Inferno, Canto XXVII
B. Di Fruosino, Guido da Montefeltro (1420 ca.)
"...perch'io sia giunto forse alquanto tardo,
non t'incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo! ..."
"...Ora chi se', ti priego che ne conte;
non esser duro più ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte"...
"...Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: 'Forse
tu non pensavi ch'io loico fossi!' ..."
non t'incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo! ..."
"...Ora chi se', ti priego che ne conte;
non esser duro più ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte"...
"...Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: 'Forse
tu non pensavi ch'io loico fossi!' ..."
Argomento del Canto
Ancora nell'VIII Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti consiglieri fraudolenti. Incontro con Guido da Montefeltro, che racconta come è caduto nel peccato e accusa Bonifacio VIII.
È mezzogiorno di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È mezzogiorno di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
Incontro con Guido da Montefeltro (1-30)
La fiamma di Ulisse è ormai dritta e quieta, poiché il dannato ha smesso di parlare e si allontana con il permesso di Virgilio, quando un'altra fiamma viene dietro di essa e fa voltare i due poeti emettendo un suono confuso. Come il bue che il tiranno Falaride fece costruire a Perillo muggì per la prima volta martirizzando il suo costruttutore, com'era giusto, e muggiva poi con la voce di chi vi veniva ucciso così da sembrare vivo anziché di rame, così la fiamma emette il suono della voce che all'inizio non trova spazio per uscire. Alla fine la voce esce e la fiamma inizia a guizzare, per cui il dannato si rivolge a Virgilio come colui che ha parlato in italiano ad Ulisse e lo prega di trattenersi un poco a parlare con lui che ne ha un forte desiderio. Il dannato (Guido da Montefeltro) vuole sapere se la Romagna è in pace o in guerra, dal momento che lui è originario della terra posta tra Urbino e il monte da cui sgorga il Tevere.
Situazione politica della Romagna (31-57)
Dante osserva chinandosi giù dal ponte che sovrasta la Bolgia, quando Virgilio lo tocca nel fianco e lo invita a rispondere al dannato che parla la sua stessa lingua. Il poeta è pronto a rispondere e dice al dannato che la Romagna non è mai stata senza guerre a causa dei tiranni che la dominano, ma in questo momento non se ne combatte apertamente nessuna. Ravenna è nella stessa situazione da molti anni, sotto la signoria dei Da Polenta che domina il territorio fino a Cervia. Forlì, che sostenne un lungo assedio e fece strage dei Francesi, è dominata dagli Ordelaffi. I Malatesta, che si sono impadroniti di Rimini eliminando violentemente Montagna dei Parcitati, dilaniano gli avversari politici. Le città di Faenza e Imola sono governate da Maghinardo Pagani, che cambia facilmente le sue alleanze. Cesena, che è bagnata dal fiume Savio, oscilla continuamente tra libertà e soggezione alla tirannide. Alla fine del suo discorso Dante chiede al dannato di presentarsi e lo prega di non esser restio più di quanto lo siano stati altri spiriti, se il suo nome conserva la fama nel mondo.
Il racconto di Guido: la sua vita sino alla conversione (58-84)
An. lomb., I consiglieri fraudolenti (1440 ca.)
La fiamma emette altri mugolii come già ha fatto prima, poi scuote la punta e il dannato inizia a parlare. Egli afferma che se credesse di rivolgersi a qualcuno destinato a tornare sulla Terra non direbbe una parola, ma dal momento che a quel che sa nessuno è mai uscito dall'Inferno, risponderà senza temere infamia. Si presenta come Guido da Montefeltro, uomo d'armi e poi francescano, fattosi frate credendo di espiare i suoi peccati: certo ci sarebbe riuscito, non fosse stato per il papa (Bonifacio VIII) che lo indusse nuovamente a peccare. Guido spiega che quand'era in vita le sue azioni furono improntate all'astuzia e conobbe tutti i raggiri e gli inganni della politica, acquistando fama in tutto il mondo. Una volta arrivato alla vecchiaia, Guido provò dispiacere per la vita condotta fino a quel momento e si pentì dei suoi peccati, facendosi frate.
