Paradiso, Canto XXIX
Trionfo degli angeli (min. XV sec.)
"...Or sai tu dove e quanto questi amori
furon creati e come: sì che spenti
nel tuo disio già son tre ardori..."
"...Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l'amor de l'apparenza e 'l suo pensiero! ..."
"...Di questo ingrassa il porco sant'Antonio,
e altri assai che sono ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio..."
furon creati e come: sì che spenti
nel tuo disio già son tre ardori..."
"...Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l'amor de l'apparenza e 'l suo pensiero! ..."
"...Di questo ingrassa il porco sant'Antonio,
e altri assai che sono ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio..."
Argomento del Canto
Ancora nel IX Cielo (Primo Mobile). Beatrice parla della creazione degli angeli, degli angeli ribelli, delle facoltà angeliche, del numero degli angeli. Condanna dei vani predicatori.
È la sera di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È la sera di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Beatrice resta un istante in silenzio (1-9)
Quando il Sole e la Luna, sotto le costellazioni dell'Ariete e della Bilancia, si trovano sulla linea dell'orizzonte che taglia a metà il loro disco, passa solo un istante brevissimo prima che l'uno tramonti e l'altro sorga, cambiando così emisfero: Beatrice resta in silenzio un tempo equivalente, tenendo lo sguardo fisso sul punto luminosissimo che aveva sopraffatto la vista del poeta.
Spiegazione di Beatrice: la creazione degli angeli (10-48)
J. Flaxman, Gli angeli
Beatrice inizia a parlare e afferma di non aver bisogno di chiedere a Dante cosa voglia sentire, poiché legge i suoi desideri nella mente di Dio. La donna spiega che l'Altissimo, non per accrescere il proprio bene ma affinché il suo splendore potesse riflettersi in altri esseri all'infuori di Lui, creò le intelligenze angeliche. Non si può dire che prima Dio fosse inoperoso, giacché prima della creazione non ci fu né un «prima» né un «dopo»: così la forma e la materia, unite fra loro e separate, uscirono perfette dall'atto della creazione. Tale atto fu immediato, come quando la luce attraversa un corpo trasparente, e insieme alle sostanze angeliche fu concreato anche l'ordine dell'Universo, cosicché il puro atto creò gli angeli, la pura potenza produsse il mondo sensibile, potenza e atto uniti insieme formarono i Cieli. San Girolamo scrisse che gli angeli vennero creati molti secoli prima del mondo, ma ciò contrasta con la lettera del testo sacro, e del resto basta pensare che le intelligenze angeliche, destinate a muovere i Cieli, sarebbero rimaste inoperose per un lungo periodo di tempo, cosa impossibile. Beatrice ha dunque spiegato a Dante dove, quando e come furono creati gli angeli, quindi tre desideri di conoscenza del poeta sono già stati appagati.
Gli angeli ribelli e gli angeli fedeli (49-66)
G. Di Paolo, Gli angeli ribelli
Beatrice spiega che, contando, non si arriverebbe a venti così in fretta quanto impiegò una parte degli angeli creati a ribellarsi a Dio: gli altri angeli restarono fedeli e iniziarono a contemplare la mente divina, con tale gioia che non cessano mai di ruotare intorno al punto luminoso (Dio). Causa della ribellione fu la superbia di Lucifero, che Dante ha visto confitto al centro della Terra, mentre gli angeli fedeli ebbero l'umiltà di riconoscere che la bontà di Dio li aveva creati come intelligenze privilegiate. La loro visione di Dio fu accresciuta dalla grazia illuminante e dal loro merito, cosicché hanno piena volontà di compiere il bene, e Dante deve comprendere che il ricevere la grazia è commisurato alla volontà di ottenerla, quindi è un merito.
Le facoltà angeliche (67-84)
Dante è ormai in grado di comprendere da sé molte cose riguardo agli angeli, tuttavia, poiché sulla Terra alcuni filosofi affermano che gli angeli sono dotati di intelletto, volontà e memoria, Beatrice aggiungerà una chiosa affinché il poeta comprenda la verità sulla natura angelica, al di là dei fraintendimenti degli uomini. Gli angeli, spiega Beatrice, dal momento in cui fissarono lo sguardo nella mente di Dio, non ne distolsero più lo sguardo, quindi non hanno bisogno della memoria per ricordare qualcosa di diverso: chi afferma il contrario, sulla Terra, racconta falsità in buona e in cattiva fede, e chi lo fa sapendo di dire cose inesatte è ancor più esecrabile.
Beatrice condanna i vani e falsi predicatori (85-126)
S. Antonio Abate (XVI sec.)
Beatrice condanna le varie scuole filosofiche dei pensatori sulla Terra, che divulgano insegnamenti contraddittori per il desiderio di fare sfoggio di sapienza: ciò è tuttavia tollerato dal Cielo, assai più del fatto che la Sacra Scrittura viene da altri volutamente travisata. Gli uomini non pensano al sangue versato nel mondo per diffondere la parola di Dio, e per far mostra di sé alcuni inventano di sana pianta cose false che poi i vani predicatori spargono con eccessiva leggerezza, trascurando il Vangelo. Alcuni affermano che nella passione di Cristo la Luna oscurò il Sole con un'eclissi, dicendo il falso in quanto il Sole si oscurò da solo, anche perché un'eclissi non sarebbe stata visibile al di fuori della Terrasanta. I predicatori raccontano dai loro pulpiti favole e falsità a cui i fedeli credono ciecamente, senza essere scusati dalla loro ignoranza: Cristo non disse agli Apostoli di diffondere delle ciance, infatti essi usarono il Vangelo come scudo per combattere e diffondere la fede. Ora i predicatori si producono in lazzi e frasi argute, preoccupandosi solo di divertire l'uditorio, ma il popolo dovrebbe capire che dietro tali cattivi pastori si nasconde il demonio e che le loro promesse non hanno alcun valore. Gli uomini credono ingenuamente a qualunque cosa sentano, del che approfittano i frati dell'Ordine di sant'Antonio Abate per ingrassare i loro maiali (cioè per arricchirsi), così come altri frati che, sfruttando la credulità popolare, vendono indulgenze non valide.
