Paradiso, Canto XII
B. Angelico, S. Domenico
...e cominciò: "L'amor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de l'altro duca
per cui del mio sì ben ci si favella..."
"...Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l'agricola che Cristo
elesse a l'orto suo per aiutarlo..."
"...Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne' grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura..."
mi tragge a ragionar de l'altro duca
per cui del mio sì ben ci si favella..."
"...Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l'agricola che Cristo
elesse a l'orto suo per aiutarlo..."
"...Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne' grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura..."
Argomento del Canto
Ancora nel IV Cielo del Sole. Apparizione della seconda corona di spiriti sapienti; san Bonaventura pronuncia il panegirico di san Domenico. Biasimo dei francescani degeneri. Gli spiriti della seconda corona.
È il primo mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È il primo mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Apparizione della seconda corona di spiriti sapienti (1-21)
G. Doré, La seconda corona
San Tommaso ha appena terminato di parlare, quando la prima corona di spiriti sapienti riprende a ruotare e non compie un giro completo prima che una seconda corona di dodici anime la circondi, cantando in modo così armonioso che sarebbe impossibile descriverlo. Le due corone sembrano due arcobaleni concentrici e degli stessi colori, l'uno riflesso dall'altro, che ricordano il mito di Iride inviata da Giunone sulla Terra e il racconto biblico del patto tra Dio e l'uomo, dopo il Diluvio Universale.
San Bonaventura inizia il panegirico di san Domenico (22-45)
Dopo che la danza delle luci fiammeggianti ha termine e che le luci stesse si sono fermate in base a una volontà concorde, dall'interno di uno dei lumi appena giunti viene una voce che induce subito Dante a prestare la massima attenzione. Il beato (san Bonaventura) dichiara l'ardore di carità lo spinge a parlare del fondatore dell'Ordine domenicano, poiché san Tommaso ha appena parlato in termini lusinghieri di san Francesco: dal momento che entrambi combatterono per lo stesso fine, è giusto che la loro gloria risplenda insieme. Bonaventura spiega che la Chiesa appariva incerta ed esitante, quando Dio la soccorse facendo nascere due campioni (san Francesco e san Domenico) le cui azioni indussero il popolo cristiano a ravvedersi.
San Bonaventura inizia il panegirico di san Domenico (22-45)
Dopo che la danza delle luci fiammeggianti ha termine e che le luci stesse si sono fermate in base a una volontà concorde, dall'interno di uno dei lumi appena giunti viene una voce che induce subito Dante a prestare la massima attenzione. Il beato (san Bonaventura) dichiara l'ardore di carità lo spinge a parlare del fondatore dell'Ordine domenicano, poiché san Tommaso ha appena parlato in termini lusinghieri di san Francesco: dal momento che entrambi combatterono per lo stesso fine, è giusto che la loro gloria risplenda insieme. Bonaventura spiega che la Chiesa appariva incerta ed esitante, quando Dio la soccorse facendo nascere due campioni (san Francesco e san Domenico) le cui azioni indussero il popolo cristiano a ravvedersi.
Vita di san Domenico: dalla nascita alle nozze con la Fede (46-72)
Stemma del re di Castiglia
In quella parte dell'Europa dove lo zefiro dà inizio alla primavera (l'Occidente), non molto lontano dalle coste della Penisola iberica bagnate dall'Oceano, sorge la città di Calaruega, sotto la protezione dello stemma di Castiglia in cui il leone è sotto la torre in un quartiere, ed è sopra nell'altro. In quella città nacque san Domenico, il supremo difensore della fede cristiana che fu benevolo con i suoi e spietato con i nemici; la sua mente fu subito piena di virtù, come fu chiaro nel sogno premonitore che la madre fece prima della sua nascita. Ben presto Domenico fu battezzato e divenne sposo della Fede, e la madrina fece anch'ella un sogno rilvelatore delle imprese del santo, per cui dal Cielo venne l'ispirazione a dargli quel nome che è il possessivo di «Signore». Infatti fu chiamato Domenico, e fu in certo modo l'agricoltore che Cristo ordinò per coltivare il proprio orto.
Vita di san Domenico: la lotta contro le eresie (73-105)
S. Domenico combatte le eresie (XV sec.)
Domenico dimostrò sin dall'infanzia l'amore verso Cristo e i suoi insegnamenti, al punto che la sua nutrice spesso lo trovò per terra, come se dicesse: «Sono nato per questo». Suo padre poteva ben chiamarsi Felice e sua madre Giovanna, in quanto il giovane Domenico si dedicò tutto agli studi filosofici, non certo per sete di ricchezze come fa chi studia il diritto canonico, bensì per amore di Dio. Divenne presto un esperto teologo e si servì della sua sapienza per difendere la Chiesa, per cui chiese al papa (che troppo spesso si allontana dalla retta via) non di intascare le ricchezze materiali con vari cavilli legali, bensì il permesso di combattere le eresie che minacciavano la Cristianità. Ottenuto l'avallo papale, iniziò a combattere efficacemente le eresie, soprattutto in Provenza dove esse erano maggiormente allignate. Il suo esempio fu poi seguito dai suoi confratelli, per cui nacquero da lui diversi ruscelli che continuarono dopo la sua morte a irrigare l'orto del popolo cristiano.
Biasimo dei francescani degeneri (106-126)
Bonaventura spiega che, se Domenico fu una ruota del carro della Chiesa che combatté e vinse la sua battaglia contro le eresie, Dante dovrebbe capire l'eccellenza dell'altra ruota (san Francesco), che san Tommaso ha poco prima elogiato col suo discorso. Tuttavia ora il solco tracciato da quella ruota è abbandonata, cosicché c'è il male al posto del bene. L'Ordine francescano un tempo seguiva i passi del suo fondatore, ma oggi procede in senso opposto e ben presto si distingueranno i francescani fedeli alla Regola da quelli degeneri. Certo, spiega Bonaventura, a cercare con cura si troverebbero ancora dei francescani fedeli agli insegnamenti di san Francesco, ma fra questi non certo Ubertino da Casale (capo degli spirituali) né Matteo d'Acquasparta (capo dei conventuali), i quali vogliono rispettivamente inasprire e ammorbidire la Regola del santo, in modo tale che sbagliano entrambi.
