Paradiso, Canto XXIV
A. Vanni, San Pietro (1390)
Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com'i' ho detto...
"...fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate"...
"...e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto 'sono' ed 'este'..."
a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com'i' ho detto...
"...fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate"...
"...e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto 'sono' ed 'este'..."
Argomento del Canto
Ancora nell'VIII Cielo delle Stelle Fisse. Beatrice si rivolge agli Apostoli e a san Pietro; questi esamina Dante sul possesso della fede. Approvazione e benedizione di san Pietro.
È il pomeriggio di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È il pomeriggio di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Beatrice si rivolge agli Apostoli. Apparizione di san Pietro (1-27)
Cristo e gli Apostoli (min. XVII sec.)
Beatrice si rivolge ai beati e in particolare agli Apostoli, che sono sempre sazi del bene supremo concesso loro da Cristo, invitandoli a concedere un po' della loro sapienza a Dante cui la grazia permette di visitare il Paradiso prima della morte, raccogliendo alcune delle briciole che cadono dal loro banchetto. Le luci dei beati iniziano a ruotare formando dei cerchi col centro fisso, simili agli ingranaggi dell'orologio che girano più o meno velocemente: dal cerchio che al poeta sembra più prezioso esce una luce che splende più di tutte le altre (san Pietro), la quale ruota tre volte intorno a Beatrice e intona un canto talmente celestiale che Dante non può descriverlo. La fantasia umana, infatti, è troppo inadeguata a rappresentare cose tanto elevate, come se un pittore volesse dipingere le pieghe di una veste con un colore troppo vivace.
Beatrice prega san Pietro di esaminare Dante sulla fede (28-45)
San Pietro si arresta dopo questo movimento e si rivolge a Beatrice, dichiarando che l'amore ardente della donna lo ha spinto a uscire dal cerchio di anime. Beatrice riprende la parola pregando il santo, cui Cristo affidò simbolicamente le chiavi del Paradiso, di mettere alla prova Dante intorno all'argomento della fede, in nome della quale egli ha camminato sulle acque insieme a Gesù. Se Dante possiede in modo integro le tre virtù teologali la cosa non può essere ignota a Pietro, che legge nella mente di Dio, tuttavia non per questo dovrà esaminare Dante ma per consentirgli di esaltare la fede stessa, grazie alla quale si diventa cittadini del Paradiso.
Beatrice prega san Pietro di esaminare Dante sulla fede (28-45)
San Pietro si arresta dopo questo movimento e si rivolge a Beatrice, dichiarando che l'amore ardente della donna lo ha spinto a uscire dal cerchio di anime. Beatrice riprende la parola pregando il santo, cui Cristo affidò simbolicamente le chiavi del Paradiso, di mettere alla prova Dante intorno all'argomento della fede, in nome della quale egli ha camminato sulle acque insieme a Gesù. Se Dante possiede in modo integro le tre virtù teologali la cosa non può essere ignota a Pietro, che legge nella mente di Dio, tuttavia non per questo dovrà esaminare Dante ma per consentirgli di esaltare la fede stessa, grazie alla quale si diventa cittadini del Paradiso.
Inizio dell'esame: la definizione della fede (46-78)
G. Di Paolo, Esame di Dante
Dante si sente come il baccelliere, ovvero lo studente candidato a sostenere l'esame finale di teologia, che prepara gli argomenti della discussione e non parla finché il maestro non ha proposto la questione da dirimere, che egli dovrà confermare e non confutare. Infatti anche il poeta si prepara a rispondere alle domande di san Pietro, che dovrà sondare il suo possesso della fede: il beato si rivolge a lui e gli chiede di dare una definizione della fede, per cui Dante alza la fronte verso la luce dello spirito e poi guarda Beatrice, la quale con un cenno lo rassicura e lo invita a parlare senza timore. Dante invoca la grazia affinché gli consenta di esprimersi di fronte al fondatore della Chiesa, quindi recita la definizione della fede scritta da san Paolo, in base alla quale essa è sostanza di cose sperate e dimostrazione di quelle che non sono manifeste. Pietro ribatte che tale definizione è corretta, a patto che il poeta sappia perché san Paolo ha parlato di sostanza e dimostrazione. Dante risponde che i misteri divini, che ora gli sono manifesti, sulla Terra sono invisibili e perciò possono essere oggetto solamente di fede, su cui si fonda la speranza della beatitudine, perciò è corretto parlare di sostanza. Poiché inoltre è possibile solo dedurre logicamente circa questioni su cui non esistono prove tangibili, è corretto parlare di dimostrazione.
Il possesso della fede e la sua fonte (79-96)
Masaccio, S. Pietro battezza i neofiti (XV sec.)
San Pietro ribatte che se sulla Terra la dottrina fosse intesa da tutti in modo chiaro come lo è da Dante, non ci sarebbe spazio per alcun sofismo. Aggiunge poi che il poeta dimostra di conoscere il valore della fede, ma gli chiede di dichiarare che ne è in possesso. Dante afferma di possedere la fede in modo integro e senza nutrire alcun dubbio, quindi Pietro domanda da dove essa sia giunta a Dante. Il poeta risponde che l'ispirazione dello Spirito Santo che ha permesso di scrivere il Vecchio e il Nuovo Testamento è argomento sufficiente a garantirgli di avere fede, senza bisogno di cercare altre dimostrazioni.