Il numero degli angeli. La grandezza di Dio (127-145)
F. Botticini, Trionfo della Vergine e degli angeli
Beatrice interrompe la sua digressione e invita Dante a tornare alla questione degli angeli, poiché essi possono restare ancora poco tempo nel Primo Mobile. Il numero degli angeli, spiega, è talmente elevato che l'intelletto umano non è neppure in grado di concepirlo, e se Dante pensa alle parole di Daniele sull'argomento capirà che esse non indicavano l'esatto numero degli angeli visti, ma una quantità indeterminata. La luce di Dio, che si irraggia su tutte le intelligenze angeliche, è recepita da ognuna di esse in modo diverso, cosicché ogni angelo prova un amore verso di Dio di differente intensità. Ciò consente a Dante di valutare l'altezza e la magnificenza della potenza divina, che ha voluto riverberarsi nei numerossimi angeli pur restando unica.
Interpretazione complessiva
Il Canto prosegue e conclude il discorso sull'angelologia iniziato nel XXVIII con la descrizione delle gerarchie e degli ordini angelici, in quanto Beatrice chiarisce a Dante alcune importanti questioni relative alla creazione degli angeli, alla ribellione di Lucifero, alle facoltà degli angeli e al loro numero: a metà circa del Canto si inserisce una digressione contenente una dura invettiva contro i cattivi filosofi e i falsi predicatori, rei di distorcere la verità rivelata divulgando leggende infondate per arricchirsi a scapito della credulità popolare, accusa che è rivolta soprattutto (ma non esclusivamente) ai frati dell'Ordine di sant'Antonio Abate. L'inizio del Canto è decisamente solenne, con la descrizione di Beatrice che fissa lo sguardo nella mente di Dio per acquisire la sapienza necessaria alla sua dotta disquisizione, e resta in silenzio un tempo brevissimo (Dante ricorre a una complessa similitudine astronomica per raffigurarla): comincia poi la spiegazione senza bisogno di domande da parte del poeta, per cui Beatrice parla sino alla fine impostando una lectio magistralis il cui linguaggio è pieno di termini tecnici della filosofia scolastica, cosa che ha spinto alcuni critici a ritenere questo Canto come il più denso di questioni dottrinali dell'intero Paradiso. L'insolita ampiezza della trattazione su una questione che può apparire marginale ai nostri occhi si spiega con la delicatezza della materia angelologica e, soprattutto, con le molte e contraddittorie nozioni che sugli angeli circolavano tra i filosofi del tempo di Dante: come nel Canto precedente, Dante ribadisce che solo la Scrittura può dire una parola definitiva su simili problemi, trattandosi della parola rivelata da Dio che ha ispirato gli autori terreni dei testi sacri, mentre assai disdicevole, quando non incline all'eresia, è l'atteggiamento di coloro che ne distorcono il senso in buona e cattiva fede (Dante pensa non solo ai vani predicatori, ma anche a filosofi di primo piano come san Girolamo e san Tommaso d'Aquino, le cui convinizioni sono talvolta in contrasto con la lettera del testo biblico). Il discorso di Beatrice tocca infatti alcuni degli aspetti più delicati dell'angelologia, a partire dalla creazione delle intelligenze angeliche come atto d'amore di Dio che volle riflettere la propria bontà in altri esseri al di fuori di Lui: tale atto creativo ha poi dato forma e ordine all'intero Universo, come Beatrice ha già illustrato nel Canto precedente, ed è stato dunque simultaneo alla creazione dei Cieli e della Terra, in contrasto con le affermazioni di san Girolamo che Dante qui confuta seguendo Tommaso, ma citando soprattutto l'autorità della Bibbia e l'argomento aristotelico per cui le intelligenze angeliche non potevano restare inoperose, senza poter ruotare i Cieli di cui sono motrici. Da qui si passa poi a trattare della ribellione di Lucifero e degli altri angeli, superbi e invidiosi della grandezza di Dio e irriconoscenti per la bontà della loro creazione: tale ribellione avvenne in un tempo brevissimo, come sostenevano molti Padri della Chiesa, e fu punita col la caduta del maligno al centro della Terra, mentre gli angeli fedeli restarono in Cielo e continuarono a fissare la mente divina traendone un indicibile diletto; questo suggerisce l'altro punto trattato, ovvero le facoltà degli angeli tra cui Dante (che su questo punto si allontana da sant'Agostino e da san Tommaso) ammette solo volontà e intelletto, non la memoria in quanto gli angeli non distolgono mai lo sguardo da Dio e non hanno bisogno di ricordare, non avendo altro oggetto della loro visione. È molto discusso da dove Dante abbia tratto questa dottrina che nega in senso assoluto la memoria degli angeli, e che si ritrova in termini molto simili in Averroè, ma è probabile che il poeta intenda per bocca di Beatrice condannare l'eccessiva sottigliezza di certe distinzioni, con l'affermare che la visione beatifica degli angeli è continua e, dunque, va al di là della comprensione degli uomini, per quanto è sorprendente che su questo punto egli metta in discussione nientemeno che l'autorità dell'Aquinate.