Biasimo dei francescani degeneri (106-126)
Bonaventura spiega che, se Domenico fu una ruota del carro della Chiesa che combatté e vinse la sua battaglia contro le eresie, Dante dovrebbe capire l'eccellenza dell'altra ruota (san Francesco), che san Tommaso ha poco prima elogiato col suo discorso. Tuttavia ora il solco tracciato da quella ruota è abbandonata, cosicché c'è il male al posto del bene. L'Ordine francescano un tempo seguiva i passi del suo fondatore, ma oggi procede in senso opposto e ben presto si distingueranno i francescani fedeli alla Regola da quelli degeneri. Certo, spiega Bonaventura, a cercare con cura si troverebbero ancora dei francescani fedeli agli insegnamenti di san Francesco, ma fra questi non certo Ubertino da Casale (capo degli spirituali) né Matteo d'Acquasparta (capo dei conventuali), i quali vogliono rispettivamente inasprire e ammorbidire la Regola del santo, in modo tale che sbagliano entrambi.
Gli spiriti della seconda corona (127-145)
G. Da Fiore (affr. XVI sec.)
Il beato si presenta infine come Bonaventura da Bagnoregio, che nelle cariche ecclesiastiche ricoperte mise sempre in secondo piano i desideri mondani: presenta gli altri spiriti che formano la seconda corona, fra cui Illuminato da Rieti e Agostino da Assisi, che furono tra i primi seguaci di san Francesco, nonché Ugo di San Vittore, Pietro Mangiadore e Pietro da Lisbona, che scrisse i dodici libri delle Summulae logicales. Insieme a loro vi sono anche il profeta Natan, il patriarca di Costantinopoli san Giovanni Crisostomo, Anselmo da Aosta ed Elio Donato, che scrisse un trattato di grammatica. Vi sono anche Rabano Mauro e il calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di capacità profetiche. Bonaventura conclude il suo discorso spiegando che egli ha pronunciato l'elogio di san Domenico, paladino della Chiesa cristiana, per la cortesia di san Tommaso e le sue chiare parole, che hanno indotto lui e gli altri beati della seconda corona a danzare e a cantare.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti XI-XIV, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto è dedicato quasi interamente alla figura di san Domenico, di cui il francescano Bonaventura tesse l'elogio in modo speculare a quanto fatto da san Tommaso nel Canto precedente con san Francesco, per cui i Canti XI-XII formano una sorta di «chiasmo» (Bonaventura farà seguire al panegirico di Domenico la rampogna contro i francescani degeneri, così come Tommaso aveva criticato la corruzione dei domenicani). L'episodio si apre con l'apparizione di una seconda corona di spiriti sapienti, cui appartiene il protagonista del Canto san Bonaventura, che circonda la prima e accorda la propria danza e il proprio canto con essa, in modo così melodioso da risultare impossibile descriverlo a parole: Dante ricorre alla preziosa similitudine dei due archi paralelli e concolori, due arcobaleni concentrici che sono l'uno il riflesso dell'altro e che rimandano a un duplice riferimento mitologico (l'ancella di Giunone, Iride, che scende dall'Olimpo sulla Terra e forma l'arcobaleno e la ninfa Eco), nonché al racconto biblico del Diluvio Universale, dopo il quale Dio, per garantire a Noè che quell'evento non si sarebbe ripetuto, fece appunto apparire un arcobaleno. Entrambi gli esempi evocano una sorta di legame tra Cielo e Terra, mentre quello biblico sottolinea il nuovo patto sancito tra Dio e l'uomo dopo il peccato punito, oltre a innalzare notevolmente il linguaggio con una serie di riferimenti colti che introducono l'importante discorso che occuperà buona parte del Canto (lo stesso avverrà all'inizio di quello seguente, in cui la doppia corona verrà paragonata alle costellazioni più luminose della volta celeste).
Viene poi introdotto il personaggio di Bonaventura, che senza presentarsi subito, quindi in maniera opposta a quanto fatto nel Canto X da Tommaso d'Aquino, si dice intenzionato a rispondere alla cortesia del domenicano che ha parlato così bene del fondatore del suo Ordine, per cui egli farà lo stesso col fondatore di quello domenicano: il motivo è analogo a quello già detto da Tommaso, ovvero il fatto che entrambi i santi ad una militaro (combatterono insieme, per lo stesso fine) e dunque è giusto che la loro gloria risplenda insieme, essendo entrambi stati creati da Dio come campioni della Chiesa sulla Terra. In effetti la metafora militare è largamente usata da Bonaventura nel panegirico di san Domenico, a cominciare dal termine militaro che allude alle battaglie da lui svolte per combattere le eresie, per poi indicare la Chiesa come essercito di Cristo che fu «riarmato» a caro prezzo (si allude alla morte di Cristo sulla croce che riconciliò Dio e l'uomo e diede all'umanità le armi per difendersi dal demonio), nonostante ora si muova esitante dietro le insegne del Cristianesimo. Dio stesso è definito 'mperador, temine carico di significati militari e guerreschi nel linguaggio classico, mentre Domenico e Francesco sono appunto i due campioni della Chiesa, il cui scopo era quello di raccogliere l'esercito cristiano ormai sbandato e riorganizzarlo, immagine che in realtà si adatta bene solo al santo spagnolo che fu, come è noto, particolarmente impegnato nella lotta ai movimenti ereticali (non a caso Domenico è detto amoroso drudo, «vassallo» di Dio, e santo atleta, santo combattente e difensore della Fede, mentre lo stesso Bonaventura nella Legenda maior aveva definito Francesco novus Christi... athleta). La biografia di