Purgatorio, Canto XXIV
G. Doré, I golosi della VI Cornice
"La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona"...
"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! ..."
"Or va", diss'el, "che quei che n'ha più colpa,
vegg'io a coda d'una bestia tratto
inver' la valle ove mai non si scolpa..."
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona"...
"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! ..."
"Or va", diss'el, "che quei che n'ha più colpa,
vegg'io a coda d'una bestia tratto
inver' la valle ove mai non si scolpa..."
Argomento del Canto
Ancora fra i golosi della VI Cornice. Forese indica il destino ultraterreno di Piccarda e nomina altri compagni di pena. Incontro con Bonagiunta da Lucca. Profezia di Forese sulla morte di Corso Donati. Il secondo albero e gli esempi di gola punita. L'angelo della temperanza.
È il pomeriggio di martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.
È il pomeriggio di martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300.
Forese parla di Piccarda e indica altri golosi (1-33)
Simone de Brie (papa Martino IV)
Dante e Forese Donati continuano a parlare e a camminare lungo la VI Cornice, senza rallentare, mentre le altre anime dei golosi osservano Dante stupite del fatto che sia vivo. Il poeta afferma che Stazio procede lentamente verso l'alto per trattenersi con Virgilio, poi chiede all'amico se sa qual è il destino ultraterreno della sorella Piccarda e se fra i compagni di pena vi sono personaggi degni di nota. Forese risponde che la sorella, bella e buona quand'era in vita, ora è fra i beati in Paradiso, quindi afferma che è necessario nominare le anime rese irriconoscibili dalla magrezza. Forese mostra col dito l'anima di Bonagiunta da Lucca e, accanto a lui, quella di papa Martino IV di Tours, che sconta il suo amore per le anguille e la vernaccia. Nomina altre anime di golosi, tutti contenti di essere indicati: fra di essi ci sono Ubaldino della Pila, Bonifacio Fieschi, Marchese degli Argugliosi che quando era vivo a Forlì bevve in modo smodato.
Incontro con Bonagiunta Orbicciani (34-63)
La città di Lucca
Dante nota che Bonagiunta si mostra più degli altri desideroso di parlargli, mentre intanto mormora un nome che gli sembra «Gentucca», a fior delle labbra che sono tormentate dalla fame e dalla sete. Dante si rivolge a lui e lo invita a parlargli, al che Bonagiunta risponde che nella sua città, Lucca, è già nata una femmina che è ancora giovinetta e che avrà modo di ospitarlo durante il suo esilio. Il penitente invita Dante a ricordarsi la sua profezia, che sarà avvalorata dai fatti, quindi gli chiede se sia proprio lui il poeta che ha iniziato le nuove rime con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore. Dante spiega di essere un poeta che, quando scrive, segue strettamente la dettatura di Amore: Bonagiunta afferma di capire quale differenza separa lui, Giacomo da Lentini e Guittone d'Arezzo dal «dolce stil novo» che Dante ha appena definito. Il penitente comprende che gli stilnovisti seguirono l'ispirazione amorosa, a differenza sua e dei poeti della sua scuola, quindi tace mostrandosi soddisfatto della risposta.
Profezia della morte di Corso Donati (64-93)
Morte di Corso Donati (min. XIV sec.)
Le altre anime si allontanano da Dante affrettando il passo, simili alle gru che svernano lungo il Nilo, camminando spedite per la magrezza e la volontà di espiazione. Solo Forese resta con Dante, camminando lentamente e lasciando andare avanti gli altri golosi, chiedendo poi all'amico quando lo rivedrà. Dante risponde di non sapere quanto gli resti ancora da vivere, ma certo è grande il suo desiderio di staccarsi dalle cose terrene e di lasciare la città di Firenze, che di giorno in giorno mostra il suo declino morale. Forese ribatte che molto presto il principale responsabile di questa situazione (il fratello Corso) verrà trascinato all'Inferno legato alla coda di un cavallo, che lo sfigurerà orribilmente. Non passeranno molti anni, aggiunge, prima che i fatti chiariscano a Dante il senso della sua oscura profezia. Alla fine delle sue parole Forese si accommiata da Dante e raggiunge i compagni di pena, per non perdere troppo tempo nell'espiazione delle sue colpe.
Arrivo al secondo albero (94-120)
G. Doré, L'albero dei golosi
Forese si allontana a passi rapidi, simile a un cavaliere che esce di schiera al galoppo per scontrarsi col nemico, mentre Dante resta in compagnia di Virgilio e Stazio. Il poeta segue Forese con gli occhi, finché scorge un secondo albero i cui rami sono carichi di frutti. Sotto di esso i golosi alzano le mani verso i rami e gridano parole incomprensibili, come dei bambini di fronte a un adulto che ammannisce loro qualcosa che essi desiderano. Alla fine le anime si allontanano e i tre poeti raggiungono a loro volta l'albero, dove sentono una voce che dichiara che quella pianta è nata dall'albero dell'Eden il cui frutto fu morso da Eva e li invita a passare oltre. I tre si stringono alla parete del monte e proseguono.
