Paradiso, Canto XXX
S. Dalì, Ascesa di Dante all'Empireo
"... Qui vederai l'una e l'altra milizia
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia..."
...e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera...
"...Vedi nostra città quant'ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira..."
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia..."
...e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera...
"...Vedi nostra città quant'ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira..."
Argomento del Canto
Scomparsa dei cori angelici e accresciuta bellezza di Beatrice. Ascesa al X Cielo (Empireo): il fiume di luce e la candida rosa dei beati. Il seggio di Arrigo VII di Lussemburgo.
È la notte di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È la notte di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Scomparsa dei cori angelici e accresciuta bellezza di Beatrice (1-33)
J. Flaxman, I cori angelici
Quando sulla Terra è l'alba e a circa seimila miglia di distanza arde il sole di mezzogiorno, le stelle in cielo cominciano a farsi meno lucenti, man mano che procede l'aurora, fino a che scompare anche la stella più luminosa per il sopraggiungere del giorno. In maniera simile i cerchi luminosi (i cori angelici) iniziano a diventare meno visibili agli occhi di Dante, finché il poeta non vede più nulla e torna a fissare gli occhi di Beatrice: la bellezza della donna è tal punto aumentata che tutte le parole di lode rivolte a lei finora sarebbero insufficienti a rappresentarla e il suo aspetto è così sovrumano che solo Dio può goderlo pienamente. Dante confessa la sua incapacità poetica a raffigurare una tale bellezza, giacché il solo ricordarla indebolisce la sua mente come la luce del sole offusca una vista debole. Egli ha descritto le bellezze di Beatrice dal giorno del loro primo incontro fino a questa visione, senza interruzioni, ma ora è costretto a rinunciare per la sua inadeguatezza di scrittore, come un artista che che è giunto al limite estremo delle sue possibilità.
Ascesa di Dante e Beatrice all'Empireo (34-54)
W. Blake, Il fiume di luce
Così splendida e bella quale Dante non è in grado di descriverla, Beatrice informa il poeta che hanno lasciato il Primo Mobile e sono saliti all'Empireo, il Cielo che è pura luce piena di intelletto, di amore, di bene e di gioia, dove Dante vedrà il trionfo degli angeli e dei beati, questi ultimi col loro corpo mortale di cui si riapproprieranno il Giorno del Giudizio. Dante è subito avvolto da una luce vivissima, che sulle prime gli impedisce di vedere alcunché, proprio come gli occhi quando sono colpiti da un lampo improvviso: Beatrice gli spiega che l'Empireo accoglie sempre in tal modo l'anima che vi ascende, per disporla alla visione di Dio.
Il fiume di luce (55-81)
Dante non fa in tempo ad ascoltare le parole di Beatrice quando capisce di aver acquistato una facoltà visiva maggiore di quella naturale, poiché ora è in grado di osservare coi suoi occhi qualunque luce, anche la più intensa: infatti vede una luce simile a un fiume, che scorre tra due rive piene di fiori, e dal fiume escono delle faville che si avvicinano ai fiori, simili a rubini incastonati in monili d'oro. Le faville tornano poi a sprofondarsi nel fiume di luce, in modo tale che quando una esce un'altra entra, e viceversa. Beatrice osserva che Dante arde dal desiderio di sapere cosa sta vedendo e ciò la riempie di gioia, tuttavia il poeta deve guardare quello spettacolo ancora un po' prima di capire di che si tratta: infatti quel fiume di luce è un'immagine che adombra ben altra verità (gli angeli e i beati), per osservare la quale gli occhi di Dante non sono ancora dotati di una vista sufficiente, quindi è necessaria una sorta di velata prefigurazione.
Il fiume di luce (55-81)
Dante non fa in tempo ad ascoltare le parole di Beatrice quando capisce di aver acquistato una facoltà visiva maggiore di quella naturale, poiché ora è in grado di osservare coi suoi occhi qualunque luce, anche la più intensa: infatti vede una luce simile a un fiume, che scorre tra due rive piene di fiori, e dal fiume escono delle faville che si avvicinano ai fiori, simili a rubini incastonati in monili d'oro. Le faville tornano poi a sprofondarsi nel fiume di luce, in modo tale che quando una esce un'altra entra, e viceversa. Beatrice osserva che Dante arde dal desiderio di sapere cosa sta vedendo e ciò la riempie di gioia, tuttavia il poeta deve guardare quello spettacolo ancora un po' prima di capire di che si tratta: infatti quel fiume di luce è un'immagine che adombra ben altra verità (gli angeli e i beati), per osservare la quale gli occhi di Dante non sono ancora dotati di una vista sufficiente, quindi è necessaria una sorta di velata prefigurazione.