Domenico si apre con la presentazione dei luoghi in cui egli nacque, che vuole essere parallela rispetto a XI, 43-54, anche se lì Dante si mostrava profondo conoscitore della geografia di Assisi e del territorio circostante, mentre qui la descrizione è più generica: la città castigliana di Calaroga viene indicata con il riferimento all'estremità occidentale dell'Europa, dove in primavera spira il vento zefiro e l'Oceano percuote le coste spagnole, mentre la Castiglia è evocata dal suo stemma in cui soggiace il leone e soggioga (è stato osservato che, mentre Francesco era paragonato a un Sole nascente e la città di Assisi era detta appunto Oriente, Domenico nasce invece nell'Occidente del mondo cristiano, per cui sembra che i due santi provengano da punti opposti per convergere entrambi al cuore della Cristianità). Segue poi la vita del santo in cui Dante si rifà agli elementi leggendari e aneddotici diffusi nella agiografia del tempo, quindi citando il sogno profetico fatto dalla madre prima della nascita e quello della madrina dopo il battesimo, in occasione del quale vennero celebrate delle mistiche nozze tra Domenico e la Fede, in maniera parallela a quanto detto per Francesco e la Povertà. Il nome del santo è messo in relazione col possessivo di Dominus, quindi indicherebbe l'appartenenza e la totale devozione di Domenico a Dio, mentre lo stesso viene fatto per il nome del padre, Felice, e della madre, Giovanna, che nei lessici medievali veniva interpretato come «Grazia di Dio»; Domenico dimostra la sua dedizione alla Fede e a Dio fin da piccolo, quando viene spesso trovato dalla nutrice sveglio e per terra, a indicare il suo destino di umiltà e l'attaccamento alla povertà. Domenico si dedica poi allo studio della teologia, non per arricchirsi come poi faranno i domenicani degeneri attraverso l'interpretazione sottile del diritto canonico, ma per volontà di servire la Chiesa e difenderla dai suoi nemici: Dante sottolinea che il santo chiederà al papa la licenza di combattere contro le eresie, quindi l'approvazione del proprio Ordine, e non la possibilità di arricchirsi grazie a sofisticati cavilli legali (il poeta usa i termini propri del linguaggio canonico, mentre Ostiense e Taddeo citati prima sono due famosi canonisti, autori di quei volumi che, secondo Folchetto di Marsiglia, avevano i margini più sgualciti rispetto al Vangelo e ai libri di dottrina; cfr. IX, 133-135). Evidente è allora il parallelo tra Domenico e Francesco, entrambi lontani dalle lusinghe dei beni terreni e tutti votati alla loro missione religiosa, con la differenza che Francesco abbraccerà un ideale di povertà evangelica, mentre Domenico con dottrina e con volere si batterà per estirpare la mala pianta dell'eresia, soprattutto quella albigese in Provenza, lasciando dietro di sé un'eredità che almeno all'inizio sarà raccolta dai suoi confratelli, impegnati a proseguire l'opera del fondatore per curare l'orto di Cristo (lo stesso Domenico era stato definito agricola, «contadino» voluto da Cristo per custodire la sua vigna, mentre va ricordato che entrambi gli Ordini, francescano e domenicano, erano nati come «mendicanti»).
Il panegirico di Domenico è poi seguito dal biasimo dei francescani degeneri, accusati da Bonaventura di aver tradito la Regola del fondatore e di volerla inasprire (è la critica rivolta agli «spirituali», guidati da Ubertino da Casale) oppure di volerla attenuare (come proposto dai «conventuali», il cui capo era Matteo d'Acquasparta). Entrambe le correnti nate nel francescanesimo vengono condannate da Dante, che mette in bocca a Bonaventura la complessa e sofisticata metafora della ruota del carro della Chiesa rappresentata da Francesco, il cui solco sul terreno è stato abbandonato e presenta la muffa al posto della gromma, ovvero il tartaro che si forma all'interno delle botti e che ammuffisce se non viene curato; il poeta prende quindi le distanze sia dagli spirituali sia dai conventuali, ed è quindi assai improbabile che l'ulteriore metafora del loglio separato dal grano (cioè i francescani buoni che saranno distinti dai cattivi) si riferisca alla bolla di Giovanni XXII che espelleva dall'Ordine gli spirituali dissidenti. Alla fine del suo discorso Bonaventura presenta infine se stesso e gli altri spiriti sapienti della sua corona, tra cui spicca soprattutto il calavrese abate Gioacchino, quel Gioacchino da Fiore che fondò l'Ordine florense e fu autore delle cosiddette profezie gioachimite, in cui preannunciava una prossima palingenesi della Cristianità: le sue idee si diffusero ampiamente tra i franscescani spirituali e furono aspramente combattute proprio da Bonaventura, che ora invece è posto accanto a Gioacchino in perfetta concordia, in modo dunque parallelo a quanto si è visto per san Tommaso e Sigieri di Brabante in X, 133-138. Il parallelismo è evidente anche nella rassegna dei beati che formano le due corone, che nel caso di Tommaso precede e nel caso di Bonaventura segue il panegirico e il biasimo che sono al centro dei Canti XI-XII, per cui si può veramente parlare di struttura «chiastica»; nei due episodi l'accenno a Gioacchino da Fiore conferma ulterioremente, poi, che in Paradiso i contrasti terreni sono ormai superati, come si è visto nell'episodio di Piccarda Donati che nessun risentimento nutriva per chi l'aveva rapita dal chiostro, e forse in quello di Giustiniano che faceva ammenda dei suoi errori verso il generale Belisario, attraverso l'elogio di Romeo di Villanova.