Questo punto dà modo poi a Beatrice di iniziare la sua dura invettiva contro coloro che distorcono la verità rivelata nei testi sacri, mentre la parola di Dio è stata diffusa col Vangelo e a prezzo del sangue versato dagli Apostoli e dagli altri martiri: l'accusa della donna è rivolta anzitutto ai cattivi filosofi, alcuni dei quali in perfetta buona fede esercitano un'eccessiva sottigliezza su alcune questioni dottrinali, mentre altri in malafede falsano il dato scritturale per piegarlo alle loro opinioni e sono dunque colpevoli di eresia (è chiaro che Dante non pensa certo a Girolamo o Tommaso, ma a quei filosofi che hanno diffuso dottrine in contrasto con l'ortodossia). Il tema si ricollega a quanto detto proprio da san Tommaso in Par., XIII, 112 ss., quando aveva condannato pensatori quali Sabello e Ario che con le loro teorie eretiche avevano deformato le Scritture, ed è forse l'ennesimo accenno al «traviamento» intellettuale di Dante che lo aveva spinto a sopravvalutare la filosofia e la ragione umana a discapito della verità rivelata, che viene qui riaffermata come unica fonte della conoscenza delle cose ultraterrene; ne è un chiaro esempio l'errata teoria che per alcuni spiegava l'oscurarsi del Sole il giorno della morte di Cristo con un'eclissi, cosa impossibile sia per un argomento logico (l'eclissi sarebbe stata visibile solo a Gerusalemme) sia perché in contrasto con quanto affermato dai Vangeli (anche qui Dante si allontana da san Tommaso che ammetteva in via ipotetica una simile spiegazione). Di qui alla condanna dei predicatori che diffondono falsità e leggende al solo scopo di ingraziarsi l'uditorio e raccogliere elemosine e offerte il passo è breve, per cui Beatrice pronuncia un duro attacco soprattutto contro i frati antoniani, famosi nel Due-Trecento per l'abilità con cui propinavano le loro sciocchezze al popolo (come il frate Cipolla protagonista della famosa novella del Decameron di G. Boccaccio, VI, 10): le parole della donna sono assai dure, specie quando accusa i falsi predicatori di seminare ciance, di predicare con iscede («lazzi») per suscitare il riso, di essere dei porci come quelli che ingrassano con le offerte estorte, di nascondere in sé il diavolo mentre fanno false promesse ai fedeli e smerciano false indulgenze, paragonate a una moneta sanza conio. Se tali predicatori sono da condannare, non del tutto scusabile è il popolo per la sua ignoranza, dal momento che la lettera del Vangelo è nota anche fra i più poveri attraverso le arti figurative (la dipintura era, nel Medioevo, la scrittura dei laici illetterati), quindi le fole divulgate dai predicatori trovano terreno fertile nella credulità popolare, mentre i fedeli sanza prova d'alcun testimonio credono a tutte le menzogne che vengono loro raccontate e alle false promesse di indulgenza, correndo seri rischi sul piano della salvezza spirituale.
Il Canto si chiude dopo questa digressione polemica con l'ultima questione relativa al numero degli angeli, che è incommensurabile come già detto da Dante in XXVIII, 91-93, e che è prova ulteriore dell'infinita bontà di Dio proprio come lo era stata la loro creazione: la luce divina si riflette infatti su tutte le innumerevoli intelligenze angeliche, ciascuna delle quali la riceve in modo diverso e prova dunque un amore per il suo Creatore più o meno intenso, dal che consegue che la bontà divina si spezza in tanti specchi pur restando unica in se stessa. Questo commosso inno di Beatrice alla grandezza di Dio costituisce un innalzamento del linguaggio che segue l'asprezza dell'invettiva contro i vani predicatori, concludendo degnamente la permanenza di lei e di Dante nel Primo Mobile e preparando il lettore alla successiva ascesa all'ultimo Cielo dell'Empireo: il Canto seguente mostrerà infatti la candida rosa dei beati, descritta come uno splendente fiume di luce, e introdurrà alla parte conclusiva della Cantica che porterà alla visione di Dio da parte del poeta, del resto già in qualche modo anticipata dall'ampia trattazione sugli angeli che dalla fruizione dell'aspetto divino traggono la loro beatitudine (non a caso, del resto, quella di Beatrice è stata l'ultima vera invettiva del poema, poiché d'ora in avanti ci sarà spazio solo per la descrizione della potenza di Dio e della felicità dei beati della rosa celeste).
Questo punto dà modo poi a Beatrice di iniziare la sua dura invettiva contro coloro che distorcono la verità rivelata nei testi sacri, mentre la parola di Dio è stata diffusa col Vangelo e a prezzo del sangue versato dagli Apostoli e dagli altri martiri: l'accusa della donna è rivolta anzitutto ai cattivi filosofi, alcuni dei quali in perfetta buona fede esercitano un'eccessiva sottigliezza su alcune questioni dottrinali, mentre altri in malafede falsano il dato scritturale per piegarlo alle loro opinioni e sono dunque colpevoli di eresia (è chiaro che Dante non pensa certo a Girolamo o Tommaso, ma a quei filosofi che hanno diffuso dottrine in contrasto con l'ortodossia). Il tema si ricollega a quanto detto proprio da san Tommaso in Par., XIII, 112 ss., quando aveva condannato pensatori quali Sabello e Ario che con le loro teorie eretiche avevano deformato le Scritture, ed è forse l'ennesimo accenno al «traviamento» intellettuale di Dante che lo aveva spinto a sopravvalutare la filosofia e la ragione umana a discapito della verità rivelata, che viene qui riaffermata come unica fonte della conoscenza delle cose ultraterrene; ne è un chiaro esempio l'errata teoria che per alcuni spiegava l'oscurarsi del Sole il giorno della morte di Cristo con un'eclissi, cosa impossibile sia per un argomento logico (l'eclissi sarebbe stata visibile solo a Gerusalemme) sia perché in contrasto con quanto affermato dai Vangeli (anche qui Dante si allontana da san Tommaso che ammetteva in via ipotetica una simile spiegazione). Di qui alla condanna dei predicatori che diffondono falsità e leggende al solo scopo di ingraziarsi l'uditorio e raccogliere elemosine e offerte il passo è breve, per cui Beatrice pronuncia un duro attacco soprattutto contro i frati antoniani, famosi nel Due-Trecento per l'abilità con cui propinavano le loro sciocchezze al popolo (come il frate Cipolla protagonista della famosa novella del Decameron di G. Boccaccio, VI, 10): le parole della donna sono assai dure, specie quando accusa i falsi predicatori di seminare ciance, di predicare con iscede («lazzi») per suscitare il riso, di essere dei porci come quelli che ingrassano con le offerte estorte, di nascondere in sé il diavolo mentre fanno false promesse ai fedeli e smerciano false indulgenze, paragonate a una moneta sanza conio. Se tali predicatori sono da condannare, non del tutto scusabile è il popolo per la sua ignoranza, dal momento che la lettera del Vangelo è nota anche fra i più poveri attraverso le arti figurative (la dipintura era, nel Medioevo, la scrittura dei laici illetterati), quindi le fole divulgate dai predicatori trovano terreno fertile nella credulità popolare, mentre i fedeli sanza prova d'alcun testimonio credono a tutte le menzogne che vengono loro raccontate e alle false promesse di indulgenza, correndo seri rischi sul piano della salvezza spirituale.