La candida rosa dei beati (82-123)
A. Vellutello, La rosa dei beati
Dante si affretta a fissare lo sguardo nel fiume di luce, proprio come un neonato che si sveglia più tardi del solito e si getta verso il latte: gli occhi di Dante assaporano quella visione e d'improvviso il fiume gli sembra essere diventato di forma circolare, simile a un lago, mentre in seguito i fiori e le faville si trasformano, come persone che gettano la maschera indossata fino a quel momento, cosicché Dante può vedere entrambe le corti celesti, quella degli angeli e quella dei beati. Dante invoca la luce divina affinché gli dia modo di rappresentare al meglio l'alto trionfo del Paradiso che si offrì alla sua visione: egli ha visto la luce di Dio, che rende il Creatore visibile alle creature ammesse nell'Empireo, e che ha forma circolare e dimensioni tanto estese che l'ampiezza del Cielo del Sole sarebbe di gran lunga inferiore. La luce di questa rosa celeste si riflette sulla superficie concava del Primo Mobile, che da essa trae il proprio movimento e la virtù che riverbera sugli altri Cieli, e così come un colle fiorito si specchia nell'acqua di un lago sottostante, allo stesso modo Dante vede le anime dei beati che si specchiano nella luce della rosa, disposte in più di mille gradini. Il più basso di questi emana una luce grandissima, quindi il lettore può capire quanto sia estesa la rosa nei gradini superiori: tuttavia lo sguardo di Dante non vi si smarrisce, in quanto nella rosa dei beati la maggiore o minore distanza non toglie e non dona nulla alla visione, dal momento che le leggi naturali lì non hanno alcun valore.
Il seggio di Arrigo VII di Lussemburgo (124-148)
G. Di Paolo, Il seggio di Arrigo VII
Beatrice conduce Dante al centro di quella rosa celeste, che si estende per gradi ed emana un profumo di lode al sole (Dio) che non conosce mai inverno, mentre il poeta tace pur volendo porre domande: la donna spiega che quello è il concilio dei beati, la Gerusalemme celeste che si estende in tutta la sua ampiezza e nella quale i seggi sono già quasi tutti occupati, in quanto ben pochi mortali sono ormai destinati al Cielo. Beatrice indica a Dante un seggio su cui è posta una corona e gli spiega che su di esso siederà, prima della morte del poeta stesso, l'anima di Arrigo VII di Lussemburgo, che sarà imperatore e verrà a raddrizzare l'Italia quando questa non sarà ancora pronta a riceverlo. La folle cupidigia ha reso gli uomini simili al lattante che muore di fame, e tuttavia caccia via la nutrice: al tempo di Arrigo sarà a capo della Chiesa un papa (Clemente V) che si comporterà con l'imperatore in modo ambiguo, causandone indirettamente la sconfitta. Tuttavia Dio non sopporterà che tale pontefice resti a lungo in carica, poiché egli sarà presto sprofondato nella stessa buca delle Malebolge dove già si trova Simon mago e dove spingerà verso il fondo papa Bonifacio VIII.
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Qui è possibile vedere un breve video
con il riassunto dei Canti XXIII-XXXII, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto apre la descrizione dell'Empireo che occuperà gli ultimi quattro della Cantica e del poema, insieme alla presentazione diretta dei cori angelici e della candida rosa dei beati che farà da preludio alla visione di Dio come conclusione del viaggio ultraterreno: c'è quindi ancora una volta un innalzamento dello stile e del linguaggio, già all'inizio del Canto con la complessa similitudine astronomica delle stelle che pian piano svaniscono alla luce del mattino, paragonate alla graduale scomparsa dei cerchi luminosi, e in seguito con l'appassionata lode alla bellezza di Beatrice che, a detta di Dante, è talmente sovrumana da poter essere goduta pienamente soltanto da Dio. È qualcosa di più della consueta ammissione da parte del poeta della sua inadeguatezza a descrivere lo splendore della visione celeste, in quanto Beatrice perde quel poco di umano che finora aveva conservato per riacquistare tutta la sua essenza ultraterrena, anche in ragione del suo significato allegorico di grazia santificante: è lei infatti a preparare Dante all'ascesa al X Cielo, in cui gli verranno mostrati non solo i cori angelici ma anche i beati con il corpo mortale che, in realtà, riavranno materialmente solo il Giorno del Giudizio (al poeta è dunque concesso un altissimo e unico privilegio) e di lì a poco, all'inizio del Canto XXXI, il posto di Beatrice come guida sarà rilevato da san Bernardo che accompagnerà Dante alla visione finale della mente divina. Anche l'ingresso nell'Empireo ha qualcosa di solenne e introduce a una nuova più alta rappresentazione, lontanissima dalle rozze descrizioni paradisiache degli scrittori precedenti benché fatta di immagini molto semplici, per cui poco oltre il poeta invocherà nuovamente l'assistenza dell'ispirazione divina in una sorta di proemio al finale di Cantica: Dante è subito avvolto da una luce intensissima che gli impedisce di vedere qualunque cosa, per poi acquistare una accresciuta capacità visiva che gli consentirà di vedere il trionfo degli angeli e dei beati, sia pure attraverso tappe graduali (è il tema del trasumanar di Dante, già più volte accennato nel corso della Cantica e che nei Canti finali assumerà a tratti i caratteri di una esperienza mistica). È stato osservato che il tema della luce e della visione domina largamente questo Canto, in cui proprio il verbo «vedere» ricorre con insistenza e costituisce un'unica parola-rima ai vv. 95-99 (come in precedenza era accaduto solo col nome di Cristo), in quanto Dante è stato ammesso a una straordinaria visione che ha il compito di riferire, sia pure coi poveri mezzi umani della sua parola poetica, dopo un'esperienza simile a quella di san Paolo che, non a caso, è forse volutamente ricordato nella descrizione del fulgore che avvolge Dante appena entrato nell'Empireo. Infatti proprio la sensazione visiva è alla base della prima raffigurazione di angeli e beati, con la descrizione del fiume di luce che scorre tra due rive piene di fiori colorati, e delle faville che vanno dal fiume ai fiori e viceversa, immagine degli angeli che fanno la spola fra Dio e i beati (non senza paragoni preziosi: gli angeli sono come rubini incastonati nell'oro, e più avanti sono detti topazi, mentre l'immagine dei fiori, consueta nella rappresentazione del Paradiso, sarà ripresa poco dopo nella similitudine del colle fiorito che si specchia nell'acqua sottostante, immagine a sua volta della rosa celeste dei beati). Beatrice avverte Dante che ciò che vede non è l'immagine reale dello stato delle anime nell'Empireo, ma si tratta di umbriferi prefazi (anticipazioni velate della verità) a causa della incapacità della sua vista di sostenere lo sguardo delle vere essenze, per cui il poeta è invitato a bere ancora di quell'acqua che può estinguere la sua sete di conoscenza: il successivo paragone col bambino che corre al latte della madre sottolinea, nella sua semplicità, il fatto che tale spettacolo è il vero nutrimento dell'anima, con una similitudine che altre volte ricorre nel Paradiso (cfr. XXIII, 121-126, e più avanti alla fine di questo Canto) e dimostra come Dante sia davvero distante dalle consuete rappresentazioni del terzo regno, la cui iconografia tradizionale è quasi del tutto abbandonata a vantaggio di immagini finemente astratte e lontane da ogni raffigurazione materiale.