Viene poi introdotto il personaggio di Bonaventura, che senza presentarsi subito, quindi in maniera opposta a quanto fatto nel Canto X da Tommaso d'Aquino, si dice intenzionato a rispondere alla cortesia del domenicano che ha parlato così bene del fondatore del suo Ordine, per cui egli farà lo stesso col fondatore di quello domenicano: il motivo è analogo a quello già detto da Tommaso, ovvero il fatto che entrambi i santi ad una militaro (combatterono insieme, per lo stesso fine) e dunque è giusto che la loro gloria risplenda insieme, essendo entrambi stati creati da Dio come campioni della Chiesa sulla Terra. In effetti la metafora militare è largamente usata da Bonaventura nel panegirico di san Domenico, a cominciare dal termine militaro che allude alle battaglie da lui svolte per combattere le eresie, per poi indicare la Chiesa come essercito di Cristo che fu «riarmato» a caro prezzo (si allude alla morte di Cristo sulla croce che riconciliò Dio e l'uomo e diede all'umanità le armi per difendersi dal demonio), nonostante ora si muova esitante dietro le insegne del Cristianesimo. Dio stesso è definito 'mperador, temine carico di significati militari e guerreschi nel linguaggio classico, mentre Domenico e Francesco sono appunto i due campioni della Chiesa, il cui scopo era quello di raccogliere l'esercito cristiano ormai sbandato e riorganizzarlo, immagine che in realtà si adatta bene solo al santo spagnolo che fu, come è noto, particolarmente impegnato nella lotta ai movimenti ereticali (non a caso Domenico è detto amoroso drudo, «vassallo» di Dio, e santo atleta, santo combattente e difensore della Fede, mentre lo stesso Bonaventura nella Legenda maior aveva definito Francesco novus Christi... athleta). La biografia di Domenico si apre con la presentazione dei luoghi in cui egli nacque, che vuole essere parallela rispetto a XI, 43-54, anche se lì Dante si mostrava profondo conoscitore della geografia di Assisi e del territorio circostante, mentre qui la descrizione è più generica: la città castigliana di Calaroga viene indicata con il riferimento all'estremità occidentale dell'Europa, dove in primavera spira il vento zefiro e l'Oceano percuote le coste spagnole, mentre la Castiglia è evocata dal suo stemma in cui soggiace il leone e soggioga (è stato osservato che, mentre Francesco era paragonato a un Sole nascente e la città di Assisi era detta appunto Oriente, Domenico nasce invece nell'Occidente del mondo cristiano, per cui sembra che i due santi provengano da punti opposti per convergere entrambi al cuore della Cristianità). Segue poi la vita del santo in cui Dante si rifà agli elementi leggendari e aneddotici diffusi nella agiografia del tempo, quindi citando il sogno profetico fatto dalla madre prima della nascita e quello della madrina dopo il battesimo, in occasione del quale vennero celebrate delle mistiche nozze tra Domenico e la Fede, in maniera parallela a quanto detto per Francesco e la Povertà. Il nome del santo è messo in relazione col possessivo di Dominus, quindi indicherebbe l'appartenenza e la totale devozione di Domenico a Dio, mentre lo stesso viene fatto per il nome del padre, Felice, e della madre, Giovanna, che nei lessici medievali veniva interpretato come «Grazia di Dio»; Domenico dimostra la sua dedizione alla Fede e a Dio fin da piccolo, quando viene spesso trovato dalla nutrice sveglio e per terra, a indicare il suo destino di umiltà e l'attaccamento alla povertà. Domenico si dedica poi allo studio della teologia, non per arricchirsi come poi faranno i domenicani degeneri attraverso l'interpretazione sottile del diritto canonico, ma per volontà di servire la Chiesa e difenderla dai suoi nemici: Dante sottolinea che il santo chiederà al papa la licenza di combattere contro le eresie, quindi l'approvazione del proprio Ordine, e non la possibilità di arricchirsi grazie a sofisticati cavilli legali (il poeta usa i termini propri del linguaggio canonico, mentre Ostiense e Taddeo citati prima sono due famosi canonisti, autori di quei volumi che, secondo Folchetto di Marsiglia, avevano i margini più sgualciti rispetto al Vangelo e ai libri di dottrina; cfr. IX, 133-135). Evidente è allora il parallelo tra Domenico e Francesco, entrambi lontani dalle lusinghe dei beni terreni e tutti votati alla loro missione religiosa, con la differenza che Francesco abbraccerà un ideale di povertà evangelica, mentre Domenico con dottrina e con volere si batterà per estirpare la mala pianta dell'eresia, soprattutto quella albigese in Provenza, lasciando dietro di sé un'eredità che almeno all'inizio sarà raccolta dai suoi confratelli, impegnati a proseguire l'opera del fondatore per curare l'orto di Cristo (lo stesso Domenico era stato definito agricola, «contadino» voluto da Cristo per custodire la sua vigna, mentre va ricordato che entrambi gli Ordini, francescano e domenicano, erano nati come «mendicanti»).
Il panegirico di Domenico è poi seguito dal biasimo dei francescani degeneri, accusati da Bonaventura di aver tradito la Regola del fondatore e di volerla inasprire (è la critica rivolta agli «spirituali», guidati da Ubertino da Casale) oppure di volerla attenuare (come proposto dai «conventuali», il cui capo era Matteo d'Acquasparta). Entrambe le correnti nate nel francescanesimo vengono condannate da Dante, che mette in bocca a Bonaventura la complessa e sofisticata metafora della ruota del carro della Chiesa rappresentata da Francesco, il cui solco sul terreno è stato abbandonato e presenta la muffa al posto della gromma, ovvero il tartaro che si forma all'interno delle botti e che ammuffisce se non viene curato; il poeta prende quindi le distanze sia dagli spirituali sia dai conventuali, ed è quindi assai improbabile che l'ulteriore metafora del loglio separato dal grano (cioè i francescani buoni che saranno distinti dai cattivi) si riferisca alla bolla di Giovanni XXII che espelleva dall'Ordine gli spirituali dissidenti. Alla fine del suo discorso Bonaventura presenta infine se stesso e gli altri spiriti sapienti della sua corona, tra cui spicca soprattutto il calavrese abate Gioacchino, quel Gioacchino da Fiore che fondò l'Ordine florense e fu autore delle cosiddette profezie gioachimite, in cui preannunciava una prossima palingenesi della Cristianità: le sue idee si diffusero ampiamente tra i franscescani spirituali e furono aspramente combattute proprio da Bonaventura, che ora invece è posto accanto a Gioacchino in perfetta concordia, in modo dunque parallelo a quanto si è visto per san Tommaso e Sigieri di Brabante in X, 133-138. Il parallelismo è evidente anche nella rassegna dei beati che formano le due corone, che nel caso di Tommaso precede e nel caso di Bonaventura segue il panegirico e il biasimo che sono al centro dei Canti XI-XII, per cui si può veramente parlare di struttura «chiastica»; nei due episodi l'accenno a Gioacchino da Fiore conferma ulterioremente, poi, che in Paradiso i contrasti terreni sono ormai superati, come si è visto nell'episodio di Piccarda Donati che nessun risentimento nutriva per chi l'aveva rapita dal chiostro, e forse in quello di Giustiniano che faceva ammenda dei suoi errori verso il generale Belisario, attraverso l'elogio di Romeo di Villanova.
Note e passi controversi
Al v. 3 la santa mola è la prima corona, detta così perché ruota orizzontalmente come la macina di un mulino.
