Purgatorio, Canto XVI
G. Doré, Marco Lombardo
Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l'Agnel di Dio che le peccata leva...
"Lombardo fui, e fu' chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l'arco..."
"...Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che 'l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l'unghie fesse..."
pregar per pace e per misericordia
l'Agnel di Dio che le peccata leva...
"Lombardo fui, e fu' chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l'arco..."
"...Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che 'l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l'unghie fesse..."
Argomento del Canto
Il fumo della III Cornice. Incontro con gli iracondi. Incontro con Marco Lombardo. Discorso sul libero arbitrio e la confusione dei poteri. I tre vecchi simbolo di virtù.
È il tardo pomeriggio di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, verso le sei.
È il tardo pomeriggio di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300, verso le sei.
Il fumo della III Cornice. Preghiera degli iracondi (1-24)
S. Dalì, Gli iracondi
Dante e Virgilio avanzano lungo la III Cornice, attraverso il denso fumo che rende quel luogo più buio di una notte priva di qualunque stella e irrita fortemente gli occhi del poeta, che è costretto a chiuderli e ad appoggiarsi al maestro. Dante cammina come un cieco, seguendo la sua guida senza vedere nulla e Virgilio gli raccomanda di non separarsi da lui. Sente delle voci che invocano pace e misericordia, intonando le prime parole dell'Agnus Dei in modo tale che dimostrano un'assoluta concordia. Dante chiede a Virgilio se a parlare sono dei penitenti e il maestro risponde di sì, aggiungendo che si tratta degli iracondi.
Incontro con Marco Lombardo (25-51)
Uno dei penitenti si rivolge a Dante e gli chiede chi sia, visto che attraversa il fumo come se fosse ancora vivo. Virgilio esorta il discepolo a rispondere, chiedendo se quella è la direzione giusta per salire, e Dante dice allo spirito che ha parlato che, se lo seguirà, udirà qualcosa che lo stupirà molto. Il penitente dichiara che seguirà Dante fin tanto che potrà e se anche il fumo non gli permetterà di vederlo, il suono della voce li terrà uniti. Dante a questo punto dice di essere giunto in Purgatorio col proprio corpo mortale dopo aver attraversato l'Inferno, in virtù di una speciale grazia di Dio che vuole mostrargli i regni dell'Oltretomba in modo del tutto eccezionale. Dante prega il penitente di rivelare il proprio nome e di confermare se stanno seguendo la giusta direzione per l'accesso alla Cornice seguente. Lo spirito dichiara di chiamarsi Marco Lombardo, che in vita fu uomo di mondo e conobbe quella virtù cortese che ormai tutti hanno abbandonato. Egli aggiunge che in quella direzione si arriva alla scala e chiede a Dante di pregare per lui, una volta che sarà giunto in Paradiso.
Incontro con Marco Lombardo (25-51)
Uno dei penitenti si rivolge a Dante e gli chiede chi sia, visto che attraversa il fumo come se fosse ancora vivo. Virgilio esorta il discepolo a rispondere, chiedendo se quella è la direzione giusta per salire, e Dante dice allo spirito che ha parlato che, se lo seguirà, udirà qualcosa che lo stupirà molto. Il penitente dichiara che seguirà Dante fin tanto che potrà e se anche il fumo non gli permetterà di vederlo, il suono della voce li terrà uniti. Dante a questo punto dice di essere giunto in Purgatorio col proprio corpo mortale dopo aver attraversato l'Inferno, in virtù di una speciale grazia di Dio che vuole mostrargli i regni dell'Oltretomba in modo del tutto eccezionale. Dante prega il penitente di rivelare il proprio nome e di confermare se stanno seguendo la giusta direzione per l'accesso alla Cornice seguente. Lo spirito dichiara di chiamarsi Marco Lombardo, che in vita fu uomo di mondo e conobbe quella virtù cortese che ormai tutti hanno abbandonato. Egli aggiunge che in quella direzione si arriva alla scala e chiede a Dante di pregare per lui, una volta che sarà giunto in Paradiso.
Spiegazione di Marco sul libero arbitrio (52-81)
Dante promette di fare quel che Marco gli chiede, ma lo prega a sua volta di sciogliere un dubbio che lo assale e che è raddoppiato a causa delle sue parole, dopo essere stato suscitato da quelle di Guido del Duca. Il mondo è privo di ogni virtù cavalleresca, come Marco ha dichiarato, e pieno di malizia; Dante vorrebbe saperne la ragione per mostrarla agli altri, poiché alcuni la attribuiscono alle influenze celesti e altri alla condotta degli uomini. Marco emette un forte sospiro e un verso di disappunto, quindi afferma che il mondo è cieco e Dante sembra proprio venire da lì. Gli uomini, infatti, riconducono la causa di tutto al cielo, come se esso determinasse necessariamente gli eventi: ma se così fosse il libero arbitrio sarebbe nullo, e non sarebbe giusto essere premiati per la virtù e puniti per la colpa. Il cielo, prosegue Marco, dà inizio alle azioni umane, almeno ad alcune, ma in ogni caso l'uomo può scegliere tra bene e male, e la volontà è in grado di vincere ogni disposizione celeste. Gli uomini sono dunque guidati dal proprio intelletto, che è una forza ben maggiore di quella delle influenze astrali.
