hanno letteralmente chiuso la porta in faccia), ma si renderà necessario l'arrivo di un messo celeste che avrà la funzione di eliminare l'ostacolo e rimproverare aspramente i diavoli della loro sterile opposizione, cosa che verrà narrata nel Canto successivo. L'episodio presenta analogie col Canto XXI, in cui Virgilio lascerà Dante nascosto dietro una roccia per andare a parlamentare coi Malebranche e ottenere l'aiuto necessario a passare nella Bolgia seguente, poiché neppure in quel caso i demoni daranno corso alla sua richiesta e, anzi, se ne faranno beffe ingannandolo e attirando lui e il discepolo in un tranello; qui l'immagine del poeta latino che deve desistere per il rifiuto dei diavoli che gli hanno negate le dolenti case è molto umana e realistica, proprio come lo sarà quella del Canto XXIII quando frate Catalano (uno degli ipocriti della VI Bolgia) svelerà a Virgilio le bugie dei Malebranche. L'episodio del messo, che si concluderà all'inizio del Canto successivo, rimanda poi alla discesa infernale di un altrettanto importante personaggio, ovvero Cristo trionfante che il giorno della sua resurrezione abbatté la porta dell'Inferno per trarre fuori dal Limbo le anime dei patriarchi biblici: si delinea nelle parole di Virgilio il preannuncio di uno scontro bene-male che avrà il suo scioglimento dopo la fine di questo Canto, mentre il senso allegorico è probabilmente che per superare l'ostacolo del peccato sulla via della salvezza la ragione non sempre è sufficiente, ma è necessaria l'assistenza e il soccorso della grazia (già rappresentata da Beatrice scesa nel Limbo per invitare Virgilio a salvare Dante dalle tre fiere).
Note e passi controversi
Non è molto chiaro quale sia la funzione delle due torri che si scambiano segnali luminosi all'inizio del Canto, salvo ipotizzare che ciò serva a richiamare Flegiàs con la sua barca. Ben poco si sa poi di questo personaggio e del suo ruolo, che potrebbe essere quello di traghettatore degli iracondi nello Stige, o degli eresiarchi nella città di Dite, o di tutte le anime destinate al basso Inferno.Al v. 21 loto vuol dire «fango» e indica la palude Stigia.
Il v. 27, che indica che la barca di Flegiàs affonda solo quando vi sale Dante in possesso del suo corpo fisico, è eco di Aen., VI, 413-414.
Il breve scambio di battute fra Dante e l'Argenti (vv. 33-39) rimanda alla tradizione della poesia comica e sembra quasi una «tenzone»: il dannato dice a Dante che arriva anzitempo all'Inferno, predicendone cioè la dannazione, ma Dante ribatte che se viene non è certo per rimanere come tocca invece a lui. Il poeta chiede poi il nome del dannato, irriconoscibile perché brutto, sporco di fango, e alla risposta ambigua dell'Adimari (Vedi che son un che piango) ribatte che è giusto che rimanga nel pianto e nel lutto, essendo uno spirito maledetto. Uno scambio assai simile, anche se condotto su un piano stilistico più alto, avverrà nel Canto X con Farinata.
Al v. 65 duolo indica probabilmente il coro di lamenti dolorosi che proviene dalla città di Dite.
Le torri e gli spalti della città demoniaca di Dite sono paragonati alle meschite (v. 70), le moschee di una città islamica (ciò per l'evidente condanna della fede musulmana da parte del Cristianesimo nel Medioevo). La descrizione fa uso dell'allitterazione insistita della f, di foco uscite..., fossero, il foco etterno... l'affoca, l'alte fosse, che ferro fosse.
L'alte fosse (v. 76) sono probabilmente i fossati che circondano la città, come quelli che cingevano le cittadelle medievali (il termine è in rima equivoca col verbo fosse al v. 78).
Al v. 96 ritornarci significa «tornare sulla Terra» (-ci è avverbio di luogo, «qui»).