Il v. 9 allude al raggio riflesso (quel ch'e' refuse) che è più luminoso di quello diretto (il primo splendor).
Al v. 10 paralelli al posto di «paralleli» è la forma consueta nel volgare toscano del Trecento, ampiamente attestata da quasi tutti i codici della Commedia.
Il v. 12 accenna al noto mito di Iride, l'ancella di Giunone che, quando scendeva sulla Terra per recare un messaggio della dea, tracciava l'arcobaleno (Iunone e iube, «ordina», sono due latinismi).
I vv. 14-15 alludono al mito della ninfa Eco, che, innamorata di Narciso e non corrisposta, fu consumata dall'amore fino a ridursi alla sola voce che ripeteva gli altri suoni (Ovidio, Met., III, 339 ss.).
Al v. 24 blande vuol dire «piene di carità».
I vv. 26-27 indicano semplicemente che le due corone si fermano simultaneamente, come gli occhi si aprono e si chiudono insieme.
I vv. 29-30 alludono alla bussola, da poco introdotta in Occidente nel XIV sec., il cui ago si credeva attratto dalla Stella Polare.
Al v. 33 per cui vuol dire «a causa del quale», riferito a Francesco.
Il vb. si raccorse (v. 45) vuol dire probabilmente «si ravvide», ma alcuni interpretano «si raccolse».
Il grande scudo del v. 53 è lo stemma del re di Castiglia, in cui vi sono quattro quartieri: in quelli di sinistra il leone sta sotto la torre, in quelli di destra sta sopra (vedi figura).
Al v. 55 drudo non vuol dire «amante», ma «vassallo» ed è termine militare; al v. 56 atleta vuol dire invece «difensore».
Il v. 60 allude al sogno profetico che Giovanna, la madre di Domenico, avrebbe fatto prima della sua nascita: la donna sognò di partorire un cane bianco e nero (i colori dell'Ordine domenicano) con in bocca una fiaccola, che poi incendiava il mondo. La leggenda ha punti di contatto con la nascita di Ezzelino da Romano (cfr. IX, 28-30) e con quella di Paride, anche se qui il sogno ha significato positivo.
I vv. 64-66 si riferiscono al sogno fatto dalla madrina di battesimo del santo (la donna che per lui l'assenso diede), in cui vide il bambino con una stella in fronte, simbolo della sua missione religiosa. Alcune biografie riferiscono tale sogno alla madre del santo.
Ai vv. 71, 73 e 75 la parola Cristo rima con se stessa, come sempre avviene nella Commedia (alcuni critici pensano che Dante faccia ammenda della rima Cristo / tristo / malacquisto di Rime, XXVIII, 9-14 (la Tenzone con Forese Donati).
Il primo consiglio dato da Cristo (v. 75) potrebbe essere quello all'umilità della prima beatitudine, oppure quello alla povertà dato al giovane ricco (Matth., XIX, 21); sembra più verosimile la seconda ipotesi, visto che Domenico bambino viene trovato in terra dalla nutrice.
Al v. 83 Ostiense e... Taddeo sono Enrico da Susa, nominato nel 1262 vescovo di Ostia (da cui il soprannome) e prob. il fiorentino Taddeo d'Alderotto, entrambi autori di apprezzati volumi di diritto canonico.
L'immagine della vigna (vv. 86-87) che imbianca, si secca se non è curata dal vignaiolo, è evangelica (Matth., XX, 1-16); il vb. circuir è prob. un latinismo puro e significa «custodire».
La sedia del v. 88 è il soglio del papa, di cui si dice che un tempo fu più pronto a dispensare le ricchezze ai poveri. Nei vv. seguenti Dante si rifà al linguaggio canonico, alludendo all'usanza di dare solo un terzo o la metà di quanto si doveva ai poveri (v. 91), di occupare il primo beneficio ecclesiastico libero (v. 92), di impadronirsi delle decime (v. 93).
Il seme (v. 95) è la Fede, mentre le ventiquattro piante sono i beati delle due corone.
I vv. 112-114 vogliono dire che il solco un tempo tracciato da una ruota del carro della Chiesa (l'Ordine francescano) ora è abbandonata, perché i francescani degeneri seguono un'altra via. La gromma è lo strato di tartaro che il vino buono forma sulle pareti interne delle botti e che diventa muffa se la botte non è curata (immagine affine a quella del buon vignaiolo, vv. 86-87).
I vv. 115-117 sono di difficile interpretazione, anche se il senso è chiaro: i francescani non seguono pù la strada tracciata dal loro fondatore (prob. il significato è che essi camminano a ritroso, spingendo il piede davanti verso quello dietro).
I vv. 118-120 alludono alla parabola evangelica della zizzania (Matth., XIII, 24-30), per cui Dante vuol dire che presto si distingueranno i francescani degeneri da quelli fedeli alla Regola. Improbabile che il poeta si riferisca alla bolla di condanna di papa Giovanni XXII, sia per il disprezzo manifestato altrove per quel pontefice, sia perché egli condanna anche gli spirituali.
Il v. 124 allude a Ubertino da Casale (1259-inizio XIV sec.), che parteggiò per gli spirituali e fu ad Avignone sotto la protezione dei cardinali Orsini e Colonna; dopo la bolla di Giovanni XXII fu condannato per eresia e fece perdere le proprie tracce. Matteo d'Acquasparta (morto nel 1302) fu invece a capo dei conventuali; generale dell'Ordine francescano e cardinale, aiutò le mire teocratiche di Bonifacio VIII e fu a Firenze come paciere tra Bianchi e Neri.
Il vb. inveggiar del v. 142 è di significato dubbio e potrebbe voler dire «emulare», oppure «inneggiare», oppure ancora «chiamare in campo» (in riferimento a Domenico, definito «campione» della Chiesa). Il paladino è ovviamente il santo spagnolo.
Al v. 144 latino vuol dire «discorso».
Il v. 9 allude al raggio riflesso (quel ch'e' refuse) che è più luminoso di quello diretto (il primo splendor).
Al v. 10 paralelli al posto di «paralleli» è la forma consueta nel volgare toscano del Trecento, ampiamente attestata da quasi tutti i codici della Commedia.
Il v. 12 accenna al noto mito di Iride, l'ancella di Giunone che, quando scendeva sulla Terra per recare un messaggio della dea, tracciava l'arcobaleno (Iunone e iube, «ordina», sono due latinismi).