Il Canto si chiude dopo questa digressione polemica con l'ultima questione relativa al numero degli angeli, che è incommensurabile come già detto da Dante in XXVIII, 91-93, e che è prova ulteriore dell'infinita bontà di Dio proprio come lo era stata la loro creazione: la luce divina si riflette infatti su tutte le innumerevoli intelligenze angeliche, ciascuna delle quali la riceve in modo diverso e prova dunque un amore per il suo Creatore più o meno intenso, dal che consegue che la bontà divina si spezza in tanti specchi pur restando unica in se stessa. Questo commosso inno di Beatrice alla grandezza di Dio costituisce un innalzamento del linguaggio che segue l'asprezza dell'invettiva contro i vani predicatori, concludendo degnamente la permanenza di lei e di Dante nel Primo Mobile e preparando il lettore alla successiva ascesa all'ultimo Cielo dell'Empireo: il Canto seguente mostrerà infatti la candida rosa dei beati, descritta come uno splendente fiume di luce, e introdurrà alla parte conclusiva della Cantica che porterà alla visione di Dio da parte del poeta, del resto già in qualche modo anticipata dall'ampia trattazione sugli angeli che dalla fruizione dell'aspetto divino traggono la loro beatitudine (non a caso, del resto, quella di Beatrice è stata l'ultima vera invettiva del poema, poiché d'ora in avanti ci sarà spazio solo per la descrizione della potenza di Dio e della felicità dei beati della rosa celeste).
Frate Cipolla e la piuma dell'arcangelo Gabriele
S. Martini, L'Annunciazione
Nel Canto XXIX del Paradiso Beatrice si scaglia con una dura invettiva contro i falsi e vani predicatori, che imboniscono il popolo con ciance promettendo false indulgenze al solo scopo di raccogliere offerte e arricchirsi, fra cui spiccano soprattutto i seguaci dell'Ordine di sant'Antonio Abate: gli Antoniani erano in effetti assai noti del tardo Medioevo per la loro abilità a sfruttare la credulità dei fedeli, specie spacciando come vere delle false reliquie che assicuravano loro cospicue elemosine (Dante parla appunto del porco come simbolo del santo fondatore, dal momento che nei conventi antoniani venivano allevati maiali che i contadini ritenevano addirittura sacri ed erano l'emblema della corruzione di questi religiosi). Tale polemica contro i falsi predicatori è presente anche nel Decameron di G. Boccaccio, specie nell'ultima novella della VI Giornata che ha per protagonista frate Cipolla, proprio un antoniano che gira di paese in paese sfoggiando le sue false reliquie e raccogliendo offerte per il «barone» sant'Antonio, usando la sua abilità dialettica di improvvisatore. Tale personaggio è il ritratto impietoso di un ciarlatano che raccoglie i fedeli sulla pubblica piazza come un imbonitore o un venditore ambulante, o peggio ancora come un giullare che intrattiene il pubblico con lazzi e battute, senza temere di offendere gli argomenti sacri con un atteggiamento a dir poco blasfemo: pezzo forte della sua collezione di false reliquie è una piuma di pappagallo, animale esotico allora quasi sconosciuto in Occidente, che egli spaccia per la piuma che l'agnolo Gabriello (l'arcangelo Gabriele) avrebbe perso nell'atto di compiere l'Annunciazione a Maria, come narrato nel Vangelo di Luca (I, 26 ss.). La cosa è manifestamente assurda in quanto gli angeli sono esseri spirituali e ovviamente non hanno penne (benché con ali piumate fossero descritti nell'iconografia tradizionale e come tali raffigurati dallo stesso Dante nel Purgatorio), ma il richiamo è irresistibile per i fedeli ignoranti che, allettatti dalla possibilità di vedere una cosa tanto singolare, corrono in massa ad assistere alla predica del frate. Senonché il giorno in cui giunge a Certaldo, il paese in cui è ambientata la novella del Decameron, subisce uno scherzo ad opera di due giovani suoi amici che gli sottraggono la penna custodita gelosamente in una cassetta di legno e la sostituiscono con dei carboni bruciati, sperando di metterlo in imbarazzo di fronte al popolo al momento della predica pomeridiana: speranza vana, in quanto frate Cipolla saprà trarsi d'impaccio con un lungo e strampalato discorso (pieno di parole vane e prive di senso, quando non apertamente irreligiose e blasfeme), alla fine del quale dichiarerà che quei carboni sono quelli su cui fu arrostito san Lorenzo, la cui festa ricorre per coincidenza di lì a due giorni essendo l'8 agosto. Questi carboni hanno, a suo dire, la facoltà di rendere immuni dal fuoco coloro che ne sono toccati, benché le parole del frate suonino ambigue (egli dice che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta) e così i fedeli fanno a gara per farsi segnare con la fuliggine dei carboni e fanno al frate offerte ancor più generose di quelle che lui si aspettava con l'esibizione della famosa piuma, che gli verrà poi restituita dai due amici che rideranno con lui dello scherzo. Non sappiamo se Boccaccio avesse in mente le parole di Dante nel Canto XXIX del Paradiso quando scrisse questa novella, diventata una delle più famose del Decameron, ma essa testimonia che la fama dei predicatori antoniani era davvero diffusa nel Due-Trecento e che grande era la credulità dei popolani riguardo agli angeli e ai santi, tanto da favorire un intenso commercio di reliquie più o meno false che costituivano un'imporante fonte di reddito per molti religiosi nei conventi; il personaggio di frate Cipolla era certo una caricatura, ma rifletteva un comportamento reale e di cui c'erano molti esempi a quel tempo, il che spiega almeno in parte l'insistenza di Dante nei Canti XXVIII-XXIX della III Cantica sulla reale natura degli angeli (fra i quali, giova ricordarlo, godeva di grande popolarità fra i ceti più poveri proprio l'arcangelo Gabriele, protagonista di uno degli episodi più celebri del racconto evangelico).
(per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito www.decameron.weebly.com)
(per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito www.decameron.weebly.com)
Note e passi controversi
La complessa similitudine dei vv. 1-9 descrive il momento in cui Sole e Luna (identificati con Apollo e Diana e perciò detti figli di Latona), quando sono congiunti con Ariete e Bilancia, si trovano contemporaneamente sulla linea dell'orizzonte che taglia a metà il loro disco: il tempo che trascorre prima che l'uno sorga e l'altro tramonti, passando in uno dei due emisferi, è breve quanto il tempo passato da Beatrice a fissare il punto luminoso. Alcuni pensano che tale intervallo di tempo sia un solo istante, ma in tal caso non si capirebbe come possa Dante apprezzarlo guardando Beatrice (si tratta probabilmente di meno di un minuto).