Il racconto di Guido: il consiglio fraudolento al papa (85-111)
B. Genelli, Disputa per l'anima di Guido
Allora Bonifacio VIII, il principe dei nuovi Farisei, era in guerra contro i Colonna e non contro Saraceni o Ebrei, poiché ogni suo nemico era cristiano e nessuno di questi aveva assediato Acri o mercanteggiato coi musulmani; il papa, non avendo alcun riguardo per il suo alto ufficio né per il cordone francescano di Guido, lo chiamò a sé come Costantino fece chiamare Silvestro per guarire della lebbra. Bonifacio gli aveva chiesto un consiglio e Guido aveva esitato a darglielo, ma poi il papa lo aveva rassicurato dicendogli di assolverlo in anticipo e pregandolo di dirgli come prendere la rocca di Palestrina. Il papa gli aveva detto di possedere le due chiavi del potere papale, che il suo precedessore (Celestino V) non ebbe care. Allora Guido fu indotto a parlare, spinto anche dal timore di più gravi conseguenze, e consigliò a Bonifacio di promettere il perdono ai suoi nemici senza poi mantenerlo.
Il racconto di Guido: la disputa per la sua anima (112-136)
Quando poi Guido morì, san Francesco venne a prendere la sua anima, ma un diavolo si oppose dicendo che doveva in realtà andare all'Inferno per il consiglio fraudolento dato al papa e per il quale lo aveva seguito sino a quel momento: infatti non si può assolvere chi non si pente della sua colpa, e pentirsi e voler peccare allo stesso momento è una contraddizione in termini. Guido ricorda di essersi disperato quando il diavolo lo prese e lo irrise dicendogli che forse non pensava che lui fosse filosofo. Il demone lo aveva portato a Minosse il quale si attorcigliò la coda attorno al corpo otto volte, destinandolo alla Bolgia dei consiglieri fraudolenti e mordendosi la coda stessa per rabbia. Da allora Guido è dannato e si duole avvolto dalla fiamma.
Al termine del suo racconto il dannato si allontana, agitando la punta aguzza. Dante e Virgilio passano oltre, percorrendo il ponte fino alla Bolgia successiva dove sono puniti i seminatori di discordie.
Al termine del suo racconto il dannato si allontana, agitando la punta aguzza. Dante e Virgilio passano oltre, percorrendo il ponte fino alla Bolgia successiva dove sono puniti i seminatori di discordie.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Protagonista del Canto è Guido da Montefeltro, personaggio molto noto al tempo di Dante e che costituisce l'esempio moderno dopo quello antico rappresentato da Ulisse nel Canto precedente. È lui stesso a rivolgersi a Virgilio che ha udito parlare in lombardo (ovvero in volgare italiano) mentre congendava Ulisse, in quanto ha desiderio di conoscere la situazione politica della sua terra: Dante lo introduce con la preziosa similitudine del bue di Falaride, lo strumento di tortura che emetteva un sinistro mugolio prodotto dai lamenti del malcapitato all'interno (la fiamma in cui è avvolto il dannato emette un suono simile, sottolineando la sofferenza del peccatore che arde e, tuttavia, vuole parlare coi due visitatori). Virgilio invita Dante a rispondere al dannato che è latino, italiano e non greco, per cui la struttura del Canto è speculare rispetto a quello precedente e ripropone quanto si è già visto nel Canto XVIII.
Dante aveva espresso ammirazione e rispetto per Guido nel Convivio (IV, 28, 8), lodando il suo pentimento e la sua monacazione negli anni della vecchiaia, cosa che sembra in contrasto con la sua collocazione tra le anime dannate: in realtà accade altre volte che nel poema Dante corregga opinioni espresse nel trattato, e qui può aver influito l'aver appreso dal cronista Riccobaldo da Ferrara l'episodio che aveva coinvolto Guido col papa Bonifacio VIII e che ne aveva causato la dannazione. In ogni caso Dante crea un forte contrasto tra la vita di Guido sino al suo farsi francescano e le vicende successive, ovvero tra l'uomo d'armi e il politico da un lato (astuto e dotato di ogni abilità militare) e l'uomo di Chiesa dall'altro (ingenuo e pronto a farsi beffare dal papa cadendo nel peccato mortale). Tale contrasto emerge nella prima parte del Canto, in cui Guido è ansioso di sapere se la Romagna sia in guerra: non è una richiesta generica, ma la volontà precisa di sapere se la pace progettata nel 1297 tra i signori romagnoli e poi stipulata nel 1299, quando Guido era già morto, sia poi stata rispettata (i dannati non possono sapere nulla del presente, come Farinata ha spiegato in Inf., X, 100-108). La domanda di Guido è dunque legata al suo ruolo di politico e condottiero che tanto bene aveva svolto nella vita precedente la conversione, per la quale l'ammirazione di Dante è immutata, e il poeta risponde illustrando la situazione delle città romagnole soggette alle varie signorie e tirannidi, il che riflette la sua preoccupazione per una terra che a lungo lo ospitò durante l'esilio e in cui di fatto morì.