Causa politica della corruzione umana (82-114)
Se il mondo attuale è degenere, la causa è dunque tutta degli uomini e
Marco lo può dimostrare chiaramente. Egli spiega a Dante che l'anima,
una volta creata, è come una fanciulla inconsapevole, che è mossa dalla
bontà di Dio e si indirizza verso ciò che le dà piacere. Essa rivolge il
proprio amore anche a beni materiali e sbagliati, se non viene frenata e
guidata opportunamente: per questo esistono le leggi ed è necessario
che un sovrano le applichi con rigore. Le leggi nel mondo esistono, ma
chi le fa rispettare? Nessuno, dal momento che il papa guida il gregge
dei fedeli, confondendo però il potere spirituale con quello temporale.
Il popolo vede che il pontefice corre dietro ai beni terreni, quindi fa
altrettanto e non chiede altro; dunque la causa del male del mondo è la
cattiva condotta degli uomini e non la cattiva influenza dei cieli. Roma
aveva due soli (l'imperatore e il papa) che illuminavano due diverse
strade, quella del mondo e quella di Dio: essi si sono spenti a vicenda,
perché la spada si è unita al pastorale e questo connubio è decisamente
negativo, poiché i due poteri non si temono l'un l'altro.
I tre vecchi, simbolo di antica virtù (115-145)
G. Doré, Uscita dalla III Cornice
Per confermare quanto ha detto, Marco aggiunge che nel paese (Lombardia) attraversato da Adige e Po regnavano valore e cortesia, prima che Federico II fosse ostacolato dalla Chiesa. Ora invece qualunque uomo malvagio può passare di lì, sicuro di non incontrare alcun uomo virtuoso. Ci sono ancora tre vecchi in cui l'età antica rimprovera quella nuova, tanto che desiderano ormai passare a miglior vita: sono Corrado da Palazzo, il buon Gherardo e Guido da Castello, quest'ultimo meglio conosciuto come il semplice Lombardo. Si può concludere che la Chiesa cade nel peccato, volendo confondere in sé i due poteri. Dante risponde dicendo che il ragionamento di Marco è veritiero, e che comprende perché i sacerdoti ebrei furono esclusi dall'eredità dei beni temporali; tuttavia chiede chi sia il Gherardo che, secondo il penitente, rimprovera al presente la sua mancanza di virtù. Marco ribatte che o non ha capito le parole di Dante, oppure il poeta lo stuzzica per fargli dire altro, pocihé il poeta parla toscano e afferma di non conoscere Gherardo. Non saprebbe indicarlo con altro soprannome, se non dicendo che la figlia ha nome Gaia. A questo punto Marco si congeda dai due poeti, in quanto vede attraverso il fumo la luce del sole e deve allontanarsi prima di apparire all'angelo che si trova lì. Il penitente se ne va senza ascoltare altro.
Interpretazione complessiva
Il Canto ha argomento prevalentemente politico, prendendo le mosse da un dubbio di Dante che si ricollega alle parole con cui Guido del Duca nel XIV aveva criticato la decadenza morale della sua Romagna e quella politica di Toscana, mentre qui le accuse del protagonista Marco Lombardo saranno rivolte contro la Lombardia, ovvero la Pianura Padana da cui proveniva. Quella di Marco è una voce che Dante ascolta nel buio della Cornice, in cui procede come un cieco appoggiato a Virgilio: è chiaro il contrappasso della pena (l'ira acceca la mente e porta ad atti inconsulti), così come la necessità di seguire strettamente la ragione, simboleggiata in questo caso dal poeta latino. L'oscurità del fumo è descritta attraverso una serie di similitudini per contrasto, col dire che neppure un cielo notturno e privo di stelle, tutto coperto di nuvole, potrebbe rendere l'idea del buio della Cornice; Dante sente solo le voci degli iracondi, che intonano le prime parole dell'Agnus Dei che ben si adatta alla loro espiazione, dal momento che Cristo è invocato come esempio supremo di mansuetudine e prontezza al sacrificio, mentre i penitenti sembrano assolutamente concordi.