I vv. 14-15 alludono al mito della ninfa Eco, che, innamorata di Narciso e non corrisposta, fu consumata dall'amore fino a ridursi alla sola voce che ripeteva gli altri suoni (Ovidio, Met., III, 339 ss.).
Al v. 24 blande vuol dire «piene di carità».
I vv. 26-27 indicano semplicemente che le due corone si fermano simultaneamente, come gli occhi si aprono e si chiudono insieme.
I vv. 29-30 alludono alla bussola, da poco introdotta in Occidente nel XIV sec., il cui ago si credeva attratto dalla Stella Polare.
Al v. 33 per cui vuol dire «a causa del quale», riferito a Francesco.
Il vb. si raccorse (v. 45) vuol dire probabilmente «si ravvide», ma alcuni interpretano «si raccolse».
Il grande scudo del v. 53 è lo stemma del re di Castiglia, in cui vi sono quattro quartieri: in quelli di sinistra il leone sta sotto la torre, in quelli di destra sta sopra (vedi figura).
Al v. 55 drudo non vuol dire «amante», ma «vassallo» ed è termine militare; al v. 56 atleta vuol dire invece «difensore».
Il v. 60 allude al sogno profetico che Giovanna, la madre di Domenico, avrebbe fatto prima della sua nascita: la donna sognò di partorire un cane bianco e nero (i colori dell'Ordine domenicano) con in bocca una fiaccola, che poi incendiava il mondo. La leggenda ha punti di contatto con la nascita di Ezzelino da Romano (cfr. IX, 28-30) e con quella di Paride, anche se qui il sogno ha significato positivo.
I vv. 64-66 si riferiscono al sogno fatto dalla madrina di battesimo del santo (la donna che per lui l'assenso diede), in cui vide il bambino con una stella in fronte, simbolo della sua missione religiosa. Alcune biografie riferiscono tale sogno alla madre del santo.
Ai vv. 71, 73 e 75 la parola Cristo rima con se stessa, come sempre avviene nella Commedia (alcuni critici pensano che Dante faccia ammenda della rima Cristo / tristo / malacquisto di Rime, XXVIII, 9-14 (la Tenzone con Forese Donati).
Il primo consiglio dato da Cristo (v. 75) potrebbe essere quello all'umilità della prima beatitudine, oppure quello alla povertà dato al giovane ricco (Matth., XIX, 21); sembra più verosimile la seconda ipotesi, visto che Domenico bambino viene trovato in terra dalla nutrice.
Al v. 83 Ostiense e... Taddeo sono Enrico da Susa, nominato nel 1262 vescovo di Ostia (da cui il soprannome) e prob. il fiorentino Taddeo d'Alderotto, entrambi autori di apprezzati volumi di diritto canonico.
L'immagine della vigna (vv. 86-87) che imbianca, si secca se non è curata dal vignaiolo, è evangelica (Matth., XX, 1-16); il vb. circuir è prob. un latinismo puro e significa «custodire».
La sedia del v. 88 è il soglio del papa, di cui si dice che un tempo fu più pronto a dispensare le ricchezze ai poveri. Nei vv. seguenti Dante si rifà al linguaggio canonico, alludendo all'usanza di dare solo un terzo o la metà di quanto si doveva ai poveri (v. 91), di occupare il primo beneficio ecclesiastico libero (v. 92), di impadronirsi delle decime (v. 93).
Il seme (v. 95) è la Fede, mentre le ventiquattro piante sono i beati delle due corone.
I vv. 112-114 vogliono dire che il solco un tempo tracciato da una ruota del carro della Chiesa (l'Ordine francescano) ora è abbandonata, perché i francescani degeneri seguono un'altra via. La gromma è lo strato di tartaro che il vino buono forma sulle pareti interne delle botti e che diventa muffa se la botte non è curata (immagine affine a quella del buon vignaiolo, vv. 86-87).
I vv. 115-117 sono di difficile interpretazione, anche se il senso è chiaro: i francescani non seguono pù la strada tracciata dal loro fondatore (prob. il significato è che essi camminano a ritroso, spingendo il piede davanti verso quello dietro).
I vv. 118-120 alludono alla parabola evangelica della zizzania (Matth., XIII, 24-30), per cui Dante vuol dire che presto si distingueranno i francescani degeneri da quelli fedeli alla Regola. Improbabile che il poeta si riferisca alla bolla di condanna di papa Giovanni XXII, sia per il disprezzo manifestato altrove per quel pontefice, sia perché egli condanna anche gli spirituali.
Il v. 124 allude a Ubertino da Casale (1259-inizio XIV sec.), che parteggiò per gli spirituali e fu ad Avignone sotto la protezione dei cardinali Orsini e Colonna; dopo la bolla di Giovanni XXII fu condannato per eresia e fece perdere le proprie tracce. Matteo d'Acquasparta (morto nel 1302) fu invece a capo dei conventuali; generale dell'Ordine francescano e cardinale, aiutò le mire teocratiche di Bonifacio VIII e fu a Firenze come paciere tra Bianchi e Neri.
Il vb. inveggiar del v. 142 è di significato dubbio e potrebbe voler dire «emulare», oppure «inneggiare», oppure ancora «chiamare in campo» (in riferimento a Domenico, definito «campione» della Chiesa). Il paladino è ovviamente il santo spagnolo.
Al v. 144 latino vuol dire «discorso».