Ciò è evidente anche nella successiva rappresentazione della rosa dei beati, ovvero questa sorta di anfiteatro luminoso sulle cui gradinate siedono nei loro seggi i beati e che si presenta come un lago di luce, di forma circolare e dimensioni smisurate: l'intensità della luce e l'eccezionale ampiezza della rosa mystica è il dato che colpisce soprattutto Dante, il quale però ci informa che, nonostante le distanze siano enormi, la sua vista riesce comunque a cogliere ogni minimo particolare (l'Empireo è fuori dallo spazio e dal tempo, quindi non è un luogo fisico soggetto alle normali leggi naturali, come già era emerso nella descrizione del Primo Mobile). Il paragone del concilio dei beati con una rosa non è una novità assoluta nella letteratura mistica del Due-Trecento, ma Dante ha il merito di fornirne una descrizione al tempo stesso alta e solenne, cioè come la corte in cui domina l'Imperatore del Cielo e trionfano gli angeli, Maria, i beati con le loro bianche stole, ma anche di estrema semplicità, attraverso le immagini dei fiori, del clivo che si riflette nel laghetto ai piedi della montagna, della rosa stessa che profuma, sì, ma di lode a Dio (non una senzazione olfattiva, quindi, ma esclusivamente immateriale). In questo è la novità del poema dantesco e lo stacco netto rispetto a tutta la letteratura religiosa precedente, che a buon diritto il poeta rivendica a sé come merito in grado di assicurargl la fama imperitura nei secoli: in tal senso va letto il piccolo proemio dei vv. 97-99, che prelude proprio alla descrizione della rosa, affidata poi alle parole di Beatrice che la presenta solennemente come la Gerusalemme celeste, la città di Dio in cui tutte le anime salve saranno cittadine dopo l'esilio terreno (nel Canto seguente Dante la paragonerà polemicamente alla sua Firenze, vista quasi come una Babilonia infernale), anche se il numero degli eletti è ormai assai ridotto per l'avvicinarsi della fine dei tempi e per l'esiguità di mortali degni di raggiungere la beatitudine. È proprio questa considerazione sulla corruzione del mondo terreno e, probabilmente, l'accenno al prossimo intervento divino che porta Beatrice a indicare a Dante il seggio dell'alto Arrigo, l'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo destinato a fallire nel tentativo di ricondurre l'Italia sotto l'autorità imperiale ma che otterrà la beatitudine qui profetizzata in toni solenni: a molti commentatori è parso strano che Beatrice passi in modo brusco dalla grandiosa descrizione della rosa dei beati alla dura invettiva contro gli uomini accecati dalla loro avarizia, simili a bambini affamati che cacciano via la balia (torna anche qui l'immagine prima usata del nutrimento e del latte materno), ma essa è in realtà una sorta di corollario all'esaltazione della beatitudine celeste a contrasto con la miseria terrena, che viene pertanto condannata nella sua piccolezza proprio come è magnificata la grandezza divina. Del resto il parallelo tra l'altezza del Paradiso e la bassezza della terra, l'aiuola che ci fa tanto feroci, è una costante nei Canti finali del Paradiso e dunque non stupisce che le ultime parole pronunciate da Beatrice nel poema contengano un duro monito alla cupidigia degli uomini, che li porta alla perdizione e si oppone al ristabilimento della giustizia voluto dalla Provvidenza nel mondo: protagonista di tale ristabilimento doveva essere proprio Arrigo VII (probabilmente il «DXV» profetizzato in Purg., XXXIII), che fallì per ragioni che Dante riconduce sostanzialmente alla politica temporalistica e ambigua di papa Clemente V, colui che porterà la Curia papale ad Avignone e la cui dannazione è già stata duramente preconizzata da Niccolò III Orsini in Inf., XIX, 79-87. La nuova dura profezia di Beatrice, che ricorda come Clemente V finirà nella stessa buca della III Bolgia dell'VIII Cerchio in cui è già confitto quel d'Alagna, ovvero l'altro «nemico» di Dante, Bonifacio VIII, suona come un monito minaccioso a tutti coloro che, in passato come nel presente, si oppongono ai disegni divini di riportare la giustizia nel mondo, e forse preannunciano quella prossima palingenesi della società più volte evocata nel poema e affidata a un non meglio precisato personaggio (Cangrande Della Scala?) destinato a compiere l'opera lasciata a metà da Arrigo VII: questa, del resto, sarà l'ultima vera invettiva del poema e dopo di essa ci sarà posto solo per il graduale avvicinarsi di Dante alla visione finale di Dio, alla quale come detto sarà accompagnato da san Bernardo, un mistico che fu cultore di Maria e dell'ascesi spirituale, come a voler dire che fissare lo sguardo nella mente di Dio porterà Dante a distoglierlo dalla Terra e dalle sue bassezze, agli antipodi dell'Universo (e non si scordi che la distanza Terra-Cielo era alla base anche della similitudine iniziale, che gettava uno sguardo complessivo all'architettura grandiosa del cosmo).