L'incontro con Marco Lombardo dà modo a Dante di affrontare un complesso e delicato discorso politico e dottrinale, che il poeta affida a un personaggio di scarso spessore biografico: di lui si sa solo che fu un uomo di corte del nord Italia molto saggio e valente, citato in alcuni racconti del Novellino, che secondo alcuni commentatori ebbe una condizione simile a quella di Dante durante l'esilio, costretto a diventare anch'egli cortigiano presso signori di «Lombardia» e Romagna. Può essere questa la chiave di lettura che spiega la scelta dell'interlocutore per affrontare il discorso sul libero arbitrio e poi la confusione dei due poteri, che come detto si riallaccia al lamento di Guido del Duca circa la decadenza delle virtù cavalleresche nell'attuale civiltà comunale. Dante ha un dubbio che lo tormenta, se cioè tale declino morale sia da imputare alla condotta umana o a quelle influenze celesti che la dottrina cristiana ammetteva: Marco spiega che gli influssi astrali esistono, ma non sono certo tali da determinare di necessità le azioni umane, il che renderebbe ingiusto premiare la virtù e punire il peccato. Dante segue strettamente l'interpretazione tomistica della questione, riconducendo tutto alla libera scelta dell'uomo che è perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, per cui sbaglia chi attribuisce agli influssi celesti una responsabilità che essi non hanno; se il mondo è dominato dal vizio la colpa è degli uomini, punto che naturalmente è centrale nell'architettura morale del poema come di tutto il pensiero religioso e dottrinale di Dante.
A conferma di ciò, Marco affronta poi il delicato problema del rapporto tra potere spirituale e temporale: l'uomo è naturalmente portato a ricercare il proprio bene, il che spesso lo porta a peccare (ciò è spiegato attraverso la dottrina della creazione delle anime, in cui Dante segue san Tommaso e polemizza con la teoria platonica delle idee innate), per cui è necessario che vi siano le leggi che lo tengono a freno e correggono la sua condotta. Nella visione dantesca le leggi devono essere applicate dal potere politico, ovvero dall'imperatore: ma la sede imperiale in Italia è vacante dalla morte di Federico II di Svevia, per cui le leggi ci sono ma nessuno le fa rispettare, come già aveva duramente affermato nei Canti VI e VII. La responsabilità di ciò è attribuita al papa, reo di volersi arrogare il diritto di governare politicamente l'Italia in assenza del potere imperiale, e in particolare è condannato l'atteggiamento teocratico di Bonifacio VIII, che con la bolla Unam Sanctam del 1302 aveva affermato sostanzialmente questo principio e aveva unito il pastorale con la spada, il potere spirituale con quello temporale. Ciò è causa, per Dante, dei guasti politici dell'Italia del tempo e di quel disordine morale contro cui il poema è una denuncia, come del resto aveva detto nel Canto VI con l'immagine del cavallo la cui sella è vuota e che viene condotto a mano per le briglie dalla Chiesa; Dante si rifà qui anche alla teoria dei «due soli» espressa in termini lievemente diversi nella Monarchia, dicendo cioè che il papa e l'imperatore brillano di luce propria e derivano entrambi la loro autorità da Dio, mentre nel trattato politico aggiungerà che l'imperatore deve semplicemente una certa deferenza al pontefice, come un figlio al proprio padre. Nella visione di Dante diverso è il fine delle due autorità, dal momento che il papa deve guidare i fedeli alla felicità eterna, mentre l'imperatore deve applicare le leggi e assicurare a tutti la giustizia: ciò può avvenire solo se le due autorità sono distinte e indipendenti, reciprocamente autonome, non se il papa pretende di governare senza averne le capacità (egli può rugumare, conoscere le Sacre Scritture, ma non ha l'unghie fesse, non distingue come dovrebbe i due poteri, finendo per dare un pessimo esempio ai fedeli che lo vedono correre dietro i beni terreni).
Il tema è di importanza centrale e sarà più ampiamente affrontato nel Canto XIX del Paradiso, nel Cielo di Giove dove trionfa la giustizia: qui Marco Lombardo cita l'esempio della sua terra come conferma di quanto ha detto, affermando che la Lombardia (nel senso di Italia del nord, di Pianura Padana) un tempo brillava per virtù cavalleresche, poi è caduta in decadenza dopo che la Chiesa e i Comuni guelfi diedero briga all'imperatore Federico II, opponendosi di fatto alla sua autorità politica. Solo tre personaggi dimostrano le antiche virtù e rimproverano il declino morale del presente, tre vecchi che sono esempio della cortesia rimpianta e destinata a scomparire: i loro nomi sono una nostalgica rievocazione di un passato che non esiste più, facendo eco al discorso di Guido del Duca e alla sua rassegna dei nobili personaggi della Romagna antica, con la sola differenza che questi sono ancor vivi e non vedono l'ora di passare a miglior vita. Si è molto discusso sull'effettivo valore morale di questi tre personaggi, di cui Dante tace o ignora alcuni misfatti politici, ma è chiaro che qui prevale l'ammirazione per l'esercizio delle virtù cavalleresche in cui essi si distinsero; in particolare, Gherardo da Camino ebbe rapporti con Corso Donati, il che spiega lo stupore di Marco alla domanda di Dante che mostra di non conoscerlo. Marco lo indica come il padre di una certa Gaia, il che potrebbe avere valore ironico in quanto la giovane è citata da alcuni commentatori come esempio di corruzione: se così fosse, le parole di Marco vorrebbero sottolineare il contrasto tra passato glorioso e presente misero, come anche il fatto che il valore dei padri non è stato ereditato dai figli (è, in fondo, lo stesso discorso già affrontato da Guido del Duca nel parlare della decadenza morale della Romagna, quindi non sorprende che qui Dante segua la stessa linea).
