Paradiso, Canto XIII
Bibbia carolingia, Salomone (IX sec.)
"...Or apri li occhi a quel ch'io ti rispondo,
e vedrai il tuo credere e 'l mio dire
nel vero farsi come centro in tondo..."
"...Onde, se ciò ch'io dissi e questo note,
regal prudenza è quel vedere impari
in che lo stral di mia intenzion percuote..."
"...Non sien le genti, ancor, troppo sicure,
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature..."
e vedrai il tuo credere e 'l mio dire
nel vero farsi come centro in tondo..."
"...Onde, se ciò ch'io dissi e questo note,
regal prudenza è quel vedere impari
in che lo stral di mia intenzion percuote..."
"...Non sien le genti, ancor, troppo sicure,
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature..."
Argomento del Canto
Ancora nel IV Cielo del Sole. Canto e danza delle due corone di spiriti sapienti. San Tommaso spiega in cosa consiste la sapienza di Salomone; monito a non emettere giudizi precipitosi.
È primo mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È primo mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Canto e danza delle due corone di spiriti (1-30)
J. Flaxman, Le due corone
Per descrivere adeguatamente il movimento rotatorio delle due corone di spiriti sapienti, Dante invita il lettore a immaginare le quindici stelle più splendenti della volta celeste, poi le sette stelle del Carro dell'Orsa Maggiore che ruota sempre nel nostro polo, infine le due stelle più basse dell'Orsa Minore: se queste ventiquattro stelle formassero due corone concentriche, che ruotassero in senso opposto, esse darebbero un'immagine sbiadita delle due corone di beati che danzano e cantano intorno al poeta e a Beatrice. Un simile spettacolo è tanto distante dalla realtà terrena quanto lo è il movimento della Chiana, che è lentissimo, rispetto a quello velocissimo del Primo Mobile; infatti il canto intonato dai beati non inneggia a Bacco o ad Apollo, bensì alla Trinità e alla duplice natura di Cristo, umana e divina. Le due corone compiono il loro giro, quindi si fermano e i beati si rivolgono a Dante, ansiosi di risolvere altri suoi dubbi.
San Tommaso riprende la parola (31-51)
Alla fine il silenzio dei beati è interrotto dall'anima (san Tommaso) che poco prima ha narrato a Dante la vita di san Francesco, dicendo che dopo aver risolto il primo dubbio del poeta relativo all'Ordine domenicano ora è pronto a sciogliere l'altro che riguarda la frase su Salomone. Dante è convinto che in Adamo, dalla cui costola è stata creata Eva, e in Cristo, che morendo sulla croce redense l'umanità del peccato originale, sia stata infusa da Dio la massima sapienza consentita a un uomo; ciò ha suscitato i dubbi di Dante, poiché Tommaso ha detto che nessun uomo è mai stato più saggio di Salomone. Il beato invita Dante ad ascoltare con attenzione il suo ragionamento, che gli spiegherà in che modo ciò che lui ha detto e ciò che il poeta crede sono parte della stessa verità.
Tommaso spiega la sapienza di Salomone (52-111)
Salomone e la regina di Saba (min. XV sec.)
Tommaso spiega che tutte le cose incorruttibili e corruttibili sono un prodotto della Trinità, in quanto il Figlio, che deriva dal Padre che lo genera attraverso l'amore dello Spirito Santo, per la sua bontà concentra i suoi raggi come se si specchiasse nei nove cori angelici, pur senza perdere la sua unità. Dagli angeli scende fino agli esseri sublunari, producendo soltanto delle contingenze, che sono le creature generate dal moto dei Cieli e non direttamente da Dio, siano esse viventi o inanimate. La materia delle cose create e l'influsso dei Cieli non sono identici, quindi la materia riflette più o meno la luce dell'idea divina; per questo alberi diversi della stessa specie fruttificano in vario modo, e gli uomini nascono con indoli differenti. Se la materia fosse la migliore possibile e l'influsso astrale nella miglior condizione, allora l'essere creato rifletterebbe tutta la luce divina, ma questo non avviene quasi mai, perché la natura che genera è imperfetta come un artista che realizza la sua opera con mano tremante. Solo ciò che è creato direttamente da Dio è perfetto, proprio come lo fu il primo uomo, Adamo, e Cristo-uomo, generato nel ventre di Maria, per cui il pensiero di Dante circa la somma perfezione della conoscenza di Adamo e Gesù è corretto. Tommaso anticipa la possibile obiezione del poeta, cioè come fu possibile che la sapienza di Salomone fosse superiore a quella di ogni altro uomo, ma il beato invita Dante a pensare all'ufficio di re ricoperto da quel personaggio, specie quando Dio gli apparve in sogno e lo invitò a chiedere cosa volesse. Tommaso non ha nascosto il fatto che Salomome fu re, e che chiese a Dio la saggezza necessaria a governare con giustizia: egli non chiese la sapienza in quanto tale, per conoscere il numero degli angeli o per dirimere questioni filosofiche o matematiche, ma solo quella sapienza necessaria a ricoprire il suo ruolo di sovrano. Quando Tommaso aveva detto surse a proposito di Salomone alludeva alla dignità regale, poiché i re sono molti e solo pochi fra questi sono saggi e giusti; l'affermazione del beato, dunque, non è affatto in contraddizione con quanto Dante crede riguardo alla sapienza di Adamo e Cristo.