Esempi di gola punita (121-129)
La voce riprende poco dopo per ricordare esempi di gola punita, fra cui quello dei centauri che, nati da una nube, ubriachi, combatterono Teseo, e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui Gedeone non li volle come soldati nella guerra combattuta contro i Madianiti. I tre poeti passano oltre stringendosi all'orlo interno della Cornice, mentre ascoltano quegli esempi di gola cui seguì un duro castigo.
Esempi di gola punita (121-129)
La voce riprende poco dopo per ricordare esempi di gola punita, fra cui quello dei centauri che, nati da una nube, ubriachi, combatterono Teseo, e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui Gedeone non li volle come soldati nella guerra combattuta contro i Madianiti. I tre poeti passano oltre stringendosi all'orlo interno della Cornice, mentre ascoltano quegli esempi di gola cui seguì un duro castigo.
L'angelo della temperanza (130-154)
Oltrepassato l'albero, i tre poeti proseguono nella Cornice ormai deserta, ciascuno meditando su ciò che ha udito. A un tratto sentono una voce che chiede loro cosa pensano, per cui Dante si scuote: alza lo sguardo e scorge l'angelo della temperanza, che rosseggia come un metallo arroventato e invita i tre a salire lì se vogliono accedere alla Cornice successiva. Dante è abbagliato da quella vista e segue gli altri due ascoltandone le voci, mentre sulla fronte sente un dolce vento simile a una brezza primaverile, prodotto dalle piume dell'angelo che cancella la sesta P. L'angelo dichiara beati coloro che sono illuminati dalla grazia e non sono troppo inclini alla gola, avendo sempre desiderio del giusto.
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude l'episodio dedicato a Forese Donati ed è la seconda parte di un «dittico» iniziato nel Canto XXIII, con la differenza che qui l'amico di Dante è protagonista della prima e della terza parte del Canto, fra cui si inserisce la parentesi di Bonagiunta da Lucca che introduce l'importante discorso intorno allo Stilnovo. All'inizio Forese, su richiesta di Dante, indica alcuni dei più ragguardevoli golosi della Cornice, fra cui spiccano soprattutto gli ecclesiastici, a cominciare da papa Martino IV (Simone de Brie, sulla cui inclinazione al mangiare e al bere vi sono numerosi aneddoti nelle cronache) e Bonifacio Fieschi che fu arcivescovo di Ravenna, nel che Dante alimenta l'accusa che spesso veniva rivolta ai prelati di darsi smodatamente al cibo e di vivere nell'opulenza (gli altri due esempi sono di aristocratici, fra cui Ubaldino della Pila imparentato sia col cardinale Ottaviano che con l'arcivescovo Ruggieri, entrambi dannati, e Marchese degli Argugliosi). Forese preannuncia poi la beatitudine della sorella Piccarda, che sarà la protagonista del Canto III del Paradiso e costituisce un esempio di comportamento retto e virtuoso in contrasto con quello delle sfacciate donne fiorentine biasimate nel Canto precedente, esattamente come il fratello Corso sarà nella terza parte esempio negativo del malcostume e della corruzione politica di Firenze: la dannazione di Corso, che morirà nel 1308, è profetizzata in modo oscuro da Forese, secondo il quale il fratello verrà trascinato direttamente all'Inferno legato alla coda di un cavallo selvaggio, che ne sfigurerà orrendamente il corpo. L'uomo fu effettivamente ucciso da un colpo di lancia dopo essersi lasciato cadere di sella e alcuni commentatori (tra cui il Buti) ricordano che gli rimase un piede impigliato nella staffa e che l'animale lo trascinò a lungo, il che potrebbe aver agito sulla fantasia dell'autore. Significativo è il contrasto che Forese crea tra i due opposti esempi dei fratelli, destinati rispettivamente al Cielo e all'Inferno, tanto più che i due erano legati da torbide vicende biografiche (Corso aveva rapito Piccarda dal convento per costringerla a nozze con un uomo politico legato ai Guelfi Neri, per cui la sua orribile morte costituisce la giusta punizione per i suoi peccati personali e le colpe politiche relative alle vicende fiorentine, tanto più gravi in quanto i Neri avevano causato l'ingiusto esilio del poeta nel 1302).