La speranza di Virgilio di ridurre i diavoli a più miti consigli viene disattesa (vv. 112-120) e la reazione della guida di Dante sarà di grande disappunto, come avverrà nell'episodio dei Malebranche (Canti XXI, XXII e XXIII).
I vv. 125-126 alludono alla discesa di Cristo risorto all'Inferno, per trarre dal Limbo le anime dei patriarchi biblici: la porta citata da Virgilio è quella dell'Inferno (III, 1 ss.), che nell'occasione fu abbattuta da Cristo e si trova ancora sanza serrame, senza i battenti che la chiudevano.
Il v. 130 allude al messo celeste, già in procinto di scendere all'Inferno per ridurre all'obbedienza i demoni di Dite.
Il v. 27, che indica che la barca di Flegiàs affonda solo quando vi sale Dante in possesso del suo corpo fisico, è eco di Aen., VI, 413-414.
Il breve scambio di battute fra Dante e l'Argenti (vv. 33-39) rimanda alla tradizione della poesia comica e sembra quasi una «tenzone»: il dannato dice a Dante che arriva anzitempo all'Inferno, predicendone cioè la dannazione, ma Dante ribatte che se viene non è certo per rimanere come tocca invece a lui. Il poeta chiede poi il nome del dannato, irriconoscibile perché brutto, sporco di fango, e alla risposta ambigua dell'Adimari (Vedi che son un che piango) ribatte che è giusto che rimanga nel pianto e nel lutto, essendo uno spirito maledetto. Uno scambio assai simile, anche se condotto su un piano stilistico più alto, avverrà nel Canto X con Farinata.
Al v. 65 duolo indica probabilmente il coro di lamenti dolorosi che proviene dalla città di Dite.
Le torri e gli spalti della città demoniaca di Dite sono paragonati alle meschite (v. 70), le moschee di una città islamica (ciò per l'evidente condanna della fede musulmana da parte del Cristianesimo nel Medioevo). La descrizione fa uso dell'allitterazione insistita della f, di foco uscite..., fossero, il foco etterno... l'affoca, l'alte fosse, che ferro fosse.
L'alte fosse (v. 76) sono probabilmente i fossati che circondano la città, come quelli che cingevano le cittadelle medievali (il termine è in rima equivoca col verbo fosse al v. 78).
Al v. 96 ritornarci significa «tornare sulla Terra» (-ci è avverbio di luogo, «qui»).
La speranza di Virgilio di ridurre i diavoli a più miti consigli viene disattesa (vv. 112-120) e la reazione della guida di Dante sarà di grande disappunto, come avverrà nell'episodio dei Malebranche (Canti XXI, XXII e XXIII).
I vv. 125-126 alludono alla discesa di Cristo risorto all'Inferno, per trarre dal Limbo le anime dei patriarchi biblici: la porta citata da Virgilio è quella dell'Inferno (III, 1 ss.), che nell'occasione fu abbattuta da Cristo e si trova ancora sanza serrame, senza i battenti che la chiudevano.
Il v. 130 allude al messo celeste, già in procinto di scendere all'Inferno per ridurre all'obbedienza i demoni di Dite.