Prova dell'ispirazione delle Sacre Scritture (97-114)
Pietro chiede a Dante per quali ragioni egli consideri ispirati il Vecchio e il Nuovo Testamento, al che il poeta ribatte che la prova è rappresentata dai miracoli in essi narrati, per realizzare i quali la natura non ha alcun mezzo. Pietro osserva che non si può essere certi che quei miracoli siano realmente avvenuti, poiché sono testimoniati solo dalle Scritture la cui veridicità non è ancora stata dimostrata. Dante risponde che se anche il mondo si convertì al Cristianesimo senza la prova dei miracoli, questo solo fatto è talmente miracoloso che gli altri avrebbero un minimo valore; infatti Pietro iniziò a predicare il Vangelo senza mezzi, fondando in povertà la Chiesa che al tempo presente è decaduta. Alla fine delle parole di Dante tutti i beati che hanno assistito all'esame intonano il 'Te Deum laudamus', con una dolcissima melodia.
Prova dell'ispirazione delle Sacre Scritture (97-114)
Pietro chiede a Dante per quali ragioni egli consideri ispirati il Vecchio e il Nuovo Testamento, al che il poeta ribatte che la prova è rappresentata dai miracoli in essi narrati, per realizzare i quali la natura non ha alcun mezzo. Pietro osserva che non si può essere certi che quei miracoli siano realmente avvenuti, poiché sono testimoniati solo dalle Scritture la cui veridicità non è ancora stata dimostrata. Dante risponde che se anche il mondo si convertì al Cristianesimo senza la prova dei miracoli, questo solo fatto è talmente miracoloso che gli altri avrebbero un minimo valore; infatti Pietro iniziò a predicare il Vangelo senza mezzi, fondando in povertà la Chiesa che al tempo presente è decaduta. Alla fine delle parole di Dante tutti i beati che hanno assistito all'esame intonano il 'Te Deum laudamus', con una dolcissima melodia.
Professione di fede da parte di Dante (115-147)
Frontespizio della Bibbia (Bibl. Vat.)
L'esame di Dante è quasi terminato e Pietro afferma che finora il poeta ha risposto illuminato dalla grazia ed egli approva dunque le sue parole, anche se è giunto il momento che l'esaminando faccia la sua professione di fede e dichiari da dove egli ha attinto la credenza nelle verità divine. Dante comprende che Pietro, che ora vede ciò che credette in vita, gli chiede di manifestare la sostanza della sua fede e anche la sua origine, per cui il poeta dichiara di credere in un solo Dio che muove tutto il Creato con amore e desiderio. Per tale convinzione egli non ha solo prove fisiche e metafisiche, ma anche la verità affermata dalle Scritture, dal Pentateuco, dai Profeti, dai Salmi, dai Vangeli e dagli altri libri del Nuovo Testamento scritti da Pietro e dagli altri Apostoli, ispirati dallo Spirito Santo. Dante crede nelle tre persone della Trinità, mistero imperscrutabile alla mente umana ma chiaramente affermato dal testo evangelico; questa è la scintilla che produce in Dante la fiamma della fede, che splende in lui come una stella in cielo.
Approvazione finale di san Pietro (148-154)
Come un padrone ascolta dal servo una buona notizia e poi lo abbraccia congratulandosi con lui, non appena quello tace, così san Pietro benedice Dante cantando e gira intorno a lui tre volte, non appena il poeta ha terminato di parlare: a tal punto, dunque, il santo ha approvato le sue parole.
Approvazione finale di san Pietro (148-154)
Come un padrone ascolta dal servo una buona notizia e poi lo abbraccia congratulandosi con lui, non appena quello tace, così san Pietro benedice Dante cantando e gira intorno a lui tre volte, non appena il poeta ha terminato di parlare: a tal punto, dunque, il santo ha approvato le sue parole.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti XXIII-XXXII, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Protagonista assoluto del Canto è san Pietro, presentato alla fine del precedente come colui che tien le chiavi della gloria del Paradiso (XXIII, 139) e che qui sottopone Dante a un esame circa il possesso della fede, mentre san Giacomo e san Giovanni faranno lo stesso nei Canti XXV e XXVI riguardo a speranza e carità: il triplice esame prepara Dante all'ascesa ai Cieli successivi, il Primo Mobile e l'Empireo in cui gli appariranno i nove cori angelici e la candida rosa dei beati, preludio alla visione di Dio che concluderà il viaggio nell'Oltretomba (siamo nella terza e ultima parte della Cantica, la più impegnativa sul piano poetico). La scelta dei tre Apostoli come i maestri chiamati a interrogare il discepolo non è casuale, in quanto essi vengono citati assieme in vari passi del Vangelo come i prescelti da Cristo e gli esegeti medievali erano soliti accostarli alle tre virtù teologali, specie san Giacomo che era di fatto figura della speranza: l'apparizione di Pietro ha poi qualcosa di grandioso, con la solenne preghiera di Beatrice agli Apostoli tutti di concedere a Dante qualche briciola della loro sapienza (è la stessa immagine usata nel I Trattato del Convivio, fatto forse non privo di significato), quindi le luci iniziano a ruotare in cerchio e l'anima di Pietro si stacca dalla propria corona splendendo più di tutte le altre, evocata dall'ardente affetto di Beatrice. È quest'ultima a pregare il santo di esaminare Dante sulla fede, di punti lievi e gravi come in un esame universitario, non perché Pietro non sappia già che il poeta possiede intatte tutte e tre le virtù, ma perché è giusto che Dante affronti la questione glorificando la fede, ciò che consente prima di ogni altra cosa la salvezza e l'ammissione in Paradiso. E infatti Dante si prepara subito a rispondere, come il baccialier (il baccelliere, ovvero il candidato all'esame finale di un corso di teologia) che raccoglie gli argomenti con cui dovrà sostenere la questione proposta dal maestro e che agirà sotto lo sguardo attento di Beatrice-teologia, colei che ha condotto Dante sino a questo punto e che gli ha permesso di sostenere il delicato esame: esso si svolgerà secondo i procedimenti tipici delle Università del tempo e in base alla più rigorosa terminologia filosofica, non perché Dante intenda fare sfoggio di dottrina ma per sottolineare l'assoluta importanza della fede nella partita della salvezza, nonché la sua superiorità sul ragionamento filosofico, ciò in cui si può forse scorgere un riferimento al cosiddetto «traviamento» intellettuale del poeta.