Guido è poi invitato a manifestarsi e a spiegare chi sia, senza essere più restio di quanto lo siano stati altri prima di lui, e il dannato acconsente basandosi sull'errata convinzione di parlare con un altro dannato, quindi con qualcuno che non può tornare sulla Terra e causargli infamia col riferire il racconto della sua dannazione. La situazione è opposta a quella di Pier della Vigna nel Canto XIII, in cui le parole di Dante avrebbero riabilitato la sua reputazione diffamata, e qui Dante inganna indirettamente Guido proprio come Virgilio, forse, aveva ingannato Ulisse e Diomede spacciandosi per Omero. Guido ignora infatti che Dante è vivo, essendo avvolto dalle fiamme che non gli permettono di vederlo, ma non comprende neppure il privilegio eccezionale datogli dalla grazia divina di visitare anzitempo il mondo ultraterreno, ripresentando una situazione analoga a quella già vista con Farinata, Cavalcante, Brunetto Latini. E infatti la prosopopea del dannato diventa un discorso paradossale, in cui Guido crede di elogiarsi ma finisce col dimostrare quanto era stato ingenuo: le sue opere furono sì di volpe durante la sua attività politica, ma poi si era illuso che indossare il cordone francescano bastasse ad assicurargli la salvezza (Dante insinua il sospetto che il pentimento di Guido non fosse sincero ma dovuto, piuttosto, al tardivo desiderio di fare ammenda, il che è dimostrato dal consiglio fraudolento dato a Bonifacio VIII smanioso di espugnare la rocca di Palestrina). Guido dà tutta la colpa del suo peccato al papa corrotto, ma in realtà la responsabilità principale è sua: se il suo pentimento fosse stato sincero Guido non avrebbe ceduto alle lusinghe del papa, né si sarebbe accontentato della sua assicurazione di avere l'assoluzione prima ancora di commettere il peccato (non si può assolvere chi non si pente e non ci si può pentire e voler peccare al tempo stesso, come il diavolo loico non mancherà di spiegare a Guido prima di condurlo all'Inferno). In questo modo Dante rovescia in modo clamoroso e inatteso l'opinione corrente sul destino ultraterreno del Montefeltro, che essendo morto in convento e in odore di santità tutti credevano salvo: analogamente a esempi futuri di anime salve contro ogni previsione (come lo «scandalo» rappresentato da Manfredi di Svevia), Dante ristabilisce la verità mostrandoci la condizione delle anime dopo la morte e sottolineando che nella partita della salvezza non contano gli atti esteriori o la fama, ma solo il reale pentimento nel cuore dell'uomo che solamente Dio può conoscere nella sua verità. Guido è dannato perché tale pentimento nel suo cuore non c'era, così come il figlio Bonconte sarà salvo (cfr. Purg., V, 85 ss.) per essersi invece pentito in punto di morte contrariamente a quanto il mondo pensava di lui. Il contrasto tra san Francesco e il diavolo che si contendono l'anima di Guido anticipa quello analogo tra l'angelo e il diavolo che si contendono quella di Bonconte, con un preciso parallelismo tra i due episodi che si rifà, tra l'altro, a un tema assai diffuso nella letteratura religiosa del Due-Trecento.
Se Dante condanna dunque la condotta peccaminosa di Guido, altrettanto si può naturalmente dire per papa Bonifacio VIII, il pontefice la cui dannazione tra i simoniaci è già stata predetta: egli è presentato qui come gran prete (l'epiteto è beffardo e ironico), come il principe d'i novi Farisei, intento a far guerra ai cristiani anziché agli infedeli e indifferente al suo supremo ufficio o all'abito di Guido; è talmente ansioso di sconfiggere i Colonna suoi nemici da promettere al francescano ciò che non può dargli, ovvero l'assoluzione per qualcosa che non ha ancora fatto, colpendo con amara ironia il suo antecessor Celestino V che non ebbe care le due chiavi del potere papale, quella dell'assoluzione e della condanna. Non a caso è paragonato all'imperatore Costantino che chiamò a sé papa Silvestro I per guarire dalla lebbra, in quanto nel Medioevo si riteneva che Costantino avesse fatto proprio a Silvestro la famosa donazione che gettò le basi del potere temporale dei papi, che fu radice della corruzione della Chiesa di cui Bonifacio è per Dante insigne rappresentante (anche in XIX, 115-117, Dante nella sua invettiva contro la Curia corrotta deplorava la dote consegnata da Costantino al primo ricco patre, proprio nel Canto dei papi simoniaci in cui era profetizzata la dannazione di Bonifacio VIII).
