Purgatorio, Canto XXII
Le Egloghe di Virgilio (antico ms.)
"...Or sappi ch'avarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita..."
"...Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch'io disegno,
a colorare stenderò la mano..."
Ma tosto ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada,
con pomi a odorar soavi e buoni...
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita..."
"...Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch'io disegno,
a colorare stenderò la mano..."
Ma tosto ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada,
con pomi a odorar soavi e buoni...
Argomento del Canto
Salita alla VI Cornice. Stazio spiega il suo peccato di prodigalità e il suo Cristianesimo; nomina illustri personaggi del Limbo. Ingresso nella VI Cornice: esempi di temperanza.
È la mattina martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, verso le undici.
È la mattina martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, verso le undici.
L'angelo della giustizia. Virgilio chiede a Stazio del suo peccato (1-24)
L'angelo della giustizia ha indirizzato Dante, Virgilio e Stazio alla scala che conduce alla VI Cornice, dopo aver cancellato dalla fronte di Dante la quinta P ed aver dichiarato beati coloro che hanno desiderio di giustizia. Dante segue spedito gli altri due poeti su per la scala, mentre Virgilio informa Stazio che da quando l'anima di Giovenale è giunta nel Limbo e gli ha rivelato l'affetto di Stazio verso di lui, egli ha ricambiato il sentimento. Proprio in nome di questa amicizia, nonostante i due non si siano mai visti prima, Virgilio prega l'antico poeta di spiegargli com'è possibile che abbia peccato di avarizia data la sua grande sapienza.
Stazio rivela il suo peccato di prodigalità (25-54)
J.W. Bauer, Polinestore uccide Polidoro
Dapprima Stazio sorride un poco, quindi spiega a Virgilio che spesso si traggono conclusioni errate riguardo cose le cui vere ragioni sono nascoste. Stazio ha capito che Virgilio lo crede un avaro per il fatto di averlo trovato nella V Cornice, ma in realtà egli ha commesso il peccato opposto, quello di prodigalità, che ha scontato con una permanenza di secoli in quella Cornice. Stazio sarebbe dannato se non avesse letto il passo di Virgilio (Aen., III) dove il poeta latino parla dell'assassino di Polidoro ad opera di Polinestore e invoca la sacra fame / de l'oro. Fu allora che egli capì che si poteva peccare spendendo troppo, oltre che troppo poco, e si pentì di quella come delle altre colpe. Quanti peccatori, risorgendo il Giorno del Giudizio, si ritroveranno coi capelli tagliati per non aver saputo che questo è un peccato mortale come l'avarizia! Stazio precisa che nella V Cornice si sconta con la stessa espiazione un peccato e il suo opposto; quindi egli è stato fra gli avari, ma per purificarsi del peccato opposto a quello di avarizia, cioè della prodigalità.
Il Cristianesimo di Stazio (55-93)
Affresco delle Catacombe di Domitilla (IV sec.)
Virgilio osserva che Stazio nella Tebaide, cantando della lotta fratricida fra Eteocle e Polinice, mostrava di non possedere quella fede cristiana senza la quale la salvezza è impossibile, non essendo sufficienti le buone opere. Se è così, chiede Virgilio, chi o cosa lo ha indotto a convertirsi al Cristianesimo? Stazio risponde che il merito è proprio di Virgilio, il quale prima lo ha indirizzato alla poesia e in seguito lo ha illuminato dal punto di vista religioso, facendo come quello che cammina di notte e porta il lume dietro di sé, giovando a chi lo segue e non a se stesso. Virgilio infatti aveva scritto nella IV Egloga che era imminente un profondo rinnovamento del mondo e ciò spinse Stazio a farsi cristiano, nel modo che ora spiegherà. La nuova religione era già diffusa nel mondo e le parole di Virgilio si accordavano agli insegnamenti dei Cristiani, così che Stazio iniziò a frequentarli. Al tempo delle persecuzioni di Domiziano egli provò pena per loro, li aiutò e aderì totalmente al loro culto, venendo battezzato prima di iniziare la sua opera poetica. Tuttavia, per timore di subire anch'egli persecuzioni, non rivelò la sua conversione e ostentò a lungo il paganesimo, con una tiepidezza che ha scontato restando più di quattro secoli nella IV Cornice fra gli accidiosi.
Stazio nomina personaggi del Limbo (94-114)
Manto (miniatura del XV sec.)
Stazio chiede a Virgilio, che gli ha svelato la verità sul Cristianesimo, di dirgli se conosce il destino ultraterreno del poeta antico Terenzio, di Cecilio Stazio, di Plauto e di Varrone, poiché egli vuol sapere se sono dannati e in quale Cerchio si trovano. Virgilio risponde che tutti loro, insieme a lui, a Persio e a molti altri, si trovano con Omero nel I Cerchio dell'Inferno, il Limbo; spesso parlano del monte Parnaso, che ospita le Muse nutrici dei poeti. Nello stesso Cerchio vi sono anche Euripide, Antifonte, Simonide di Ceo, Agatone e molti altri poeti greci; ci sono anche personaggi della Tebaide, fra cui Antigone, Deifile, Argia, Ismene, Isifile (che mostrò ai greci la fonte di Langia), Manto (la figlia di Tiresia), Teti, Deidamia con le sue sorelle.