L'incontro con Marco Lombardo dà modo a Dante di affrontare un complesso e delicato discorso politico e dottrinale, che il poeta affida a un personaggio di scarso spessore biografico: di lui si sa solo che fu un uomo di corte del nord Italia molto saggio e valente, citato in alcuni racconti del Novellino, che secondo alcuni commentatori ebbe una condizione simile a quella di Dante durante l'esilio, costretto a diventare anch'egli cortigiano presso signori di «Lombardia» e Romagna. Può essere questa la chiave di lettura che spiega la scelta dell'interlocutore per affrontare il discorso sul libero arbitrio e poi la confusione dei due poteri, che come detto si riallaccia al lamento di Guido del Duca circa la decadenza delle virtù cavalleresche nell'attuale civiltà comunale. Dante ha un dubbio che lo tormenta, se cioè tale declino morale sia da imputare alla condotta umana o a quelle influenze celesti che la dottrina cristiana ammetteva: Marco spiega che gli influssi astrali esistono, ma non sono certo tali da determinare di necessità le azioni umane, il che renderebbe ingiusto premiare la virtù e punire il peccato. Dante segue strettamente l'interpretazione tomistica della questione, riconducendo tutto alla libera scelta dell'uomo che è perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, per cui sbaglia chi attribuisce agli influssi celesti una responsabilità che essi non hanno; se il mondo è dominato dal vizio la colpa è degli uomini, punto che naturalmente è centrale nell'architettura morale del poema come di tutto il pensiero religioso e dottrinale di Dante.
A conferma di ciò, Marco affronta poi il delicato problema del rapporto tra potere spirituale e temporale: l'uomo è naturalmente portato a ricercare il proprio bene, il che spesso lo porta a peccare (ciò è spiegato attraverso la dottrina della creazione delle anime, in cui Dante segue san Tommaso e polemizza con la teoria platonica delle idee innate), per cui è necessario che vi siano le leggi che lo tengono a freno e correggono la sua condotta. Nella visione dantesca le leggi devono essere applicate dal potere politico, ovvero dall'imperatore: ma la sede imperiale in Italia è vacante dalla morte di Federico II di Svevia, per cui le leggi ci sono ma nessuno le fa rispettare, come già aveva duramente affermato nei Canti VI e VII. La responsabilità di ciò è attribuita al papa, reo di volersi arrogare il diritto di governare politicamente l'Italia in assenza del potere imperiale, e in particolare è condannato l'atteggiamento teocratico di Bonifacio VIII, che con la bolla Unam Sanctam del 1302 aveva affermato sostanzialmente questo principio e aveva unito il pastorale con la spada, il potere spirituale con quello temporale. Ciò è causa, per Dante, dei guasti politici dell'Italia del tempo e di quel disordine morale contro cui il poema è una denuncia, come del resto aveva detto nel Canto VI con l'immagine del cavallo la cui sella è vuota e che viene condotto a mano per le briglie dalla Chiesa; Dante si rifà qui anche alla teoria dei «due soli» espressa in termini lievemente diversi nella Monarchia, dicendo cioè che il papa e l'imperatore brillano di luce propria e derivano entrambi la loro autorità da Dio, mentre nel trattato politico aggiungerà che l'imperatore deve semplicemente una certa deferenza al pontefice, come un figlio al proprio padre. Nella visione di Dante diverso è il fine delle due autorità, dal momento che il papa deve guidare i fedeli alla felicità eterna, mentre l'imperatore deve applicare le leggi e assicurare a tutti la giustizia: ciò può avvenire solo se le due autorità sono distinte e indipendenti, reciprocamente autonome, non se il papa pretende di governare senza averne le capacità (egli può rugumare, conoscere le Sacre Scritture, ma non ha l'unghie fesse, non distingue come dovrebbe i due poteri, finendo per dare un pessimo esempio ai fedeli che lo vedono correre dietro i beni terreni).