TestoIo dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima 3 per due fiammette che i vedemmo porre e un’altra da lungi render cenno tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. 6 E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?». 9 Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s’aspetta, se ’l fummo del pantan nol ti nasconde». 12 Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l’aere snella, com’io vidi una nave piccioletta 15 venir per l’acqua verso noi in quella, sotto ’l governo d’un sol galeoto, che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!». 18 «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore «a questa volta: più non ci avrai che sol passando il loto». 21 Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegiàs ne l’ira accolta. 24 Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui; e sol quand’io fui dentro parve carca. 27 Tosto che ’l duca e io nel legno fui, segando se ne va l’antica prora de l’acqua più che non suol con altrui. 30 Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». 33 E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?». Rispuose: «Vedi che son un che piango». 36 E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani; ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto». 39 Allor distese al legno ambo le mani; per che ’l maestro accorto lo sospinse, dicendo: «Via costà con li altri cani!». 42 Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ’l volto, e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che ’n te s’incinse! 45 Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s’è l’ombra sua qui furiosa. 48 Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!». 51 E io: «Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago». 54 Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio: di tal disio convien che tu goda». 57 Dopo ciò poco vid’io quello strazio far di costui a le fangose genti, che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. 60 Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e ’l fiorentino spirito bizzarro in sé medesmo si volvea co’ denti. 63 Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l’orecchie mi percosse un duolo, per ch’io avante l’occhio intento sbarro. 66 Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s’appressa la città c’ha nome Dite, coi gravi cittadin, col grande stuolo». 69 E io: «Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite 72 fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno ch’entro l’affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno». 75 Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse che vallan quella terra sconsolata: le mura mi parean che ferro fosse. 78 Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte «Usciteci», gridò: «qui è l’intrata». 81 Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente dicean: «Chi è costui che sanza morte 84 va per lo regno de la morta gente?». E ’l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente. 87 Allor chiusero un poco il gran disdegno, e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada, che sì ardito intrò per questo regno. 90 Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai che li ha’ iscorta sì buia contrada». 93 Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai. 96 «O caro duca mio, che più di sette volte m’hai sicurtà renduta e tratto d’alto periglio che ’ncontra mi stette, 99 non mi lasciar», diss’io, «così disfatto; e se ’l passar più oltre ci è negato, ritroviam l’orme nostre insieme ratto». 102 E quel segnor che lì m’avea menato, mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato. 105 Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso». 108 Così sen va, e quivi m’abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse, che sì e no nel capo mi tenciona. 111 Udir non potti quello ch’a lor porse; ma ei non stette là con essi guari, che ciascun dentro a pruova si ricorse. 114 Chiuser le porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase, e rivolsesi a me con passi rari. 117 Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri: «Chi m’ha negate le dolenti case!». 120 E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri, non sbigottir, ch’io vincerò la prova, qual ch’a la difension dentro s’aggiri. 123 Questa lor tracotanza non è nova; ché già l’usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova. 126 Sovr’essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l’erta, passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta». 130 |
ParafrasiProseguendo, io dico che assai prima di giungere ai piedi dell'alta torre, i nostri occhi andarono alla sua cima e videro che qualcuno vi aveva posto due fiammelle, mentre un'altra torre più lontana, tanto che si poteva scorgere a malapena, aveva risposto.