Ciò è evidente anche nella successiva rappresentazione della rosa dei beati, ovvero questa sorta di anfiteatro luminoso sulle cui gradinate siedono nei loro seggi i beati e che si presenta come un lago di luce, di forma circolare e dimensioni smisurate: l'intensità della luce e l'eccezionale ampiezza della rosa mystica è il dato che colpisce soprattutto Dante, il quale però ci informa che, nonostante le distanze siano enormi, la sua vista riesce comunque a cogliere ogni minimo particolare (l'Empireo è fuori dallo spazio e dal tempo, quindi non è un luogo fisico soggetto alle normali leggi naturali, come già era emerso nella descrizione del Primo Mobile). Il paragone del concilio dei beati con una rosa non è una novità assoluta nella letteratura mistica del Due-Trecento, ma Dante ha il merito di fornirne una descrizione al tempo stesso alta e solenne, cioè come la corte in cui domina l'Imperatore del Cielo e trionfano gli angeli, Maria, i beati con le loro bianche stole, ma anche di estrema semplicità, attraverso le immagini dei fiori, del clivo che si riflette nel laghetto ai piedi della montagna, della rosa stessa che profuma, sì, ma di lode a Dio (non una senzazione olfattiva, quindi, ma esclusivamente immateriale). In questo è la novità del poema dantesco e lo stacco netto rispetto a tutta la letteratura religiosa precedente, che a buon diritto il poeta rivendica a sé come merito in grado di assicurargl la fama imperitura nei secoli: in tal senso va letto il piccolo proemio dei vv. 97-99, che prelude proprio alla descrizione della rosa, affidata poi alle parole di Beatrice che la presenta solennemente come la Gerusalemme celeste, la città di Dio in cui tutte le anime salve saranno cittadine dopo l'esilio terreno (nel Canto seguente Dante la paragonerà polemicamente alla sua Firenze, vista quasi come una Babilonia infernale), anche se il numero degli eletti è ormai assai ridotto per l'avvicinarsi della fine dei tempi e per l'esiguità di mortali degni di raggiungere la beatitudine. È proprio questa considerazione sulla corruzione del mondo terreno e, probabilmente, l'accenno al prossimo intervento divino che porta Beatrice a indicare a Dante il seggio dell'alto Arrigo, l'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo destinato a fallire nel tentativo di ricondurre l'Italia sotto l'autorità imperiale ma che otterrà la beatitudine qui profetizzata in toni solenni: a molti commentatori è parso strano che Beatrice passi in modo brusco dalla grandiosa descrizione della rosa dei beati alla dura invettiva contro gli uomini accecati dalla loro avarizia, simili a bambini affamati che cacciano via la balia (torna anche qui l'immagine prima usata del nutrimento e del latte materno), ma essa è in realtà una sorta di corollario all'esaltazione della beatitudine celeste a contrasto con la miseria terrena, che viene pertanto condannata nella sua piccolezza proprio come è magnificata la grandezza divina. Del resto il parallelo tra l'altezza del Paradiso e la bassezza della terra, l'aiuola che ci fa tanto feroci, è una costante nei Canti finali del Paradiso e dunque non stupisce che le ultime parole pronunciate da Beatrice nel poema contengano un duro monito alla cupidigia degli uomini, che li porta alla perdizione e si oppone al ristabilimento della giustizia voluto dalla Provvidenza nel mondo: protagonista di tale ristabilimento doveva essere proprio Arrigo VII (probabilmente il «DXV» profetizzato in Purg., XXXIII), che fallì per ragioni che Dante riconduce sostanzialmente alla politica temporalistica e ambigua di papa Clemente V, colui che porterà la Curia papale ad Avignone e la cui dannazione è già stata duramente preconizzata da Niccolò III Orsini in Inf., XIX, 79-87. La nuova dura profezia di Beatrice, che ricorda come Clemente V finirà nella stessa buca della III Bolgia dell'VIII Cerchio in cui è già confitto quel d'Alagna, ovvero l'altro «nemico» di Dante, Bonifacio VIII, suona come un monito minaccioso a tutti coloro che, in passato come nel presente, si oppongono ai disegni divini di riportare la giustizia nel mondo, e forse preannunciano quella prossima palingenesi della società più volte evocata nel poema e affidata a un non meglio precisato personaggio (Cangrande Della Scala?) destinato a compiere l'opera lasciata a metà da Arrigo VII: questa, del resto, sarà l'ultima vera invettiva del poema e dopo di essa ci sarà posto solo per il graduale avvicinarsi di Dante alla visione finale di Dio, alla quale come detto sarà accompagnato da san Bernardo, un mistico che fu cultore di Maria e dell'ascesi spirituale, come a voler dire che fissare lo sguardo nella mente di Dio porterà Dante a distoglierlo dalla Terra e dalle sue bassezze, agli antipodi dell'Universo (e non si scordi che la distanza Terra-Cielo era alla base anche della similitudine iniziale, che gettava uno sguardo complessivo all'architettura grandiosa del cosmo).