Il tema è di importanza centrale e sarà più ampiamente affrontato nel Canto XIX del Paradiso, nel Cielo di Giove dove trionfa la giustizia: qui Marco Lombardo cita l'esempio della sua terra come conferma di quanto ha detto, affermando che la Lombardia (nel senso di Italia del nord, di Pianura Padana) un tempo brillava per virtù cavalleresche, poi è caduta in decadenza dopo che la Chiesa e i Comuni guelfi diedero briga all'imperatore Federico II, opponendosi di fatto alla sua autorità politica. Solo tre personaggi dimostrano le antiche virtù e rimproverano il declino morale del presente, tre vecchi che sono esempio della cortesia rimpianta e destinata a scomparire: i loro nomi sono una nostalgica rievocazione di un passato che non esiste più, facendo eco al discorso di Guido del Duca e alla sua rassegna dei nobili personaggi della Romagna antica, con la sola differenza che questi sono ancor vivi e non vedono l'ora di passare a miglior vita. Si è molto discusso sull'effettivo valore morale di questi tre personaggi, di cui Dante tace o ignora alcuni misfatti politici, ma è chiaro che qui prevale l'ammirazione per l'esercizio delle virtù cavalleresche in cui essi si distinsero; in particolare, Gherardo da Camino ebbe rapporti con Corso Donati, il che spiega lo stupore di Marco alla domanda di Dante che mostra di non conoscerlo. Marco lo indica come il padre di una certa Gaia, il che potrebbe avere valore ironico in quanto la giovane è citata da alcuni commentatori come esempio di corruzione: se così fosse, le parole di Marco vorrebbero sottolineare il contrasto tra passato glorioso e presente misero, come anche il fatto che il valore dei padri non è stato ereditato dai figli (è, in fondo, lo stesso discorso già affrontato da Guido del Duca nel parlare della decadenza morale della Romagna, quindi non sorprende che qui Dante segua la stessa linea).
Note e passi controversi
Sotto pover cielo (v. 2) può indicare semplicemente un cielo oscuro perché privo di stelle, oppure dall'orizzonte limitato.
La preghiera recitata dagli iracondi è l'espressione di Ioann., I, 29: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi, ripetuta tre volte e seguita due volte da miserere nobis e una volta da dona nobis pacem. Le parole sembrano adatte all'espiazione di questi peccatori, che in vita indulsero proprio all'ira.
Le parole con cui Marco Lombardo si presenta (v. 46-48) sono retoricamente elevate: dopo il chiasmo del v. 46 (Lombardo fui... fu' chiamato Marco) c'è il parallelismo del v. 47 (del mondo seppi, e quel valore amai, con duplice ripetizione nome/verbo) e la raffinata metafora del distendere l'arco (v. 48) per indicare la disabitudine al valore cortese. Anche ai vv. 50-51 c'è il poliptoto ti prego / che per me preghi, in enjambement.
Nei vv. 85-90 Dante, attraverso le parole di Marco, illustra la creazione dell'anima seguendo la dottrina di san Tommaso, non la teoria delle idee platoniche (l'anima al momento della creazione è una tabula rasa, non ha idee innate); egli contrasta anche la dottrina della creazione delle anime una volta per tutte, sostenuta da Origene (Dio crea ciascuna anima volta a volta).
La vera cittade citata al v. 96 è probabilmente la Civitas Dei, la cui prima attuazione deve realizzarsi sulla Terra; la sua torre può essere la giustizia terrena.
I vv. 98-99 vogliono dire che il papa (il pastor che procede, che guida il gregge) può rugumar (ruminare), cioè conosce le Sacre Scritture, ma non ha l'unghia fessa, cioè non distingue l'autorità temporale dalla spirituale; la metafora è biblica (Levit., XI, 3-8; Deut., XIV, 7-8) e fa riferimento alla legge ebraica che vieta ai fedeli di mangiare carne di animali che non siano ruminanti o non abbiano l'unghia fessa. Ciò era stato interpretato in senso allegorico dai filosofi cristiani, intendendo la ruminazione come la capacità di interpretare la legge sacra, e l'unghia fessa come quella di distinguere tra bene e male; Dante con tutta probabilità intende quest'ultima come la capacità di distinguere tra i due poteri, quindi di governare politicamente.
I due soli cui Dante si riferisce al v. 106 sono ovviamente il papa e l'imperatore, ma poiché egli dice che Roma era solita averli non è chiaro a cosa alluda: forse alla distinzione tra potere politico e sacerdotale nell'antico Impero romano, o forse all'Impero cristiano prima della presunta donazione di Costantino. L'espressione l'un l'altro ha spento (v. 109) indica che il papato ha soffocato l'autorità imperiale, quindi non ha valore reciproco come invece al v. 112.
Il paese ch'Adice e Po riga (vv. 115) è la Lombardia, intesa più generalmente come la Pianura Padana attraversata dai due fiumi.
I tre vecchi citati da Marco Lombardo (vv. 124-126) sono Corrado da Palazzo (bresciano, di cui si hanno scarse notizie, tranne che fu podestà a Firenze nel 1276 e che era lodato per la sua liberalità); Gherardo da Camino (capitano generale di Treviso dal 1283 fino alla morte, avvenuta nel 1306, forse coinvolto nell'uccisione di Iacopo del Cassero da parte di Azzo VIII d'Este); Guido da Castello (ancor vivo nel 1315 e di cui sappiamo molto poco, citato da Dante in termini lusinghieri nel Convivio). Quest'ultimo era detto dai Francesi, secondo Marco, il semplice Lombardo perché «lombardo» era sinonimo di italiano ed era associato, Oltralpe, alla fama di mercante disonesto; Guido sarebbe un'eccezione a questa cattiva fama.