La parte centrale del Canto vede poi come protagonista Bonagiunta Orbicciani da Lucca, già indicato da Forese fra i suoi compagni di pena, il quale si mostra particolarmente voglioso di interloquire con Dante: è una importante parentesi dedicata a questioni poetiche e letterarie, che anticipa quella altrettanto significativa del Canto XXVI che vedrà protagonisti Guido Guinizelli e Arnaut Daniel. Bonagiunta era infatti uno dei principali esponenti della cosiddetta scuola dei «siculo-toscani», di cui era stato l'iniziatore benché Guittone (più giovane di lui) ne fosse diventato poi il rappresentante di spicco, ed era colui che aveva rivolto a Guinizelli il famoso sonetto polemico Voi ch'avete mutata la mainera in cui lo accusava di scrivere versi troppo astrusi e dottrinali. Dante è quindi il rappresentante dello stile «nuovo» iniziato da Guinizelli e ripreso da lui e Cavalcanti, mentre il poeta lucchese è l'esponente di uno stile «vecchio» e superato da Dante e i suoi amici, per cui è logico che una discussione di teoria poetica abbia lui come interlocutore privilegiato. Dopo aver predetto in modo allusivo l'esilio di Dante, ricordando il nome della donna lucchese Gentucca che ospiterà il poeta in quella città (il soggiorno fu forse intorno al 1306, durante la permanenza in Lunigiana presso i Malaspina: la profezia anticipa quella relativa a Corso Donati, con l'analogo avvertimento che i fatti chiariranno le parole oscure), Bonagiunta si rivolge a Dante come colui che ha iniziato a sua volta una nuova maniera poetica, quella delle «rime nuove» cominciata con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore del cap. XIX della Vita nuova: Dante si presenta come un poeta che scrive sotto la diretta ispirazione di Amore, per cui l'altro comprende la differenza fondamentale che ha separato lui, Guittone e Giacomo da Lentini (caposcuola dei Siciliani) dal dolce stil novo di cui sente parlare. È questa l'unica attestazione del termine «Stilnovo», che i critici hanno poi esteso a tutta la nuova maniera poetica inaugurata da Guinizelli e ripresa dai poeti fiorentini; la «novità» consisterebbe nell'immediata trasposizione dell'ispirazione amorosa, mentre Bonagiunta e i guittoniani peccarono per eccesso di retorica, specie Guittone che prese a modello il trobar clus di Arnaut (mentre gli stilnovisti si ispirararono al trobar leu e ricercarono un linguaggio semplice, non sofisticato). Si è molto discusso se la definizione di Bonagiunta vada estesa a tutta la scuola oppure solo alle «rime nuove» iniziate da Dante nel cap. XIX della Vita nuova, ovvero le poesie in cui ripone tutta la sua soddisfazione nelle parole di lode a Beatrice e non nel saluto di lei, per quanto tale ipotesi sembri troppo restrittiva e non spiegherebbe perché Dante senta il bisogno di spiegare la propria poesia a un esponente dei siculo-toscani. Del resto il poeta lucchese crea un'opposizione tra Siciliani e siculo-toscani da una parte e Dante e i suoi amici dall'altra (dice infatti le vostre penne), per cui pare ragionevole che la sua definizione indichi la mainera inaugurata da Guinizelli e contro cui lui stesso aveva polemizzato: è indubbio che Dante e Cavalcanti avessero coscienza di formare una cerchia di poeti accomunati da una stessa visione dell'amore e del modo di scriverne, benché non sia certo che essi si definissero veramente «Stilnovisti» (è dunque da respingere l'ipotesi avanzata da alcuni studiosi, secondo cui una vera e propria scuola fiorentina non sarebbe mai esistita). Il discorso verrà ripreso con lo stesso Guinizelli nel Canto XXVI, in cui Dante chiuderà il cerchio della sua riflessione intorno alla poesia dello Stilnovo che egli aveva ormai superato, pur recuperandone alcuni aspetti e senza rinnegarne totalmente l'esperienza, salvo le sue implicazioni morali relativamente ai rischi della letteratura amorosa in genere (è lo stesso tema già affrontato nel Canto V dell'Inferno e nel Canto XVIII del Purgatorio, circa l'irresistibilità del sentimento amoroso).
Dopo il commiato di Dante e Forese, con quest'ultimo che si allontana in modo assai simile a quanto già visto per Brunetto Latini alla fine del Canto XV dell'Inferno, l'ultima parte del Canto vede la descrizione del secondo albero della Cornice e dei golosi che protendono inutilmente le mani verso i suoi frutti, e gli esempi di gola punita dichiarati da una voce misteriosa come quelli di temperanza (XXII, 142-154). Gli ultimi versi sono dedicati all'incontro con l'angelo della temperanza, che scuote i tre poeti assorti nelle loro meditazioni e abbaglia Dante con la luce rosseggiante che promana dal suo viso: l'angelo cancella la sesta P dalla fronte del poeta e indirizza lui e gli altri due lungo la scala che li porterà alla Cornice seguente, ascesa durante la quale Stazio spiegherà la generazione delle anime per rispondere al dubbio di Dante circa la magrezza dei golosi.