Monito di Tommaso a non dare giudizi precipitosi (112-142)
Antico ritratto di Ario
Quanto detto da Tommaso deve indurre Dante ad avere i piedi di piombo quando giudica su una questione non ovvia, poiché è decisamente stolto l'uomo che si lascia andare a giudizi affrettati su ciò che non conosce: l'opinione corrente lo porta a conclusioni errate, poi l'amore per la sua tesi gli impedisce di riconsiderare la sua idea sbagliata. Chi va a pesca di verità senza esserne capace lascia la riva inutilmente e con proprio danno, il che è dimostrato dall'esempio di filosofi quali Parmenide, Meslisso e Brisone, che procedettero alla cieca; lo stesso errore commisero anche famosi eretici come Sabellio e Ario, che deformarono con le loro false dottrine la verità delle Scritture. Gli uomini non devono essere precipitosi nel giudicare, come colui che pensa che il grano sia maturo anzitempo, poiché spesso un pruno rinsecchito nell'inverno fa sbocciare i suoi fiori a primavera e una nave può percorrere speditamente la sua rotta, per poi naufragare in vista del porto. Se vediamo un uomo rubare e un altro fare pie offerte, non vuol dire che conosciamo in anticipo il loro destino ultraterreno: infatti il primo può redimersi e salvarsi, il secondo può peccare e finire dannato.
Interpretazione complessiva
Il Canto costituisce una parentesi didascalica come lo erano i Canti II, IV-V e VII, essendo dedicato in gran parte alla questione dottrinale della vera natura della sapienza di Salomone: può sembrare un argomento ozioso e di scarso interesse anche per i contemporanei del poeta, ma in realtà Dante affronta la questione assai più delicata dei limiti della sapienza umana rispetto al giudizio divino, che da un lato si collega al suo «traviamento» intellettuale tante volte evocato, dall'altro anticipa il grande tema della giustizia divina che sarà trattato nel Cielo di Giove. Il Canto del resto si apre con la descrizione delle due corone di spiriti che ruotano in senso opposto, per la quale Dante ricorre a una similitudine apparente tratta dall'ambito astronomico: il lettore deve immaginare le quindici stelle più lucenti del cielo, più le sette dell'Orsa Maggiore e le due più basse dell'Orsa Minore (24 in tutto) che formino per assurdo due corone concentriche, e avrà solo una pallida idea del meraviglioso spettacolo cui lui ha assistito nel Cielo del Sole. È il consueto tema della visione inesprimibile con parole umane, per cui il poeta è costretto a ricorrere a complesse e intellettualistiche similitudini per rappresentare solo una traccia di quanto ha visto (cfr. il proemio, I, 1-12), ma è anche il preannuncio del tema al centro del Canto, ovvero il limite insuperabile della sapienza (e dunque della ragione) umana che non può conoscere tutto, come nel caso di complesse questioni filosofiche e scientifiche e del delicato problema della salvezza che sarà ampiamente discusso dall'aquila nel Canto XX. Dante sottolinea che il canto dei beati va al di là di ogni realtà umana, quindi non si può descrivere col solo ausilio della parola poetica (cfr. X, 70-75; XII, 7-9), anche perché esso inneggia alla Trinità il cui mistero, pochi versi più avanti, sarà oggetto della dotta spiegazione di san Tommaso.