Al v. 4 cenìt è voce araba per «zenit». Inlibra vuol dire «tiene in equilibrio» e Dante indica lo zenit come il punto più alto di una bilancia, i cui piatti sono Sole e Luna; ciascuno dei due astri si libera (si dilibra) passando al di sotto o al di sopra della linea dell'orizzonte.
Al v. 15 Subsisto è lat. che vuol dire «io esisto per me stesso» ed è tecnicismo della Scolastica.
I vv. 16-17 indicano che Dio, prima della creazione, era fuori del tempo e dello spazio (ai vv. 20-21 viene detto che al di fuori della creazione non ci fu un prima o un dopo, perché il tempo non esisteva).
Al v. 21 quest'acque indica probabilmente i Cieli, forse in particolare il Primo Mobile (cfr. Gen., I, 2 e oltre).
Il v. 22 indica la Forma o atto puro, corrispondente alle sostanze angeliche, la materia o potenza pura, che corrisponde al mondo sensibile, l'atto e la potenza uniti insieme, ovvero i Cieli (purette vale «assolutamente pure»).
I vv. 28-30 vogliono dire che l'atto divino della creazione fu immediato, mentre ai vv. 31-33 si dice che il costrutto delle sostanze, cioè la loro essenza, e il loro ordine fu concreato insieme.
Al v. 34 la parte ima indica il mondo sensibile.
Al v. 36 si divima («si scioglie») è probabile neologismo dantesco derivato da vime, «legame».
I vv. 37 ss. alludono alla teoria esposta da san Girolamo (detto Ieronimo dal lat. Hieronymus) nel trattato Super epistulam ad Titum, in cui afferma che la creazione degli angeli avvenne molti secoli prima di quella del mondo: essa è respinta da san Tommaso (Summa theol., I, q. LXI) e da Dante, anche in base al testo biblico (Gen., I, 1: In principio creavit Deus caelum et terram; Eccl., XVIII, 1: Qui vivit in aeternum creavit omnia simul).
L'argomento ai vv. 43-45 è di matrice aristotelica e allude al fatto che le intelligenze angeliche, restando tanto tempo senza i Cieli che erano destinate a muovere, non avrebbero adempiuto al fine per cui erano state create.
Al v. 51 il suggetto d'i vostri alimenti («elementi») è probabilmente il mondo sensibile, sconvolto dalla ribellione degli angeli.
L'arte di cui si parla al v. 52 non è il movimento dei Cieli, bensì la visione di Dio (al v. 54 circuir indica il ruotare intorno al punto lumininoso).
I vv. 56-57 indicano ovviamente Lucifero, da tutti i pesi del mondo costretto in quanto confitto al centro della Terra.
I vv. 59-60 vogliono dire che gli angeli fedeli riconobbero di aver ricevuto la loro natura dalla bontà di Dio, mentre è meno probabile che riconoscer significhi «essere riconoscenti».
Al v. 75 lettura vuol dire «insegnamento» (come si legge, v. 71, vuol dire «si insegna»).
Il v. 83 (credendo e non credendo dicer vero) significa «dicendo queste cose in buona o in cattiva fede».
Al v. 95 trascorse vuol dire «trattate ampiamente».
Ai vv. 97-102 Dante allude alla spiegazione dell'oscurarsi del Sole alla morte di Cristo che risaliva allo pseudo-Dionigi e ripresa da Tommaso, dovuta cioè a un'eclissi provocata dalla retrocessione della Luna: la confuta seguendo san Girolamo, perché in contrasto col Vangelo (Matth., XXVII, 45: tenebrae factae sunt super universam terram) e in quanto l'eclissi non sarebbe stata visibile in Spagna o in India, cioè all'estremo occidente e oriente di Gerusalemme. Il termine mente al v. 100 non è da intendersi in senso negativo, ma forse significa solo «non dice una cosa esatta», come il lat. mentiri.
Al v. 103 Lapi e Bindi indicano due nomi assai diffusi a Firenze, diminutivi di Iacopo e Ildebrando.
Al v. 111 l'espressione ne le sue guance si riferisce probabilmente agli Apostoli, nelle cui bocche risuonò soltanto il Vangelo che permise loro di diffondere la fede (altri pensano alle guance di Cristo).
Al v. 115 iscede sta per «lazzi», «battute» ed è lo stesso termine usato da Boccaccio in Dec., Conclusione: le prediche fatte da' frati... il più oggi piene di motti e di ciance e di scede sono.
I vv. 118-120 vogliono dire che nel cappuccio (becchetto) dei predicatori si annida un diavolo (uccel), tale che se fosse visto dai fedeli essi capirebbero il valore delle indulgenze promesse (nell'arte medievale il diavolo era spesso raffigurato come un uccello nero).
Il v. 124 vuol dire probabilmente che sant'Antonio, ovvero l'Ordine antoniano, grazie alle offerte estorte ai fedeli ingrassa il porco e altre persone ancora più turpi come concubine, figli naturali (la moneta sanza conio indica le vuote indulgenze e, forse, le false reliquie esibite come autentiche). Alcuni interpreti intendono il porco sant'Antonio come «il porco di sant'Antonio», secondo l'uso di omettere la prep. «di» coi nomi propri attestato anche in Dante, quindi porco sarebbe soggetto (tale ipotesi è meno probabile). Sant'Antonio Abate (III-IV sec. d.C.), padre del monachesimo orientale, era spesso rappresentato con un maiale ai piedi, simbolo del demonio le cui tentazioni aveva vinto durante la sua permanenza nel deserto.
I vv. 133-135 alludono a Dan., VII, 10, in cui il profeta narra di aver visto in una visione migliaia di migliaia di angeli (diecimila volte centomila) che stavano intorno a Dio: Dante intende dire che tale numero è indicativo di una quantità grandissima, ma non è determinato.
Al v. 4 cenìt è voce araba per «zenit». Inlibra vuol dire «tiene in equilibrio» e Dante indica lo zenit come il punto più alto di una bilancia, i cui piatti sono Sole e Luna; ciascuno dei due astri si libera (si dilibra) passando al di sotto o al di sopra della linea dell'orizzonte.