La parte centrale del Canto vede poi come protagonista Bonagiunta Orbicciani da Lucca, già indicato da Forese fra i suoi compagni di pena, il quale si mostra particolarmente voglioso di interloquire con Dante: è una importante parentesi dedicata a questioni poetiche e letterarie, che anticipa quella altrettanto significativa del Canto XXVI che vedrà protagonisti Guido Guinizelli e Arnaut Daniel. Bonagiunta era infatti uno dei principali esponenti della cosiddetta scuola dei «siculo-toscani», di cui era stato l'iniziatore benché Guittone (più giovane di lui) ne fosse diventato poi il rappresentante di spicco, ed era colui che aveva rivolto a Guinizelli il famoso sonetto polemico Voi ch'avete mutata la mainera in cui lo accusava di scrivere versi troppo astrusi e dottrinali. Dante è quindi il rappresentante dello stile «nuovo» iniziato da Guinizelli e ripreso da lui e Cavalcanti, mentre il poeta lucchese è l'esponente di uno stile «vecchio» e superato da Dante e i suoi amici, per cui è logico che una discussione di teoria poetica abbia lui come interlocutore privilegiato. Dopo aver predetto in modo allusivo l'esilio di Dante, ricordando il nome della donna lucchese Gentucca che ospiterà il poeta in quella città (il soggiorno fu forse intorno al 1306, durante la permanenza in Lunigiana presso i Malaspina: la profezia anticipa quella relativa a Corso Donati, con l'analogo avvertimento che i fatti chiariranno le parole oscure), Bonagiunta si rivolge a Dante come colui che ha iniziato a sua volta una nuova maniera poetica, quella delle «rime nuove» cominciata con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore del cap. XIX della Vita nuova: Dante si presenta come un poeta che scrive sotto la diretta ispirazione di Amore, per cui l'altro comprende la differenza fondamentale che ha separato lui, Guittone e Giacomo da Lentini (caposcuola dei Siciliani) dal dolce stil novo di cui sente parlare. È questa l'unica attestazione del termine «Stilnovo», che i critici hanno poi esteso a tutta la nuova maniera poetica inaugurata da Guinizelli e ripresa dai poeti fiorentini; la «novità» consisterebbe nell'immediata trasposizione dell'ispirazione amorosa, mentre Bonagiunta e i guittoniani peccarono per eccesso di retorica, specie Guittone che prese a modello il trobar clus di Arnaut (mentre gli stilnovisti si ispirararono al trobar leu e ricercarono un linguaggio semplice, non sofisticato). Si è molto discusso se la definizione di Bonagiunta vada estesa a tutta la scuola oppure solo alle «rime nuove» iniziate da Dante nel cap. XIX della Vita nuova, ovvero le poesie in cui ripone tutta la sua soddisfazione nelle parole di lode a Beatrice e non nel saluto di lei, per quanto tale ipotesi sembri troppo restrittiva e non spiegherebbe perché Dante senta il bisogno di spiegare la propria poesia a un esponente dei siculo-toscani. Del resto il poeta lucchese crea un'opposizione tra Siciliani e siculo-toscani da una parte e Dante e i suoi amici dall'altra (dice infatti le vostre penne), per cui pare ragionevole che la sua definizione indichi la mainera inaugurata da Guinizelli e contro cui lui stesso aveva polemizzato: è indubbio che Dante e Cavalcanti avessero coscienza di formare una cerchia di poeti accomunati da una stessa visione dell'amore e del modo di scriverne, benché non sia certo che essi si definissero veramente «Stilnovisti» (è dunque da respingere l'ipotesi avanzata da alcuni studiosi, secondo cui una vera e propria scuola fiorentina non sarebbe mai esistita). Il discorso verrà ripreso con lo stesso Guinizelli nel Canto XXVI, in cui Dante chiuderà il cerchio della sua riflessione intorno alla poesia dello Stilnovo che egli aveva ormai superato, pur recuperandone alcuni aspetti e senza rinnegarne totalmente l'esperienza, salvo le sue implicazioni morali relativamente ai rischi della letteratura amorosa in genere (è lo stesso tema già affrontato nel Canto V dell'Inferno e nel Canto XVIII del Purgatorio, circa l'irresistibilità del sentimento amoroso).
Dopo il commiato di Dante e Forese, con quest'ultimo che si allontana in modo assai simile a quanto già visto per Brunetto Latini alla fine del Canto XV dell'Inferno, l'ultima parte del Canto vede la descrizione del secondo albero della Cornice e dei golosi che protendono inutilmente le mani verso i suoi frutti, e gli esempi di gola punita dichiarati da una voce misteriosa come quelli di temperanza (XXII, 142-154). Gli ultimi versi sono dedicati all'incontro con l'angelo della temperanza, che scuote i tre poeti assorti nelle loro meditazioni e abbaglia Dante con la luce rosseggiante che promana dal suo viso: l'angelo cancella la sesta P dalla fronte del poeta e indirizza lui e gli altri due lungo la scala che li porterà alla Cornice seguente, ascesa durante la quale Stazio spiegherà la generazione delle anime per rispondere al dubbio di Dante circa la magrezza dei golosi.