È il beato a riprendere la parola dopo la fine del canto degli altri spiriti, per sciogliere il dubbio di Dante riguardo a quanto da lui detto a proposito di Salomone, ovvero che in lui fu posta da Dio tanta sapienza che a veder tanto non surse il secondo (X, 114). Tale affermazione trae spunto dal passo biblico (III Reg., III, 5-12) in cui Dio appare in sogno al re d'Israele e gli chiede cosa desideri, al che Salomone risponde di volere la saggezza necessaria a giudicare il suo popolo e distinguere il bene dal male; Dio esaudisce la sua richiesta e dichiara dedi tibi cor sapiens et intelligens, in tantum ut nullus ante similis tui fuerit nec post te surrecturus sit («ti ho dato un cuore saggio e sapiente, al punto che nessuno è stato simile a te in precedenza, né alcuno nascerà in futuro»). Il dubbio di Dante nasce dal fatto che egli sa in base alla dottrina che la massima sapienza fu quella infusa da Dio in Adamo e Cristo-uomo, che erano perfetti in quanto creati direttamente da Dio, quindi ciò sembra contraddire il passo scritturale, ma Tommaso dimostra con una lunga e complessa spiegazione filosofica (simile nella sua struttura a una lectio magistralis piena di tecnicismi della Scolastica) che così non è, partendo dal mistero della Trinità che egli non spiega in quanto inconoscibile all'uomo, ma che gli permette di illustrare come solo ciò che è creato direttamente da Dio è perfetto, cosa che non si può certo dire per Salomone (vari sono i riferimenti alla questione della corruttibilità dei corpi toccata da Beatrice in VII, 121-148). La sapienza chiesta a Dio da Salomone e a lui concessa riguardava il suo ufficio di re, la necessità di giudicare e distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ovvero il tema trattato nel libro della Sapienza attribuito a Salomone stesso (da lì Dante trae il monito Diligite iustitiam, qui iudicatis terram di XVIII, 52-87), non certo questioni filosofiche o matematiche come quelle esemplificate nei vv. 97-102 e neppure quella dottrinale del numero degli angeli, che altrove il poeta definirà insolubile per l'intelletto umano (XXVIII, 92-93; XXIX, 130-135). Tommaso sottolinea dunque il limite invalicabile della ragione umana, che deve arrestarsi di fronte ad argomenti superiori alle sue forze come quelli della fede, per cui sembra di leggere un riferimento abbastanza trasparente al cosiddetto «traviamento» di Dante, al suo tentativo di arrivare alla piena conoscenza solo grazie alla ragione e all'intelletto: da qui, probabilmente, nasce il monito finale del beato a non emettere giudizi precipitosi e superficiali, come hanno fatto in passato filosofi pagani quali Parmenide, Melisso e Brisone, nonché eretici come Sabellio e Ario, quasi ad affermare che troppa facilità nel giudicare su delicati argomenti filosofici può portare a pericolose deviazioni sul piano dell'ortodossia. Altrettanta prudenza è necessaria anche rispetto al tema, ugualmente delicato sul piano dottrinale, della salvezza, che viene decretata dalla giustizia divina in modi non sempre conoscibili dalla ragione umana: ciò è legato anzitutto al destino ultraterreno dello stesso Salomone, cui la Scrittura attribuiva il peccato di lussuria senile e la cui salvezza era dubbia per gli uomini (Tommaso l'aveva già accennato in X, 109-111), ma si riferisce in generale a tutti i casi di inattese dannazioni e clamorose salvezze che Dante ha mostrato nel corso del poema, di cui Guido da Montefeltro e Manfredi erano gli esempi più lampanti. Tommaso ribadisce che solo Dio nella sua infinita saggezza può conoscere in anticipo il destino escatologico delle persone, per cui un uomo può rubare e poi ravvedersi guadagnando la salvezza, mentre un altro può fare pie offerte e in seguito peccare e finire all'Inferno; è il delicatissimo problema della predestinazione, che sarà ampiamente spiegato dall'aquila nel Cielo di Giove e che vedrà anche in quel caso due clamorosi esempi di salvezza imprevedibile, ovvero l'imperatore Traiano e Rifeo che saranno fra i beati dell'occhio dell'aquila e che la sola sapienza umana, con tutit i limiti che san Tommaso ha ben evidenziato in questo Canto, non può pretendere di comprendere razionalmente.
È il beato a riprendere la parola dopo la fine del canto degli altri spiriti, per sciogliere il dubbio di Dante riguardo a quanto da lui detto a proposito di Salomone, ovvero che in lui fu posta da Dio tanta sapienza che a veder tanto non surse il secondo (X, 114). Tale affermazione trae spunto dal passo biblico (III Reg., III, 5-12) in cui Dio appare in sogno al re d'Israele e gli chiede cosa desideri, al che Salomone risponde di volere la saggezza necessaria a giudicare il suo popolo e distinguere il bene dal male; Dio esaudisce la sua richiesta e dichiara dedi tibi cor sapiens et intelligens, in tantum ut nullus ante similis tui fuerit nec post te surrecturus sit («ti ho dato un cuore saggio e sapiente, al punto che nessuno è stato simile a te in precedenza, né alcuno nascerà in futuro»). Il dubbio di Dante nasce dal fatto che egli sa in base alla dottrina che la massima sapienza fu quella infusa da Dio in Adamo e Cristo-uomo, che erano perfetti in quanto creati direttamente da Dio, quindi ciò sembra contraddire il passo scritturale, ma Tommaso dimostra con una lunga e complessa spiegazione filosofica (simile nella sua struttura a una lectio magistralis piena di tecnicismi della Scolastica) che così non è, partendo dal mistero della Trinità che egli non spiega in quanto