Note e passi controversi
La similitudine iniziale (vv. 1-9) indica che quando sulla Terra (ci, avv. per «qui») in un qualunque punto è l'alba, a circa seimila miglia di distanza a oriente ferve l'ora sesta, cioè il mezzogiorno, momento in cui il mondo proietta il suo cono d'ombra quasi sul piano dell'orizzonte (china già l'ombra quasi al letto piano); all'alba le stelle iniziano a perdere luminosità, sino a scomparire gradualmente. Dante pensava che la circonferenza della Terra fosse di circa 20.000 miglia e calcolava la velocità del Sole in 850 miglia all'ora, per cui l'astro percorreva in sette ore (la distanza di tempo dal primo apparire dell'aurora al mezzogiorno) circa 5950 miglia.
Al v. 4 il mezzo del cielo è l'atmosfera posta tra l'osservatore e il cielo stellato.
La chiarissima ancella / del sol (vv. 7-8) è l'Aurora.
Il triunfo che lude (v. 10) sono i cori angelici, che ruotano festanti intorno a Dio.
Al v. 18 vice è lat. per «ufficio», «compito».
Al v. 25 il viso che più trema è la vista debole sopraffatta dal sole.
Al v. 30 preciso è lat. per «tagliato», «impedito» (Dante intende dire che la descrizione di Beatrice non gli è mai stata impedita da nulla, tranne che in questa occasione).
Al v. 36 tuba («tromba») è metafora a indicare la voce poetica di Dante.
Il maggior corpo (v. 39) è il Primo Mobile, mentre il ciel ch'è pura luce è l'Empireo.
Al v. 42 dolzore è provenzalismo per «dolcezza».
Ai vv. 43-45 l'una e l'altra milizia / di paradiso sono gli angeli e i beati, questi ultimi mostrati a Dante col corpo mortale di cui si rivestiranno il Giorno del Giudizio (a l'ultima giustizia).
Al v. 46 discetti è lat. per «disperda», «disgreghi».
I vv. 49-51 sembrano un riferimento al racconto di san Paolo negli Atti degl Apostoli (XXII, 6-11), quando racconta la folgorazione sulla via di Damasco: subito de caelo circumfulsit me lux copiosa... cum non viderem prae claritate luminis illius («d'improvviso una gran luce scesa dal Cielo mi avvolse, e non vedi più nulla per lo splendore di quel lume»).
Al v. 53 salute vuol dire «saluto», ma anche, ambiguamente, «salvezza», «beatitudine».
Alcuni mss. al v. 62 leggono fluvido, lat. per «fluente», mentre nella lezione a testo l'aggettivo indica lo splendore rosseggiante della luce (dal lat. fulvus). Si tenga presente che il volto degli angeli era spesso rappresentato di colore rosso, mentre più avanti (v. 66) essi sono descritti come rubini.
Al v. 63 primavera significa «fioritura primaverile».
Al v. 68 miro gurge è lat. per «gorgo mirabile».
Al v. 78 umbriferi prefazi indicano gli adombramenti della verità che si presentano a Dante, ovvero l'immagine del fiume di luce e dei fiori (prefazio è lat. da praefatio, «anticipazione», «preludio»).
Al v. 82 fantin sta per «bambino», «lattante» (cfr. fantolin, XXIII, 121; più oltre, al v. 140).
Il v. 87 vuol dire che scorre affinché vi si diventi migliori (il vb. s'immegli è prob. neologismo dantesco).
La similitudine dei vv. 91-96 allude a persone che hanno indossato delle maschere (larve) e che poi le gettano, mostrando così il loro vero volto (allo stesso modo Dante ora vede il reale aspetto degli angeli e dei beati).
Nei vv. 95-99 è ripetuta per tre volte la stessa parola-rima, vidi, cosa che in precedenza è avvenuta solo col nome di Cristo (cfr. XII, 71-75; XIV, 104-108; XIX, 104-108).
I vv. 103-105 vogliono dire probabilmente che l'ampiezza della rosa dei beati è superiore a quella del Cielo del Sole, non del Sole stesso
Il v. 121 vuol dire che nell'Empireo la distanza e la vicinanza non tolgono né aggiungono nulla alla visione, poiché in questo Cielo Dio governa in modo immediato (sanza mezzo).
Al v. 124 il giallo de la rosa sempiterna indica il centro della rosa dei beati, con la metafora degli stami gialli al centro del fiore.
Al v. 125 redole è lat. per «profuma» (cfr. DVE, I, 16, 4).