Note e passi controversi
I vv. 16-17 (Qui non si vieta / di nominar ciascun) indicano probabilmente solo il fatto che è necessario indicare per nome le anime, rese irriconoscibili dalla magrezza, e non il divieto di indicare i penitenti che in questa Cornice non sarebbe in vigore (di tale divieto non c'è alcun accenno negli altri Canti).
Al v. 21 trapunta significa «screpolata» a causa della magrezza.
Il personaggio citato ai vv. 20-24 è Simone de Brie, nativo di Tours (Torso) che fu papa col nome di Martino IV e la cui ghiottoneria era diventata proverbiale: si narra che uscendo dal concistoro spesso dicesse: O Sanctus Deus, quanta mala patimur pro Ecclesia Dei! Ergo bibamus! («O Dio Santo, quante fatiche sopportiamo per il bene della Chiesa! Dunque beviamo!»).
La vernaccia citata al v. 24 è sicuramente la Vernazza, un vino delle Cinque Terre e non il vino sardo con lo stesso nome.
Il v. 30 (che pasturò col rocco molte genti), riferito all'arcivescovo di Ravenna Bonifacio Fieschi, è stato variamente interpretato per il senso non chiaro di rocco: potrebbe essere la punta del pastorale dei vescovi ravennati, simile a un prisma esagonale che veniva detto «rocco» dal persiano rokh, da cui il termine scacchistico «arroccare». Il verso vorrebbe dire allora che Bonifacio guidò (pasturò, conio dantesco) molte popolazioni col suo pastorale, senza alcun intento ironico legato al «pascolare» e alla colpa della gola.
Il nome Gentucca mormorato (v. 37) da Bonagiunta è stato variamente interpretato, anche se l'ipotesi più probabile è che si riferisca alla donna lucchese poi indicata dal penitente come colei che ospiterà Dante nel suo soggiorno in quella città durante l'esilio (vv. 43-45). Costei è ancora una giovinetta in quanto non porta la benda nera che copriva i capelli alle donne maritate, secondo gli statuti comunali.
Al v. 55 Issa vuol dire «ora» ed è voce lucchese affine a quella lombarda Istra di Inf., XXVII, 21.
La valle ove mai non si scolpa (v. 84) è certamente l'Inferno, anche se alcuni hanno pensato a Firenze, dove «non si cessa mai dalle colpe».
Al v. 99 marescalchi (dal franco marhskalk, «servo del cavallo») indica «maestri», «guide».
Al v. 104 pomo significa «albero».
Il v. 105 (per essere pur allora vòlto in laci) può voler dire che Dante, solo dopo aver svoltato la curva del monte, vede in lontananza l'albero, ma anche che solo in quel momento ha rivolto lo sguardo alla pianta, mentre prima osservava Forese che si allontanava.
La rima sol tre (v. 133) è composta e va letta «sòltre».
Al v. 135 poltre vuol dire «pigre», «tranquille» e meno probabilmente «giovani».
Ai vv. 151-154 l'angelo della temperanza dichiara parte della quarta beatitudine, Beati qui esuriunt iustitiam, mentre quello della giustizia aveva detto Beati qui sitiunt iustitiam; qui Dante parafrasa il passo evangelico e indica beati coloro che hanno un amore giusto e misurato verso il cibo.
Al v. 21 trapunta significa «screpolata» a causa della magrezza.
Il personaggio citato ai vv. 20-24 è Simone de Brie, nativo di Tours (Torso) che fu papa col nome di Martino IV e la cui ghiottoneria era diventata proverbiale: si narra che uscendo dal concistoro spesso dicesse: O Sanctus Deus, quanta mala patimur pro Ecclesia Dei! Ergo bibamus! («O Dio Santo, quante fatiche sopportiamo per il bene della Chiesa! Dunque beviamo!»).
La vernaccia citata al v. 24 è sicuramente la Vernazza, un vino delle Cinque Terre e non il vino sardo con lo stesso nome.
Il v. 30 (che pasturò col rocco molte genti), riferito all'arcivescovo di Ravenna Bonifacio Fieschi, è stato variamente interpretato per il senso non chiaro di rocco: potrebbe essere la punta del pastorale dei vescovi ravennati, simile a un prisma esagonale che veniva detto «rocco» dal persiano rokh, da cui il termine scacchistico «arroccare». Il verso vorrebbe dire allora che Bonifacio guidò (pasturò, conio dantesco) molte popolazioni col suo pastorale, senza alcun intento ironico legato al «pascolare» e alla colpa della gola.