Ingresso nella VI Cornice. Esempi di temperanza (115-154)
Giotto, Le nozze di Cana (Scrovegni)
I tre hanno ormai percorso tutta la scala e fanno il loro ingresso nella VI Cornice, dove Stazio e Virgilio si guardano intorno. Sono già passate le prime quattro ore del giorno (sono tra le 10 e le 11 del mattino), quando Virgilio osserva che forse è meglio procedere verso destra e girare il monte come lui e Dante sono soliti fare. Stazio non fa obiezioni, quindi i tre vanno in quella direzione, con Virgilio e l'altro poeta latino che procedono innanzi e Dante che li segue e ascolta i loro discorsi. A un tratto la conversazione è interrotta dall'apparire di un albero posto a metà strada, dai cui rami pendono frutti dal dolce profumo: è simile a un abete rovesciato, si allarga cioè progressivamente verso l'alto, forse per impedire alle anime di salire su di esso. Sul lato vicino alla parete del monte sgorga una fonte d'acqua che sale verso l'alto, tra le foglie dell'albero. Stazio e Virgilio si avvicinano alla pianta e una voce li ammonisce a non toccarne i frutti, aggiungendo poi alcuni esempi di temperanza: quello di Maria, che alle nozze di Cana pensò al decoro della cerimonia e non alla propria gola; quello delle donne dell'antica Roma, che erano così sobrie da bere soltanto acqua; quello del profeta Daniele, che disprezzò il cibo e ottenne in cambio la sapienza; quello dell'età dell'oro, quando la fame e la sete resero appetibili le ghiande e l'acqua dei ruscelli; infine quello di Giovanni Battista, che nel deserto si nutrì di miele e locuste, rendendosi in tal modo glorioso.
Interpretazione complessiva
Il Canto completa l'episodio che ha per protagonista Stazio e di cui il Canto XXI è stato il momento iniziale, col poeta latino che rivolgeva un appassionato omaggio a Virgilio come suo maestro e modello di poesia: qui l'elogio prosegue e si amplia, indicando Virgilio come colui che ha dapprima spinto Stazio a convertirsi al Cristianesimo e poi lo ha fatto ravvedere dal suo peccato, quello di prodigalità (ciò rientra nel culto di Virgilio e del suo magistero morale, assai diffuso nel Medioevo e cui Dante aderisce pienamente). Il Canto si apre con l'accenno fugace all'incontro con l'angelo della giustizia, che indirizza i tre verso la Cornice successiva, per poi tornare a concentrarsi sui due poeti latini che conversano tra loro mentre salgono la scala: è Virgilio a chiedere a Stazio spiegazioni circa il suo peccato di avarizia, che gli pare incompatibile col senno mostrato dall'autore della Tebaide nei suoi scritti. Stazio spiega che il suo peccato è stato in realtà quello opposto, ovvero quello di prodigalità che è punito nella stessa V Cornice e che può condurre alla dannazione tanto quanto quello di cupidigia: è assai discusso da dove Dante abbia tratto la notizia della prodigalità di Stazio, che potrebbe essere sua invenzione o derivare da un passo di Giovenale (VII, 82-87) dove si dice che Stazio era così povero da non avere di che vivere se non avesse venduto a un attore una sua tragedia inedita (sed cum fregit subsellia versu / esurit, intactam Paridi nisi vendit Agaven). Altrettanto discusso è se la regola che vuole puniti nella V Cornice i peccati rappresentanti gli eccessi opposti, secondo la dottrina aristotelica per cui in medio stat virtus, valga solo per quel luogo o per tutto il Purgatorio, anche se di questa seconda ipotesi non c'è alcuna prova evidente (la pena di avari e prodighi è identica, mentre nel IV Cerchio dell'Inferno le due opposte schiere di dannati erano precisamente distinte). Più interessante è quanto Stazio dice circa il passo virgiliano che l'avrebbe indotto a pentirsi del suo peccato, ovvero l'episodio del Libro III dell'Eneide in cui Virgilio, a margine dell'incontro tra Enea e l'anima di Polidoro ucciso da Polinestore per le sue ricchezze, commentava: Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames? («A cosa non spingi i petti dei mortali, o esecranda fame dell'oro?»). È chiaro che Dante interpreta scorrettamente l'espressione auri sacra fames, intendendola come «giusto desiderio dell'oro» e quindi come la virtù mediana tra le opposte colpe di avarizia e prodigalità, per cui la lettura del passo indusse Stazio a rendersi conto che spendere troppo era un peccato quanto non spendere affatto, pentendosi di quella colpa come delle altre. Se si tratti di un vero e proprio fraintendimento del testo latino o di una libera interpretazione da parte di Dante è difficile dire, anche se vanno respinte le contorsioni di commentatori antichi e moderni per ricondurre i versi danteschi al senso originale, mentre esempi di analoghe errate traduzioni non sono infrequenti nell'opera dantesca (cfr. ad esempio Conv., II, 5, dove un verso dell'Eneide è tradotto in modo evidentemente scorretto).