inconoscibile all'uomo, ma che gli permette di illustrare come solo ciò che è creato direttamente da Dio è perfetto, cosa che non si può certo dire per Salomone (vari sono i riferimenti alla questione della corruttibilità dei corpi toccata da Beatrice in VII, 121-148). La sapienza chiesta a Dio da Salomone e a lui concessa riguardava il suo ufficio di re, la necessità di giudicare e distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ovvero il tema trattato nel libro della Sapienza attribuito a Salomone stesso (da lì Dante trae il monito Diligite iustitiam, qui iudicatis terram di XVIII, 52-87), non certo questioni filosofiche o matematiche come quelle esemplificate nei vv. 97-102 e neppure quella dottrinale del numero degli angeli, che altrove il poeta definirà insolubile per l'intelletto umano (XXVIII, 92-93; XXIX, 130-135). Tommaso sottolinea dunque il limite invalicabile della ragione umana, che deve arrestarsi di fronte ad argomenti superiori alle sue forze come quelli della fede, per cui sembra di leggere un riferimento abbastanza trasparente al cosiddetto «traviamento» di Dante, al suo tentativo di arrivare alla piena conoscenza solo grazie alla ragione e all'intelletto: da qui, probabilmente, nasce il monito finale del beato a non emettere giudizi precipitosi e superficiali, come hanno fatto in passato filosofi pagani quali Parmenide, Melisso e Brisone, nonché eretici come Sabellio e Ario, quasi ad affermare che troppa facilità nel giudicare su delicati argomenti filosofici può portare a pericolose deviazioni sul piano dell'ortodossia. Altrettanta prudenza è necessaria anche rispetto al tema, ugualmente delicato sul piano dottrinale, della salvezza, che viene decretata dalla giustizia divina in modi non sempre conoscibili dalla ragione umana: ciò è legato anzitutto al destino ultraterreno dello stesso Salomone, cui la Scrittura attribuiva il peccato di lussuria senile e la cui salvezza era dubbia per gli uomini (Tommaso l'aveva già accennato in X, 109-111), ma si riferisce in generale a tutti i casi di inattese dannazioni e clamorose salvezze che Dante ha mostrato nel corso del poema, di cui Guido da Montefeltro e Manfredi erano gli esempi più lampanti. Tommaso ribadisce che solo Dio nella sua infinita saggezza può conoscere in anticipo il destino escatologico delle persone, per cui un uomo può rubare e poi ravvedersi guadagnando la salvezza, mentre un altro può fare pie offerte e in seguito peccare e finire all'Inferno; è il delicatissimo problema della predestinazione, che sarà ampiamente spiegato dall'aquila nel Cielo di Giove e che vedrà anche in quel caso due clamorosi esempi di salvezza imprevedibile, ovvero l'imperatore Traiano e Rifeo che saranno fra i beati dell'occhio dell'aquila e che la sola sapienza umana, con tutit i limiti che san Tommaso ha ben evidenziato in questo Canto, non può pretendere di comprendere razionalmente.
Note e passi controversi
Le quindici stelle citate al v. 4 sono le più luminose della volta celeste, ovvero quelle di prima grandezza catalogate nell'Almagesto di Tolomeo (Dante conosceva questo trattato di astronomia per via indiretta).
Il carro citato al v. 7 è l'Orsa Maggiore, che essendo una costellazione circumpolare non tramonta mai e resta sempre nel polo artico.
I vv. 10-12 si riferiscono all'Orsa Minore, descritta come un corno la cui punta coincide con la Stella Polare, mentre la parte bassa (la bocca) è formata dalle due stelle più basse dell'Orsa. La Stella Polare si trova sull'asse sul quale Dante immagina che ruoti il Primo Mobile (la prima rota).
I vv. 12-14 alludono al mito di Arianna, la cui ghirlanda venne tramutata da Bacco nella costellazione della Corona: Dante si rifà certo a Ovidio (Met., VIII, 177-182), anche se attribuisce la trasformazione ad Arianna morente.
Il v. 18 viene interpretato nel senso che le due corone ruotano in senso opposto, ma alcuni pensano che quella esterna semplicemente ruoti più velocemente dell'altra.
La Chiana (v. 23) è un fiume della Toscana, che al tempo di Dante si impaludava nella Val di Chiana (ricordata come luogo di malaria in Inf., XXIX, 47) e scorreva lentissimo. Il ciel che tutti li altri avanza è il Primo Mobile, che ruota più rapidamente di tutti gli altri.
Al v. 25 Peana indica l'inno che si cantava in onore di Apollo, quindi per metonimia indica il dio stesso.
I vv. 34-36 alludono alla trebbiatura del grano, le cui spighe vengono battute sull'aia e le cui sementi sono poi riposte nel granaio. Tommaso vuol dire che, dopo aver risolto il primo dubbio di Dante, è pronto a risolvere il secondo.
Ai vv. 36 ss. Adamo è indicato come il petto da cui fu tratta la costola che creò Eva, la bella guancia / il cui palato a tutto 'l mondo costa (il riferimento è al peccato originale), mentre Cristo-uomo è il petto forato da la lancia sulla croce che, morendo, riscattò lo stesso peccato originale. In entrambi venne infusa da Dio la massima sapienza.
I vv. 50-51 indicano che le due affermazioni fanno parte della stessa verità, come tutti i punti del cerchio sono alla stessa distanza dal centro.
I vv. 52 ss. illustrano il mistero della Trinità: il Figlio è idea, «logos», del Padre, che la genera amando (con lo Spirito Santo); il Figlio o Verbo Divino (quella viva luce) deriva dal Padre (dal suo lucente) ed è da Lui inscindibile, come lo è lo Spirito Santo che s'intrea, si unisce a Loro come terzo. Mea è latinismo, nel senso di «procede», mentre s'intrea è neologismo dantesco come s'incinqua di IX, 40.
