Purgatorio, Canto X
L. Signorelli, Ingresso nella I Cornice
Giurato si saria ch'el dicesse 'Ave!';
perché iv'era imaginata quella
ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave...
Quiv'era storiata l'alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria...
Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che 'l debito si paghi...
perché iv'era imaginata quella
ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave...
Quiv'era storiata l'alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria...
Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che 'l debito si paghi...
Argomento del Canto
Ingresso nella I Cornice. Dante osserva gli esempi di umiltà (Maria, David, l'imperatore Traiano). Incontro con le anime dei superbi. Apostrofe contro la superbia dei miseri cristiani.
È la mattina di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, tra le dieci e le undici.
È la mattina di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, tra le dieci e le undici.
Ingresso nella I Cornice (1-27)
Dopo che Dante e Virgilio hanno attraversato la porta del Purgatorio, questa si richiude alle loro spalle con un forte stridore e il poeta si guarda bene dal voltarsi a guardare indietro, secondo le prescrizioni dell'angelo guardiano. I due iniziano a salire lungo una spaccatura nella roccia, che procede a zig-zag come un'onda che va e viene, per cui il maestro avverte Dante che occorre avanzare evitando le sporgenze più aguzze. Questo li costringe a procedere molto lentamente, cosicché arrivano al fondo del sentiero quando ormai la luna tocca l'orizzonte con la parte in ombra (circa alle 10 del mattino). I due poeti si ritrovano nella I Cornice del monte, che si presenta deserta e misura in larghezza tre volte un corpo umano, dalla parete rocciosa fino al vuoto. Dante guarda a destra e a sinistra, vedendo che la Cornice ha lo stesso aspetto fin dove arriva il suo sguardo.
Esempi di umiltà: Maria (28-45)
F. Zuccari, Esempi della I Cornice
Dante e Virgilio non si sono ancora mossi, quando il discepolo si accorge che lo zoccolo della parete del monte, nel punto in cui essa è meno ripida, presenta dei bassorilievi di marmo bianco e intagliato con tale maestria che non solo Policleto, ma persino la natura ne sarebbe vinta. Uno di essi raffigura l'arcangelo Gabriele che viene sulla Terra portando l'annuncio della nascita di Gesù e la scultura è così realistica che sembra che dica proprio Ave. È rappresentata anche Maria che si sottomette alla volontà divina e pare che dica le parole Ecce ancilla Dei.
Esempi di umiltà: re David (46-69)
Virgilio, che ha Dante alla propria sinistra, lo invita a non osservare solo una scultura e così il discepolo allarga lo sguardo e vede, oltre l'esempio di Maria, un'altra storia scolpita nel bassorilievo. Dante oltrepassa Virgilio per osservarla meglio e vede che il marmo raffigura il carro che trasportò l'Arca Santa a Gerusalemme, preceduto dagli Ebrei disposti in sette cori. La scultura è così realistica che l'udito di Dante gli dice che le figure non cantano, mentre la vista glielo fa credere; anche il fumo dell'incenso è così veritiero che solo l'olfatto impedisce a Dante di credere che sia reale. L'Arca è preceduta dal re David, che danza con la veste umilmente alzata, mentre da un palazzo lo guarda la moglie Micòl, sprezzante e crucciata.
Esempi di umiltà: Traiano e la vedova (70-96)
G. Doré, Traiano
Dante si muove dal punto in cui si trova e vede scolpita un'altra storia nel bianco marmo, proprio accanto a Micòl. Qui è rappresentata la gloria dell'imperatore Traiano, che spinse papa Gregorio a pregare per la sua salvezza: l'imperatore è raffigurato a cavallo, mentre una vedova gli si avvicina in lacrime. Intorno a lui è pieno di cavalieri che levano al cielo le insegne imperiali a forma di aquila d'oro, che sembrano muoversi al vento. Sembra che la vedova si rivolga a Traiano e gli chieda giustizia per il figlio ucciso, mentre l'imperatore risponde di attendere il suo ritorno. La vedova ribatte che Traiano potrebbe non tornare, e lui replica che il suo successore le darà soddisfazione. La vedova ricorda al principe che se un altro farà del bene al suo posto a lui non verrà alcun vantaggio e Traiano accetta allora di fare giustizia prima di partire, poiché prova pietà per la donna. Solo Dio, osserva Dante, può aver prodotto tali sculture, che non si sono mai viste sulla Terra e che sembrano parlare anche se non lo fanno.