Il colloquio si articola dunque in tre momenti distinti, che corrispondono alla definizione della fede, alla dichiarazione del suo possesso e della sua fonte, alla professione della fede individuale del poeta: quanto alla definizione, Dante ripete testualmente quella paolina contenuta nella Lettera agli Ebrei (XI, 1) e chiosata da san Tommaso nella Summa theol., quindi sottolineando l'impossibilità di vedere sulla Terra ciò che è oggetto di mistero divino e che solo dopo la morte, in Paradiso, diverrà manifesto, mentre durante la vita può solo essere oggetto appunto di fede. Quest'ultima è dunque definita come atto supremo della volontà, non come procedimento intellettuale, e benché non venga totalmente sganciata dalla ragione è detto chiaramente che essa non è in grado di comprendere i misteri divini che sono inconoscibili all'uomo: è in fondo l'affermazione definitiva di quanto è stato spesso affermato nel poema, a cominciare dal discorso di Virgilio di Purg., III, 31-45, mentre è ribaltata la prospettiva del Convivio in cui la ragione veniva esaltata come la via in grado di condurre l'uomo alla vera conoscenza, sia pure imperfetta riguardo alle cose celesti che però potevano essere spiegate con argomenti fisici e filosofici, capaci di corroborare la fede nei misteri. Qui Dante sembra invece ribadire la formula di sant'Agostino credo ut intelligam, subordinando la ragione alla fede proprio come Virgilio era subordinato a Beatrice, tanto che Pietro si compiace delle affermazioni di Dante e osserva che un tale possesso della dottrina renderebbe vano ogni ingegno di sofista (con riferimento forse all'averroismo e ad altre scuole filosofiche che sconfinavano nell'eresia, se non anche alle affermazioni di Dante stesso nel Convivio già evocato indirettamente con l'immagine delle briciole cadute dalla mensa del Paradiso). Non deve sfuggire il fatto che le argomentazioni di Dante qui non fanno alcun riferimento ad Aristotele o ad altri filosofi dell'antichità, bensì si fondano principalmente sulle Scritture come fonte primaria della fede in forza del loro carattere ispirato, del fatto che le vecchie e... le nuove cuoia (Antico e Nuovo Testamento) sono state dettate direttamente dallo Spirito Santo: la prova di tale ispirazione è nei miracoli che le Scritture raccontano, non spiegabili con argomenti naturali, e all'obiezione di san Pietro in base alla quale essi sono testimoniati dalle Scritture stesse, Dante ribatte con l'argomento di Agostino per cui la diffusione del Cristianesimo nel mondo è un miracolo sufficientemente valido a dimostrare la veridicità dei testi sacri, così come la predicazione dello stesso Pietro in povertà che gettò le basi dell'edificio della Chiesa. L'esame può concludersi con la professione di fede personale da parte del poeta, il cui Credo ricalca la formula ufficiale della dottrina e sottolinea anzitutto la fede nell'esistenza di Dio, di cui ci sono prove fisiche e metafisiche ma, soprattutto, la verità rivelata nelle Scritture, così come l'evangelica dottrina assicura Dante sul mistero della Trinità, non spiegabile razionalmente come del resto già affermato da Virgilio nel passo citato della II Cantica. Tutto viene dunque ricondotto alla rivelazione come elemento fondante della fede e della dottrina cristiana, svalutando la ragione che è di per sé insufficiente a spiegare all'uomo ciò che è inconoscibile per il suo limitato intelletto: viene ribadito ulteriormente quanto già affermato da Dante all'inizio della Cantica, quando aveva detto che in Paradiso si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede (II, 43-45), mentre anche in questo Canto il poeta sottolinea che le profonde cose della vita eterna sono visibili in Cielo ma nascoste sulla Terra, quindi la fede in esse deve prescindere da ogni dimostrazione filosofica o scientifica, che almeno in parte erano presenti nel Convivio le cui affermazioni, non a caso, vengono spesso confutate nella III Cantica. La conclusione del Canto non può allora che essere una viva manifestazione di affetto e carità da parte di san Pietro, che benedice Dante con un canto celestiale e gli gira intorno per tre volte, esattamente come aveva fatto con Beatrice all'inizio dell'episodio, paragonato a un padrone che si felicita col servo che gli ha portato una buona novella (la similitudine ribadisce ancora una volta la sottomissione di Dante all'autorità della Chiesa e alla parola rivelata, specie pensando che Pietro è stato il primo papa e autore di libri ispirati, dunque si può affermare che questa sia la definitiva riconciliazione fra lui e la teologia nei confronti della quale la filosofia torna ad essere, secondo la celebre formula cristiana, ancilla).