I vv. 58 ss. contengono molti termini tecnici della Scolastica: le nove sussistenze sono i nove cori angelici, le ultime potenze sono gli elementi del mondo sublunare e materiale, le contingenze sono le cose che possono essere e non essere, quindi le cose create in modo effimero.
I vv. 79-81, di difficile interpretazione, vogliono probabilmente dire: «ma se lo Spirito Santo dispone e suggella il Verbo del Padre, nella natura si ottiene tutta la perfezione». Tommaso intende che solo ciò che è creato direttamente da Dio è perfetto.
Il v. 93 si riferisce al passo biblico in cui Salomone chiese la sapienza (III Reg., III, 5-12).
I vv. 97-102 elencano quattro problemi insolubili per la mente umana: quale sia il numero degli angeli, una quesione di logica aristotelica, l'esistenza di un primo moto non generato da altro moto e se in un semicerchio si può inscrivere un triangolo non rettangolo.
Al v. 104 impàri è aggettivo («impari», «senza pari») e non verbo come inteso da alcuni commentatori.
Il v. 106 chiarisce che il senso di surse nelle parole di Tommaso (X, 114) era «fu innalzato alla dignità di re» e non semplicemente «nacque».
Al v. 125 sono citati alcuni filosofi greci: Parmenide di Elea (V sec. a.C.), autore di un poema didascalico Sulla natura, oggi perduto; Melisso di Samo (metà V sec. a.C.), discepolo di Parmenide e anch'egli autore di un poema con lo stesso titolo; Brisone di Eraclea, figlio di Erodoto e discepolo di Socrate, che tentò di risolvere la quadratura del cerchio. Dante li critica in quanto tentarono di trovare risposte su questioni inconoscibili per l'uomo.
Al v. 127 sono citati l'eretico Sabellio (III sec. d.C.), autore di una dottrina che negava la Trinità, e Ario (IV sec. d.C.), che negava la natura divina di Cristo; entrambi dunque negavano i due articoli di fede citati da Dante ai vv. 26-27. I vv. 128-129 vogliono dire che furono come spade la cui lucida superficie deformò, riflettendole, le verità scritturali, oppure che le mutilarono orrendamente.
Berta e Martino (v. 139) sono nomi convenzionali di uso assai frequente nella lett. medievale, a indicare persone qualunque (come i nostri Tizio e Caio); i titoli donna e ser vogliono forse indicare saccenteria presuntuosa.
Il vb. offerere (v. 140) indica «fare pie offerte» e contiene forse un riferimento polemico alla vendita delle indulgenze.
Il carro citato al v. 7 è l'Orsa Maggiore, che essendo una costellazione circumpolare non tramonta mai e resta sempre nel polo artico.
I vv. 10-12 si riferiscono all'Orsa Minore, descritta come un corno la cui punta coincide con la Stella Polare, mentre la parte bassa (la bocca) è formata dalle due stelle più basse dell'Orsa. La Stella Polare si trova sull'asse sul quale Dante immagina che ruoti il Primo Mobile (la prima rota).
I vv. 12-14 alludono al mito di Arianna, la cui ghirlanda venne tramutata da Bacco nella costellazione della Corona: Dante si rifà certo a Ovidio (Met., VIII, 177-182), anche se attribuisce la trasformazione ad Arianna morente.
Il v. 18 viene interpretato nel senso che le due corone ruotano in senso opposto, ma alcuni pensano che quella esterna semplicemente ruoti più velocemente dell'altra.
La Chiana (v. 23) è un fiume della Toscana, che al tempo di Dante si impaludava nella Val di Chiana (ricordata come luogo di malaria in Inf., XXIX, 47) e scorreva lentissimo. Il ciel che tutti li altri avanza è il Primo Mobile, che ruota più rapidamente di tutti gli altri.
Al v. 25 Peana indica l'inno che si cantava in onore di Apollo, quindi per metonimia indica il dio stesso.
I vv. 34-36 alludono alla trebbiatura del grano, le cui spighe vengono battute sull'aia e le cui sementi sono poi riposte nel granaio. Tommaso vuol dire che, dopo aver risolto il primo dubbio di Dante, è pronto a risolvere il secondo.
Ai vv. 36 ss. Adamo è indicato come il petto da cui fu tratta la costola che creò Eva, la bella guancia / il cui palato a tutto 'l mondo costa (il riferimento è al peccato originale), mentre Cristo-uomo è il petto forato da la lancia sulla croce che, morendo, riscattò lo stesso peccato originale. In entrambi venne infusa da Dio la massima sapienza.
I vv. 50-51 indicano che le due affermazioni fanno parte della stessa verità, come tutti i punti del cerchio sono alla stessa distanza dal centro.
I vv. 52 ss. illustrano il mistero della Trinità: il Figlio è idea, «logos», del Padre, che la genera amando (con lo Spirito Santo); il Figlio o Verbo Divino (quella viva luce) deriva dal Padre (dal suo lucente) ed è da Lui inscindibile, come lo è lo Spirito Santo che s'intrea, si unisce a Loro come terzo. Mea è latinismo, nel senso di «procede», mentre s'intrea è neologismo dantesco come s'incinqua di IX, 40.