Al v. 15 Subsisto è lat. che vuol dire «io esisto per me stesso» ed è tecnicismo della Scolastica.
I vv. 16-17 indicano che Dio, prima della creazione, era fuori del tempo e dello spazio (ai vv. 20-21 viene detto che al di fuori della creazione non ci fu un prima o un dopo, perché il tempo non esisteva).
Al v. 21 quest'acque indica probabilmente i Cieli, forse in particolare il Primo Mobile (cfr. Gen., I, 2 e oltre).
Il v. 22 indica la Forma o atto puro, corrispondente alle sostanze angeliche, la materia o potenza pura, che corrisponde al mondo sensibile, l'atto e la potenza uniti insieme, ovvero i Cieli (purette vale «assolutamente pure»).
I vv. 28-30 vogliono dire che l'atto divino della creazione fu immediato, mentre ai vv. 31-33 si dice che il costrutto delle sostanze, cioè la loro essenza, e il loro ordine fu concreato insieme.
Al v. 34 la parte ima indica il mondo sensibile.
Al v. 36 si divima («si scioglie») è probabile neologismo dantesco derivato da vime, «legame».
I vv. 37 ss. alludono alla teoria esposta da san Girolamo (detto Ieronimo dal lat. Hieronymus) nel trattato Super epistulam ad Titum, in cui afferma che la creazione degli angeli avvenne molti secoli prima di quella del mondo: essa è respinta da san Tommaso (Summa theol., I, q. LXI) e da Dante, anche in base al testo biblico (Gen., I, 1: In principio creavit Deus caelum et terram; Eccl., XVIII, 1: Qui vivit in aeternum creavit omnia simul).
L'argomento ai vv. 43-45 è di matrice aristotelica e allude al fatto che le intelligenze angeliche, restando tanto tempo senza i Cieli che erano destinate a muovere, non avrebbero adempiuto al fine per cui erano state create.
Al v. 51 il suggetto d'i vostri alimenti («elementi») è probabilmente il mondo sensibile, sconvolto dalla ribellione degli angeli.
L'arte di cui si parla al v. 52 non è il movimento dei Cieli, bensì la visione di Dio (al v. 54 circuir indica il ruotare intorno al punto lumininoso).
I vv. 56-57 indicano ovviamente Lucifero, da tutti i pesi del mondo costretto in quanto confitto al centro della Terra.
I vv. 59-60 vogliono dire che gli angeli fedeli riconobbero di aver ricevuto la loro natura dalla bontà di Dio, mentre è meno probabile che riconoscer significhi «essere riconoscenti».
Al v. 75 lettura vuol dire «insegnamento» (come si legge, v. 71, vuol dire «si insegna»).
Il v. 83 (credendo e non credendo dicer vero) significa «dicendo queste cose in buona o in cattiva fede».
Al v. 95 trascorse vuol dire «trattate ampiamente».
Ai vv. 97-102 Dante allude alla spiegazione dell'oscurarsi del Sole alla morte di Cristo che risaliva allo pseudo-Dionigi e ripresa da Tommaso, dovuta cioè a un'eclissi provocata dalla retrocessione della Luna: la confuta seguendo san Girolamo, perché in contrasto col Vangelo (Matth., XXVII, 45: tenebrae factae sunt super universam terram) e in quanto l'eclissi non sarebbe stata visibile in Spagna o in India, cioè all'estremo occidente e oriente di Gerusalemme. Il termine mente al v. 100 non è da intendersi in senso negativo, ma forse significa solo «non dice una cosa esatta», come il lat. mentiri.
Al v. 103 Lapi e Bindi indicano due nomi assai diffusi a Firenze, diminutivi di Iacopo e Ildebrando.
Al v. 111 l'espressione ne le sue guance si riferisce probabilmente agli Apostoli, nelle cui bocche risuonò soltanto il Vangelo che permise loro di diffondere la fede (altri pensano alle guance di Cristo).
Al v. 115 iscede sta per «lazzi», «battute» ed è lo stesso termine usato da Boccaccio in Dec., Conclusione: le prediche fatte da' frati... il più oggi piene di motti e di ciance e di scede sono.
I vv. 118-120 vogliono dire che nel cappuccio (becchetto) dei predicatori si annida un diavolo (uccel), tale che se fosse visto dai fedeli essi capirebbero il valore delle indulgenze promesse (nell'arte medievale il diavolo era spesso raffigurato come un uccello nero).
Il v. 124 vuol dire probabilmente che sant'Antonio, ovvero l'Ordine antoniano, grazie alle offerte estorte ai fedeli ingrassa il porco e altre persone ancora più turpi come concubine, figli naturali (la moneta sanza conio indica le vuote indulgenze e, forse, le false reliquie esibite come autentiche). Alcuni interpreti intendono il porco sant'Antonio come «il porco di sant'Antonio», secondo l'uso di omettere la prep. «di» coi nomi propri attestato anche in Dante, quindi porco sarebbe soggetto (tale ipotesi è meno probabile). Sant'Antonio Abate (III-IV sec. d.C.), padre del monachesimo orientale, era spesso rappresentato con un maiale ai piedi, simbolo del demonio le cui tentazioni aveva vinto durante la sua permanenza nel deserto.
I vv. 133-135 alludono a Dan., VII, 10, in cui il profeta narra di aver visto in una visione migliaia di migliaia di angeli (diecimila volte centomila) che stavano intorno a Dio: Dante intende dire che tale numero è indicativo di una quantità grandissima, ma non è determinato.