TestoSì tosto come l’ultima
parola
la benedetta fiamma per dir tolse, a rotar cominciò la santa mola; 3 e nel suo giro tutta non si volse prima ch’un’altra di cerchio la chiuse, e moto a moto e canto a canto colse; 6 canto che tanto vince nostre muse, nostre serene in quelle dolci tube, quanto primo splendor quel ch’e’ refuse. 9 Come si volgon per tenera nube due archi paralelli e concolori, quando Iunone a sua ancella iube, 12 nascendo di quel d’entro quel di fori, a guisa del parlar di quella vaga ch’amor consunse come sol vapori; 15 e fanno qui la gente esser presaga, per lo patto che Dio con Noè puose, del mondo che già mai più non s’allaga: 18 così di quelle sempiterne rose volgiensi circa noi le due ghirlande, e sì l’estrema a l’intima rispuose. 21 Poi che ‘l tripudio e l’altra festa grande, sì del cantare e sì del fiammeggiarsi luce con luce gaudiose e blande, 24 insieme a punto e a voler quetarsi, pur come li occhi ch’al piacer che i move conviene insieme chiudere e levarsi; 27 del cor de l’una de le luci nove si mosse voce, che l’ago a la stella parer mi fece in volgermi al suo dove; 30 e cominciò: «L’amor che mi fa bella mi tragge a ragionar de l’altro duca per cui del mio sì ben ci si favella. 33 Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca: sì che, com’elli ad una militaro, così la gloria loro insieme luca. 36 L’essercito di Cristo, che sì caro costò a riarmar, dietro a la ‘nsegna si movea tardo, sospeccioso e raro, 39 quando lo ‘mperador che sempre regna provide a la milizia, ch’era in forse, per sola grazia, non per esser degna; 42 e, come è detto, a sua sposa soccorse con due campioni, al cui fare, al cui dire lo popol disviato si raccorse. 45 In quella parte ove surge ad aprire Zefiro dolce le novelle fronde di che si vede Europa rivestire, 48 non molto lungi al percuoter de l’onde dietro a le quali, per la lunga foga, lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde, 51 siede la fortunata Calaroga sotto la protezion del grande scudo in che soggiace il leone e soggioga: 54 dentro vi nacque l’amoroso drudo de la fede cristiana, il santo atleta benigno a’ suoi e a’ nemici crudo; 57 e come fu creata, fu repleta sì la sua mente di viva vertute, che, ne la madre, lei fece profeta. 60 Poi che le sponsalizie fuor compiute al sacro fonte intra lui e la Fede, u’ si dotar di mutua salute, 63 la donna che per lui l’assenso diede, vide nel sonno il mirabile frutto ch’uscir dovea di lui e de le rede; 66 e perché fosse qual era in costrutto, quinci si mosse spirito a nomarlo del possessivo di cui era tutto. 69 Domenico fu detto; e io ne parlo sì come de l’agricola che Cristo elesse a l’orto suo per aiutarlo. 72 Ben parve messo e famigliar di Cristo: che ‘l primo amor che ‘n lui fu manifesto, fu al primo consiglio che diè Cristo. 75 Spesse fiate fu tacito e desto trovato in terra da la sua nutrice, come dicesse: ‘Io son venuto a questo’. 78 Oh padre suo veramente Felice! oh madre sua veramente Giovanna, se, interpretata, val come si dice! 81 Non per lo mondo, per cui mo s’affanna di retro ad Ostiense e a Taddeo, ma per amor de la verace manna 84 in picciol tempo gran dottor si feo; tal che si mise a circuir la vigna che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo. 87 E a la sedia che fu già benigna più a’ poveri giusti, non per lei, ma per colui che siede, che traligna, 90 non dispensare o due o tre per sei, non la fortuna di prima vacante, non decimas, quae sunt pauperum Dei, 93 addimandò, ma contro al mondo errante licenza di combatter per lo seme del qual ti fascian ventiquattro piante. 96 Poi, con dottrina e con volere insieme, con l’officio appostolico si mosse quasi torrente ch’alta vena preme; 99 e ne li sterpi eretici percosse l’impeto suo, più vivamente quivi dove le resistenze eran più grosse. 102 Di lui si fecer poi diversi rivi onde l’orto catolico si riga, sì che i suoi arbuscelli stan più vivi. 105 Se tal fu l’una rota de la biga in che la Santa Chiesa si difese e vinse in campo la sua civil briga, 108 ben ti dovrebbe assai esser palese l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma dinanzi al mio venir fu sì cortese. 111 Ma l’orbita che fé la parte somma di sua circunferenza, è derelitta, sì ch’è la muffa dov’era la gromma. 114 La sua famiglia, che si mosse dritta coi piedi a le sue orme, è tanto volta, che quel dinanzi a quel di retro gitta; 117 e tosto si vedrà de la ricolta de la mala coltura, quando il loglio si lagnerà che l’arca li sia tolta. 120 Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio nostro volume, ancor troveria carta u’ leggerebbe "I’ mi son quel ch’i’ soglio"; 123 ma non fia da Casal né d’Acquasparta, là onde vegnon tali a la scrittura, ch’uno la fugge e altro la coarta. 126 Io son la vita di Bonaventura da Bagnoregio, che ne’ grandi offici sempre pospuosi la sinistra cura. 129 Illuminato e Augustin son quici, che fuor de’ primi scalzi poverelli che nel capestro a Dio si fero amici. 132 Ugo da San Vittore è qui con elli, e Pietro Mangiadore e Pietro Spano, lo qual giù luce in dodici libelli; 135 Natàn profeta e ‘l metropolitano Crisostomo e Anselmo e quel Donato ch’a la prim’arte degnò porre mano. 138 Rabano è qui, e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino, di spirito profetico dotato. 141 Ad inveggiar cotanto paladino mi mosse l’infiammata cortesia di fra Tommaso e ‘l discreto latino; e mosse meco questa compagnia». 145 |
ParafrasiNon appena la luce benedetta (san Tommaso) pronunciò l'ultima parola, la prima corona cominciò a ruotare orizzontalmente;