I vv. 58 ss. contengono molti termini tecnici della Scolastica: le nove sussistenze sono i nove cori angelici, le ultime potenze sono gli elementi del mondo sublunare e materiale, le contingenze sono le cose che possono essere e non essere, quindi le cose create in modo effimero.
I vv. 79-81, di difficile interpretazione, vogliono probabilmente dire: «ma se lo Spirito Santo dispone e suggella il Verbo del Padre, nella natura si ottiene tutta la perfezione». Tommaso intende che solo ciò che è creato direttamente da Dio è perfetto.
Il v. 93 si riferisce al passo biblico in cui Salomone chiese la sapienza (III Reg., III, 5-12).
I vv. 97-102 elencano quattro problemi insolubili per la mente umana: quale sia il numero degli angeli, una quesione di logica aristotelica, l'esistenza di un primo moto non generato da altro moto e se in un semicerchio si può inscrivere un triangolo non rettangolo.
Al v. 104 impàri è aggettivo («impari», «senza pari») e non verbo come inteso da alcuni commentatori.
Il v. 106 chiarisce che il senso di surse nelle parole di Tommaso (X, 114) era «fu innalzato alla dignità di re» e non semplicemente «nacque».
Al v. 125 sono citati alcuni filosofi greci: Parmenide di Elea (V sec. a.C.), autore di un poema didascalico Sulla natura, oggi perduto; Melisso di Samo (metà V sec. a.C.), discepolo di Parmenide e anch'egli autore di un poema con lo stesso titolo; Brisone di Eraclea, figlio di Erodoto e discepolo di Socrate, che tentò di risolvere la quadratura del cerchio. Dante li critica in quanto tentarono di trovare risposte su questioni inconoscibili per l'uomo.
Al v. 127 sono citati l'eretico Sabellio (III sec. d.C.), autore di una dottrina che negava la Trinità, e Ario (IV sec. d.C.), che negava la natura divina di Cristo; entrambi dunque negavano i due articoli di fede citati da Dante ai vv. 26-27. I vv. 128-129 vogliono dire che furono come spade la cui lucida superficie deformò, riflettendole, le verità scritturali, oppure che le mutilarono orrendamente.
Berta e Martino (v. 139) sono nomi convenzionali di uso assai frequente nella lett. medievale, a indicare persone qualunque (come i nostri Tizio e Caio); i titoli donna e ser vogliono forse indicare saccenteria presuntuosa.
Il vb. offerere (v. 140) indica «fare pie offerte» e contiene forse un riferimento polemico alla vendita delle indulgenze.
Testo Imagini, chi bene intender cupe
quel ch’i’ or vidi - e ritegna l’image, mentre ch’io dico, come ferma rupe -, 3 quindici stelle che ‘n diverse plage lo ciel avvivan di tanto sereno che soperchia de l’aere ogne compage; 6 imagini quel carro a cu’ il seno basta del nostro cielo e notte e giorno, sì ch’al volger del temo non vien meno; 9 imagini la bocca di quel corno che si comincia in punta de lo stelo a cui la prima rota va dintorno, 12 aver fatto di sé due segni in cielo, qual fece la figliuola di Minoi allora che sentì di morte il gelo; 15 e l’un ne l’altro aver li raggi suoi, e amendue girarsi per maniera che l’uno andasse al primo e l’altro al poi; 18 e avrà quasi l’ombra de la vera costellazione e de la doppia danza che circulava il punto dov’io era: 21 poi ch’è tanto di là da nostra usanza, quanto di là dal mover de la Chiana si move il ciel che tutti li altri avanza. 24 Lì si cantò non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura, e in una persona essa e l’umana. 27 Compié ‘l cantare e ‘l volger sua misura; e attesersi a noi quei santi lumi, felicitando sé di cura in cura. 30 Ruppe il silenzio ne’ concordi numi poscia la luce in che mirabil vita del poverel di Dio narrata fumi, 33 e disse: «Quando l’una paglia è trita, quando la sua semenza è già riposta, a batter l’altra dolce amor m’invita. 36 Tu credi che nel petto onde la costa si trasse per formar la bella guancia il cui palato a tutto ‘l mondo costa, 39 e in quel che, forato da la lancia, e prima e poscia tanto sodisfece, che d’ogne colpa vince la bilancia, 42 quantunque a la natura umana lece aver di lume, tutto fosse infuso da quel valor che l’uno e l’altro fece; 45 e però miri a ciò ch’io dissi suso, quando narrai che non ebbe ‘l secondo lo ben che ne la quinta luce è chiuso. 48 Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo, e vedrai il tuo credere e ‘l mio dire nel vero farsi come centro in tondo. 51 Ciò che non more e ciò che può morire non è se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro Sire; 54 ché quella viva luce che sì mea dal suo lucente, che non si disuna da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea, 57 per sua bontate il suo raggiare aduna, quasi specchiato, in nove sussistenze, etternalmente rimanendosi una. 60 Quindi discende a l’ultime potenze giù d’atto in atto, tanto divenendo, che più non fa che brevi contingenze; 63 e queste contingenze essere intendo le cose generate, che produce con seme e sanza seme il ciel movendo. 