Il v. 135 legge rimprovèro con accento sulla penultima sillaba, il che rende regolare la scansione dell'endecasillabo (altri leggono rimproverio).
La preghiera recitata dagli iracondi è l'espressione di Ioann., I, 29: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi, ripetuta tre volte e seguita due volte da miserere nobis e una volta da dona nobis pacem. Le parole sembrano adatte all'espiazione di questi peccatori, che in vita indulsero proprio all'ira.
Le parole con cui Marco Lombardo si presenta (v. 46-48) sono retoricamente elevate: dopo il chiasmo del v. 46 (Lombardo fui... fu' chiamato Marco) c'è il parallelismo del v. 47 (del mondo seppi, e quel valore amai, con duplice ripetizione nome/verbo) e la raffinata metafora del distendere l'arco (v. 48) per indicare la disabitudine al valore cortese. Anche ai vv. 50-51 c'è il poliptoto ti prego / che per me preghi, in enjambement.
Nei vv. 85-90 Dante, attraverso le parole di Marco, illustra la creazione dell'anima seguendo la dottrina di san Tommaso, non la teoria delle idee platoniche (l'anima al momento della creazione è una tabula rasa, non ha idee innate); egli contrasta anche la dottrina della creazione delle anime una volta per tutte, sostenuta da Origene (Dio crea ciascuna anima volta a volta).
La vera cittade citata al v. 96 è probabilmente la Civitas Dei, la cui prima attuazione deve realizzarsi sulla Terra; la sua torre può essere la giustizia terrena.
I vv. 98-99 vogliono dire che il papa (il pastor che procede, che guida il gregge) può rugumar (ruminare), cioè conosce le Sacre Scritture, ma non ha l'unghia fessa, cioè non distingue l'autorità temporale dalla spirituale; la metafora è biblica (Levit., XI, 3-8; Deut., XIV, 7-8) e fa riferimento alla legge ebraica che vieta ai fedeli di mangiare carne di animali che non siano ruminanti o non abbiano l'unghia fessa. Ciò era stato interpretato in senso allegorico dai filosofi cristiani, intendendo la ruminazione come la capacità di interpretare la legge sacra, e l'unghia fessa come quella di distinguere tra bene e male; Dante con tutta probabilità intende quest'ultima come la capacità di distinguere tra i due poteri, quindi di governare politicamente.
I due soli cui Dante si riferisce al v. 106 sono ovviamente il papa e l'imperatore, ma poiché egli dice che Roma era solita averli non è chiaro a cosa alluda: forse alla distinzione tra potere politico e sacerdotale nell'antico Impero romano, o forse all'Impero cristiano prima della presunta donazione di Costantino. L'espressione l'un l'altro ha spento (v. 109) indica che il papato ha soffocato l'autorità imperiale, quindi non ha valore reciproco come invece al v. 112.
Il paese ch'Adice e Po riga (vv. 115) è la Lombardia, intesa più generalmente come la Pianura Padana attraversata dai due fiumi.
I tre vecchi citati da Marco Lombardo (vv. 124-126) sono Corrado da Palazzo (bresciano, di cui si hanno scarse notizie, tranne che fu podestà a Firenze nel 1276 e che era lodato per la sua liberalità); Gherardo da Camino (capitano generale di Treviso dal 1283 fino alla morte, avvenuta nel 1306, forse coinvolto nell'uccisione di Iacopo del Cassero da parte di Azzo VIII d'Este); Guido da Castello (ancor vivo nel 1315 e di cui sappiamo molto poco, citato da Dante in termini lusinghieri nel Convivio). Quest'ultimo era detto dai Francesi, secondo Marco, il semplice Lombardo perché «lombardo» era sinonimo di italiano ed era associato, Oltralpe, alla fama di mercante disonesto; Guido sarebbe un'eccezione a questa cattiva fama.
Il v. 135 legge rimprovèro con accento sulla penultima sillaba, il che rende regolare la scansione dell'endecasillabo (altri leggono rimproverio).