Incontro con i superbi (97-139)
Due cariatidi di palazzo Puoti, Verona
Mentre Dante è attento a osservare le sculture che raffigurano esempi di umiltà, Virgilio gli sussurra che molte anime (i superbi) si avvicinano a passi lenti e saranno loro a indirizzarli verso la Cornice successiva. Dante volge subito lo sguardo, curioso di vedere queste anime, ma avverte il lettore che ciò che dirà non deve distoglierlo dai buoni propositi, dal momento che la pena è assai dura ma, nel peggiore dei casi, non può protrarsi oltre il Giorno del Giudizio. Dante chiede spiegazioni a Virgilio, perché le figure che vede non gli sembrano anime umane, così non sa che pensare. Il maestro spiega che la loro pena li obbliga a camminare curvi al suolo e lui stesso è stato incerto al primo sguardo. Dante è invitato comunque a guardar meglio e osservare le anime che procedono sotto il peso di enormi massi.
Dante prorompe in una violenta invettiva contro i cristiani superbi, che hanno la mente ottenebrata e procedono all'indietro, senza capire che noi siamo come vermi destinati a formare una farfalla angelica e a volare verso la giustizia divina. Perché invece l'animo umano insuperbisce e fa sì che l'anima resti una sorta di insetto non pienamente formato? Le anime dei superbi sono simili a quelle sculture (le cariatidi) che talvolta, nell'architettura romanica, sostengono con le spalle un soffitto a guisa di mensola, e piegano le ginocchia così da far nascere affanno a chi le osserva. I superbi hanno lo stesso aspetto, essendo piegati sotto il peso del macigno che li fa curvare in maggiore o minor misura, e quello che sembra più paziente pare dire: «Non ne posso più».
Dante prorompe in una violenta invettiva contro i cristiani superbi, che hanno la mente ottenebrata e procedono all'indietro, senza capire che noi siamo come vermi destinati a formare una farfalla angelica e a volare verso la giustizia divina. Perché invece l'animo umano insuperbisce e fa sì che l'anima resti una sorta di insetto non pienamente formato? Le anime dei superbi sono simili a quelle sculture (le cariatidi) che talvolta, nell'architettura romanica, sostengono con le spalle un soffitto a guisa di mensola, e piegano le ginocchia così da far nascere affanno a chi le osserva. I superbi hanno lo stesso aspetto, essendo piegati sotto il peso del macigno che li fa curvare in maggiore o minor misura, e quello che sembra più paziente pare dire: «Non ne posso più».
Interpretazione complessiva
Il Canto descrive l'ingresso dei due poeti nella I Cornice ed è dedicato in gran parte agli esempi di umiltà scolpiti nel bassorilievo alla base della parete del monte, mentre nell'ultima parte sono presentati i superbi e la loro pena (camminano curvi sotto dei pesanti macigni, in modo tale che anche il più paziente sembra al limite della sopportazione). L'apertura mostra Dante e Virgilio che accedono alla Cornice salendo lungo una via scavata nella roccia, che procede a zig-zag e li obbliga a camminare lentamente per evitare gli spuntoni di roccia; è questa l'interpretazione più probabile, anche se alcuni hanno ipotizzato che la roccia si muova effettivamente come un'onda, fenomeno che però Dante dovrebbe spiegare in modo più dettagliato (il sentiero tortuoso è simbolo della via ardua e difficoltosa che conduce alla salvezza, con un chiaro riferimento all'ascesa al primo balzo del Canto IV, vv. 31 ss.). La salita richiede molto tempo, visto che i due arrivano nella I Cornice quando sono circa le dieci di mattina, e una volta qui ci sono mostrati gli esempi di umiltà (cioè della virtù opposta a quella del peccato che si sconta nella Cornice), che si presentano in forma di sculture su dei bassorilievi di marmo posti sullo zoccolo della parete rocciosa, in modo che i superbi possano vederli.