La celebrazione del magistero di Virgilio non si esaurisce a questo ma coinvolge il grande poeta classico anche nel Cristianesimo di Stazio, che infatti riconduce la sua conversione alla lettura della celeberrima IV Egloga, dedicata al figlio nascituro di Asinio Pollione ma che una lunga tradizione esegetica aveva interpretato come preannuncio del Cristianesimo. Non si tratta della leggenda di Virgilio «mago e profeta» della religione cristiana, quanto della consueta cristianizzazione della sua opera come di altri scrittori classici: questi avevano intravisto le verità di fede e le avevano espresse in forma imperfetta, sotto il velo della finzione poetica, come peraltro pensavano molti Padri della Chiesa che sottoponevano questi scritti pagani a una intensa opera di moralizzazione. La stessa cosa afferma Stazio per Virgilio, indicato come colui che cammina al buio e porta il lume dietro di sé, giovando a chi lo segue e non a se stesso: egli intravide la nascita futura di Cristo e ne scrisse velatamente nella famosa IV Egloga, salvo ignorare egli stesso questa verità e restare escluso dalla salvezza. Il Cristianesimo di Stazio è ovviamente in contrasto con la verità storica ed è molto discusso se anche questo particolare sia invenzione dantesca oppure derivi da una fonte biografica a noi ignota, oppure ancora dall'interpretazione di alcuni passi della sua opera: nel IV libro della Tebaide (vv. 514-517) l'indovino Tiresia, non riuscendo a evocare le anime dei morti, minaccia di far intervenire una divinità superiore e sconosciuta, che egli è restio a nominare in quanto desidera avere una vecchiaia tranquilla. Dante potrebbe aver interpretato quel passo come un velato accenno al Dio cristiano, anche perché Tiresia lo definisce triplicis mundi summum, mentre la reticenza dell'indovino poteva sembrare la paura di un cristiano di incorrere nelle persecuzioni religiose, attribuita del resto anche allo stesso Stazio; è possibile che Dante non si sia basato solo su quel passo ma su altri testi medievali che sostenevano il Cristianesimo del poeta latino, cosa non strana in quanto leggende analoghe si formarono anche per Virgilio, per Seneca, per Orazio e Ovidio. La novità consiste semmai nell'attribuire il merito inconsapevole di questa conversione alla poesia di Virgilio, per cui la celebrazione della sua autorità raggiunge il punto più alto ed è, al tempo stesso, un'assoluta esaltazione del valore e del potere della poesia in generale.
Dopo la rievocazione nelle parole di Virgilio delle anime dei poeti e dei personaggi della Tebaide che sono relegati insieme a lui nel Limbo, tra cui la maga Manto che crea più di un dubbio per l'incongruenza col Canto XX dell'Inferno (si veda oltre), il Canto si chiude con l'accesso alla VI Cornice e la descrizione dell'albero rovesciato che sembra avere le radici rivolte verso l'alto, fra i cui rami si sentono gli esempi di temperanza dichiarati da una misteriosa voce. L'espediente è simile a quello degli esempi di carità e invidia punita della III Cornice e come di consueto gli aneddoti sono tratti in egual misura da tradizione biblica e classica: accanto agli esempi di Maria, del profeta Daniele e di san Giovanni Battista sono ricordati quello delle antiche Romane, sobrie e contente di bere acqua (Dante cita da Valerio Massimo, II, 1, 5) e quello dell'età dell'oro (ricavato da Ovidio, Met., I, 103-112), che sarà ripreso da Matelda nell'Eden proprio in riferimento alla poesia dei poeti pagani Stazio e Virgilio. Il discorso relativo alla poesia proseguirà nei Canti successivi, a cominciare dall'incontro tra Dante e Forese Donati e Bonagiunta da Lucca tra le anime dei golosi.
La celebrazione del magistero di Virgilio non si esaurisce a questo ma coinvolge il grande poeta classico anche nel Cristianesimo di Stazio, che infatti riconduce la sua conversione alla lettura della celeberrima IV Egloga, dedicata al figlio nascituro di Asinio Pollione ma che una lunga tradizione esegetica aveva interpretato come preannuncio del Cristianesimo. Non si tratta della leggenda di Virgilio «mago e profeta» della religione cristiana, quanto della consueta cristianizzazione della sua opera come di altri scrittori classici: questi avevano intravisto le verità di fede e le avevano espresse in forma imperfetta, sotto il velo della finzione poetica, come peraltro pensavano molti Padri della Chiesa che sottoponevano questi scritti pagani a una intensa opera di moralizzazione. La stessa cosa afferma Stazio per Virgilio, indicato come colui che cammina al buio e porta il lume dietro di sé, giovando a chi lo segue e non a se stesso: egli intravide la nascita futura di Cristo e ne scrisse velatamente nella famosa IV Egloga, salvo ignorare egli stesso questa verità e restare escluso dalla salvezza. Il Cristianesimo di Stazio è ovviamente in contrasto con la verità storica ed è molto discusso se anche questo particolare sia invenzione dantesca oppure derivi da una fonte biografica a noi ignota, oppure ancora dall'interpretazione di alcuni passi della sua opera: nel IV libro della Tebaide (vv. 514-517) l'indovino Tiresia, non riuscendo a evocare le anime dei morti, minaccia di far intervenire una divinità superiore e sconosciuta, che egli è restio a nominare in quanto desidera avere una vecchiaia tranquilla. Dante potrebbe aver interpretato quel passo come un velato accenno al Dio cristiano, anche perché Tiresia lo definisce triplicis mundi summum, mentre la reticenza dell'indovino poteva sembrare la paura di un cristiano di incorrere nelle persecuzioni religiose, attribuita del resto anche allo stesso Stazio; è possibile che Dante non si sia basato solo su quel passo ma su altri testi medievali che sostenevano il Cristianesimo del poeta latino, cosa non strana in quanto leggende analoghe si formarono anche per Virgilio, per Seneca, per Orazio e Ovidio. La novità consiste semmai nell'attribuire il merito inconsapevole di questa conversione alla poesia di Virgilio, per cui la celebrazione della sua autorità raggiunge il punto più alto ed è, al tempo stesso, un'assoluta esaltazione del valore e del potere della poesia in generale.