Io mi rivolsi a Virgilio, il cui senno è ampio come il mare, e dissi: «Cosa vuol dire questo segnale? e quell'altro cosa risponde? e chi ha fatto tutto questo?» E lui a me: «Lungo le acque torbide già puoi vedere colui che stiamo aspettando, se il vapore del pantano non lo nasconde alla vista». La corda di un arco non scoccò mai una freccia che fendesse l'aria così veloce, come io vidi una piccola barca venire verso di noi in quel momento nell'acqua, governata da un solo timoniere, che gridava: «Finalmente sei arrivata, anima malvagia!» Il mio maestro disse: «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi invano questa volta: verremo con te solo per attraversare la palude». Come colui che ascolta un grande inganno che gli è stato fatto, e poi se ne rammarica, così fece Flegiàs ardendo d'ira. La mia guida salì sulla barca e poi mi fece salire dopo di lui; e solo allora la barca sembrò avere un carico (affondò nell'acqua). Non appena io e Virgilio fummo sulla barca, essa ripartì fendendo l'acqua più di quanto non sia solita fare con altri. Mentre percorrevamo quella palude stagnante, mi si avvicinò un dannato pieno di fango che disse: «Tu chi sei, che giungi all'Inferno prima del tempo?» Io risposi: «Se vengo, non rimango certo; tu invece chi sei, che sei reso irriconoscibile?» Rispose: «Vedi bene che sono un'anima afflitta». E io a lui: «Ed è bene che tu resti afflitto e in lutto, spirito maledetto; infatti ti riconosco, benché tu sia tutto sporco di fango». Allora il dannato si protese con ambo le mani verso la barca; il maestro, accorto, lo spinse via dicendo: «Va' via di qui, torna con gli altri cani!» Poi mi abbracciò al collo con le braccia, mi baciò il viso e disse: «O anima disdegnosa, benedetta colei che rimase incinta di te! Quello nel mondo fu una persona orgogliosa; non c'è alcuna sua buona azione che renda onore alla sua memoria, così la sua anima è qui, furiosa. Quanti uomini si credono in vita dei grandi re, mentre qui all'Inferno saranno come porci nel fango, lasciando di sé un orribile ricordo!» E io: «Maestro, avrei gran desiderio di vederlo sprofondare in questa melma, prima di lasciare la palude». E lui a me: «Prima che avvisteremo la proda, sarai soddisfatto: è opportuno che tale desiderio sia appagato». Poco dopo vidi che i dannati immersi nel fango fecero di lui un grande strazio, cosa di cui ancora lodo e ringrazio Dio. Tutti i dannati gridavano: «Addosso a Filippo Argenti!»; e quel bizzarro spirito fiorentino si mordeva da sé coi denti. Lo lasciammo qui, né dirò altro di lui; ma ecco che le mie orecchie percepirono un coro lamentoso, per cui drizzai allarmato lo sguardo. Il buon maestro disse: «Ormai, figliuolo, si avvicina la città chiamata Dite, coi suoi afflitti abitanti, col grande stuolo di diavoli». E io: «Maestro, scorgo già le sue moschee distinte in lontananza, rosse come se fossero uscite dal fuoco». E lui mi disse: «Il fuoco eterno che le arroventa all'interno le fa diventare di quel colore, come tu vedi in questo basso Inferno». Noi arrivammo nei profondi fossati che circondano quella terra dolorosa: le mura mi sembravano fatte di ferro. Non prima di aver percorso un largo giro, giungemmo in un punto dove l'orribile traghettatore gridò: «Scendete, l'ingresso è qui». Io vidi sulle porte più di mille diavoli piovuti dal cielo, che dicevano con stizza: «Chi è costui che, ancora vivo, osa andare nel regno dei morti?» E il mio saggio maestro fece segno di voler parlare con loro separatamente. Allora placarono un poco il loro sdegno, e dissero: «Vieni tu solo, mentre quell'altro se ne vada, visto che ha avuto il coraggio di entrare in questo luogo. Ritorni da solo lungo la strada che ha percorso follemente, se ne è capace: infatti tu resterai qui, visto che gli hai fatto da guida nel cammino oscuro». Pensa, lettore, se non mi sconfortai sentendo quelle parole maledette: credetti di non fare mai ritorno sulla Terra. Io dissi: «O cara mia guida, che tante volte mi ha dato sicurezza e mi hai salvato da un grave pericolo che mi minacciava, non mi lasciare in questa situazione; e se ci è negato di passare più oltre, affrettiamoci a tornare sui nostri passi». E quel maestro che mi aveva condotto fin lì mi disse: «Non aver paura, dal momento che nessuno può opporsi al nostro viaggio, voluto da Dio. Ora aspettami qui, e conforta il tuo spirito prostrato con buona speranza, poiché non ti lascerò certo nell'Inferno». Così il dolce padre se ne andò e mi lasciò lì, pieno di dubbi, incerto su cosa sarebbe successo. Non fui in grado di sentire quello che disse ai diavoli; ma non rimase a lungo a parlare, poiché ciascuno di loro tornò di corsa dentro le mura. Quei nostri nemici chiusero le porte in faccia al mio maestro, che rimase fuori e tornò verso di me a passo lento. Aveva lo sguardo a terra e gli occhi privi di ogni sicurezza, e sospirando diceva: «Chi mi ha negato l'accesso alla città dolente!» E a me disse: «Tu non perderti d'animo, anche se io sono adirato, poiché io vincerò la prova, qualunque sia la difesa che approntano dentro la città. Questa loro alterigia non è cosa nuova; la usarono per difendere una porta meno nascosta, la quale è tuttora senza battenti. Su di essa tu hai letto la scritta minacciosa: e già da essa sta scendendo lungo la china un messo celeste, che passa per i Cerchi senza scorta, che farà in modo di aprirci il passaggio». |