Gli esempi sono tre, partendo come sempre da quello di Maria Vergine (l'Annunciazione recatale dall'arcangelo Gabriele), cui segue quello biblico di David (e al quale fa da contrappunto la moglie Micòl, dispettosa e trista per l'umiltà del sovrano) e quello classico di Traiano, la leggenda della vedova che chiede giustizia divenuta un luogo comune della letteratura medievale e all'origine della presunta salvezza dell'imperatore pagano (cui Dante dà credito, poiché includerà Traiano tra gli spiriti giusti del VI Cielo). Dante sottolinea a più riprese che tali sculture sono frutto dell'arte divina, quindi superano non solo la maestria del più grande artista classico (lo scultore greco Policleto), ma addirittura la natura che è a sua volta creazione divina. È il preannuncio di un discorso sull'arte che Dante ha già iniziato col rimprovero di Catone nel Canto II e riprenderà nel Canto XI col il discorso di Oderisi da Gubbio, che toccherà non solo le arti figurative come la miniatura o la pittura ma anche la poesia: Dante qui ribadisce che queste sculture sono estremamente realistiche, come mai potrebbero esserlo opere realizzate da artisti umani, tanto che esse ingannano la vista e sollecitano altri sensi come l'udito o l'olfatto. L'arcangelo Gabriele e Maria sembrano davvero parlare, così come le schiere di Ebrei che accompagnano l'Arca Santa sembrano cantare e solo l'udito smentisce l'impressione di Dante, mentre la vista lo ingannerebbe; allo stesso modo il fumo degli incensi raffigurato inganna l'olfatto, mentre l'esempio di Traiano e della vedova si trasforma agli occhi del poeta in una sorta di sacra rappresentazione, con attori in carne e ossa che si muovono sulla scena e dialogano, mentre gli stendardi con l'aquila imperiale paiono sventolare al vento. Dante sottolinea che ciò è possibile in quanto è frutto dell'arte divina, mentre l'arte umana non sarebbe certo in grado di riprodurre la realtà in modo così fedele; obiettivo dell'arte è quello di fornire insegnamenti agli uomini e non gareggiare follemente con Dio o la natura, per cui è da condannare ogni intento edonistico dell'opera d'arte così come la superbia degli artisti, oggetto del discorso di Oderisi nel Canto seguente e che tocca lo stesso Dante molto da vicino.
Una similitudine tratta dalla scultura è ancora usata per descrivere la pena dei superbi, che sembrano a Dante quelle cariatidi che, specie nell'architettura delle chiese romaniche, rappresentavano come capitelli figure umane o bestiali che sostenevano l'architrave (e facevano nascere con la finzione un autentico affanno in colui che le osservava). I superbi sono addirittura stravolti sotto il peso degli enormi macigni, per cui Dante da un lato rassicura il lettore e gli ricorda che tale pena, per quanto dura, cesserà il Giorno del Giudizio, dall'altro accusa duramente i superbi cristian, miseri lassi, che credono presuntuosamente di saper tutto e finiscono per camminare all'indietro. Gli uomini sono come vermi per la loro imperfetta fisicità, destinati a formare una angelica farfalla (l'anima libera dal peccato) purché non vengano distolti dalla loro superbia, che li fa restare antomata in difetto, insetti non pienamente sviluppati. L'insistenza sulla pericolosità della superbia e sulla durezza della sua punizione in Purgatorio, che si svilupperà anche nel Canto XII con i numerosi esempi del peccato punito, si spiega col fatto che questo è il peccato capitale più grave e che più lega l'uomo alla terra, nonché con la considerazione che proprio la superbia era stata all'origine della ribellione di Lucifero e, quindi, del male nel mondo (ciò spiega anche l'ampio risalto dato da Dante ai risvolti di tale peccato nel campo artistico, in cui lui come si è detto si sente particolarmente coinvolto).