Dopo la rievocazione nelle parole di Virgilio delle anime dei poeti e dei personaggi della Tebaide che sono relegati insieme a lui nel Limbo, tra cui la maga Manto che crea più di un dubbio per l'incongruenza col Canto XX dell'Inferno (si veda oltre), il Canto si chiude con l'accesso alla VI Cornice e la descrizione dell'albero rovesciato che sembra avere le radici rivolte verso l'alto, fra i cui rami si sentono gli esempi di temperanza dichiarati da una misteriosa voce. L'espediente è simile a quello degli esempi di carità e invidia punita della III Cornice e come di consueto gli aneddoti sono tratti in egual misura da tradizione biblica e classica: accanto agli esempi di Maria, del profeta Daniele e di san Giovanni Battista sono ricordati quello delle antiche Romane, sobrie e contente di bere acqua (Dante cita da Valerio Massimo, II, 1, 5) e quello dell'età dell'oro (ricavato da Ovidio, Met., I, 103-112), che sarà ripreso da Matelda nell'Eden proprio in riferimento alla poesia dei poeti pagani Stazio e Virgilio. Il discorso relativo alla poesia proseguirà nei Canti successivi, a cominciare dall'incontro tra Dante e Forese Donati e Bonagiunta da Lucca tra le anime dei golosi.
L'enigma di Manto, tra anime del Limbo e indovini
J.H. Fuessli, Tiresia
Il destino ultraterreno di Manto, la maga figlia dell'indovino Tiresia inclusa da Stazio nella Tebaide, è uno dei misteri tuttora insoluti del poema dantesco, in quanto l'autore la colloca tra gli indovini della IV Bolgia dell'VIII Cerchio dell'Inferno e successivamente (Purg., XXII) fa dire a Virgilio che fra le anime del Limbo vi è anche la figlia di Tiresia, creando un'incongruenza difficilmente spiegabile. Sembra piuttosto strano pensare a una semplice svista del poeta, non foss'altro perché Manto non è citata di sfuggita nel Canto XX dell'Inferno ma è addirittura protagonista dell'ampia digressione con cui Virgilio spiega le origini di Mantova (XX, 58 ss.) ed è lo stesso maestro di Dante a includerla tra gli spiriti del Limbo mentre ne fa l'elenco a Stazio, cioè l'autore del poema di cui la maga era uno dei personaggi. Gli studiosi si sono divisi praticamente in due fazioni, gli uni sostenendo l'errore di Dante e gli altri ipotizzando un'errata trascrizione dei codici, per quanto tale supposizione non trovi conferme dirette. Non ci aiutano i commentatori antichi, altrettanto disorientati quanto i moderni, mentre secondo un'ulteriore ipotesi Dante avrebbe rimaneggiato tardivamente il passo infernale, aggiungendo la digressione su Manto e scordandosi del rapido cenno fatto nel Purgatorio (qualcosa di simile si è immaginato anche a proposito di alcune profezie post eventum, come quella sulla morte di Clemente V in Inf., XIX). La questione è sostanzialmente insoluta, anche se va osservata una stranezza: nel passo infernale in cui sono descritti gli indovini, infatti, Tiresia è indicato pochi versi prima di Manto, la quale è poi presentata senza alcun accenno al fatto di essere sua figlia; nel passo del Purgatorio, invece, Manto non è nominata direttamente ma evocata con l'espressione èvvi la figlia di Tiresia, per cui non si può escludere che Dante intendesse come figlia dell'indovino un personaggio diverso dalla Manto inclusa nella IV Bolgia. L'ipotesi è suggestiva ed escluderebbe la svista dantesca, anche se non è confermata da alcuna prova diretta; simili confusioni non sono del resto rare nell'opera di Dante e in generale nella tradizione dei testi classici nel Medioevo, per cui pensare a un fraintendimento del mito e a una errata identificazione del personaggio potrebbe essere la soluzione più accettabile per la spinosa questione, che ha dato filo da torcere a intere generazioni di dantisti. Può darsi che in futuro nuovi lumi vengano dalla scoperta di qualche mitografia o commento medievale che avvalorino questa ipotesi, mentre allo stato attuale non resta che arrendersi alla possibilità che Dante, con tutta l'ammirazione che giustamente gli viene tributata, possa essere incappato in questo caso in un clamoroso svarione.
Note e passi controversi
La beatitudine cantata dall'angelo (vv. 4-6) è la quarta, che nel testo evangelico (Matth., V, 6) suona: beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur («beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché essi saranno saziati»). Il passo sembra indicare che l'angelo della giustizia reciti solo il versetto beati qui sitiunt iustitiam, contrapponendo la sete di giustizia a quella delle ricchezze punita in questa Cornice, mentre nella successiva la beatitudine sarà: Beati qui esuriunt iustitiam (XXIV, 151-154).
Il poeta latino D. Giunio Giovenale (v. 14) visse nel 47-130 d.C. circa e fu contemporaneo di Stazio e ammiratore della Tebaide. Dante lo cita spesso, anche se non è certo ne conoscesse direttamente l'opera.
I vv. 16-17 alludono all'amore che si stringe fra persone che non si sono mai incontrate, frequente nella lirica provenzale (il cosiddetto amor de lonh).
Migliaia di lunari (v. 36) vuol dire migliaia di mesi, quindi secoli (Stazio è stato nella V Cornice oltre cinquecento anni).