Al v. 126 verna ha il senso di «far primavera», dal lat. ver, veris (primavera).
Al v. 127 colui che tace e dicer vole è Dante.
Al v. 129 le bianche stole sono le anime bianche dei beati, forse rivestite dei loro corpi terreni (cfr. XXV, 95).
Il v. 135 indica che l'anima di Arrigo VII di Lussemburgo occuperà il suo seggio nella rosa prima della morte di Dante, dopo la quale egli siederà a sua volta a questo banchetto nuziale (tale metafora per indicare la beatitudine era frequente nel testo biblico).
Al v. 136 agosta vuol dire «augusta» e allude alla dignità imperiale di Arrigo VII.
I vv. 142 ss. alludono a Clemente V, che sarà papa (prefetto nel foro divino) all'epoca dell'impero di Arrigo VII; egli ingannerà il sovrano prima promettendogli e poi negandogli il suo appoggio, causando così il suo fallimento. Beatrice profetizza la sua dannazione fra i simoniaci della III Bolgia, dove spingerà più a fondo nella buca papa Bonifacio VIII, destinato a sua volta alla dannazione (questi è indicato velatamente come quel d'Alagna, ovvero colui che era nativo di Anagni, nel Lazio).
Al v. 4 il mezzo del cielo è l'atmosfera posta tra l'osservatore e il cielo stellato.
La chiarissima ancella / del sol (vv. 7-8) è l'Aurora.
Il triunfo che lude (v. 10) sono i cori angelici, che ruotano festanti intorno a Dio.
Al v. 18 vice è lat. per «ufficio», «compito».
Al v. 25 il viso che più trema è la vista debole sopraffatta dal sole.
Al v. 30 preciso è lat. per «tagliato», «impedito» (Dante intende dire che la descrizione di Beatrice non gli è mai stata impedita da nulla, tranne che in questa occasione).
Al v. 36 tuba («tromba») è metafora a indicare la voce poetica di Dante.
Il maggior corpo (v. 39) è il Primo Mobile, mentre il ciel ch'è pura luce è l'Empireo.
Al v. 42 dolzore è provenzalismo per «dolcezza».
Ai vv. 43-45 l'una e l'altra milizia / di paradiso sono gli angeli e i beati, questi ultimi mostrati a Dante col corpo mortale di cui si rivestiranno il Giorno del Giudizio (a l'ultima giustizia).
Al v. 46 discetti è lat. per «disperda», «disgreghi».
I vv. 49-51 sembrano un riferimento al racconto di san Paolo negli Atti degl Apostoli (XXII, 6-11), quando racconta la folgorazione sulla via di Damasco: subito de caelo circumfulsit me lux copiosa... cum non viderem prae claritate luminis illius («d'improvviso una gran luce scesa dal Cielo mi avvolse, e non vedi più nulla per lo splendore di quel lume»).
Al v. 53 salute vuol dire «saluto», ma anche, ambiguamente, «salvezza», «beatitudine».
Alcuni mss. al v. 62 leggono fluvido, lat. per «fluente», mentre nella lezione a testo l'aggettivo indica lo splendore rosseggiante della luce (dal lat. fulvus). Si tenga presente che il volto degli angeli era spesso rappresentato di colore rosso, mentre più avanti (v. 66) essi sono descritti come rubini.
Al v. 63 primavera significa «fioritura primaverile».
Al v. 68 miro gurge è lat. per «gorgo mirabile».
Al v. 78 umbriferi prefazi indicano gli adombramenti della verità che si presentano a Dante, ovvero l'immagine del fiume di luce e dei fiori (prefazio è lat. da praefatio, «anticipazione», «preludio»).
Al v. 82 fantin sta per «bambino», «lattante» (cfr. fantolin, XXIII, 121; più oltre, al v. 140).
Il v. 87 vuol dire che scorre affinché vi si diventi migliori (il vb. s'immegli è prob. neologismo dantesco).
La similitudine dei vv. 91-96 allude a persone che hanno indossato delle maschere (larve) e che poi le gettano, mostrando così il loro vero volto (allo stesso modo Dante ora vede il reale aspetto degli angeli e dei beati).
Nei vv. 95-99 è ripetuta per tre volte la stessa parola-rima, vidi, cosa che in precedenza è avvenuta solo col nome di Cristo (cfr. XII, 71-75; XIV, 104-108; XIX, 104-108).
I vv. 103-105 vogliono dire probabilmente che l'ampiezza della rosa dei beati è superiore a quella del Cielo del Sole, non del Sole stesso
Il v. 121 vuol dire che nell'Empireo la distanza e la vicinanza non tolgono né aggiungono nulla alla visione, poiché in questo Cielo Dio governa in modo immediato (sanza mezzo).
Al v. 124 il giallo de la rosa sempiterna indica il centro della rosa dei beati, con la metafora degli stami gialli al centro del fiore.
Al v. 125 redole è lat. per «profuma» (cfr. DVE, I, 16, 4).
Al v. 126 verna ha il senso di «far primavera», dal lat. ver, veris (primavera).
Al v. 127 colui che tace e dicer vole è Dante.
Al v. 129 le bianche stole sono le anime bianche dei beati, forse rivestite dei loro corpi terreni (cfr. XXV, 95).