TestoQuando ambedue li
figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra, fanno de l’orizzonte insieme zona, 3 quant’è dal punto che ‘l cenìt inlibra infin che l’uno e l’altro da quel cinto, cambiando l’emisperio, si dilibra, 6 tanto, col volto di riso dipinto, si tacque Beatrice, riguardando fiso nel punto che m’avea vinto. 9 Poi cominciò: «Io dico, e non dimando, quel che tu vuoli udir, perch’io l’ho visto là ‘ve s’appunta ogne ubi e ogne quando. 12 Non per aver a sé di bene acquisto, ch’esser non può, ma perché suo splendore potesse, risplendendo, dir "Subsisto", 15 in sua etternità di tempo fore, fuor d’ogne altro comprender, come i piacque, s’aperse in nuovi amor l’etterno amore. 18 Né prima quasi torpente si giacque; ché né prima né poscia procedette lo discorrer di Dio sovra quest’acque. 21 Forma e materia, congiunte e purette, usciro ad esser che non avia fallo, come d’arco tricordo tre saette. 24 E come in vetro, in ambra o in cristallo raggio resplende sì, che dal venire a l’esser tutto non è intervallo, 27 così ‘l triforme effetto del suo sire ne l’esser suo raggiò insieme tutto sanza distinzione in essordire. 30 Concreato fu ordine e costrutto a le sustanze; e quelle furon cima nel mondo in che puro atto fu produtto; 33 pura potenza tenne la parte ima; nel mezzo strinse potenza con atto tal vime, che già mai non si divima. 36 Ieronimo vi scrisse lungo tratto di secoli de li angeli creati anzi che l’altro mondo fosse fatto; 39 ma questo vero è scritto in molti lati da li scrittor de lo Spirito Santo, e tu te n’avvedrai se bene agguati; 42 e anche la ragione il vede alquanto, che non concederebbe che ‘ motori sanza sua perfezion fosser cotanto. 45 Or sai tu dove e quando questi amori furon creati e come: sì che spenti nel tuo disio già son tre ardori. 48 Né giugneriesi, numerando, al venti sì tosto, come de li angeli parte turbò il suggetto d’i vostri alementi. 51 L’altra rimase, e cominciò quest’arte che tu discerni, con tanto diletto, che mai da circuir non si diparte. 54 Principio del cader fu il maladetto superbir di colui che tu vedesti da tutti i pesi del mondo costretto. 57 Quelli che vedi qui furon modesti a riconoscer sé da la bontate che li avea fatti a tanto intender presti: 60 per che le viste lor furo essaltate con grazia illuminante e con lor merto, si c’hanno ferma e piena volontate; 63 e non voglio che dubbi, ma sia certo, che ricever la grazia è meritorio secondo che l’affetto l’è aperto. 66 Omai dintorno a questo consistorio puoi contemplare assai, se le parole mie son ricolte, sanz’altro aiutorio. 69 Ma perché ‘n terra per le vostre scole si legge che l’angelica natura è tal, che ‘ntende e si ricorda e vole, 72 ancor dirò, perché tu veggi pura la verità che là giù si confonde, equivocando in sì fatta lettura. 75 Queste sustanze, poi che fur gioconde de la faccia di Dio, non volser viso da essa, da cui nulla si nasconde: 78 però non hanno vedere interciso da novo obietto, e però non bisogna rememorar per concetto diviso; 81 sì che là giù, non dormendo, si sogna, credendo e non credendo dicer vero; ma ne l’uno è più colpa e più vergogna. 84 Voi non andate giù per un sentiero filosofando: tanto vi trasporta l’amor de l’apparenza e ‘l suo pensiero! 87 E ancor questo qua sù si comporta con men disdegno che quando è posposta la divina Scrittura o quando è torta. 90 Non vi si pensa quanto sangue costa seminarla nel mondo e quanto piace chi umilmente con essa s’accosta. 93 Per apparer ciascun s’ingegna e face sue invenzioni; e quelle son trascorse da’ predicanti e ‘l Vangelio si tace. 96 Un dice che la luna si ritorse ne la passion di Cristo e s’interpuose, per che ‘l lume del sol giù non si porse; 99 e mente, ché la luce si nascose da sé: però a li Spani e a l’Indi come a’ Giudei tale eclissi rispuose. 102 Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi quante sì fatte favole per anno in pergamo si gridan quinci e quindi; 105 sì che le pecorelle, che non sanno, tornan del pasco pasciute di vento, e non le scusa non veder lo danno. 108 Non disse Cristo al suo primo convento: ‘Andate, e predicate al mondo ciance’; ma diede lor verace fondamento; 111 e quel tanto sonò ne le sue guance, sì ch’a pugnar per accender la fede de l’Evangelio fero scudo e lance. 114 Ora si va con motti e con iscede a predicare, e pur che ben si rida, gonfia il cappuccio e più non si richiede. 117 Ma tale uccel nel becchetto s’annida, che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe la perdonanza di ch’el si confida; 120 per cui tanta stoltezza in terra crebbe, che, sanza prova d’alcun testimonio, ad ogne promession si correrebbe. 123 Di questo ingrassa il porco sant’Antonio, e altri assai che sono ancor più porci, pagando di moneta sanza conio. 126 Ma perché siam digressi assai, ritorci li occhi oramai verso la dritta strada, sì che la via col tempo si raccorci. 129 Questa natura sì oltre s’ingrada in numero, che mai non fu loquela né concetto mortal che tanto vada; 132 e se tu guardi quel che si revela per Daniel, vedrai che ‘n sue migliaia determinato numero si cela. 135 La prima luce, che tutta la raia, per tanti modi in essa si recepe, quanti son li splendori a chi s’appaia. 138 Onde, però che a l’atto che concepe segue l’affetto, d’amar la dolcezza diversamente in essa ferve e tepe. 141 Vedi l’eccelso omai e la larghezza de l’etterno valor, poscia che tanti speculi fatti s’ha in che si spezza, uno manendo in sé come davanti». 145 |
ParafrasiQuando entrambi i figli di Latona (il Sole e la Luna), sotto le due costellazioni di Ariete e Bilancia, fanno entrambi cintura dell'orizzonte, quant'è il tempo che passa dal momento in cui lo zenit li tiene in equilibrio fino a quello in cui si liberano dalla cintura cambiando emisfero, altrettanto tempo Beatrice restò in silenzio e sorridente, guardando fisso nel punto luminoso che aveva sopraffatto la mia vista.