Il v. 46 (Quanti risurgeran coi crini scemi) si rifà a quanto detto in Inf., VII, 55-57 sul fatto che i prodighi dannati risorgeranno il Giorno del Giudizio coi capelli tagliati, mentre gli avari col pugno chiuso.
I vv. 49-51 significano: «E sappi che la colpa che si contrappone (rimbecca) in maniera opposta all'altro peccato, qui si estingue con l'espiazione (suo verde secca, si inaridisce) insieme ad esso».
La doppia tristizia di Giocasta indica i due figli della donna, Eteocle e Polinice, che nella Tebaide si scontrarono in una lotta fratricida.
Il v. 58 indica che Clio, la Musa della poesia epica, tasta, cioè accompagna col suono della lira, il canto di Stazio.
Appresso Dio (v. 66) è stato interpretato come «verso Dio», ma è più probabile che voglia dire «dopo Dio» (quindi Stazio fu prima illuminato dalla Grazia divina, e solo in seguito da Virgilio).
I vv. 70-72 sono una traduzione letterale della IV Egloga di Vigilio, vv. 5-7: magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. / Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; / iam nova progenies caelo demittitur alto («La grande serie dei secoli ricomincia. Ecco che ritorna anche la Vergine [Astrea, dea della giustizia], ritorna il regno di Saturno [l'età dell'oro]; ecco che una nuova progenie scende dall'alto dei cieli»).
Centesmo (v. 93) vuol dire «l'ultimo anno di cento», quindi Stazio indica che la sua permanenza nella IV Cornice ha superato i 400 anni.
Gli scrittori citati da Stazio e da Virgilio (vv. 97-108) quali anime relegate nel Limbo sono P. Terenzio Afro (192-159 a.C.), commediografo latino come anche Cecilio Stazio (220-166 a.C.) e T. Maccio Plauto (254-184 a.C.); Varrone Reatino, l'erudito dell'età di Cesare (ma potrebbe essere anche Vario Rufo, amico di Virgilio ed editore dell'Eneide); A. Persio Flacco (34-62 d.C.), poeta satirico dell'età di Nerone; Omero (il Greco / che le Muse lattar...); i tragici greci Euripide (480-406 a.C.), di cui ci sono giunte diciannove tragedie, e Antifonte (IV sec. a.C.), di cui non abbiamo nulla; Simonide di Ceo (556-467 a.C.), poeta lirico greco; Agatone, tragico greco del V sec. a.C.
Ai vv. 109-114 Virgilio cita alcuni personaggi della Tebaide e dell'Achilleide: Antigone, figlia di Edipo e Giocasta, uccisa da Creonte perché seppellì il cadavere di Polinice; Deifile, moglie di Tideo che fu uno dei re che assediarono Tebe; Argia, moglie di Polinice; Ismene, sorella di Antigone e con lei messa a morte dal tiranno Creonte; Isifile (quella che mostrò Langia), che indicò ai sette re greci la fonte Langia presso Nemea; Manto, figlia dell'indovino Tiresia; Teti, moglie di Peleo e madre di Achille; Deidamia, la figlia del re di Sciro che si innamorò di Achille (Teti e Deidamia sono personaggi dell'Achilleide).
Le ancelle citate al v. 118 sono le ore del giorno, rappresentate classicamente come fanciulle che si avvicendano alla guida del carro del Sole: la quinta è al timone (temo) e ne drizza la punta ardente verso l'alto, perché il Sole deve giungere al meridiano.
Al v. 121 lo stremo indica l'orlo estremo della Cornice.
La voce che al v. 141 dice Di questo cibo avrete caro, cioè «avrete mancanza», ricalca il passo bibilico (Gen., II, 17) che dice de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas; alcuni argomentano che l'albero nasce da quello dell'Eden, come l'altro posto all'uscita della Cornice.
I vv. 146-147 si riferiscono all'episodio biblico in cui Daniele, fatto educare dal re babilonese Nabucodonosor, rifiutò insieme ad altri giovani i cibi prelibati della mensa regale per nutrirsi di acqua e legumi: in cambio Dio concesse loro scienza e istruzione in ogni campo del sapere e a Daniele la capacità di interpretare i sogni (Dan., I, 1-20).
Il poeta latino D. Giunio Giovenale (v. 14) visse nel 47-130 d.C. circa e fu contemporaneo di Stazio e ammiratore della Tebaide. Dante lo cita spesso, anche se non è certo ne conoscesse direttamente l'opera.
I vv. 16-17 alludono all'amore che si stringe fra persone che non si sono mai incontrate, frequente nella lirica provenzale (il cosiddetto amor de lonh).
Migliaia di lunari (v. 36) vuol dire migliaia di mesi, quindi secoli (Stazio è stato nella V Cornice oltre cinquecento anni).
Il v. 46 (Quanti risurgeran coi crini scemi) si rifà a quanto detto in Inf., VII, 55-57 sul fatto che i prodighi dannati risorgeranno il Giorno del Giudizio coi capelli tagliati, mentre gli avari col pugno chiuso.
I vv. 49-51 significano: «E sappi che la colpa che si contrappone (rimbecca) in maniera opposta all'altro peccato, qui si estingue con l'espiazione (suo verde secca, si inaridisce) insieme ad esso».
La doppia tristizia di Giocasta indica i due figli della donna, Eteocle e Polinice, che nella Tebaide si scontrarono in una lotta fratricida.
Il v. 58 indica che Clio, la Musa della poesia epica, tasta, cioè accompagna col suono della lira, il canto di Stazio.