Dante aveva espresso ammirazione e rispetto per Guido nel Convivio (IV, 28, 8), lodando il suo pentimento e la sua monacazione negli anni della vecchiaia, cosa che sembra in contrasto con la sua collocazione tra le anime dannate: in realtà accade altre volte che nel poema Dante corregga opinioni espresse nel trattato, e qui può aver influito l'aver appreso dal cronista Riccobaldo da Ferrara l'episodio che aveva coinvolto Guido col papa Bonifacio VIII e che ne aveva causato la dannazione. In ogni caso Dante crea un forte contrasto tra la vita di Guido sino al suo farsi francescano e le vicende successive, ovvero tra l'uomo d'armi e il politico da un lato (astuto e dotato di ogni abilità militare) e l'uomo di Chiesa dall'altro (ingenuo e pronto a farsi beffare dal papa cadendo nel peccato mortale). Tale contrasto emerge nella prima parte del Canto, in cui Guido è ansioso di sapere se la Romagna sia in guerra: non è una richiesta generica, ma la volontà precisa di sapere se la pace progettata nel 1297 tra i signori romagnoli e poi stipulata nel 1299, quando Guido era già morto, sia poi stata rispettata (i dannati non possono sapere nulla del presente, come Farinata ha spiegato in Inf., X, 100-108). La domanda di Guido è dunque legata al suo ruolo di politico e condottiero che tanto bene aveva svolto nella vita precedente la conversione, per la quale l'ammirazione di Dante è immutata, e il poeta risponde illustrando la situazione delle città romagnole soggette alle varie signorie e tirannidi, il che riflette la sua preoccupazione per una terra che a lungo lo ospitò durante l'esilio e in cui di fatto morì.
Guido è poi invitato a manifestarsi e a spiegare chi sia, senza essere più restio di quanto lo siano stati altri prima di lui, e il dannato acconsente basandosi sull'errata convinzione di parlare con un altro dannato, quindi con qualcuno che non può tornare sulla Terra e causargli infamia col riferire il racconto della sua dannazione. La situazione è opposta a quella di Pier della Vigna nel Canto XIII, in cui le parole di Dante avrebbero riabilitato la sua reputazione diffamata, e qui Dante inganna indirettamente Guido proprio come Virgilio, forse, aveva ingannato Ulisse e Diomede spacciandosi per Omero. Guido ignora infatti che Dante è vivo, essendo avvolto dalle fiamme che non gli permettono di vederlo, ma non comprende neppure il privilegio eccezionale datogli dalla grazia divina di visitare anzitempo il mondo ultraterreno, ripresentando una situazione analoga a quella già vista con Farinata, Cavalcante, Brunetto Latini. E infatti la prosopopea del dannato diventa un discorso paradossale, in cui Guido crede di elogiarsi ma finisce col dimostrare quanto era stato ingenuo: le sue opere furono sì di volpe durante la sua attività politica, ma poi si era illuso che indossare il cordone francescano bastasse ad assicurargli la salvezza (Dante insinua il sospetto che il pentimento di Guido non fosse sincero ma dovuto, piuttosto, al tardivo desiderio di fare ammenda, il che è dimostrato dal consiglio fraudolento dato a Bonifacio VIII smanioso di espugnare la rocca di Palestrina). Guido dà tutta la colpa del suo peccato al papa corrotto, ma in realtà la responsabilità principale è sua: se il suo pentimento fosse stato sincero Guido non avrebbe ceduto alle lusinghe del papa, né si sarebbe accontentato della sua assicurazione di avere l'assoluzione prima ancora di commettere il peccato (non si può assolvere chi non si pente e non ci si può pentire e voler peccare al tempo stesso, come il diavolo loico non mancherà di spiegare a Guido prima di condurlo all'Inferno). In questo modo Dante rovescia in modo clamoroso e inatteso l'opinione corrente sul destino ultraterreno del Montefeltro, che essendo morto in convento e in odore di santità tutti credevano salvo: analogamente a esempi futuri di anime salve contro ogni previsione (come lo «scandalo» rappresentato da Manfredi di Svevia), Dante ristabilisce la verità mostrandoci la condizione delle anime dopo la morte e sottolineando che nella partita della salvezza non contano gli atti esteriori o la fama, ma solo il reale pentimento nel cuore dell'uomo che solamente Dio può conoscere nella sua verità. Guido è dannato perché tale pentimento nel suo cuore non c'era, così come il figlio Bonconte sarà salvo (cfr. Purg., V, 85 ss.) per essersi invece pentito in punto di morte contrariamente a quanto il mondo pensava di lui. Il contrasto tra san Francesco e il diavolo che si contendono l'anima di Guido anticipa quello analogo tra l'angelo e il diavolo che si contendono quella di Bonconte, con un preciso parallelismo tra i due episodi che si rifà, tra l'altro, a un tema assai diffuso nella letteratura religiosa del Due-Trecento.