Gli esempi sono tre, partendo come sempre da quello di Maria Vergine (l'Annunciazione recatale dall'arcangelo Gabriele), cui segue quello biblico di David (e al quale fa da contrappunto la moglie Micòl, dispettosa e trista per l'umiltà del sovrano) e quello classico di Traiano, la leggenda della vedova che chiede giustizia divenuta un luogo comune della letteratura medievale e all'origine della presunta salvezza dell'imperatore pagano (cui Dante dà credito, poiché includerà Traiano tra gli spiriti giusti del VI Cielo). Dante sottolinea a più riprese che tali sculture sono frutto dell'arte divina, quindi superano non solo la maestria del più grande artista classico (lo scultore greco Policleto), ma addirittura la natura che è a sua volta creazione divina. È il preannuncio di un discorso sull'arte che Dante ha già iniziato col rimprovero di Catone nel Canto II e riprenderà nel Canto XI col il discorso di Oderisi da Gubbio, che toccherà non solo le arti figurative come la miniatura o la pittura ma anche la poesia: Dante qui ribadisce che queste sculture sono estremamente realistiche, come mai potrebbero esserlo opere realizzate da artisti umani, tanto che esse ingannano la vista e sollecitano altri sensi come l'udito o l'olfatto. L'arcangelo Gabriele e Maria sembrano davvero parlare, così come le schiere di Ebrei che accompagnano l'Arca Santa sembrano cantare e solo l'udito smentisce l'impressione di Dante, mentre la vista lo ingannerebbe; allo stesso modo il fumo degli incensi raffigurato inganna l'olfatto, mentre l'esempio di Traiano e della vedova si trasforma agli occhi del poeta in una sorta di sacra rappresentazione, con attori in carne e ossa che si muovono sulla scena e dialogano, mentre gli stendardi con l'aquila imperiale paiono sventolare al vento. Dante sottolinea che ciò è possibile in quanto è frutto dell'arte divina, mentre l'arte umana non sarebbe certo in grado di riprodurre la realtà in modo così fedele; obiettivo dell'arte è quello di fornire insegnamenti agli uomini e non gareggiare follemente con Dio o la natura, per cui è da condannare ogni intento edonistico dell'opera d'arte così come la superbia degli artisti, oggetto del discorso di Oderisi nel Canto seguente e che tocca lo stesso Dante molto da vicino.
Una similitudine tratta dalla scultura è ancora usata per descrivere la pena dei superbi, che sembrano a Dante quelle cariatidi che, specie nell'architettura delle chiese romaniche, rappresentavano come capitelli figure umane o bestiali che sostenevano l'architrave (e facevano nascere con la finzione un autentico affanno in colui che le osservava). I superbi sono addirittura stravolti sotto il peso degli enormi macigni, per cui Dante da un lato rassicura il lettore e gli ricorda che tale pena, per quanto dura, cesserà il Giorno del Giudizio, dall'altro accusa duramente i superbi cristian, miseri lassi, che credono presuntuosamente di saper tutto e finiscono per camminare all'indietro. Gli uomini sono come vermi per la loro imperfetta fisicità, destinati a formare una angelica farfalla (l'anima libera dal peccato) purché non vengano distolti dalla loro superbia, che li fa restare antomata in difetto, insetti non pienamente sviluppati. L'insistenza sulla pericolosità della superbia e sulla durezza della sua punizione in Purgatorio, che si svilupperà anche nel Canto XII con i numerosi esempi del peccato punito, si spiega col fatto che questo è il peccato capitale più grave e che più lega l'uomo alla terra, nonché con la considerazione che proprio la superbia era stata all'origine della ribellione di Lucifero e, quindi, del male nel mondo (ciò spiega anche l'ampio risalto dato da Dante ai risvolti di tale peccato nel campo artistico, in cui lui come si è detto si sente particolarmente coinvolto).
Note e passi controversi
I vv. 7-12 indicano probabilmente che il sentiero scavato nella roccia procede tortuosamente, per cui Virgilio avverte Dante che occorre salire evitando le sporgenze e accostandosi alle rientranze (accostarsi / ...al lato che si parte); suggestiva ma poco convincente l'ipotesi che la roccia si muova effettivamente.
Lo scemo de la luna (v. 14) è la parte in ombra del disco lunare, che è la prima a toccare l'orizzonte quando la luna cala dopo il plenilunio: poiché la luna tramonta circa quattro ore dopo l'alba, sono più o meno le 10 del mattino.
I vv. 29-30 indicano con ogni probabilità che lo zoccolo della parete rocciosa del monte ha minor ripidezza (che dritto di salita aveva manco), quindi non è perpendicolare al pavimento della Cornice ma inclinato a 45 gradi circa, in modo che le anime dei superbi, pur chinate, possano vedere gli esempi scolpiti.
Policleto, citato al v. 32 come supremo esempio di arte classica, era noto nel Medioevo essendo citato varie volte dagli scrittori latini.