Appresso Dio (v. 66) è stato interpretato come «verso Dio», ma è più probabile che voglia dire «dopo Dio» (quindi Stazio fu prima illuminato dalla Grazia divina, e solo in seguito da Virgilio).
I vv. 70-72 sono una traduzione letterale della IV Egloga di Vigilio, vv. 5-7: magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. / Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; / iam nova progenies caelo demittitur alto («La grande serie dei secoli ricomincia. Ecco che ritorna anche la Vergine [Astrea, dea della giustizia], ritorna il regno di Saturno [l'età dell'oro]; ecco che una nuova progenie scende dall'alto dei cieli»).
Centesmo (v. 93) vuol dire «l'ultimo anno di cento», quindi Stazio indica che la sua permanenza nella IV Cornice ha superato i 400 anni.
Gli scrittori citati da Stazio e da Virgilio (vv. 97-108) quali anime relegate nel Limbo sono P. Terenzio Afro (192-159 a.C.), commediografo latino come anche Cecilio Stazio (220-166 a.C.) e T. Maccio Plauto (254-184 a.C.); Varrone Reatino, l'erudito dell'età di Cesare (ma potrebbe essere anche Vario Rufo, amico di Virgilio ed editore dell'Eneide); A. Persio Flacco (34-62 d.C.), poeta satirico dell'età di Nerone; Omero (il Greco / che le Muse lattar...); i tragici greci Euripide (480-406 a.C.), di cui ci sono giunte diciannove tragedie, e Antifonte (IV sec. a.C.), di cui non abbiamo nulla; Simonide di Ceo (556-467 a.C.), poeta lirico greco; Agatone, tragico greco del V sec. a.C.
Ai vv. 109-114 Virgilio cita alcuni personaggi della Tebaide e dell'Achilleide: Antigone, figlia di Edipo e Giocasta, uccisa da Creonte perché seppellì il cadavere di Polinice; Deifile, moglie di Tideo che fu uno dei re che assediarono Tebe; Argia, moglie di Polinice; Ismene, sorella di Antigone e con lei messa a morte dal tiranno Creonte; Isifile (quella che mostrò Langia), che indicò ai sette re greci la fonte Langia presso Nemea; Manto, figlia dell'indovino Tiresia; Teti, moglie di Peleo e madre di Achille; Deidamia, la figlia del re di Sciro che si innamorò di Achille (Teti e Deidamia sono personaggi dell'Achilleide).
Le ancelle citate al v. 118 sono le ore del giorno, rappresentate classicamente come fanciulle che si avvicendano alla guida del carro del Sole: la quinta è al timone (temo) e ne drizza la punta ardente verso l'alto, perché il Sole deve giungere al meridiano.
Al v. 121 lo stremo indica l'orlo estremo della Cornice.
La voce che al v. 141 dice Di questo cibo avrete caro, cioè «avrete mancanza», ricalca il passo bibilico (Gen., II, 17) che dice de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas; alcuni argomentano che l'albero nasce da quello dell'Eden, come l'altro posto all'uscita della Cornice.
I vv. 146-147 si riferiscono all'episodio biblico in cui Daniele, fatto educare dal re babilonese Nabucodonosor, rifiutò insieme ad altri giovani i cibi prelibati della mensa regale per nutrirsi di acqua e legumi: in cambio Dio concesse loro scienza e istruzione in ogni campo del sapere e a Daniele la capacità di interpretare i sogni (Dan., I, 1-20).
Testo
Già era l’angel
dietro a noi rimaso,
l’angel che n’avea vòlti al sesto giro, avendomi dal viso un colpo raso; 3 e quei c’hanno a giustizia lor disiro detto n’avea beati, e le sue voci con ‘sitiunt’, sanz’altro, ciò forniro. 6 E io più lieve che per l’altre foci m’andava, sì che sanz’alcun labore seguiva in sù li spiriti veloci; 9 quando Virgilio incominciò: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore; 12 onde da l’ora che tra noi discese nel limbo de lo ‘nferno Giovenale, che la tua affezion mi fé palese, 15 mia benvoglienza inverso te fu quale più strinse mai di non vista persona, sì ch’or mi parran corte queste scale. 18 Ma dimmi, e come amico mi perdona se troppa sicurtà m’allarga il freno, e come amico omai meco ragiona: 21 come poté trovar dentro al tuo seno loco avarizia, tra cotanto senno di quanto per tua cura fosti pieno?». 24 Queste parole Stazio mover fenno un poco a riso pria; poscia rispuose: «Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno. 27 Veramente più volte appaion cose che danno a dubitar falsa matera per le vere ragion che son nascose. 30 La tua dimanda tuo creder m’avvera esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita, forse per quella cerchia dov’io era. 33 Or sappi ch’avarizia fu partita troppo da me, e questa dismisura migliaia di lunari hanno punita. 36 E se non fosse ch’io drizzai mia cura, quand’io intesi là dove tu chiame, crucciato quasi a l’umana natura: 39 ‘Per che non reggi tu, o sacra fame de l’oro, l’appetito de’ mortali?’, voltando sentirei le giostre grame. 42 Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali potean le mani a spendere, e pente’mi così di quel come de li altri mali. 45 Quanti risurgeran coi crini scemi per ignoranza, che di questa pecca toglie ‘l penter vivendo e ne li stremi! 48 E sappie che la colpa che rimbecca per dritta opposizione alcun peccato, con esso insieme qui suo verde secca; 51 però, s’io son tra quella gente stato che piange l’avarizia, per purgarmi, per lo contrario suo m’è incontrato». 