Il nome Gentucca mormorato (v. 37) da Bonagiunta è stato variamente interpretato, anche se l'ipotesi più probabile è che si riferisca alla donna lucchese poi indicata dal penitente come colei che ospiterà Dante nel suo soggiorno in quella città durante l'esilio (vv. 43-45). Costei è ancora una giovinetta in quanto non porta la benda nera che copriva i capelli alle donne maritate, secondo gli statuti comunali.
Al v. 55 Issa vuol dire «ora» ed è voce lucchese affine a quella lombarda Istra di Inf., XXVII, 21.
La valle ove mai non si scolpa (v. 84) è certamente l'Inferno, anche se alcuni hanno pensato a Firenze, dove «non si cessa mai dalle colpe».
Al v. 99 marescalchi (dal franco marhskalk, «servo del cavallo») indica «maestri», «guide».
Al v. 104 pomo significa «albero».
Il v. 105 (per essere pur allora vòlto in laci) può voler dire che Dante, solo dopo aver svoltato la curva del monte, vede in lontananza l'albero, ma anche che solo in quel momento ha rivolto lo sguardo alla pianta, mentre prima osservava Forese che si allontanava.
La rima sol tre (v. 133) è composta e va letta «sòltre».
Al v. 135 poltre vuol dire «pigre», «tranquille» e meno probabilmente «giovani».
Ai vv. 151-154 l'angelo della temperanza dichiara parte della quarta beatitudine, Beati qui esuriunt iustitiam, mentre quello della giustizia aveva detto Beati qui sitiunt iustitiam; qui Dante parafrasa il passo evangelico e indica beati coloro che hanno un amore giusto e misurato verso il cibo.
Testo
Né ‘l dir l’andar,
né l’andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte, sì come nave pinta da buon vento; 3 e l’ombre, che parean cose rimorte, per le fosse de li occhi ammirazione traean di me, di mio vivere accorte. 6 E io, continuando al mio sermone, dissi: «Ella sen va sù forse più tarda che non farebbe, per altrui cagione. 9 Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda; dimmi s’io veggio da notar persona tra questa gente che sì mi riguarda». 12 «La mia sorella, che tra bella e buona non so qual fosse più, triunfa lieta ne l’alto Olimpo già di sua corona». 15 Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta di nominar ciascun, da ch’è sì munta nostra sembianza via per la dieta. 18 Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca; e quella faccia di là da lui più che l’altre trapunta 21 ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia». 24 Molti altri mi nomò ad uno ad uno; e del nomar parean tutti contenti, sì ch’io però non vidi un atto bruno. 27 Vidi per fame a vòto usar li denti Ubaldin da la Pila e Bonifazio che pasturò col rocco molte genti. 30 Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio già di bere a Forlì con men secchezza, e sì fu tal, che non si sentì sazio. 33 Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca, che più parea di me aver contezza. 36 El mormorava; e non so che «Gentucca» sentiv’io là, ov’el sentia la piaga de la giustizia che sì li pilucca. 39 «O anima», diss’io, «che par sì vaga di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda, e te e me col tuo parlare appaga». 42 «Femmina è nata, e non porta ancor benda», cominciò el, «che ti farà piacere la mia città, come ch’om la riprenda. 45 Tu te n’andrai con questo antivedere: se nel mio mormorar prendesti errore, dichiareranti ancor le cose vere. 48 Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’». 51 E io a lui: «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando». 54 «O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! 57 Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne; 60 e qual più a gradire oltre si mette, non vede più da l’uno a l’altro stilo»; e, quasi contentato, si tacette. 63 Come li augei che vernan lungo ‘l Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan più a fretta e vanno in filo, 66 così tutta la gente che lì era, volgendo ‘l viso, raffrettò suo passo, e per magrezza e per voler leggera. 69 E come l’uom che di trottare è lasso, lascia andar li compagni, e sì passeggia fin che si sfoghi l’affollar del casso, 72 sì lasciò trapassar la santa greggia Forese, e dietro meco sen veniva, dicendo: «Quando fia ch’io ti riveggia?». 75 «Non so», rispuos’io lui, «quant’io mi viva; ma già non fia il tornar mio tantosto, ch’io non sia col voler prima a la riva; 78 però che ‘l loco u’ fui a viver posto, di giorno in giorno più di ben si spolpa, e a trista ruina par disposto». 81 «Or va», diss’el; «che quei che più n’ha colpa, vegg’io a coda d’una bestia tratto inver’ la valle ove mai non si scolpa. 84 La bestia ad ogne passo va più ratto, crescendo sempre, fin ch’ella il percuote, e lascia il corpo vilmente disfatto. 