Il colloquio si articola dunque in tre momenti distinti, che corrispondono alla definizione della fede, alla dichiarazione del suo possesso e della sua fonte, alla professione della fede individuale del poeta: quanto alla definizione, Dante ripete testualmente quella paolina contenuta nella Lettera agli Ebrei (XI, 1) e chiosata da san Tommaso nella Summa theol., quindi sottolineando l'impossibilità di vedere sulla Terra ciò che è oggetto di mistero divino e che solo dopo la morte, in Paradiso, diverrà manifesto, mentre durante la vita può solo essere oggetto appunto di fede. Quest'ultima è dunque definita come atto supremo della volontà, non come procedimento intellettuale, e benché non venga totalmente sganciata dalla ragione è detto chiaramente che essa non è in grado di comprendere i misteri divini che sono inconoscibili all'uomo: è in fondo l'affermazione definitiva di quanto è stato spesso affermato nel poema, a cominciare dal discorso di Virgilio di Purg., III, 31-45, mentre è ribaltata la prospettiva del Convivio in cui la ragione veniva esaltata come la via in grado di condurre l'uomo alla vera conoscenza, sia pure imperfetta riguardo alle cose celesti che però potevano essere spiegate con argomenti fisici e filosofici, capaci di corroborare la fede nei misteri. Qui Dante sembra invece ribadire la formula di sant'Agostino credo ut intelligam, subordinando la ragione alla fede proprio come Virgilio era subordinato a Beatrice, tanto che Pietro si compiace delle affermazioni di Dante e osserva che un tale possesso della dottrina renderebbe vano ogni ingegno di sofista (con riferimento forse all'averroismo e ad altre scuole filosofiche che sconfinavano nell'eresia, se non anche alle affermazioni di Dante stesso nel Convivio già evocato indirettamente con l'immagine delle briciole cadute dalla mensa del Paradiso). Non deve sfuggire il fatto che le argomentazioni di Dante qui non fanno alcun riferimento ad Aristotele o ad altri filosofi dell'antichità, bensì si fondano principalmente sulle Scritture come fonte primaria della fede in forza del loro carattere ispirato, del fatto che le vecchie e... le nuove cuoia (Antico e Nuovo Testamento) sono state dettate direttamente dallo Spirito Santo: la prova di tale ispirazione è nei miracoli che le Scritture raccontano, non spiegabili con argomenti naturali, e all'obiezione di san Pietro in base alla quale essi sono testimoniati dalle Scritture stesse, Dante ribatte con l'argomento di Agostino per cui la diffusione del Cristianesimo nel mondo è un miracolo sufficientemente valido a dimostrare la veridicità dei testi sacri, così come la predicazione dello stesso Pietro in povertà che gettò le basi dell'edificio della Chiesa. L'esame può concludersi con la professione di fede personale da parte del poeta, il cui Credo ricalca la formula ufficiale della dottrina e sottolinea anzitutto la fede nell'esistenza di Dio, di cui ci sono prove fisiche e metafisiche ma, soprattutto, la verità rivelata nelle Scritture, così come l'evangelica dottrina assicura Dante sul mistero della Trinità, non spiegabile razionalmente come del resto già affermato da Virgilio nel passo citato della II Cantica. Tutto viene dunque ricondotto alla rivelazione come elemento fondante della fede e della dottrina cristiana, svalutando la ragione che è di per sé insufficiente a spiegare all'uomo ciò che è inconoscibile per il suo limitato intelletto: viene ribadito ulteriormente quanto già affermato da Dante all'inizio della Cantica, quando aveva detto che in Paradiso si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede (II, 43-45), mentre anche in questo Canto il poeta sottolinea che le profonde cose della vita eterna sono visibili in Cielo ma nascoste sulla Terra, quindi la fede in esse deve prescindere da ogni dimostrazione filosofica o scientifica, che almeno in parte erano presenti nel Convivio le cui affermazioni, non a caso, vengono spesso confutate nella III Cantica. La conclusione del Canto non può allora che essere una viva manifestazione di affetto e carità da parte di san Pietro, che benedice Dante con un canto celestiale e gli gira intorno per tre volte, esattamente come aveva fatto con Beatrice all'inizio dell'episodio, paragonato a un padrone che si felicita col servo che gli ha portato una buona novella (la similitudine ribadisce ancora una volta la sottomissione di Dante all'autorità della Chiesa e alla parola rivelata, specie pensando che Pietro è stato il primo papa e autore di libri ispirati, dunque si può affermare che questa sia la definitiva riconciliazione fra lui e la teologia nei confronti della quale la filosofia torna ad essere, secondo la celebre formula cristiana, ancilla).
Note e passi controversi
Al v. 1 la gran cena è metafora per indicare la vita eterna, ma è anche probabile allusione agli Apostoli e all'Ultima Cena con Gesù, il benedetto Agnello che ora in Paradiso li ammette a un banchetto di sapienza; Beatrice li prega di ammettere ad esso anche Dante, che per grazia di Dio preliba, «pregusta» le briciole che cadono dalla mensa celeste (immagine simile in Conv., I, 1, 10).
Al v. 6 prescriba vuol dire «ponga un limite», riferito alla morte.
Ai vv. 8-9 l'immagine dei beati che dovranno estinguere la sete di conoscenza di Dante è fitta di echi scritturali: cfr. Purg., XXI, 1-3.
I vv. 10-12 sono stati variamente interpretati, ma è probabile che Dante intenda dire che le luci dei beati formano dei cerchi che ruotano mantenendo fisso il centro: in tal modo ha un senso il paragone con gli ingranaggi dell'orologio, ovvero le ruote dentate che girano trasmettendo il movimento e che sono più o meno veloci (un altro riferimento agli orologi in X, 139 ss.).
Al v. 16 carole indicano i balli in tondo. L'avverbio differente-mente è spezzato in tmesi tra i due versi successivi, artificio non raro nella poesia del Due-Trecento.
Al v. 19 carezza indica «preziosità», dal lat. caritia.
L'immagine ai vv. 25-57 allude alla tecnica pittorica con cui si raffigurano le pieghe di un abito, che richiedono tinte più scure: Dante vuol dire che, se cercasse di descrivere a parole il canto di Pietro, sembrerebbe dipingere quelle pieghe con una tinta troppo viva e perciò inadatta.