I vv. 55-57 descrivono la traslazione dell'Arca Santa dalla casa di Abinedab a Gerusalemme, narrata in II Reg., VI, 1-16; il v. 57 allude al fatto che Oza, uno dei condottieri del carro, toccò l'Arca in pericolo di cadere e fu folgorato da Dio, in quanto solo ai sacerdoti era permesso toccarla. Il benedetto vaso (v. 64) è ancora l'Arca.
L'umile salmista (v. 65) è re David, che secondo il racconto biblico precedeva l'Arca danzando con la veste alzata in segno di umiltà (trescando indica una danza compiuta a salti, come il «trescone» popolare). Micòl è indispettita dal fatto che David si mortifichi in tal modo e Dio la punisce con la sterilità.
La leggenda di Traiano e della vedova (vv. 73-93) era molto diffusa nel Medioevo e forse traeva origine da una scultura presente in molti archi romani, raffigurante un imperatore romano a cavallo e una donna inginocchiata accanto a lui, simbolo di una provincia sottomessa. Ciò aveva originato un'altra leggenda, quella di papa Gregorio Magno che, commosso dall'episodio, pregò intensamente per Traiano fino ad ottenerne la salvezza (la gran vittoria del v. 75), fatto accettato da molti teologi.
Le aguglie ne l'oro (v. 80) sono le aquile in campo d'oro degli stendardi romani, che Dante immaginava come vessilli in panno simili agli stendardi medievali e perciò mossi dal vento.
L'espressione visibile parlare (v. 95) è propriamente una sinestesia, che sottolinea l'assoluto realismo delle sculture.
La frase ciascun si picchia (v. 120) può indicare che i superbi si battono il petto, oppure avere valore impersonale (ognuno di loro è tormentato dalla giustizia divina).
La forma antomata, «insetti» è un grecismo che deriva da un falso plurale, sulla base di vocaboli come problemata, dogmata, ecc. (il plur. greco, éntoma, era ritenuto sing.). Alcuni mss. leggono entomata.
Il termine pazienza (v. 138) vuol dire «capacità di sopportazione», ma è stato anche interpretato come «sofferenza» (quindi, in tal caso, l'anima che soffre di più sembra dire che non può sopportare oltre).
Lo scemo de la luna (v. 14) è la parte in ombra del disco lunare, che è la prima a toccare l'orizzonte quando la luna cala dopo il plenilunio: poiché la luna tramonta circa quattro ore dopo l'alba, sono più o meno le 10 del mattino.
I vv. 29-30 indicano con ogni probabilità che lo zoccolo della parete rocciosa del monte ha minor ripidezza (che dritto di salita aveva manco), quindi non è perpendicolare al pavimento della Cornice ma inclinato a 45 gradi circa, in modo che le anime dei superbi, pur chinate, possano vedere gli esempi scolpiti.
Policleto, citato al v. 32 come supremo esempio di arte classica, era noto nel Medioevo essendo citato varie volte dagli scrittori latini.
I vv. 55-57 descrivono la traslazione dell'Arca Santa dalla casa di Abinedab a Gerusalemme, narrata in II Reg., VI, 1-16; il v. 57 allude al fatto che Oza, uno dei condottieri del carro, toccò l'Arca in pericolo di cadere e fu folgorato da Dio, in quanto solo ai sacerdoti era permesso toccarla. Il benedetto vaso (v. 64) è ancora l'Arca.
L'umile salmista (v. 65) è re David, che secondo il racconto biblico precedeva l'Arca danzando con la veste alzata in segno di umiltà (trescando indica una danza compiuta a salti, come il «trescone» popolare). Micòl è indispettita dal fatto che David si mortifichi in tal modo e Dio la punisce con la sterilità.
La leggenda di Traiano e della vedova (vv. 73-93) era molto diffusa nel Medioevo e forse traeva origine da una scultura presente in molti archi romani, raffigurante un imperatore romano a cavallo e una donna inginocchiata accanto a lui, simbolo di una provincia sottomessa. Ciò aveva originato un'altra leggenda, quella di papa Gregorio Magno che, commosso dall'episodio, pregò intensamente per Traiano fino ad ottenerne la salvezza (la gran vittoria del v. 75), fatto accettato da molti teologi.