54 «Or quando tu cantasti le crude armi de la doppia trestizia di Giocasta», disse ‘l cantor de’ buccolici carmi, 57 «per quello che Cliò teco lì tasta, non par che ti facesse ancor fedele la fede, sanza qual ben far non basta. 60 Se così è, qual sole o quai candele ti stenebraron sì, che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?». 63 Ed elli a lui: «Tu prima m’inviasti verso Parnaso a ber ne le sue grotte, e prima appresso Dio m’alluminasti. 66 Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte, 69 quando dicesti: ‘Secol si rinova; torna giustizia e primo tempo umano, e progenie scende da ciel nova’. 72 Per te poeta fui, per te cristiano: ma perché veggi mei ciò ch’io disegno, a colorare stenderò la mano. 75 Già era ‘l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata per li messaggi de l’etterno regno; 78 e la parola tua sopra toccata si consonava a’ nuovi predicanti; ond’io a visitarli presi usata. 81 Vennermi poi parendo tanto santi, che, quando Domizian li perseguette, sanza mio lagrimar non fur lor pianti; 84 e mentre che di là per me si stette, io li sovvenni, e i lor dritti costumi fer dispregiare a me tutte altre sette. 87 E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi di Tebe poetando, ebb’io battesmo; ma per paura chiuso cristian fu’mi, 90 lungamente mostrando paganesmo; e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi fé più che ‘l quarto centesmo. 93 Tu dunque, che levato hai il coperchio che m’ascondeva quanto bene io dico, mentre che del salire avem soverchio, 96 dimmi dov’è Terrenzio nostro antico, Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: dimmi se son dannati, e in qual vico». 99 «Costoro e Persio e io e altri assai», rispuose il duca mio, «siam con quel Greco che le Muse lattar più ch’altri mai, 102 nel primo cinghio del carcere cieco: spesse fiate ragioniam del monte che sempre ha le nutrice nostre seco. 105 Euripide v’è nosco e Antifonte, Simonide, Agatone e altri piùe Greci che già di lauro ornar la fronte. 108 Quivi si veggion de le genti tue Antigone, Deifile e Argia, e Ismene sì trista come fue. 111 Védeisi quella che mostrò Langia; èvvi la figlia di Tiresia, e Teti e con le suore sue Deidamia». 114 Tacevansi ambedue già li poeti, di novo attenti a riguardar dintorno, liberi da saliri e da pareti; 117 e già le quattro ancelle eran del giorno rimase a dietro, e la quinta era al temo, drizzando pur in sù l’ardente corno, 120 quando il mio duca: «Io credo ch’a lo stremo le destre spalle volger ne convegna, girando il monte come far solemo». 123 Così l’usanza fu lì nostra insegna, e prendemmo la via con men sospetto per l’assentir di quell’anima degna. 126 Elli givan dinanzi, e io soletto di retro, e ascoltava i lor sermoni, ch’a poetar mi davano intelletto. 129 Ma tosto ruppe le dolci ragioni un alber che trovammo in mezza strada, con pomi a odorar soavi e buoni; 132 e come abete in alto si digrada di ramo in ramo, così quello in giuso, cred’io, perché persona sù non vada. 135 Dal lato onde ‘l cammin nostro era chiuso, cadea de l’alta roccia un liquor chiaro e si spandeva per le foglie suso. 138 Li due poeti a l’alber s’appressaro; e una voce per entro le fronde gridò: «Di questo cibo avrete caro». 141 Poi disse: «Più pensava Maria onde fosser le nozze orrevoli e intere, ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde. 144 E le Romane antiche, per lor bere, contente furon d’acqua; e Daniello dispregiò cibo e acquistò savere. 147 Lo secol primo, quant’oro fu bello, fé savorose con fame le ghiande, e nettare con sete ogne ruscello. 150 Mele e locuste furon le vivande che nodriro il Batista nel diserto; per ch’elli è glorioso e tanto grande quanto per lo Vangelio v’è aperto». 154 |
ParafrasiL'angelo era ormai dietro di noi, l'angelo che ci aveva indirizzati alla VI Cornice, dopo aver cancellato dalla mia fronte la P;
e aveva dichiarato beati coloro che desiderano la giustizia, e le sue parole terminarono con 'sitiunt' senza aggiungere altro. E io camminavo più leggero che per gli altri passaggi, cosicché seguivo in alto quegli spiriti veloci senza alcuna fatica; quando Virgilio iniziò a dire: «Un amore, purché virtuoso, fu sempre corrisposto, a condizione che la sua fiamma fosse visibile; per cui, dal giorno in cui scese fra di noi nel Limbo Giovenale, che mi svelò il tuo affetto per me, la mia benevolenza verso di te fu tanta quanta mai fu provata da qualcuno per una persona mai vista, al punto che ora queste scale mi sembreranno corte. Ma dimmi, e come amico perdonami se parlo con eccessiva sicurezza, e come amico ormai parla con me: come è possibile che nel tuo cuore abbia albergato l'avarizia, nella saggezza di cui fosti ripieno per la tua sollecitudine?» Queste parole spinsero Stazio a ridere dapprima un poco; poi rispose: «Ogni tua parola è un indizio gradito del tuo affetto. In verità spesso appaiono delle cose che spingono a dubitare su questioni inesistenti, perché le cause reali sono nascoste. La tua domanda mi conferma che tu credi che io sulla Terra fossi avaro, forse perché mi trovavo in quella Cornice. Ora, sappi che l'avarizia fu troppo lontana da me, e questo eccesso è