66 La cera di costoro e chi la duce non sta d’un modo; e però sotto ‘l segno ideale poi più e men traluce. 69 Ond’elli avvien ch’un medesimo legno, secondo specie, meglio e peggio frutta; e voi nascete con diverso ingegno. 72 Se fosse a punto la cera dedutta e fosse il cielo in sua virtù supprema, la luce del suggel parrebbe tutta; 75 ma la natura la dà sempre scema, similemente operando a l’artista ch’a l’abito de l’arte ha man che trema. 78 Però se ‘l caldo amor la chiara vista de la prima virtù dispone e segna, tutta la perfezion quivi s’acquista. 81 Così fu fatta già la terra degna di tutta l’animal perfezione; così fu fatta la Vergine pregna; 84 sì ch’io commendo tua oppinione, che l’umana natura mai non fue né fia qual fu in quelle due persone. 87 Or s’i’ non procedesse avanti piùe, ‘Dunque, come costui fu sanza pare?’ comincerebber le parole tue. 90 Ma perché paia ben ciò che non pare, pensa chi era, e la cagion che ‘l mosse, quando fu detto "Chiedi", a dimandare. 93 Non ho parlato sì, che tu non posse ben veder ch’el fu re, che chiese senno acciò che re sufficiente fosse; 96 non per sapere il numero in che enno li motor di qua sù, o se necesse con contingente mai necesse fenno; 99 non si est dare primum motum esse, o se del mezzo cerchio far si puote triangol sì ch’un retto non avesse. 102 Onde, se ciò ch’io dissi e questo note, regal prudenza è quel vedere impari in che lo stral di mia intenzion percuote; 105 e se al "surse" drizzi li occhi chiari, vedrai aver solamente respetto ai regi, che son molti, e ‘ buon son rari. 108 Con questa distinzion prendi ‘l mio detto; e così puote star con quel che credi del primo padre e del nostro Diletto. 111 E questo ti sia sempre piombo a’ piedi, per farti mover lento com’uom lasso e al sì e al no che tu non vedi: 114 ché quelli è tra li stolti bene a basso, che sanza distinzione afferma e nega ne l’un così come ne l’altro passo; 117 perch’elli ‘ncontra che più volte piega l’oppinion corrente in falsa parte, e poi l’affetto l’intelletto lega. 120 Vie più che ‘ndarno da riva si parte, perché non torna tal qual e’ si move, chi pesca per lo vero e non ha l’arte. 123 E di ciò sono al mondo aperte prove Parmenide, Melisso e Brisso e molti, li quali andaro e non sapean dove; 126 sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti che furon come spade a le Scritture in render torti li diritti volti. 129 Non sien le genti, ancor, troppo sicure a giudicar, sì come quei che stima le biade in campo pria che sien mature; 132 ch’i’ ho veduto tutto ‘l verno prima lo prun mostrarsi rigido e feroce; poscia portar la rosa in su la cima; 135 e legno vidi già dritto e veloce correr lo mar per tutto suo cammino, perire al fine a l’intrar de la foce. 138 Non creda donna Berta e ser Martino, per vedere un furare, altro offerere, vederli dentro al consiglio divino; ché quel può surgere, e quel può cadere». 142 |
ParafrasiChi desidera capire bene ciò che io vidi, immagini (e mentre parlo tenga fissa l'immagine nella sua mente, come una roccia), quindici stelle che in diversi punti del cielo lo illuminano in modo tale da vincere ogni nebulosità;
immagini poi il Carro dell'Orsa Maggiore, a cui lo spazio del nostro polo è sufficiente per il moto diurno e notturno, cosicché al volgere del suo timone non tramonta mai; immagini la parte bassa di quel corno (l'Orsa Minore) che ha il vertice nella punta (la Stella Polare) dell'asse attorno a cui ruota il Primo Mobile, come se queste 24 stelle avessero formato due corone in cielo, simili a quella in cui Arianna, vicina alla morte, si tramutò; e immagini che queste due corone, concentriche, ruotino in modo che ciascuna proceda in una direzione opposta; e avrà quasi un'ombra della vera costellazione (le due corone di beati) e della doppia danza che circondava il punto dove ero io: infatti quello spettacolo trascende a tal punto le cose del mondo, quanto lo scorrere lento della Chiana è superato dal Primo Mobile, il Cielo più veloce di tutti. Lì non si inneggiava agli dei Bacco o Apollo, ma alle tre persone della Trinità e alla duplice natura di Cristo. Il canto e la danza dei beati si compì; e quelle sante luci si rivolsero a noi, gioiose di passare da una cura (il canto e la danza) a un'altra (risolvere i dubbi di Dante). In seguito a rompere il silenzio di quei beati concordi fu la luce (san Tommaso) che prima mi aveva raccontato la meravigliosa vita del poverello di Dio (san Francesco), e disse: «Quando una parte delle spighe è stata trebbiata e le sementi riposte nel granaio, il dolce amore di Dio mi invita a trebbiare l'altra parte. Tu credi che nel petto di Adamo, da dove fu presa la costola per creare la bella guancia (Eva) il cui palato è costato all'umanità