Le aguglie ne l'oro (v. 80) sono le aquile in campo d'oro degli stendardi romani, che Dante immaginava come vessilli in panno simili agli stendardi medievali e perciò mossi dal vento.
L'espressione visibile parlare (v. 95) è propriamente una sinestesia, che sottolinea l'assoluto realismo delle sculture.
La frase ciascun si picchia (v. 120) può indicare che i superbi si battono il petto, oppure avere valore impersonale (ognuno di loro è tormentato dalla giustizia divina).
La forma antomata, «insetti» è un grecismo che deriva da un falso plurale, sulla base di vocaboli come problemata, dogmata, ecc. (il plur. greco, éntoma, era ritenuto sing.). Alcuni mss. leggono entomata.
Il termine pazienza (v. 138) vuol dire «capacità di sopportazione», ma è stato anche interpretato come «sofferenza» (quindi, in tal caso, l'anima che soffre di più sembra dire che non può sopportare oltre).
TestoPoi fummo dentro al soglio de la porta
che ‘l mal amor de l’anime disusa, perché fa parer dritta la via torta, 3 sonando la senti’ esser richiusa; e s’io avesse li occhi vòlti ad essa, qual fora stata al fallo degna scusa? 6 Noi salavam per una pietra fessa, che si moveva e d’una e d’altra parte, sì come l’onda che fugge e s’appressa. 9 «Qui si conviene usare un poco d’arte», cominciò ‘l duca mio, «in accostarsi or quinci, or quindi al lato che si parte». 12 E questo fece i nostri passi scarsi, tanto che pria lo scemo de la luna rigiunse al letto suo per ricorcarsi, 15 che noi fossimo fuor di quella cruna; ma quando fummo liberi e aperti sù dove il monte in dietro si rauna, 18 io stancato e amendue incerti di nostra via, restammo in su un piano solingo più che strade per diserti. 21 Da la sua sponda, ove confina il vano, al piè de l’alta ripa che pur sale, misurrebbe in tre volte un corpo umano; 24 e quanto l’occhio mio potea trar d’ale, or dal sinistro e or dal destro fianco, questa cornice mi parea cotale. 27 Là sù non eran mossi i piè nostri anco, quand’io conobbi quella ripa intorno che dritto di salita aveva manco, 30 esser di marmo candido e addorno d’intagli sì, che non pur Policleto, ma la natura lì avrebbe scorno. 33 L’angel che venne in terra col decreto de la molt’anni lagrimata pace, ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, 36 dinanzi a noi pareva sì verace quivi intagliato in un atto soave, che non sembiava imagine che tace. 39 Giurato si saria ch’el dicesse 'Ave!'; perché iv’era imaginata quella ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; 42 e avea in atto impressa esta favella ‘Ecce ancilla Dei’, propriamente come figura in cera si suggella. 45 «Non tener pur ad un loco la mente», disse ‘l dolce maestro, che m’avea da quella parte onde ‘l cuore ha la gente. 48 Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea di retro da Maria, da quella costa onde m’era colui che mi movea, 51 un’altra storia ne la roccia imposta; per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso, acciò che fosse a li occhi miei disposta. 54 Era intagliato lì nel marmo stesso lo carro e ‘ buoi, traendo l’arca santa, per che si teme officio non commesso. 57 Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a’ due mie’ sensi faceva dir l’un «No», l’altro «Sì, canta». 60 Similemente al fummo de li ‘ncensi che v’era imaginato, li occhi e ‘l naso e al sì e al no discordi fensi. 63 Lì precedeva al benedetto vaso, trescando alzato, l’umile salmista, e più e men che re era in quel caso. 66 Di contra, effigiata ad una vista d’un gran palazzo, Micòl ammirava sì come donna dispettosa e trista. 69 I’ mossi i piè del loco dov’io stava, per avvisar da presso un’altra istoria, che di dietro a Micòl mi biancheggiava. 72 Quiv’era storiata l’alta gloria del roman principato, il cui valore mosse Gregorio a la sua gran vittoria; 75 i’ dico di Traiano imperadore; e una vedovella li era al freno, di lagrime atteggiata e di dolore. 78 Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro sovr’essi in vista al vento si movieno. 