Al v. 37 di punti lievi e gravi vale «su questioni secondarie ed essenziali», conforme al linguaggio della Scolastica.
Il v. 39 allude al passo evangelico (Matth., XIV, 28-29) in cui si narra di Gesù che cammina sulle acque e invita Pietro a fare altrettanto, prova della fede assoluta dell'Apostolo; nel prosieguo del passo, in verità, Pietro si spaventa e viene rimproverato da Cristo di poca fede.
Il baccialier citato al v. 46 è voce che deriva dal fr. bachelier, ovvero lo studente di un corso di teologia che deve affrontate l'esame finale: esso avveniva in due momenti, il primo dei quali vedeva il candidato addurre le prove a sostegno della questione proposta dal maestro, mentre alcuni giorni dopo il maestro confutava le possibili obiezioni e terminava l'esposizione della dottrina. Dante intende dire che il suo ruolo sarà quello dello studente che deve approvare la questione e non terminarla, che sarà compito del maestro.
Al v. 51 il querente è san Pietro, che deve esaminare Dante. La professione è quella di fede.
Al v. 59 primipilo è termine del linguaggio militare romano, ovvero il centurione che comandava il primo manipolo dei triari; qui indica Pietro come l'alto condottiero della Chiesa, in quanto primo papa.
I vv. 61-63 alludono a san Paolo, detto appunto da Pietro carissimus frater noster (II Lettera di Pietro, III, 5) e che insieme al primo papa mise il mondo sul retto sentiero della fede: questa è definita da Paolo (Lettera agli Ebrei, XI, 1) come sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium, formula che è ripresa letteralmente da Dante nei vv. 64-65. Come spiegato da san Tommaso in Summa theol., II-IIae, q. IV, la fede è il principio fondamentale su cui poggia la speranza di vita eterna, ed è la premessa con cui argomentiamo su cose che non vediamo.
Al v. 75 intenza è termine scolastico che significa «denominazione».
I vv. 82-87 alludono alla fede con la metafora della moneta, la cui lega e il cui peso sono passati bene nelle mani di Dante (dunque il poeta sa in cosa consiste la fede), mentre il poeta dichiara poi di averla nella borsa, cioè di possederla, lucida e... tonda, senza alcun dubbio circa il suo conio, ovvero il suo valore. Inforsa è neologismo dantesco, come t'insusi e s'insempra.
Al v. 93 le vecchie e... le nuove cuoia sono i libri del Vecchio e Nuovo Testamento, ispirati dallo Spirito Santo.
L'argomento usato da Dante ai vv. 106-108 è ripreso da Agostino, De civitate Dei, XXII, 5, a sua volta ribadito da san Tommaso, Summa contra gentiles, I, 6).
Al v. 115 san Pietro è detto baron, secondo l'uso popolare che assegnava tali titoli a Cristo e ai santi.
Al v. 118 il vb. donnea significa «signoreggia», «domina» (dal prov. domnejar, da domna, «dama amorosa»).
I vv. 124-126 alludono al passo evangelico (Ioann., XX, 1-9) in cui si narra che Pietro e Giovanni, saputo dalla Maddalena che il sepolcro di Cristo era vuoto, corsero là per constatare che il suo corpo non c'era più: ciò non è nel Vangelo prova della loro fede nella avvenuta Resurrezione, mentre il passo è alterato da Dante in quanto non fu Pietro ad arrivare prima del più giovane Giovanni, ma quest'ultimo che si trattenne sulla soglia.
I vv. 136-138 indicano i libri della Bibbia, secondo la tradizionale ripartizione: il Pentateuco (Moisè), i libri storici e profetici (Profeti), i libri didattici (Salmi), i Vangeli, gli Atti, le Epistole e l'Apocalisse, scritti da Pietro e dagli altri Apostoli.
Al v. 6 prescriba vuol dire «ponga un limite», riferito alla morte.
Ai vv. 8-9 l'immagine dei beati che dovranno estinguere la sete di conoscenza di Dante è fitta di echi scritturali: cfr. Purg., XXI, 1-3.
I vv. 10-12 sono stati variamente interpretati, ma è probabile che Dante intenda dire che le luci dei beati formano dei cerchi che ruotano mantenendo fisso il centro: in tal modo ha un senso il paragone con gli ingranaggi dell'orologio, ovvero le ruote dentate che girano trasmettendo il movimento e che sono più o meno veloci (un altro riferimento agli orologi in X, 139 ss.).
Al v. 16 carole indicano i balli in tondo. L'avverbio differente-mente è spezzato in tmesi tra i due versi successivi, artificio non raro nella poesia del Due-Trecento.
Al v. 19 carezza indica «preziosità», dal lat. caritia.
L'immagine ai vv. 25-57 allude alla tecnica pittorica con cui si raffigurano le pieghe di un abito, che richiedono tinte più scure: Dante vuol dire che, se cercasse di descrivere a parole il canto di Pietro, sembrerebbe dipingere quelle pieghe con una tinta troppo viva e perciò inadatta.
Al v. 37 di punti lievi e gravi vale «su questioni secondarie ed essenziali», conforme al linguaggio della Scolastica.
Il v. 39 allude al passo evangelico (Matth., XIV, 28-29) in cui si narra di Gesù che cammina sulle acque e invita Pietro a fare altrettanto, prova della fede assoluta dell'Apostolo; nel prosieguo del passo, in verità, Pietro si spaventa e viene rimproverato da Cristo di poca fede.