Se Dante condanna dunque la condotta peccaminosa di Guido, altrettanto si può naturalmente dire per papa Bonifacio VIII, il pontefice la cui dannazione tra i simoniaci è già stata predetta: egli è presentato qui come gran prete (l'epiteto è beffardo e ironico), come il principe d'i novi Farisei, intento a far guerra ai cristiani anziché agli infedeli e indifferente al suo supremo ufficio o all'abito di Guido; è talmente ansioso di sconfiggere i Colonna suoi nemici da promettere al francescano ciò che non può dargli, ovvero l'assoluzione per qualcosa che non ha ancora fatto, colpendo con amara ironia il suo antecessor Celestino V che non ebbe care le due chiavi del potere papale, quella dell'assoluzione e della condanna. Non a caso è paragonato all'imperatore Costantino che chiamò a sé papa Silvestro I per guarire dalla lebbra, in quanto nel Medioevo si riteneva che Costantino avesse fatto proprio a Silvestro la famosa donazione che gettò le basi del potere temporale dei papi, che fu radice della corruzione della Chiesa di cui Bonifacio è per Dante insigne rappresentante (anche in XIX, 115-117, Dante nella sua invettiva contro la Curia corrotta deplorava la dote consegnata da Costantino al primo ricco patre, proprio nel Canto dei papi simoniaci in cui era profetizzata la dannazione di Bonifacio VIII).
Note e passi controversi
I vv. 7-12 fanno riferimento alla diceria per cui Falaride, tiranno di Agrigento, avesse fatto costruire all'artigiano Perillo un bue di rame dentro al quale venivano posti i condannati a morte: sotto il bue veniva posta la fiamma e il malcapitato all'interno urlava di dolore, producendo una specie di mugolio all'esterno che sembrava il muggito dell'animale. Falaride avrebbe sperimentato l'invenzione sullo stesso Perillo (la fonte dantesca è prob. Ovidio, Tristia, III, 11, o forse Orosio, Adv. pag., I, 20).
Guido dice a Virgilio che parlava lombardo, ovvero in volgare italiano: Dante pensava che gli antichi Romani non parlassero latino, ma un volgare in parte simile a quello dei suoi tempi (cfr. DVE, I, 1; è sembrato strano che Virgilio si rivolga a un personaggio greco come Ulisse in un volgare nostrano, che contrasta col linguaggio alto e solenne del Canto precedente, mentra altri ipotizzano che il poeta latino ad Ulisse avesse addirittura parlato in greco). La parola istra vuol dire «adesso» ed è voce lucchese e dell'Italia del nord; adizzo significa «aizzo», «stimolo».
Dolce terra latina (vv. 26-27) indica l'Italia; il giogo da cui nasce il Tevere è il Monte Coronaro.
I vv. 43-45 indicano che Forlì, la città che sostenne il lungo assedio (1281-83) da parte delle truppe guelfe inviate da Martino IV e che fece strage delle truppe francesi giunte in aiuto agli assedianti, è ora sotto il dominio degli Ordelaffi (il cui simbolo araldico era il leone verde rampante in campo dorato). Il fatto d'armi citato vide come protagonista proprio Guido, che dimostrò nell'occasione straordinarie doti militari e strategiche.
Il mastin vecchio e 'l nuovo (v. 46) sono Malatesta il Vecchio e Malatestino, padre e figlio signori di Rimini (il secondo era fratello di Paolo e Gianciotto, marito di Francesca); il v. 48 allude al fatto che essi dilaniavano i nemici usando i denti come succhiello (succhio).
Il leone azzurro in campo bianco (v. 50) è il simbolo di Maghinardo Pagani, signore di Faenza e Imola che ebbe condotta ambigua con Guelfi e Ghibellini.
Cordigliero (v. 67) è sinonimo di «francescano», dal cordone di cui erano cinti questi frati.
L'espressione del v. 78 è di ascendenza biblica (Salmi, XVIII, 4) ma ricalca anche le parole di papa Martino IV nel bandire la crociata contro i Ghibellini di Forlì capeggiati da Guido.
Il v. 81 riecheggia le parole di Dante stesso su Guido nel Convivio (IV, 28, 8).
I vv. 89-90 indicano che i cristiani contro cui Bonifacio faceva guerra, ovvero i Colonna, non avevano assediato S. Giovanni d'Acri insieme ai musulmani nel 1291, né avevano mercanteggiato in Terrasanta con gli islamici.