81 La miserella intra tutti costoro pareva dir: «Segnor, fammi vendetta di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro»; 84 ed elli a lei rispondere: «Or aspetta tanto ch’i’ torni»; e quella: «Segnor mio», come persona in cui dolor s’affretta, 87 «se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’io, la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?»; 90 ond’elli: «Or ti conforta; ch’ei convene ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova: giustizia vuole e pietà mi ritene». 93 Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perché qui non si trova. 96 Mentr’io mi dilettava di guardare l’imagini di tante umilitadi, e per lo fabbro loro a veder care, 99 «Ecco di qua, ma fanno i passi radi», mormorava il poeta, «molte genti: questi ne ‘nvieranno a li alti gradi». 102 Li occhi miei ch’a mirare eran contenti per veder novitadi ond’e’ son vaghi, volgendosi ver’ lui non furon lenti. 105 Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi di buon proponimento per udire come Dio vuol che ‘l debito si paghi. 108 Non attender la forma del martìre: pensa la succession; pensa ch’al peggio, oltre la gran sentenza non può ire. 111 Io cominciai: «Maestro, quel ch’io veggio muovere a noi, non mi sembian persone, e non so che, sì nel veder vaneggio». 114 Ed elli a me: «La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia, sì che ‘ miei occhi pria n’ebber tencione. 117 Ma guarda fiso là, e disviticchia col viso quel che vien sotto a quei sassi: già scorger puoi come ciascun si picchia». 120 O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete ne’ retrosi passi, 123 non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi? 126 Di che l’animo vostro in alto galla, poi siete quasi antomata in difetto, sì come vermo in cui formazion falla? 129 Come per sostentar solaio o tetto, per mensola talvolta una figura si vede giugner le ginocchia al petto, 132 la qual fa del non ver vera rancura nascere ‘n chi la vede; così fatti vid’io color, quando puosi ben cura. 135 Vero è che più e meno eran contratti secondo ch’avien più e meno a dosso; e qual più pazienza avea ne li atti, piangendo parea dicer: ‘Più non posso’. 139 |
ParafrasiDopo aver varcato la soglia della porta che l'amore male indirizzato delle anime fa cadere in disuso, perché fa sembrare dritta la via tortuosa del peccato, sentii che si richiuse per lo stridore; e se io mi fossi voltato a guardarla, quale scusa sarebbe stata degna di un tale errore?
Noi salivamo lungo una via scavata nella roccia, che procedeva tortuosamente come un'onda che si avvicina e si allontana. Il mio maestro disse: «Qui dobbiamo usare un po' di ingegno, avvicinandoci ora da una parte, ora dall'altra, alle rientranze». E questo ci costrinse a procedere con tale lentezza, che la parte in ombra della luna toccò l'orizzonte per tramontare, prima che noi fossimo fuori da quella via; ma quando ci trovammo liberi da ogni impaccio, là dove il monte si allarga a formare la I Cornice, io affaticato ed entrambi incerti sul cammino da intraprendere, restammo su quel ripiano solitario come una strada nel deserto. Dal margine esterno della Cornice, dove c'è il vuoto, fino ai piedi della parete rocciosa del monte, c'è una larghezza che corrisponde a tre corpi umani; e per quanto io gettassi lo sguardo a destra e a sinistra, fin dove esso arrivava, la Cornice mi sembrava identica. Noi non avevamo ancora mosso i piedi, quando mi accorsi che tutt'intorno alla parete, nel punto (dello zoccolo) in cui essa era meno ripida, c'erano delle sculture di marmo bianco e finemente intagliato, in modo tale che non solo Policleto, ma la stessa natura ne sarebbe vinta. L'angelo (Gabriele) che venne in Terra col decreto della pace (tra Dio e l'uomo) sospirata per tanti anni, e che aprì il Cielo dopo un lungo divieto, sembrava così reale davanti a noi, scolpito in un gesto soave, che non sembrava un'immagine silenziosa. Si sarebbe giurato che egli dicesse Ave!, perché era raffigurata anche colei (Maria) che girò la chiave per aprire l'alto amore di Dio; e nel suo atteggiamento sembrava che dicesse Ecce ancilla Dei, in modo così veritiero come una figura impressa sulla cera. «Non guardare solo in un punto», mi disse il dolce maestro che mi aveva dalla parte dove le persone hanno il