Il v. 135 indica che l'anima di Arrigo VII di Lussemburgo occuperà il suo seggio nella rosa prima della morte di Dante, dopo la quale egli siederà a sua volta a questo banchetto nuziale (tale metafora per indicare la beatitudine era frequente nel testo biblico).
Al v. 136 agosta vuol dire «augusta» e allude alla dignità imperiale di Arrigo VII.
I vv. 142 ss. alludono a Clemente V, che sarà papa (prefetto nel foro divino) all'epoca dell'impero di Arrigo VII; egli ingannerà il sovrano prima promettendogli e poi negandogli il suo appoggio, causando così il suo fallimento. Beatrice profetizza la sua dannazione fra i simoniaci della III Bolgia, dove spingerà più a fondo nella buca papa Bonifacio VIII, destinato a sua volta alla dannazione (questi è indicato velatamente come quel d'Alagna, ovvero colui che era nativo di Anagni, nel Lazio).
TestoForse semilia
miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo china già l’ombra quasi al letto piano, 3 quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch’alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; 6 e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così ‘l ciel si chiude di vista in vista infino a la più bella. 9 Non altrimenti il triunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude, 12 a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Beatrice nulla vedere e amor mi costrinse. 15 Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. 18 La bellezza ch’io vidi si trasmoda non pur di là da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. 21 Da questo passo vinto mi concedo più che già mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: 24 ché, come sole in viso che più trema, così lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. 27 Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m’è il seguire al mio cantar preciso; 30 ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l’ultimo suo ciascuno artista. 33 Cotal qual io lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l’ardua sua matera terminando, 36 con atto e voce di spedito duce ricominciò: «Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: 39 luce intellettual, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. 42 Qui vederai l’una e l’altra milizia di paradiso, e l’una in quelli aspetti che tu vedrai a l’ultima giustizia». 45 Come sùbito lampo che discetti li spiriti visivi, sì che priva da l’atto l’occhio di più forti obietti, 48 così mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m’appariva. 51 «Sempre l’amor che queta questo cielo accoglie in sé con sì fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo». 54 Non fur più tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch’io compresi me sormontar di sopr’a mia virtute; 57 e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce è tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; 60 e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. 63 Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogne parte si mettìen ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive; 66 poi, come inebriate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge; e s’una intrava, un’altra n’uscia fori. 69 «L’alto disio che mo t’infiamma e urge, d’aver notizia di ciò che tu vei, tanto mi piace più quanto più turge; 72 ma di quest’acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si sazi»: così mi disse il sol de li occhi miei. 75 Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi ch’entrano ed escono e ‘l rider de l’erbe son di lor vero umbriferi prefazi. 78 Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe». 81 Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l’usanza sua, 84 come fec’io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l’onda che si deriva perché vi s’immegli; 87 e sì come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, così mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. 90 Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non sua in che disparve, 93 così mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, sì ch’io vidi ambo le corti del ciel manifeste. 96 O isplendor di Dio, per cu’ io vidi l’alto triunfo del regno verace, dammi virtù a dir com’io il vidi! 99 Lume è là sù che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. 102 E’ si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. 105 Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. 108 E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne’ fioretti opimo, 111 sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là sù fatto ha ritorno. 114 E se l’infimo grado in sé raccoglie sì grande lume, quanta è la larghezza di questa rosa ne l’estreme foglie! 117 La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e ‘l quale di quella allegrezza. 120 Presso e lontano, lì, né pon né leva: ché dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. 123 Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, 126 qual è colui che tace e dicer vole, mi trasse Beatrice, e disse: «Mira quanto è ‘l convento de le bianche stole! 129 Vedi nostra città quant’ella gira; vedi li nostri scanni sì ripieni, che poca gente più ci si disira. 132 E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v’è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni, 135 sederà l’alma, che fia giù agosta, de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia verrà in prima ch’ella sia disposta. 138 La cieca cupidigia che v’ammalia simili fatti v’ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. 141 E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non anderà con lui per un cammino. 144 Ma poco poi sarà da Dio sofferto nel santo officio; ch’el sarà detruso là dove Simon mago è per suo merto, e farà quel d’Alagna intrar più giuso». 148 |
ParafrasiQui sulla Terra, a circa seimila miglia di distanza, arde il mezzogiorno e questo pianeta proietta già il suo cono d'ombra sul piano dell'orizzonte, quando (sul far dell'alba) l'atmosfera tra noi e la profondità del cielo inizia a diventare tale che alcune stelle diventano invisibili;