Il baccialier citato al v. 46 è voce che deriva dal fr. bachelier, ovvero lo studente di un corso di teologia che deve affrontate l'esame finale: esso avveniva in due momenti, il primo dei quali vedeva il candidato addurre le prove a sostegno della questione proposta dal maestro, mentre alcuni giorni dopo il maestro confutava le possibili obiezioni e terminava l'esposizione della dottrina. Dante intende dire che il suo ruolo sarà quello dello studente che deve approvare la questione e non terminarla, che sarà compito del maestro.
Al v. 51 il querente è san Pietro, che deve esaminare Dante. La professione è quella di fede.
Al v. 59 primipilo è termine del linguaggio militare romano, ovvero il centurione che comandava il primo manipolo dei triari; qui indica Pietro come l'alto condottiero della Chiesa, in quanto primo papa.
I vv. 61-63 alludono a san Paolo, detto appunto da Pietro carissimus frater noster (II Lettera di Pietro, III, 5) e che insieme al primo papa mise il mondo sul retto sentiero della fede: questa è definita da Paolo (Lettera agli Ebrei, XI, 1) come sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium, formula che è ripresa letteralmente da Dante nei vv. 64-65. Come spiegato da san Tommaso in Summa theol., II-IIae, q. IV, la fede è il principio fondamentale su cui poggia la speranza di vita eterna, ed è la premessa con cui argomentiamo su cose che non vediamo.
Al v. 75 intenza è termine scolastico che significa «denominazione».
I vv. 82-87 alludono alla fede con la metafora della moneta, la cui lega e il cui peso sono passati bene nelle mani di Dante (dunque il poeta sa in cosa consiste la fede), mentre il poeta dichiara poi di averla nella borsa, cioè di possederla, lucida e... tonda, senza alcun dubbio circa il suo conio, ovvero il suo valore. Inforsa è neologismo dantesco, come t'insusi e s'insempra.
Al v. 93 le vecchie e... le nuove cuoia sono i libri del Vecchio e Nuovo Testamento, ispirati dallo Spirito Santo.
L'argomento usato da Dante ai vv. 106-108 è ripreso da Agostino, De civitate Dei, XXII, 5, a sua volta ribadito da san Tommaso, Summa contra gentiles, I, 6).
Al v. 115 san Pietro è detto baron, secondo l'uso popolare che assegnava tali titoli a Cristo e ai santi.
Al v. 118 il vb. donnea significa «signoreggia», «domina» (dal prov. domnejar, da domna, «dama amorosa»).
I vv. 124-126 alludono al passo evangelico (Ioann., XX, 1-9) in cui si narra che Pietro e Giovanni, saputo dalla Maddalena che il sepolcro di Cristo era vuoto, corsero là per constatare che il suo corpo non c'era più: ciò non è nel Vangelo prova della loro fede nella avvenuta Resurrezione, mentre il passo è alterato da Dante in quanto non fu Pietro ad arrivare prima del più giovane Giovanni, ma quest'ultimo che si trattenne sulla soglia.
I vv. 136-138 indicano i libri della Bibbia, secondo la tradizionale ripartizione: il Pentateuco (Moisè), i libri storici e profetici (Profeti), i libri didattici (Salmi), i Vangeli, gli Atti, le Epistole e l'Apocalisse, scritti da Pietro e dagli altri Apostoli.
Testo«O sodalizio eletto
a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba sì, che la vostra voglia è sempre piena, 3 se per grazia di Dio questi preliba di quel che cade de la vostra mensa, prima che morte tempo li prescriba, 6 ponete mente a l’affezione immensa e roratelo alquanto: voi bevete sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa». 9 Così Beatrice; e quelle anime liete si fero spere sopra fissi poli, fiammando, a volte, a guisa di comete. 12 E come cerchi in tempra d’oriuoli si giran sì, che ‘l primo a chi pon mente quieto pare, e l’ultimo che voli; 15 così quelle carole, differente- mente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente. 18 Di quella ch’io notai di più carezza vid’io uscire un foco sì felice, che nullo vi lasciò di più chiarezza; 21 e tre fiate intorno di Beatrice si volse con un canto tanto divo, che la mia fantasia nol mi ridice. 24 Però salta la penna e non lo scrivo: ché l’imagine nostra a cotai pieghe, non che ‘l parlare, è troppo color vivo. 27 «O santa suora mia che sì ne prieghe divota, per lo tuo ardente affetto da quella bella spera mi disleghe». 30 Poscia fermato, il foco benedetto a la mia donna dirizzò lo spiro, che favellò così com’i’ ho detto. 33 Ed ella: «O luce etterna del gran viro a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, 36 tenta costui di punti lievi e gravi, come ti piace, intorno de la fede, per la qual tu su per lo mare andavi. 39 S’elli ama bene e bene spera e crede, non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi dov’ogne cosa dipinta si vede; 42 ma perché questo regno ha fatto civi per la verace fede, a gloriarla, di lei parlare è ben ch’a lui arrivi». 