Il v. 93, riferito al cordone francescano che un tempo rendeva più magri gli appartenenti all'ordine, è maligna ironia sul fatto che i francescani nel Trecento erano spesso preda della corruzione.
Il consiglio fraudolento dato da Guido al papa (vv. 110-111) ricalca le parole di Riccobaldo da Ferrara nella sua cronaca: «promettete molto, mantenete poco delle promesse fatte». Bonficacio promise infatti il perdono papale ai suoi nemici, per indurli a recarsi a Rieti e lasciare sguarnita la rocca di Palestrina, che poi fece radere al suolo.
La fiamma in cui sono avvolti questi dannati è definita da Minosse foco furo (v. 127), ovvero «ladro» in quanto sottrae le loro anime alla vista e non permette loro di vedere nulla all'esterno.
Quei che scommettendo acquistan carco (v. 136) sono i seminatori di discordie, che dividendo gli altri si gravano di peccato.
Guido dice a Virgilio che parlava lombardo, ovvero in volgare italiano: Dante pensava che gli antichi Romani non parlassero latino, ma un volgare in parte simile a quello dei suoi tempi (cfr. DVE, I, 1; è sembrato strano che Virgilio si rivolga a un personaggio greco come Ulisse in un volgare nostrano, che contrasta col linguaggio alto e solenne del Canto precedente, mentra altri ipotizzano che il poeta latino ad Ulisse avesse addirittura parlato in greco). La parola istra vuol dire «adesso» ed è voce lucchese e dell'Italia del nord; adizzo significa «aizzo», «stimolo».
Dolce terra latina (vv. 26-27) indica l'Italia; il giogo da cui nasce il Tevere è il Monte Coronaro.
I vv. 43-45 indicano che Forlì, la città che sostenne il lungo assedio (1281-83) da parte delle truppe guelfe inviate da Martino IV e che fece strage delle truppe francesi giunte in aiuto agli assedianti, è ora sotto il dominio degli Ordelaffi (il cui simbolo araldico era il leone verde rampante in campo dorato). Il fatto d'armi citato vide come protagonista proprio Guido, che dimostrò nell'occasione straordinarie doti militari e strategiche.
Il mastin vecchio e 'l nuovo (v. 46) sono Malatesta il Vecchio e Malatestino, padre e figlio signori di Rimini (il secondo era fratello di Paolo e Gianciotto, marito di Francesca); il v. 48 allude al fatto che essi dilaniavano i nemici usando i denti come succhiello (succhio).
Il leone azzurro in campo bianco (v. 50) è il simbolo di Maghinardo Pagani, signore di Faenza e Imola che ebbe condotta ambigua con Guelfi e Ghibellini.
Cordigliero (v. 67) è sinonimo di «francescano», dal cordone di cui erano cinti questi frati.
L'espressione del v. 78 è di ascendenza biblica (Salmi, XVIII, 4) ma ricalca anche le parole di papa Martino IV nel bandire la crociata contro i Ghibellini di Forlì capeggiati da Guido.
Il v. 81 riecheggia le parole di Dante stesso su Guido nel Convivio (IV, 28, 8).
I vv. 89-90 indicano che i cristiani contro cui Bonifacio faceva guerra, ovvero i Colonna, non avevano assediato S. Giovanni d'Acri insieme ai musulmani nel 1291, né avevano mercanteggiato in Terrasanta con gli islamici.
Il v. 93, riferito al cordone francescano che un tempo rendeva più magri gli appartenenti all'ordine, è maligna ironia sul fatto che i francescani nel Trecento erano spesso preda della corruzione.
Il consiglio fraudolento dato da Guido al papa (vv. 110-111) ricalca le parole di Riccobaldo da Ferrara nella sua cronaca: «promettete molto, mantenete poco delle promesse fatte». Bonficacio promise infatti il perdono papale ai suoi nemici, per indurli a recarsi a Rieti e lasciare sguarnita la rocca di Palestrina, che poi fece radere al suolo.
La fiamma in cui sono avvolti questi dannati è definita da Minosse foco furo (v. 127), ovvero «ladro» in quanto sottrae le loro anime alla vista e non permette loro di vedere nulla all'esterno.
Quei che scommettendo acquistan carco (v. 136) sono i seminatori di discordie, che dividendo gli altri si gravano di peccato.