il peccato originale (per aver gustato il frutto proibito), e nel petto di Cristo che, forato dalla lancia, redense tutti gli uomini vissuti prima e dopo dallo stesso peccato originale, fosse infusa tutta la sapienza che è lecita alla natura umana, da Dio stesso che creò l'uno e l'altro; e perciò ti meravigli di quanto ho detto prima, quando ho spiegato che il beato (Salomone) chiuso nella quinta luce non ebbe un altro pari a lui. Ora ascolta bene quello che ti spiegherò e vedrai che la tua convinzione e le mie parole fanno parte della stessa verità. Ciò che è incorruttibile e ciò che è corruttibile non è altro che riflesso di quell'Idea (il Figlio) che il nostro Signore (il Padre), amando, genera con lo Spirito Santo; perché quella viva luce (il Figlio) che promana da chi la genera (il Padre), che non si disunisce da Lui né dallo Spirito Santo che si inserisce come terzo fra Loro, per la sua bontà raccoglie i suoi raggi nei nove cori angelici, come specchiandosi, restando eternamente una sola persona. Da qui scende in basso alle creature materiali, di Cielo in Cielo, riducendosi al punto che produce solo cose effimere; e intendo che queste cose effimere sono le cose generate, che i Cieli col loro movimento creano con seme (gli esseri viventi) o senza (gli esseri inanimati). La materia di queste creature e l'influsso celeste non sono uguali; e dunque esse riflettono in maggiore o minor misura l'idea divina che le suggella. Per questo accade che alberi della stessa specie fanno frutti in modo migliore e peggiore; e voi uomini nascete con indole differente. Se la materia fosse la migliore possibile e il Cielo esercitasse la sua virtù al massimo grado, allora la luce divina apparirebbe in modo perfetto; ma la natura presenta la materia sempre in modo imperfetto, operando come l'artista che ha la mano tremante mentre esercita la sua arte. Dunque, se lo Spirito Santo imprime la luce della potenza divina, allora la cosa creata è pienamente perfetta. Così la Terra fu creata degna di tutta la perfezione degli esseri animati (quando fu creato Adamo); così la Vergine fu resa incinta di Cristo-uomo; pertanto approvo la tua opinione, che la natura umana non fu mai perfetta né mai lo sarà come in quelle due persone (Adamo e Cristo-uomo). Ora, se io non dicessi altro, tu obietteresti: 'Dunque, come può essere che Salomone fu senza pari?' Ma affinché questa verità risalti chiaramente, pensa chi era e quale ragione lo spinse a chiedere la sapienza quando Dio lo invitò a chiedere cosa volesse. Non ho parlato in modo che tu non possa capire che egli fu re, e che chiese la sapienza per svolgere in modo adeguato il suo ufficio di sovrano; (chiese la sapienza) non per sapere il numero degli angeli, o se una premessa necessaria e una contingente hanno mai prodotto una conseguenza necessaria; non per sapere se è ammissibile un primo moto non generato da altro moto, o se in un semicerchio si può inscrivere un triangolo non rettangolo. Allora, se pensi a questo e a quello che ho detto prima, ecco che quella sapienza senza pari che ho voluto intendere non è altro che la sapienza di un re; e se ripensi a quando ho detto "surse", capirai che volevo solo riferirmi ai re, che sono molti, mentre i re buoni sono rari. Interpreta le mie parole con queste distinzioni e così si accordano perfettamente con ciò che credi del primo padre (Adamo) e del nostro Diletto (Cristo). E questo ti induca sempre a procedere coi piedi di piombo, con la cautela di chi cammina lentamente e stanco, quando giudichi di qualcosa che non riesci a comprendere: infatti è decisamente stolto colui che afferma o nega una cosa senza riflettere, sia in un caso che nell'altro; e avviene spesso che l'opinione corrente spinge verso una falsa convinzione, e poi l'amore per la propria idea impedisce all'intelletto di ragionare. Non solo invano ma anche con danno lascia la riva chi va a pesca del vero e non ne è capace, perché non torna nella condizione con cui è partito. E questo nel mondo è dimostrato da Parmenide, Melisso e Brisone, che procedettero senza sapere dove andavano; così fecero Sabellio, Ario e quegli stolti che furono come spade verso le Scritture, deformando i volti regolari. Le genti, inoltre, non siano troppo frettolose a giudicare, come colui che calcola il valore delle messi quando non sono ancora mature nel campo; infatti io ho visto il pruno tutto l'inverno stare rinsecchito e sterile, e poi in primavera fare sbocciare una rosa sul suo ramo; e ho visto una nave procedere rapida e veloce lungo la sua rotta, per poi affondare all'entrata nel porto. Non credano donna Berta e ser Martino che, se vedono un uomo che ruba e un altro che fa pie offerte, essi siano già giudicati da Dio; infatti il primo può salvarsi, l'altro può finire dannato». |