45 Sì come il baccialier s’arma e non parla fin che ’l maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla, 48 così m’armava io d’ogne ragione mentre ch’ella dicea, per esser presto a tal querente e a tal professione. 51 «Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: fede che è?». Ond’io levai la fronte in quella luce onde spirava questo; 54 poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte sembianze femmi perch’io spandessi l’acqua di fuor del mio interno fonte. 57 «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi», comincia’ io, «da l’alto primipilo, faccia li miei concetti bene espressi». 60 E seguitai: «Come ’l verace stilo ne scrisse, padre, del tuo caro frate che mise teco Roma nel buon filo, 63 fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi; e questa pare a me sua quiditate». 66 Allora udi’ : «Dirittamente senti, se bene intendi perché la ripuose tra le sustanze, e poi tra li argomenti». 69 E io appresso: «Le profonde cose che mi largiscon qui la lor parvenza, a li occhi di là giù son sì ascose, 72 che l’esser loro v’è in sola credenza, sopra la qual si fonda l’alta spene; e però di sustanza prende intenza. 75 E da questa credenza ci convene silogizzar, sanz’avere altra vista: però intenza d’argomento tene». 78 Allora udi’: «Se quantunque s’acquista giù per dottrina, fosse così ‘nteso, non lì avria loco ingegno di sofista». 81 Così spirò di quello amore acceso; indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa d’esta moneta già la lega e ‘l peso; 84 ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa». Ond’io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda, che nel suo conio nulla mi s’inforsa». 87 Appresso uscì de la luce profonda che lì splendeva: «Questa cara gioia sopra la quale ogne virtù si fonda, 90 onde ti venne?». E io: «La larga ploia de lo Spirito Santo, ch’è diffusa in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia, 93 è silogismo che la m’ha conchiusa acutamente sì, che ’nverso d’ella ogne dimostrazion mi pare ottusa». 96 Io udi’ poi: «L’antica e la novella proposizion che così ti conchiude, perché l’hai tu per divina favella?». 99 E io: «La prova che ’l ver mi dischiude, son l’opere seguite, a che natura non scalda ferro mai né batte incude». 102 Risposto fummi: «Di’, chi t’assicura che quell’opere fosser? Quel medesmo che vuol provarsi, non altri, il ti giura». 105 «Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo», diss’io, «sanza miracoli, quest’uno è tal, che li altri non sono il centesmo: 108 ché tu intrasti povero e digiuno in campo, a seminar la buona pianta che fu già vite e ora è fatta pruno». 111 Finito questo, l’alta corte santa risonò per le spere un ‘Dio laudamo’ ne la melode che là sù si canta. 114 E quel baron che sì di ramo in ramo, essaminando, già tratto m’avea, che a l’ultime fronde appressavamo, 117 ricominciò: «La Grazia, che donnea con la tua mente, la bocca t’aperse infino a qui come aprir si dovea, 120 sì ch’io approvo ciò che fuori emerse; ma or conviene espremer quel che credi, e onde a la credenza tua s’offerse». 123 «O santo padre, e spirito che vedi ciò che credesti sì, che tu vincesti ver’ lo sepulcro più giovani piedi», 126 comincia’ io, «tu vuo’ ch’io manifesti la forma qui del pronto creder mio, e anche la cagion di lui chiedesti. 129 E io rispondo: Io credo in uno Dio solo ed etterno, che tutto ’l ciel move, non moto, con amore e con disio; 132 e a tal creder non ho io pur prove fisice e metafisice, ma dalmi anche la verità che quinci piove 135 per Moisè, per profeti e per salmi, per l’Evangelio e per voi che scriveste poi che l’ardente Spirto vi fé almi; 138 e credo in tre persone etterne, e queste credo una essenza sì una e sì trina, che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’. 141 De la profonda condizion divina ch’io tocco mo, la mente mi sigilla più volte l’evangelica dottrina. 144 Quest’è ’l principio, quest’è la favilla che si dilata in fiamma poi vivace, e come stella in cielo in me scintilla». 147 Come ‘l segnor ch’ascolta quel che i piace, da indi abbraccia il servo, gratulando per la novella, tosto ch’el si tace; 150 così, benedicendomi cantando, tre volte cinse me, sì com’io tacqui, l’appostolico lume al cui comando io avea detto: sì nel dir li piacqui! 154 |
Parafrasi«O compagnia invitata a partecipare all'alta cena dell'Agnello di Dio (Cristo), il quale vi dà tanto cibo spirituale che vi sazia sempre del tutto, poiché Dante per grazia divina pregusta prima che la morte ponga fine ai suoi giorni ciò che cade dalla vostra tavola, considerate il suo immenso desiderio di conoscenza e dissetatelo un poco: voi bevete sempre da quella fonte (la mente di Dio) da cui proviene ciò che egli pensa».