e non compì un giro completo, prima che una seconda corona la circondasse, accordando il proprio movimento e il proprio canto a quello dell'altra; un canto che vince le nostre Muse e le nostre Sirene (i canti terreni) in quei dolci strumenti musicali, tanto quanto il raggio diretto supera in splendore quello riflesso. Come due arcobaleni concentrici e con gli stessi colori si inarcano in una nube sottile (quando Giunone invia la sua ancella Iride sulla Terra), poiché quello esterno è il riflesso di quello interno, proprio come il suono della ninfa Eco che fu consumata dall'amore come un vapore lo è dal sole; e come gli arcobaleni rassicurano gli uomini del fatto che non ci sarà un secondo Diluvio, per il patto stretto fra Dio e Noè: così le due corone di quelle luci eterne ruotavano intorno a noi, e quella esterna era in perfetta armonia con quella interna. Dopo che la gioia e la gran festa del canto e dello sfolgorio luminoso, fatto reciprocamente da quelle luci piene di felicità e di carità, si fermarono nello stesso istante e per una volontà concorde, proprio come gli occhi che, obbedendo al piacere, si aprono e si chiudono simultaneamente; dall'interno di una delle nuove luci provenne una voce, che mi indusse a volgermi verso di essa come l'ago della bussola verso la Stella Polare; e il beato (san Bonaventura) iniziò: «La carità che mi abbellisce mi spinge a parlare dell'altro condottiero cristiano (san Domenico), per il quale qui si parla così bene del mio (san Francesco). È giusto che si parli di uno, se si parla anche dell'altro: cosicché, poiché combatterono insieme, anche la loro gloria risplenda all'unisono. L'esercito di Cristo (la Chiesa), che fu riarmato a così caro prezzo (con la morte di Gesù), si muoveva dietro le insegne lento, con esitazione e scarso di numero, quando l'imperatore che regna in eterno (Dio) provvide alla milizia che era in pericolo, non perché ne fosse degna ma per sua grazia; e, come già detto da Tommaso, soccorse la sua sposa (la Chiesa) con due campioni (Domenico e Francesco), le cui azioni e parole indussero il popolo sbandato a ravvedersi. In quella parte d'Europa dove arriva il vento zefiro a far nascere le nuove fronde che poi rinverdiscono il continente (a Occidente), non molto lontano dalle coste bagnate dall'Oceano, dietro alle quali il sole talvolta (nel solstizio d'estate) tramonta dopo un lungo percorso, sorge la fortunata città di Calaruega, sotto la protezione dello stemma di Castiglia in cui il leone sta sotto e sopra la torre: lì nacque l'amoroso vassallo della Fede cristiana, il santo difensore della Chiesa, benevolo con i suoi e crudele con i nemici; e non appena la sua mente fu creata, fu subito ripiena di viva virtù, il che indusse la madre a fare un sogno profetico prima che lui nascesse. Dopo che furono celebrate le nozze al fonte battesimale tra lui e la Fede, là dove si donarono la reciproca salvezza, la donna che gli fece da madrina vide in sogno il frutto meraviglioso che doveva essere prodotto da lui e dai suoi eredi; e perché il suo nome corrispondesse alla sua indole, da qui (dal Cielo) si mosse un'ispirazione a chiamarlo col possessivo (Domenico, "del Signore") al quale apparteneva totalmente. Fu appunto battezzato Domenico; e io parlo di lui come del contadino che Cristo scelse come aiutante nel suo orto. Sembrò proprio un inviato e un servo di Cristo: infatti il primo amore che si vide in lui fu rivolto al primo consiglio dato da Cristo (la povertà o l'umiltà). Molte volte la sua nutrice lo trovò sveglio e per terra, come se dicesse: 'Io sono nato per questo'. Oh, quanto era davvero Felice il padre! Oh, quanto davvero la madre era Giovanna, se l'interpretazione del suo nome (Grazia di Dio) è corretta! In breve tempo diventò un grande esperto di teologia, non per i beni terreni, per cui ci si affanna dietro i manuali di diritto canonico dell'Ostiense e di Taddeo, ma per amore della sapienza divina; a tal punto che iniziò subito a custodire la vigna di Cristo (la Chiesa), che diventa presto secca se il vignaiolo trascura il suo dovere. E al soglio pontificio, che un tempo era più benevolo verso i poveri giusti, non per errore suo ma per quello del papa, che devia dalla giusta strada, chiese non di dare un terzo o la metà dei beni ai poveri, non di occupare il primo beneficio ecclesiastico vacante, non le decime, che sono dei poveri di Dio, ma il permesso di combattere le eresie in nome di quel seme (la Fede) dal quale sono nate le ventiquattro piante (le anime delle due corone) che ora ti circondano. Poi, con la dottrina e con la volontà, ottenuto l'avallo papale, si mosse come un torrente che sgorga da un'alta sorgente; e la sua forza vigorosa colpì gli sterpi eretici, con maggior forza là (in Provenza) dove vi era maggiore resistenza (l'eresia albigese). Da lui nacquero in seguito altri ruscelli che irrigano l'orto della Chiesa, così che le sue piante (i cristiani) sono ravvivate. Se una ruota del carro con cui la Santa Chiesa si difese e vinse la sua battaglia interna contro le eresie fu tale, dovresti capire facilmente l'eccellenza dell'altra (san Francesco), di cui Tommaso parlò così cortesemente prima del mio arrivo. Ma il solco tracciato dalla parte superiore della ruota è ormai abbandonato, tanto che c'è muffa dove prima c'era gromma (c'è il male al posto del bene). I suoi seguaci, che prima seguivano dirittamente coi piedi le orme di Francesco, ora sono tanto deviati che camminano a ritroso; e presto ci si accorgerà del raccolto di questa cattiva coltura, quando il loglio (i francescani degeneri) si lagnerà di non essere messo nel granaio (coi francescani fedeli). Affermo comunque che, se qualcuno sfogliasse foglio per foglio tutto il nostro volume, troverebbe ancora delle pagine in cui si legge "Io sono quello che devo essere"; ma non sarà il caso di Ubertino da Casale né di Matteo d'Acquasparta, da dove provengono frati tali che uno fugge dalla Regola francescana, l'altro la irrigidisce. Io sono l'anima di Bonaventura da Bagnoregio, che nelle alte cariche che ho ricoperto ho sempre messo in secondo piano la cura per i beni mondani. Qui (nella seconda corona) ci sono Illuminato da Rieti e Agostino da Assisi, che furono tra i primi seguaci di Francesco che andarono scalzi in povertà, facendosi amici di Dio nel cinto francescano. Ugo da San Vittore è qui con loro, e Pietro Mangiadore e Pietro da Lisbona, il quale risplende in Terra nei dodici libretti che ha scritto; ci sono il profeta Natan e il metropolita Giovanni Crisostomo, Anselmo d'Aosta e quell'Elio Donato che scrisse un trattato di grammatica (la prima arte). C'è qui Rabano Mauro, e colui che risplende al mio fianco è l'abate calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di capacità profetiche. Mi spinse a lodare un tale paladino della Chiesa (san Domenico) l'ardente cortesia di san Tommaso, e il suo elegante discorso; ed egli spinse me e queste altre anime a venir qui». |