TestoGià era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta, 3 quand’un’altra, che dietro a lei venia, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n’uscia. 6 Come ’l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l’avea temperato con sua lima, 9 mugghiava con la voce de l’afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; 12 così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertian le parole grame. 15 Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio, 18 udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va, più non t’adizzo", 21 perch’io sia giunto forse alquanto tardo, non t’incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo! 24 Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se’ di quella dolce terra latina ond’io mia colpa tutta reco, 27 dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch’io fui d’i monti là intra Orbino e ’l giogo di che Tever si diserra». 30 Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: «Parla tu; questi è latino». 33 E io, ch’avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: «O anima che se’ là giù nascosta, 36 Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; ma ’n palese nessuna or vi lasciai. 39 Ravenna sta come stata è molt’anni: l’aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni. 42 La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova. 45 E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d’i denti succhio. 48 Le città di Lamone e di Santerno conduce il lioncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno. 51 E quella cu’ il Savio bagna il fianco, così com’ella sie’ tra ’l piano e ’l monte tra tirannia si vive e stato franco. 54 Ora chi se’, ti priego che ne conte; non esser duro più ch’altri sia stato, se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte». 57 Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l’aguta punta mosse di qua, di là, e poi diè cotal fiato: 60 «S’i’ credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse; 63 ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, sanza tema d’infamia ti rispondo. 66 Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero, 69 se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m’intenda. 72 Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe che la madre mi diè, l’opere mie non furon leonine, ma di volpe. 75 Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch’al fine de la terra il suono uscie. 78 Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte, 81 ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe. 84 Lo principe d’i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei, 87 ché ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri né mercatante in terra di Soldano; 90 né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri. 93 Ma come Costantin chiese Silvestro d’entro Siratti a guerir de la lebbre; così mi chiese questi per maestro 96 a guerir de la sua superba febbre: domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre. 99 E’ poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; finor t’assolvo, e tu m’insegna fare sì come Penestrino in terra getti. 102 Lo ciel poss’io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che ’l mio antecessor non ebbe care". 105 Allor mi pinser li argomenti gravi là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio, e dissi: "Padre, da che tu mi lavi 108 di quel peccato ov’io mo cader deggio, lunga promessa con l’attender corto ti farà triunfar ne l’alto seggio". 111 Francesco venne poi com’io fu’ morto, per me; ma un d’i neri cherubini li disse: "Non portar: non mi far torto. 114 Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini perché diede ’l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a’ crini; 117 ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente". 120 Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch’io loico fossi!". 123 A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse, 126 disse: "Questi è d’i rei del foco furo"; per ch’io là dove vedi son perduto, e sì vestito, andando, mi rancuro». 129 Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo ’l corno aguto. 132 Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio, su per lo scoglio infino in su l’altr’arco che cuopre ’l fosso in che si paga il fio a quei che scommettendo acquistan carco. 136 |
ParafrasiLa fiamma (di Ulisse e Diomede) ormai era dritta e ferma, dato che non parlava più, e si allontanava da noi con il permesso del dolce poeta (Virgilio),