Testo Buio d’inferno e di notte privata
d’ogne pianeto, sotto pover cielo, quant’esser può di nuvol tenebrata, 3 non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch’ivi ci coperse, né a sentir di così aspro pelo, 6 che l’occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s’accostò e l’omero m’offerse. 9 Sì come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che ‘l molesti, o forse ancida, 12 m’andava io per l’aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo». 15 Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l’Agnel di Dio che le peccata leva. 18 Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, sì che parea tra esse ogne concordia. 21 «Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?», diss’io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi, e d’iracundia van solvendo il nodo». 24 «Or tu chi se’ che ‘l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?». 27 Così per una voce detto fue; onde ‘l maestro mio disse: «Rispondi, e domanda se quinci si va sùe». 30 E io: «O creatura che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece, maraviglia udirai, se mi secondi». 33 «Io ti seguiterò quanto mi lece», rispuose; «e se veder fummo non lascia, l’udir ci terrà giunti in quella vece». 36 Allora incominciai: «Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l’infernale ambascia. 39 E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte per modo tutto fuor del moderno uso, 42 non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorte». 45 «Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai al quale ha or ciascun disteso l’arco. 48 Per montar sù dirittamente vai». Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego che per me prieghi quando sù sarai». 51 E io a lui: «Per fede mi ti lego di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego. 54 Prima era scempio, e ora è fatto doppio ne la sentenza tua, che mi fa certo qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio. 57 Lo mondo è ben così tutto diserto d’ogne virtute, come tu mi sone, e di malizia gravido e coverto; 60 ma priego che m’addite la cagione, sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui; ché nel cielo uno, e un qua giù la pone». 63 Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!», mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate, lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. 66 Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. 69 Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto. 72 Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica, lume v’è dato a bene e a malizia, 75 e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura, poi vince tutto, se ben si notrica. 78 A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura. 81 Però, se ’l mondo presente disvia, in voi è la cagione, in voi si cheggia; e io te ne sarò or vera spia. 84 Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, 87 l’anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore, volontier torna a ciò che la trastulla. 90 Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore. 93 Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver che discernesse de la vera cittade almen la torre. 96 Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, però che ’l pastor che procede, rugumar può, ma non ha l’unghie fesse; 99 per che la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta, di quel si pasce, e più oltre non chiede. 102 Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che ’l mondo ha fatto reo, e non natura che ’n voi sia corrotta. 105 Soleva Roma, che ’l buon mondo feo, due soli aver, che l’una e l’altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo. 108 L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale, e l’un con l’altro insieme per viva forza mal convien che vada; 111 però che, giunti, l’un l’altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch’ogn’erba si conosce per lo seme. 114 In sul paese ch’Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga; 117 or può sicuramente indi passarsi per qualunque lasciasse, per vergogna di ragionar coi buoni o d’appressarsi. 120 Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna l’antica età la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna: 123 Currado da Palazzo e ‘l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma francescamente, il semplice Lombardo. 126 Dì oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in sé due reggimenti, cade nel fango e sé brutta e la soma». 129 «O Marco mio», diss’io, «bene argomenti; e or discerno perché dal retaggio li figli di Levì furono essenti. 132 Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio di’ ch’è rimaso de la gente spenta, in rimprovèro del secol selvaggio?». 135 «O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta», rispuose a me; «ché, parlandomi tosco, par che del buon Gherardo nulla senta. 138 Per altro sopranome io nol conosco, s’io nol togliessi da sua figlia Gaia. Dio sia con voi, ché più non vegno vosco. 141 Vedi l’albor che per lo fummo raia già biancheggiare, e me convien partirmi (l’angelo è ivi) prima ch’io li paia». Così tornò, e più non volle udirmi. 145 |
ParafrasiIl buio dell'Inferno, o di una notte priva di qualunque stella, sotto un cielo oscuro quanto può esserlo quello di una notte coperta da nubi, non velò la mia vista come quel fumo che lì ci avvolse, né mi irritò gli occhi al punto da non poterli tenere aperti; allora la mia saggia guida mi si avvicinò e mi offrì il suo braccio.