cuore. Allora io mossi lo sguardo e vidi che oltre Maria, sul lato della parete dove avevo Virgilio (a destra), era scolpita un'altra storia; allora io superai Virgilio e mi accostai, per vederla meglio con i miei occhi. Lì nel marmo era intagliato il carro e i buoi che portavano l'Arca Santa, per la quale si ha timore di svolgere un compito non affidato. Davanti c'era della gente e tutta quanta, divisa in sette cori, induceva il mio udito a dire «Non canta», mentre la mia vista diceva «Sì, canta». In modo analogo, il fumo dell'incenso lì raffigurato rendeva discordi i miei occhi (che credevano fosse vero) e il mio naso (che non sentiva nulla). L'Arca Santa era preceduta dall'umile autore di Salmi (David), che danzava con la veste alzata, e in quell'occasione era più e meno che un re. Di fronte a lui, affacciata alla finestra di un gran palazzo, Micòl osservava stupita, come una donna indispettita e corrucciata. Io mi mossi dal punto dove mi trovavo, per guardare da vicino un'altra storia che oltre Micòl biancheggiava nel marmo. Qui era raffigurata l'alta gloria dell'imperatore romano, la cui virtù spinse Gregorio a ottenere la grande vittoria; mi riferisco all'imperatore Traiano; e una vedova era accanto al suo cavallo, in lacrime e addolorata nel suo aspetto. Intorno a lui sembrava pieno di cavalieri, e le aquile imperiali in campo d'oro, su di essi, si muovevano al vento. La povera donna, tra tutti questi, sembrava dire: «Signore, rendimi giustizia per mio figlio che è stato ucciso, cosa per cui soffro»; e lui pareva rispondere: «Aspetta fin tanto che sarò tornato»; e quella, come una persona in cui il dolore incalza: «Mio signore, e se tu non dovessi tornare?»; e lui: «Chi sarà al mio posto, esaudirà la tua richiesta»; e lei: «Il bene fatto da un altro che gioverà a te, se dimentichi il tuo dovere?»; allora lui: «Ora stai tranquilla; infatti, è necessario che io faccia il mio dovere prima di partire; lo vuole la giustizia e la pietà mi trattiene qui». Dio, che non vide mai qualcosa di nuovo, produsse questi dialoghi percepibili con la vista, che ci sembra incredibile in quanto qui, sulla Terra, non esiste. Mentre io traevo piacere a osservare l'immagine di tanti esempi di umiltà, preziosi per l'artista che li ha prodotti (Dio), il poeta mormorava: «Ecco che arrivano di qua molte anime, che però camminano a passi lenti: questi ci indirizzeranno alle altre Cornici». I miei occhi, che erano contenti di osservare per vedere cose nuove di cui erano desiderosi, non furono lenti a volgersi verso di lui. Non voglio però, o lettore, che tu ti distolga dal tuo buon proposito sentendo in che modo Dio vuole che si sconti la colpa. Non concentrare l'attenzione sulla forma della pena: pensa a ciò che la seguirà (la beatitudine); pensa che, nel peggiore dei casi, non può protrarsi oltre il Giudizio Finale. Io iniziai: «Maestro, ciò che vedo muovere verso di noi non mi sembrano anime umane, e non so cosa sia, a tal punto non distinguo bene con la vista». E lui a me: «La grave condizione della loro pena li fa curvare a terra, così che anche il mio sguardo prima era incerto. Ma guarda attentamente in là, e con gli occhi separa ciò che sta sotto dai massi che stanno sopra: già puoi vedere come ciascuno di loro si batte il petto». O superbi cristiani, poveri infelici con la mente ottenebrata, che avete fiducia nei vostri passi rivolti all'indietro, non vi accorgete che noi siamo dei vermi, destinati a formare una farfalla angelica che vola senza intralci alla giustizia divina? A che titolo il vostro animo insuperbisce, e poi siete simili ad insetti mal formati, proprio come un verme che non si è del tutto sviluppato? Come talvolta si vede una figura (cariatide) che unisce la ginocchia al petto, per sostenere un soffitto o un tetto a mo' di mensola, la quale attraverso la finzione fa nascere un vero affanno a chi la vede, fatti così vidi io quei penitenti, quando li osservai attentamente. A dire il vero, erano più o meno curvati a seconda del macigno che avevano sulle spalle; e quello che nell'atteggiamento sembrava più paziente, pareva dire piangendo: 'Non posso sopportare oltre'. |