stato punito da migliaia di mesi trascorsi in Purgatorio. E se io non avessi prestato attenzione, quando lessi quel passo in cui tu, quasi crucciato contro la natura umana, affermi: 'O giusta fame dell'oro, perché non governi i cuori dei mortali?», io sarei dannato all'Inferno e farei ruotare i massi. Allora compresi che le mani potevano spendere eccessivamente e mi pentii di quella come delle altre colpe. Quanti dannati risorgeranno coi capelli tagliati per ignoranza di questo, che durante la vita e in punto di morte preclude il pentimento di questa colpa! E sappi che la colpa che si contrappone in modo opposto a un peccato, viene espiata qui insieme con esso; perciò, se io sono stato fra i penitenti che espiano l'avarizia, ciò mi è toccato per espiare il peccato opposto». «Ora, quando tu cantasti la guerra crudele dei due figli (Eteocle e Polinice) di Giocasta», disse l'autore dei carmi bucolici, «per quello che la Musa Clio suona nel tuo verso non sembra che tu avessi ancora la fede, senza la quale le buone azioni sono insufficienti. Se è così, quale sole (la Grazia) o quali candele (insegnamenti umani) ti illuminarono al punto di farti seguire il messaggio di san Pietro?» E Stazio rispose: «Tu prima mi hai inviato a bere nelle grotte di Parnaso (mi hai avviato alla poesia) e per primo mi hai illuminato dopo Dio. Hai fatto come quello che va di notte, portando il lume dietro di sé non giovando a se stesso, ma illuminando quelli che lo seguono, quando dicesti: 'Il tempo si rinnova; torna la giustizia e la prima età dell'uomo, e dal cielo scende una nuova progenie'. Grazie a te divenni poeta e cristiano: ma affinché tu capisca meglio ciò che dico, aggiungerò altri particolari. Ormai il mondo era pieno della vera religione, diffusa dai messaggeri del regno eterno (apostoli); e le tue parole che prima ho citato si adattavano ai nuovi predicanti; allora presi l'abitudine di visitarli. Mi sembrarono poi così santi, che, quando Domiziano li perseguitò, i loro pianti furono accompagnati dalle mie lacrime (provai per loro compassione); e mentre fui in vita, li aiutai e i loro retti costumi mi indussero a disprezzare ogni altro culto religioso. E prima che io portassi i Greci ai fiumi di Tebe nei miei versi (prima di completare la Tebaide), fui battezzato; ma per paura nascosi la mia religione, ostentando a lungo il paganesimo; e questa paura mi ha costretto a girare il monte nella IV Cornice oltre quattro secoli. Tu dunque, che hai sollevato il coperchio che nascondeva il bene che ti ho detto, mentre siamo impegnati a salire, dimmi dov'è il nostro antico Terenzio, e dove sono Cecilio, Plauto e Varrone (o Vario Rufo), se lo sai: dimmi se sono dannati, e in quale Cerchio». Il mio maestro rispose: «Costoro, Persio, io e molti altri siamo insieme a quel poeta greco (Omero) che le Muse allattarono più di chiunque altro, nel I Cerchio del carcere oscuro (Inferno): spesse volte parliamo del monte (Parnaso) che ha sempre con sé le nostre nutrici (Muse). Con noi ci sono anche Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone e molti altri greci che si sono ornati la fronte di alloro. Qui si vedono tra i tuoi personaggi Antigone, Deifile e Argia, e Ismene così triste come fu. Vi si vede quella (Isifile) che mostrò la fonte di Langia; vi è la figlia di Tiresia (Manto), Teti e Deidamia con le sue sorelle». I due poeti ormai tacevano, nuovamente attenti a guardarsi intorno, ormai liberi dal salire e dalle pareti (fuori dalla scala); e ormai le quattro ancelle del giorno (ore) erano rimaste indietro, e la quinta era al timone, drizzando in alto la punta ardente, quando il mio maestro disse: «Credo che ci convenga volgere le nostre spalle destre all'orlo della Cornice, girando il monte come siamo soliti fare». Così l'abitudine ci indicò cosa fare, e ci incamminammo con minore esitazione grazie al tacito assenso di quell'anima così degna (Stazio). Essi procedevano davanti e io tutto solo dietro, e ascoltavo i loro discorsi, che mi davano materia di poetare. Ma d'improvviso i dolci ragionamenti furono interrotti da un albero che trovammo in mezzo alla via, con frutti dal dolce e piacevole profumo; e come un abete diventa rado via via verso l'alto, di ramo in ramo, così quello fa verso il basso, credo per impedire che qualcuno vi si arrampichi. Dal lato in cui il nostro cammino era chiuso dalla parete del monte, dall'alta roccia sgorgava un'acqua cristallina che si spandeva tra le foglie, verso l'alto. I due poeti si avvicinarono all'albero; e una voce attraverso le foglie gridò: «Di questo cibo sentirete la mancanza». Poi aggiunse: «Maria badava più al fatto che le nozze fossero onorevoli che non alla sua bocca, che ora intercede per voi. E le antiche Romane, per bere, si accontentarono di acqua; e il profeta Daniele disprezzò il cibo e guadagnò la sapienza. Durante la prima età dell'uomo (l'età dell'oro), finché fu aurea, la fame rese appetibili le ghiande e la sete fece diventare nettare ogni ruscello. Miele e locuste furono il cibo che nutrì Giovanni Battista nel deserto; perciò egli è glorioso e tanto grande quanto vi è svelato nel Vangelo». |