Come il cieco segue la sua guida per non perdersi e non urtare qualcosa che gli faccia del male o forse lo uccida, così io procedevo in quell'aria amara e oscura, ascoltando il mio maestro che mi diceva di continuo: «Fa' in modo di non separarti da me». Io udivo delle voci, e ognuna sembrava pregare per la pace e la misericordia l'Agnello di Dio, che toglie i peccati dal mondo. Le parole iniziali erano sempre 'Agnus Dei'; tutti dicevano la stessa cosa e in modo tale che sembrava esserci una totale concordia. Io dissi: «Maestro, sono degli spiriti quelli che sento?» E lui a me: «Dici il vero, ed essi scontano la pena per la loro iracondia». «E tu chi sei, che attraversi il fumo della nostra Cornice e parli di noi come se tu dividessi ancora il tempo (se fossi vivo)?» Così fu detto da una voce; allora il mio maestro disse: «Rispondi, e chiedi se da questa parte si sale». E io: «O anima che ti purifichi, per tornare bella a Colui che ti creò, se mi segui sentirai qualcosa di straordinario». Rispose: «Io ti seguirò finché mi sarà permesso; e se il fumo non ci permette di vederci, il suono delle parole ci terrà uniti». Allora iniziai: «Me ne vado in alto con quell'involucro (corpo) che la morte dissolve, e sono venuto qui attraverso l'Inferno. E se Dio mi ha accolto nella sua grazia, al punto che vuol mostrarmi il suo regno in un modo del tutto diverso dall'uso moderno, non nascondermi il tuo nome prima della tua morte, ma dimmelo, e dimmi se vado nella giusta direzione verso l'accesso alla Cornice seguente; e le tue parole saranno la nostra guida». «Io fui Lombardo, e il mio nome era Marco; conobbi il mondo e amai quella virtù cortese alla quale oggi ciascuno ha disteso l'arco (che ognuno ha abbandonato). Per salire su, vai nella giusta direzione». Così rispose, e aggiunse: «Io ti prego di pregare per me, quando sarai in Paradiso». E io a lui: «Io ti prometto che farò ciò che mi chiedi; ma io scoppio se non riesco a liberarmi di un dubbio che mi assilla. Prima era un dubbio semplice, mentre ora è raddoppiato a causa delle tue parole, che mi confermano, qui e altrove, ciò che ho già udito (da Guido del Duca). Il mondo è del tutto privo di ogni virtù cortese, come tu mi dici, e pieno di ogni malizia; ma ti prego di indicarmene la causa, così che io la comprenda e la mostri agli altri; infatti alcuni la pongono nelle influenze celesti, altri nei comportamenti umani». Dapprima emise un profondo sospiro, che poi si tramutò in «uhi!»; poi iniziò: «Fratello, il mondo è cieco e tu dimostri di venire da lì. Voi che siete in vita riconducete la causa di tutto al Cielo, come se esso determinasse ogni cosa necessariamente. Se fosse così, in voi non ci sarebbe più il libero arbitrio, e non sarebbe giusto essere premiati per la virtù, ed essere puniti per la colpa. Il Cielo inizia i vostri movimenti, e neppure tutti; ma anche ammettendo ciò, voi siete in grado di distinguere il bene dal male, e avete il libero arbitrio; il quale, se anche incontra difficoltà nelle prime battaglie con gli influssi astrali, poi vince ogni cosa, purché venga ben nutrito. Voi siete soggetti, liberi, a una forza maggiore e a una natura migliore (Dio); e quella crea in voi l'intelletto, che il cielo non ha in suo potere. Perciò, se il mondo attuale pecca, la ragione è in voi e a voi deve essere attribuita; e io ora te ne darò una dimostrazione. L'anima semplice, che non sa nulla, esce dalle mani di Colui (Dio) che la ama, prima di essere formata, come una fanciulla, che piange e ride senza saperne il motivo, salvo che, mossa da un lieto Creatore, torna volentieri a ciò che le dà piacere. Dapprima sente il sapore dei beni di scarso rilievo; qui s'inganna e corre dietro ad essi, a meno che una guida o un freno non distolga il suo amore mal riposto. Per questo fu necessario porre dei freni con le leggi; fu necessario avere un re che distinguesse almeno la torre della vera città. Le leggi ci sono, ma chi le fa rispettare? Nessuno, dal momento che il pastore (il papa) che guida il gregge può ruminare, ma non ha le unghie fesse; quindi la gente, che vede la sua guida ricercare quei beni terreni di cui essa è ghiotta, si nutre di quelli e non chiede nient'altro. Puoi capire bene che la cattiva guida dei pontefici è la ragione che ha corrotto il mondo, non certo la vostra natura influenzata dai Cieli. Roma, che costruì il mondo virtuoso, era solita avere due soli, che indicavano entrambe le strade, del mondo e di Dio. L'uno ha spento l'altro; e la spada si è unita al pastorale, ed è inevitabile che le due cose stiano male insieme, unite in modo forzato; infatti, uniti, l'un potere non teme l'altro: se non mi credi, pensa alla spiga (alle conseguenze), poiché ogni pianta si riconosce dal suo seme. Nel paese (Pianura Padana) che è attraversato da Adige e Po, valore e cortesia erano soliti essere presenti, prima che Federico II fosse ostacolato (dalla Chiesa); ora può passare di lì senza timore chiunque non volesse parlare con gli uomini virtuosi o avvicinarsi a loro, per vergogna. Ci sono ancora tre vecchi in cui l'età antica rimprovera la nuova, e si augurano che Dio li faccia passare presto a miglior vita: Corrado da Palazzo, il buon Gherardo (da Camino) e Guido da Castello, che i Francesi indicavano come il semplice Lombardo. Concludi che ormai la Chiesa di Roma, per accentrare in sé i due poteri, cade nel fango e sporca sé e il suo incarico». Io dissi: «O Marco mio, tu hai ragione; e adesso capisco perché i discendenti di Levi furono esclusi dall'eredità dei beni. Ma chi è quel Gherardo che tu dici che è rimasto come esempio dell'antico popolo, come rimprovero del secolo decaduto?» Mi rispose: «O le tue parole mi ingannano o mi stuzzicano; infatti, parlando con accento toscano, sembra che tu non sappia nulla del buon Gherardo. Io non lo conosco attraverso un altro soprannome, a meno di non indicarlo come il padre di Gaia. Dio sia con voi, perché non posso più seguirvi. Vedi la luce che filtra attraverso il buio e già biancheggia, e io devo separarmi da voi prima che io appaia all'angelo, che è lì». Così se ne andò, e non volle più starmi a sentire. |