quando ecco che un'altra, che veniva dietro di essa, ci indusse a rivolgere lo sguardo alla sua punta per un suono confuso che ne fuoriusciva. Come il bue siciliano, che muggì per la prima volta coi lamenti di colui che l'aveva forgiato col suo lavoro (e questo fu giusto), muggiva con la voce del torturato, tanto da sembrare trafitto dal dolore anche se era fatto di rame; così le parole misere si convertivano nel linguaggio del fuoco, perché all'inizio non trovavano una strada per uscire. Ma dopo che ebbero trovato una via d'uscita attraverso la punta, facendola muovere come la lingua al loro passaggio, sentimmo dire: «O tu a cui io rivolgo la voce, e che poc'anzi parlavi italiano dicendo "Adesso va' pure, non ti stimolo più", non dispiacerti di trattenerti a parlare con me solo perché sono arrivato un po' dopo; vedi che a me non dispiace, e tuttavia brucio tra le fiamme! Se tu sei finito in questo mondo oscuro da quella dolce terra d'Italia dalla quale io reco tutta la mia colpa, dimmi se i Romagnoli sono in pace o in guerra; infatti io fui dei monti tra Urbino e la cima da cui nasce il Tevere (Monte Coronaro)». Io ero ancora attento e chinato giù dal ponte, quando la mia guida mi toccò il fianco e mi disse: «Parla tu, questo è italiano». E io, che ero pronto a rispondere, iniziai a parlare senza esitazioni: «O anima che sei nascosta dal fuoco laggiù, la tua Romagna non è (e non è mai stata) senza guerra nei cuori dei suoi tiranni; tuttavia non la lasciai impegnata in nessun conflitto dichiarato. Ravenna è nella situazione in cui è da molti anni: l'aquila dei Da Polenta la domina, così che copre anche Cervia con le sue ali. La città (Forlì) che sostenne il lungo assedio e fece strage delle truppe francesi, è dominata dal leone rampante verde (dalla famiglia Ordelaffi). E il vecchio e il nuovo mastino (Malatesta e Malatestino) da Verrucchio, che fecero strage di Montagna dei Parcitati, usano i denti come succhiello (dilaniano i nemici) là dove sono soliti farlo. Le città dei fiumi Lamone e Santerno (Faenza e Imola) sono dominate dal leone in campo bianco (Maghinardo Pagani), che muta alleanze dall'estate all'inverno. E la città il cui fianco è bagnato dal Savio (Cesena), così come sta tra la pianura e il monte, vive tra tirannide e stato libero. Ora ti prego di dirci chi sei; non essere più restio degli altri, se il tuo nome nel mondo conserva fama». Dopo che il fuoco ebbe ruggito per un po' alla sua maniera, la punta aguzza si agitò da una parte e dall'altra, poi pronunciò tali parole: «Se io credessi di rispondere a qualcuno che possa tornare sulla Terra, questa fiamma resterebbe quieta (non parlerei); ma poiché dal fondo dell'Inferno non è mai uscito vivo nessuno, se sento dire il vero, ti rispondo senza temere di essere infamato. Io fui uomo d'armi, e poi divenni francescano, credendo di fare ammenda dei miei peccati cingendo il cordone; e certo quanto credevo si sarebbe avverato, non fosse stato per il papa (Bonifacio VIII), che Dio lo maledica!, il quale mi indusse nuovamente a peccare; e voglio che tu senta come e perché ciò avvenne. Fin tanto che io fui in carne ed ossa, col corpo datomi da mia madre, le mie opere non furono improntate alla violenza ma all'astuzia. Io conobbi tutti i trucchi e le vie nascoste, ed esercitai la loro arte in modo tale che la mia fama raggiunse i confini del mondo. Quando mi vidi giunto a quella fase della mia vita (la vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e raccogliere le sartie (pentirsi dei suoi peccati), ciò che prima mi piaceva mi dispiacque e mi feci frate, dopo essermi pentito e confessato; ah, povero me! Certo ciò mi avrebbe giovato. Il principe dei nuovi Farisei (Bonifacio), mentre combatteva una guerra vicino al Laterano (contro i Colonna), e non contro Saraceni o Giudei, poiché ogni suo nemico era cristiano, e nessuno di questi aveva assediato Acri o aveva mercanteggiato nella terra del Soldano; non ebbe riguardo né per il suo supremo ufficio, né per gli ordini sacerdotali, né per quel cordone francescano che era solito rendere magri quelli che lo indossano. Al contrario, come Costantino chiamò a sé papa Silvestro dal suo rifugio sul monte Soratte per guarire dalla lebbra, così lui chiamò me per guarire dalla sua terribile febbre: mi chiese un consiglio e io tacqui perché le sue mi sembravano le parole di un pazzo. Egli mi disse: "Il tuo cuore non abbia timore: io ti assolvo fin d'ora, purché tu mi mostri come devo fare per abbattere la rocca di Palestrina. Io posso chiudere e aprire il cielo (condannare e assolvere), come ben sai; infatti due sono le chiavi che il mio predecessore (Celestino V) non ebbe care". Allora gli argomenti autorevoli mi convinsero, specie pensando che il tacere mi avrebbe procurato gravi conseguenze, e dissi: "Padre, dal momento che tu mi assolvi da quel peccato nel quale debbo ricadere, promettere molto e mantenere poco ti farà trionfare nel trono pontificio". Non appena morii, poi, san Francesco venne a prendere la mia anima; ma un diavolo gli disse: "Non portarla via: non farmi torto. Egli deve venire giù tra i miei dannati, perché diede il consiglio fraudolento per il quale, da allora a oggi, gli sono stato alle costole. Infatti non può essere assolto chi non si pente, e non è possibile pentirsi e voler peccare al tempo stesso, perché è una contraddizione in termini". Ah, povero me! come mi scossi quando mi prese, dicendomi: "Forse tu non pensavi che io fossi filosofo!" Mi portò davanti a Minosse; e quello attorcigliò la coda otto volte attorno alla schiena dura; e dopo essersela morsa per la gran rabbia, disse: "Questo deve andare tra i peccatori del fuoco che li sottrae alla vista"; ed ecco perché sono perduto qui dove mi vedi, e avvolto così dalle fiamme mi dolgo camminando». Quando il dannato ebbe finito di parlare, la fiamma si allontanò dolorante, torcendo e sbattendo la punta aguzza. Noi (io e la mia guida) andammo oltre, su per il ponte fino al successivo che sovrasta la Bolgia in cui sono puniti quelli che, seminando discordie, si gravano di peccato. |