Così disse Beatrice; e quelle anime gioiose formarono dei cerchi con i centri fissi e ruotarono fiammeggiando, simili a comete. E come i cerchi dentati degli orologi ruotano in modo tale che il primo sembra fermo, mentre l'ultimo è velocissimo, così quelle ruote che danzavano in tondo, con velocità diverse, mi permettevano di valutare la loro maggiore o minore beatitudine. Da quel cerchio che io notai come più prezioso, vidi uscire una luce tanto gioiosa (san Pietro) che non vi lasciò dentro nessun'altra più splendente; e per tre volte ruotò intorno a Beatrice, intonando un canto così celestiale che la mia fantasia non mi permette di descriverlo. Dunque la mia penna salta questa parte e non ne parlo: infatti la nostra fantasia è colore troppo vivace per raffigurare certe pieghe, e così le nostre parole. «O santa sorella che ci preghi in maniera così devota, tu mi fai uscire da quella bella corona (di anime) grazie al tuo ardente ardore di carità». Dopo che si fu arrestato, il benedetto fuoco (san Pietro) si rivolse alla mia donna, e parlò nel modo che ho appena detto. E lei: «O luce eterna del grande uomo al quale Gesù lasciò le chiavi di questa meravigliosa beatitudine, che egli portò sulla Terra, metti costui (Dante) alla prova su questioni secondarie ed essenziali, come desideri, sull'argomento della fede, grazie alla quale tu camminasti sopra le acque. Tu sai bene che egli è in possesso delle tre virtù teologali, carità, speranza e fede, poiché figgi il tuo sguardo là (nella mente di Dio) dove si vede raffigurata ogni cosa; ma poiché questo regno (il Paradiso) ha acquistato i suoi cittadini (i beati) per la fede verace, è giusto che Dante ne parli per glorificarla». Come il baccelliere si prepara e non parla finché il maestro non ha proposto la questione, per confermarla con argomenti a sostegno e non per portarla a compimento, così io mi preparavo con ogni mezzo dialettico mentre Beatrice parlava, per essere pronto a un tale esaminatore (Pietro) e a una tale professione (di fede). «Dimmi, buon cristiano, fatti conoscere: che cos'è la fede?» Allora io alzai la fronte verso la luce (Pietro) da cui venivano tali parole; poi mi rivolsi a Beatrice e lei mi fece prontamente un cenno affinché io spandessi fuori l'acqua della mia fonte interiore (rispondessi). Io iniziai: «La Grazia che mi permette di confessarmi di fronte all'alto condottiero della Chiesa (Pietro), faccia sì che i miei concetti siano espressi nel modo dovuto». Poi proseguii: «Come scrisse, o padre, la penna veridica del tuo caro fratello (san Paolo) che insieme a te mise Roma sulla retta strada, la fede è la sostanza delle cose sperate e la dimostrazione di quelle che non si vedono; e mi sembra che sia questa la sua essenza». Allora sentii dire da Pietro: «Tu pensi bene, a patto che tu comprenda perché Paolo definì la fede come sostanza e come dimostrazione». E io subito dopo: «I misteri divini che qui mi offrono il loro aspetto, sono così nascosti agli occhi dei mortali sulla Terra, che è possibile solamente credere alla loro esistenza, sulla quale si fonda l'alta speranza; e dunque prende il nome di sostanza. E da questa fede dobbiamo fare deduzioni logiche, senza avere prove tangibili: dunque prende il nome di dimostrazione». Allora sentii: «Se tutto ciò che sulla Terra si apprende con la dottrina fosse capito come lo capisci tu, non ci sarebbe spazio per nessun cavilloso ragionamento». Così disse quel beato ardente di carità; poi aggiunse: «La lega e il peso di questa moneta (la fede) è ben passata per le tue mani (la conosci bene); ma dimmi se la possiedi nella tua borsa». Allora dissi: «Sì, possiedo questa moneta così lucida e tonda che non ho dubbi sul suo valore (possiedo una fede assolutamente integra)». Subito dopo uscirono queste parole dalla luce profonda che lì brillava: «Questa preziosa gemma (la fede) sulla quale si fonda ogni altra virtù, da dove ti venne?» E io: «La larga pioggia (ispirazione) dello Spirito Santo, che si diffonde sul Vecchio e sul Nuovo Testamento, è il sillogismo che me l'ha dimostrata con tale efficacia che, al paragone, ogni dimostrazione mi sembra debole». Poi sentii dire: «In che modo tu sei certo dell'ispirazione divina dell'Antico e del Nuovo Testamento, che ti dimostrano la fede come hai detto?» E io: «La prova che me lo dimostra sono i miracoli lì narrati, per produrre i quali la natura non ha alcun mezzo». Mi fu risposto: «Dimmi, chi ti assicura che quei miracoli siano davvero avvenuti? A testimoniarlo ci sono solo le Scritture, che devi ancora dimostrare come ispirate». Io dissi: «Se il mondo si è convertito al Cristianesimo senza la prova dei miracoli, questo solo fatto è un miracolo tale che gli altri non ne valgono che la centesima parte: infatti tu (Pietro) entrasti povero e digiuno in campo, per seminare la buona pianta (la Chiesa, con la predicazione del Vangelo) che un tempo era vite, e ora è diventata un pruno (è corrotta)». Terminato il colloquio, l'alta corte del Paradiso fece risuonare per le sfere celesti un 'Te, Deum, laudamus' nella melodia che si canta lassù. E quel barone (Pietro) che, esaminandomi, mi aveva ormai tratto di ramo in ramo, tanto che ci avvicinavamo alle ultime fronde (eravamo ormai alla fine), ricominciò: «La Grazia, che signoreggia la tua mente, ti aprì la bocca fin qui come si conveniva, cosicché io approvo quello che hai detto; ma ora è necessario che tu faccia professione della tua fede, e dichiari da dove essa ti è venuta». Io iniziai: «O santo padre, e spirito che adesso vedi quello che credesti in vita, con tanto ardore che vincesti correndo al sepolcro di Cristo piedi più giovani (di san Giovanni), tu vuoi che ora io dichiari l'essenza della mia fede, e mi hai chiesto anche la sua origine. E io ti rispondo: Io credo in un solo Dio, eterno, che muove tutto il Cielo restando immobile, con amore e desiderio; e a tale fede (nell'esistenza di Dio) non solo prove fisiche e metafisiche, ma anche la verità che si diffonde da qui attraverso i libri dell'Antico Testamento, i Vangeli e i libri del Nuovo Testamento, che voi Apostoli scriveste dopo essere stati ispirati dallo Spirito Santo; e credo in tre persone eterne, e credo che questo essere sia uno e trino, tanto che di esso si può dire insieme 'sono' ed 'è'. La parola del Vangelo mi rende convinto più volte di questa profonda essenza di Dio, di cui ora sto parlando. Questo è il principio della mia fede, questa è la scintilla che poi si dilata in una fiamma viva, e brilla in me come una stella in cielo». Come il padrone che ascolta quello che vuole sentire, quindi abbraccia il servo felicitandosi per la buona notizia, non appena quello tace; così, benedicendomi e cantando, il lume apostolico (san Pietro) al cui comando io avevo parlato mi girò attorno tre volte, non appena io tacqui: a tal punto gli erano piaciute le mie parole! |