87 Non hanno molto a volger quelle ruote», e drizzò li ochi al ciel, «che ti fia chiaro ciò che ‘l mio dir più dichiarar non puote. 90 Tu ti rimani omai; ché ‘l tempo è caro in questo regno, sì ch’io perdo troppo venendo teco sì a paro a paro». 93 Qual esce alcuna volta di gualoppo lo cavalier di schiera che cavalchi, e va per farsi onor del primo intoppo, 96 tal si partì da noi con maggior valchi; e io rimasi in via con esso i due che fuor del mondo sì gran marescalchi. 99 E quando innanzi a noi intrato fue, che li occhi miei si fero a lui seguaci, come la mente a le parole sue, 102 parvermi i rami gravidi e vivaci d’un altro pomo, e non molto lontani per esser pur allora vòlto in laci. 105 Vidi gente sott’esso alzar le mani e gridar non so che verso le fronde, quasi bramosi fantolini e vani, 108 che pregano, e ‘l pregato non risponde, ma, per fare esser ben la voglia acuta, tien alto lor disio e nol nasconde. 111 Poi si partì sì come ricreduta; e noi venimmo al grande arbore adesso, che tanti prieghi e lagrime rifiuta. 114 «Trapassate oltre sanza farvi presso: legno è più sù che fu morso da Eva, e questa pianta si levò da esso». 117 Sì tra le frasche non so chi diceva; per che Virgilio e Stazio e io, ristretti, oltre andavam dal lato che si leva. 120 «Ricordivi», dicea, «d’i maladetti nei nuvoli formati, che, satolli, Teseo combatter co’ doppi petti; 123 e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli, per che no i volle Gedeon compagni, quando inver’ Madian discese i colli». 126 Sì accostati a l’un d’i due vivagni passammo, udendo colpe de la gola seguite già da miseri guadagni. 129 Poi, rallargati per la strada sola, ben mille passi e più ci portar oltre, contemplando ciascun sanza parola. 132 «Che andate pensando sì voi sol tre?». sùbita voce disse; ond’io mi scossi come fan bestie spaventate e poltre. 135 Drizzai la testa per veder chi fossi; e già mai non si videro in fornace vetri o metalli sì lucenti e rossi, 138 com’io vidi un che dicea: «S’a voi piace montare in sù, qui si convien dar volta; quinci si va chi vuole andar per pace». 141 L’aspetto suo m’avea la vista tolta; per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori, com’om che va secondo ch’elli ascolta. 144 E quale, annunziatrice de li albori, l’aura di maggio movesi e olezza, tutta impregnata da l’erba e da’ fiori; 147 tal mi senti’ un vento dar per mezza la fronte, e ben senti’ mover la piuma, che fé sentir d’ambrosia l’orezza. 150 E senti’ dir: «Beati cui alluma tanto di grazia, che l’amor del gusto nel petto lor troppo disir non fuma, esuriendo sempre quanto è giusto!». 154 |
Parafrasie parole non rallentavano l'andatura di Forese, né questa rallentava le sue parole, ma parlando procedevamo spediti come una nave spinta da un buon vento;
e le anime, che sembravano creature morte due volte, mi guardavano stupite con gli occhi infossati, vedendo che io ero vivo. E io, proseguendo il mio discorso, dissi: «Quell'anima (Stazio) forse sale più lentamente del dovuto a causa di Virgilio. Ma dimmi, se lo sai, dove si trova Piccarda; dimmi se io vedo tra queste anime che mi guardano in tal modo qualcuno degno di essere notato». «Mia sorella, che non so se fosse più bella o buona, trionfa lieta in Paradiso tra i beati». Così disse dapprima; poi aggiunse: «Qui è necessario nominare le anime, poiché ciascuna è così smagrita dal digiuno da risultare irriconoscibile. Costui», e indicò uno col dito, «è Bonagiunta da Lucca; e quella faccia accanto a lui che sembra più screpolata delle altre, ebbe fra le sue braccia la Santa Chiesa (fu papa Martino IV): fu nativo di Tours e qui espia col digiuno le anguille di Bolsena e la vernaccia». Me ne indicò molti altri uno ad uno; e tutti sembravano contenti di essere nominati, così che non vidi un solo gesto di stizza. Vidi masticare a vuoto Ubaldino della Pila e Bonifacio Fieschi, che guidò col pastorale molte popolazioni (come vescovo di Ravenna). Vidi messer Marchese degli Argugliosi, che a Forlì poté bere con più abbondanza e fu tale che non si saziò mai. Ma come fa chi guarda e poi osserva con più insistenza qualcuno in particolare, così feci con Bonagiunta che sembrava conoscermi meglio degli altri. Egli mormorava; e mi sembrava che dicesse qualcosa come «Gentucca» a fior delle labbra, là dove la giustizia divina li consuma. Io dissi: «O anima, che sembri così smaniosa di parlare con me, parla più chiaramente e appagami con le tue parole». Lui iniziò: «È nata una femmina, e ancora è una giovinetta, che ti renderà piacevole la mia città (Lucca), anche se tutti ne parlano male. Tu te ne andrai via di qui con questa profezia: se a causa del mio mormorio non hai capito