Poi iniziò: «Io dico e non ti chiedo quello che vuoi sentire, perché io l'ho letto là (nella mente di Dio) dove ogni tempo e ogni luogo si concentrano. Non al fine di accrescere il proprio bene, cosa impossibile, ma affinché il suo splendore fosse riflesso in altri esseri che dicessero "Io esisto", l'amore eterno di Dio si moltiplicò in altri amori (negli angeli), come gli piacque, nella sua eternità fuori del tempo e dello spazio. Questo non significa che prima giacesse inoperoso, dal momento che nella creazione divina di questi Cieli non ci fu un prima né un dopo (il tempo non esisteva al di fuori della creazione). La forma e la materia, unite fra loro e pure, crearono degli esseri che non avevano imperfezioni, come tre saette vengono scoccate da un arco con tre corde. E come il raggio luminoso risplende attraverso un corpo trasparente, in modo tale che tra il suo giungere e il brillare non c'è intervallo di tempo, così il triforme atto creativo di Dio si irradiò insieme nel suo essere, senza successione di tempo. L'ordine e la struttura del cosmo furono concreate insieme; e gli angeli, prodotti dall'atto puro, occuparono la parte più elevata dell'Universo; la potenza pura occupò la parte più bassa (il mondo sensibile); nel mezzo, atto e potenza furono stretti insieme (nei Cieli) da un legame tanto saldo, che non può mai essere sciolto. San Girolamo scrisse che gli angeli furono creati molti secoli prima della creazione del mondo sensibile; ma la verità che io ho esposto è scritta in più luoghi delle Sacre Scritture, e tu lo capirai se le leggi con attenzione; e anche la ragione lo può capire, dal momento che non è possibile che i motori dei Cieli (le intelligenze angeliche) esistessero per tanto tempo senza giungere a perfezione, inoperose. Ora sai dove, quando e come furono creati questi amori (gli angeli): cosicché già tre tuoi desideri sono stati appagati. Non si arriverebbe, contando, al venti, così rapidamente come una parte degli angeli turbò il soggetto dei vostri elementi (la Terra, con la propria ribellione). L'altra rimase fedele, e iniziò l'opera di fissare nella mente di Dio che tu vedi qui, con tale gioia che non smette mai di ruotare attorno al punto luminoso (Dio stesso). La causa della caduta fu la maledetta superbia di colui (Lucifero) che tu hai visto schiacciato da tutti i pesi del mondo, confitto al centro della Terra. Quegli angeli che vedi qui, invece, ebbero la modestia di riconoscere di essere stati creati dalla bontà divina, dotati di una tale intelligenza: perciò la loro visione di Dio fu accresciuta dalla grazia illuminante e dal loro merito, dal momento che sono dotati di volontà ferma e piena; e non voglio che tu abbia dubbi, ma devi essere certo che il ricevere la grazia è un merito, commisurato alla volontà di ottenerla. Ormai puoi capire da solo molte cose intorno a questa assemblea (degli angeli), senz'altro aiuto, se hai compreso bene le mie parole. Ma poiché sulla Terra nelle vostre scuole filosofiche si insegna che la natura angelica è tale che possiede intelletto, volontà e memoria, parlerò ancora, perché tu veda la verità schietta che nel mondo viene confusa per gli equivoci di siffatti insegnamenti. Queste intelligenze angeliche, non appena furono felici contemplando Dio, non distolsero lo sguardo dalla sua mente, da cui nulla può essere celato: perciò la loro visione non è interrotta da alcun nuovo oggetto, e dunque non hanno bisogno di ricordare concetti acquisiti in diversi momenti; allora sulla Terra si sogna ad occhi aperti, dicendo cose inesatte in buona e cattiva fede; tuttavia chi è in malafede suscita più vergogna ed è più colpevole. Voi, filosofando sulla Terra, non percorrete un'unica strada: a tal punto siete trasportati dall'amore e dal desiderio di apparire! E questo, tuttavia, quassù è tollerato con minore disdegno, rispetto a quando la Sacra Scrittura è trascurata oppure deformata. Voi non pensate al sangue versato per diffondere nel mondo la parola di Dio, e quanto piace (a Dio) chi si unisce ad essa con tutta umiltà. Ciascuno, per fare sfoggio di sapienza, si ingegna e produce delle invenzioni; e quelle sono trattate ampiamente dai predicatori, che trascurano il Vangelo. Qualcuno afferma che, nella passione di Cristo, la Luna tornò indietro e si interpose al Sole in un'eclissi, causandone così l'oscuramento; e dice il falso, poiché la luce del Sole si oscurò da sola: infatti tale eclissi fu vista dagli Spagnoli e dagli Indiani, come dagli abitanti di Gerusalemme. Firenze non ha tanti Lapi e Bindi quante sono le favole che ogni anno si gridano dal pulpito in ogni luogo; cosicché le pecorelle (i fedeli) ignoranti tornano dal pascolo dopo essersi cibate di vento, e non è una scusante il fatto di non vedere il proprio danno. Cristo non disse ai suoi primi Apostoli: 'Andate e predicate ciance ai fedeli', ma diede loro un fondamento di verità; e nelle guance degli Apostoli risuonò soltanto quello, sicché usarono il Vangelo come scudo e lance per combattere e diffondere la fede. Ora i predicatori si esibiscono in motti e lazzi, e purché abbiano suscitato il riso si gonfiano di orgoglio e non chiedono altro. Ma nel cappuccio si annida un tale uccello (il demonio), che se fosse visto dal popolo questo capirebbe quanto valgono le indulgenze in cui sperano; perciò in Terra è cresciuta una tale stupidità che, senza prova di alcuna testimonianza, si corre dietro ad ogni promessa. Con questo sant'Antonio Abate (l'Ordine antoniano) ingrassa il maiale e molti altri che sono ancora più porci (concubine, figli...), pagando monete senza conio (vendendo false indulgenze). Ma dal momento che ci siamo allontanati molto con questa digressione, riporta lo sguardo verso la strada dritta (l'argomento angelologico), cosicché la via sia percorsa in breve tempo. La natura degli angeli cresce di numero da un ordine all'altro, al punto che nessun discorso o intelletto umano può concepirlo; e se tu consideri ciò che è rivelato da Daniele, vedrai che nelle migliaia di angeli di cui parla il numero determinato resta celato. La luce di Dio, che irraggia tutti gli angeli, viene da essi recepita in modo diverso, per quanti sono gli splendori a cui si unisce. Dunque, poiché all'atto della visione di Dio segue l'amore, la dolcezza di questo amore è ardente e tiepida negli angeli in maniera lievemente diversa. Vedi ormai l'altezza e la generosità dell'eterna potenza di Dio, dal momento che si riflette in così tanti specchi (gli angeli), pur restando uguale a se stessa e unica come prima». |