bene, i fatti ti sveleranno la verità. Ma dimmi se tu sei proprio colui che iniziò le nuove rime, cominciando con la canzone ' Donne ch'avete intelletto d'amore'». E io a lui: «Io sono un poeta che, quando Amore mi ispira, prendo nota e scrivo esattamente ciò che lui mi detta dentro il cuore». Rispose: «O fratello, ora capisco quale nodo ha trattenuto me, il Notaro (Giacomo da Lentini) e Guittone al di qua di questo 'dolce stil novo' che sento! Ora vedo bene che le vostre penne seguono strettamente la dettatura di Amore, mentre le nostre non fecero certo lo stesso; e se uno volesse procedere oltre, non vedrebbe altra differenza dall'uno all'altro stile»; e poi tacque, come se fosse soddisfatto. Come gli uccelli (le gru) che svernano lungo il Nilo, a volte, fanno una larga schiera in cielo, poi volano più in fretta e vanno in fila, così tutte le anime che erano lì, voltandosi, affrettarono il passo, veloci a causa della loro magrezza e della volontà di espiazione. E come chi è stanco di correre lascia andare avanti i compagni, e cammina più lentamente per calmare l'affanno del petto, così Forese lasciò passare quel santo gregge di anime e veniva dietro a me, dicendo: «Quando ti rivedrò?» Gli risposi: «Non so quanto mi resti da vivere; ma il mio ritorno qui non sarà mai così rapido che io con la volontà non arrivi prima all'approdo (la spiaggia del Purgatorio); infatti il luogo dove nacqui (Firenze) di giorno in giorno si spoglia del bene e sembra pronto per una triste rovina». Lui disse: «Non preoccuparti, perché vedo colui che ne ha più colpa (Corso Donati) trascinato per la coda da un cavallo, verso la valle (l'Inferno) dove nessuna colpa si può espiare. La bestia a ogni passo va più veloce, sempre più rapida, finché essa lo percuote e lascia il corpo orrendamente sfigurato. Quelle ruote non dovranno girare molto», e guardò il cielo, «prima che i fatti ti chiariscano ciò che le mie parole non possono dichiarare. Ormai dobbiamo separarci; infatti in questo regno il tempo è prezioso, cosicché io ne perdo troppo venendo con te di pari passo». Come il cavaliere esce talvolta dalla sua schiera e va per prendere l'onore del primo assalto al nemico, così Forese si allontanò da noi con passi più rapidi; e io rimasi sulla strada con gli altri due (Virgilio e Stazio) che furono illustri maestri del mondo. E quando Forese si fu allontanato da noi e io lo seguivo proprio come la mia mente ripensava alle sue parole (cioè con fatica), ecco che vidi i rami carichi di un altro albero, e non molto lontano poiché solo allora avevo rivolto in là lo sguardo. Vidi sotto di esso delle anime che alzavano le mani verso i rami e gridavano qualcosa, simili a dei bambini desiderosi e incapaci, che pregano e il pregato non risponde, ma anzi tiene alto l'oggetto desiderato e non lo nasconde per acuire la loro voglia. Poi si allontanarono, come deluse; e noi giungemmo al grande albero, che rifiuta tante preghiere e lacrime. «Passate oltre senza avvicinarvi: più in alto, nell'Eden, c'è un altro albero il cui frutto fu morso da Eva e questo è nato da quella pianta». Così una voce misteriosa parlava tra i rami; allora Virgilio, Stazio e io, stretti alla parete del monte, andammo oltre. La voce diceva: «Ricordatevi dei maledetti centauri nati da una nube, che, ubriachi, combatterono Teseo coi doppi petti; e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui Gedeone non li volle con sé quando discese i colli marciando contro i Madianiti». Passammo oltre accostati all'orlo interno della Cornice, ascoltando gli esempi di gola punita da miseri castighi. Poi, tornati a camminare lungo la strada solitaria, percorremmo più di un miglio, ciascuno assorto nei suoi pensieri. Una voce improvvisa ci disse: «Che andate pensando, voi tre soli?» allora io mi scossi come fanno le bestie spaventate e pigre. Alzai la testa per vedere chi fosse; e non si videro mai in una fornace vetri o metalli così arroventati e rossi, come io vidi un angelo che diceva: «Se a voi piace salire, è necessario passare di qui; si passa di qui, se si vuole andare verso la beatitudine». La sua vista mi aveva abbagliato, per cui io si strinsi dietro alle mie guide, come uno che va ascoltando chi lo precede. E come l'aria di maggio, che annuncia l'alba, si muove e profuma, tutta impregnata dell'odore dell'erba e dei fiori, così io sentii in mezzo alla fronte un vento, e sentii muovere la piuma dell'angelo che fece odorare l'aria di ambrosia (l'angelo cancella la sesta P). E sentii che diceva: «Beati coloro che sono tanto illuminati dalla grazia che nel loro petto non nasce un eccessivo desiderio di cibo, avendo sempre fame di giustizia!» |