e man mano che avanza la luminosa ancella del Sole (l'Aurora), ecco che dal cielo svaniscono le stelle, sino alla più luminosa. In modo analogo il trionfo (i cori angelici) che ruota sempre festante intorno a quel punto luminoso (Dio) che vinse la mia vista, e che sembra racchiuso da ciò che esso stesso racchiude, poco alla volta svanì alla mia vista: dunque il non vedere più nulla e l'amore mi spinsero a rivolgere i miei occhi di nuovo a Beatrice. Se tutto ciò che è stato detto finora su di lei fosse racchiuso in un'unica lode, essa sarebbe insufficiente a questo compito. La bellezza di lei che io vidi si tramutava in qualcosa non solo al di là dell'umano, ma io credo per certo che solo il suo Creatore (Dio) la possa godere pienamente. Ammetto di essere vinto da questo punto, assai più di quanto potrebbe esserlo un autore di stile medio o sublime da un aspetto problematico del tema affrontato: infatti, come il sole in una vista debole, così il ricordo del suo dolce sorriso fa venir meno il mio intelletto. Dal primo giorno in cui vidi il viso di Beatrice in questa vita, fino a questa visione di lei in Paradiso, il mio canto non è stato mai interrotto; ma ora è inevitabile che io desista dal seguire la sua bellezza, scrivendo i miei versi, come un artista che ha raggiunto il limite estremo delle sue capacità. Beatrice, bella come io lascio descrivere a una poesia più adeguata dei miei versi, che si sforzano di terminare la descrizione della materia paradisiaca, con l'atteggiamento e la voce di una guida decisa ricominciò: «Noi siamo usciti fuori dal Cielo più esteso (il Primo Mobile) a quello (l'Empireo) che è fatto di pura luce: una luce intellettuale, piena d'amore; un amore di autentico bene, pieno di gioia; una gioia che supera ogni dolcezza. Qui tu vedrai entrambe le schiere (angeli e beati) del Paradiso, e una di essi (i beati) con quell'aspetto che vedrai il Giorno del Giudizio (coi corpi terreni)». Come un lampo improvviso che disperda le facoltà visive, cosicché priva l'occhio della capacità di vedere altri oggetti, così fui avvolto da una luce vivissima, che mi fasciò di un velo tale col suo fulgore che io non vedevo nient'altro. «L'amore che rende quieto questo Cielo accoglie sempre l'anima che vi entra con questo saluto, per adattare la candela alla sua fiamma (per disporre alla visione divina)». Queste brevi parole non erano ancora giunte dentro di me, che io compresi che andavo al di là delle mie facoltà naturali; e acquistai una nuova capacità visiva, tale che non esiste una luce tanto intensa che i miei occhi non riuscissero a sostenerla; e vidi una luce in forma di fiume, di fulgore rosseggiante, tra due rive ornate di bellissimi fiori primaverili. Da questo fiume uscivano delle faville splendenti, e si mettevano da ogni parte tra i fiori, simili a rubini incastonati nell'oro; poi, come se fossero inebriate dal profumo, si risprofondavano nel mirabile gorgo (il fiume di luce); e se una vi entrava, un'altra usciva subito fuori. «L'intenso desiderio che adesso ti infiamma e ti spinge, ovvero di sapere cos'è quello che vedi, mi piace tanto più quanto più esso ti riempie; ma è necessario che tu beva ancora di quest'acqua, prima che una tale sete sia saziata dentro di te»: così mi disse Beatrice, il sole dei miei occhi. E aggiunse ancora: «Il fiume e i topazi (gli angeli) che entrano ed escono, e la bellezza dei fiori sono anticipazioni adombrate della loro reale essenza. Non che che queste cose siano di per sé imperfette, ma c'è una mancanza da parte tua, poiché non hai ancora la vista pronta a osservare tali spettacoli». Un bambino, svegliatosi molto più tardi del solito, non corre improvvisamente verso il latte quanto feci io, per fare ancora dei miei occhi specchi migliori, chinandomi verso quel fiume che scorre affinché vi si renda migliori; e non appena l'orlo delle mie palpebre ebbe bevuto di quella visione, così mi sembrò che il lungo fiume fosse diventato tondo. Poi, come persone che hanno indossato delle maschere e si spogliano delle sembianze artefatte, apparendo diverse da come erano prima, così i fiori e le faville si trasformarono ai miei occhi in immagini più festose, cosicché io vidi apertamente entrambe le corti del Cielo (angeli e beati). O splendore di Dio, grazie al quale io vidi l'alto trionfo del regno verace, concedimi la virtù necessaria a riferire la mia visione! Lassù nell'Empireo c'è una luce che rende visibile il Creatore a quella creatura che trova la sua pace solo nel vedere Lui. Tale luce si distende in una figura circolare (la rosa celeste), a tal punto che la sua circonferenza sarebbe assai più larga di quella del Cielo del Sole. Tutto ciò che si vede di essa si forma da un raggio che si riflette sulla superficie concava del Primo Mobile, che trae da esso il suo moto e la sua virtù. E come un colle si specchia nell'acqua alle sue pendici, come per vedersi adornato quando ha le erbe verdi e i fiori rigogliosi, così, stando tutt'intorno a quella luce, vidi specchiarsi in più di mille gradinate che le anime beate che hanno fatto ritorno lassù. E se il gradino più basso raccoglie in sé una luce tanto grande, quanto dev'essere ampia questa rosa nei suoi petali più esterni! La mia vista non si smarriva a causa dell'ampiezza e dell'altezza della rosa, ma percepiva interamente la quantità e la qualità di quella allegria. La vicinanza e la distanza, lì nell'Empireo, non aggiunge né toglie nulla: infatti, dove Dio governa direttamente, le leggi naturali non hanno alcun valore. Beatrice, mentre io tacevo pur volendo parlare, mi condusse al centro della rosa eterna, che digrada verso il basso e si estende ed emana un profumo di lode al sole che fa sempre primavera (Dio), e mi disse: «Osserva quanto è esteso il concilio delle stole bianche (dei beati)! Vedi quanto è grande la nostra città; vedi i nostri seggi talmente occupati, che ben pochi di essi sono rimasti liberi. E in quel gran seggio su cui tieni fisso il tuo sguardo per la corona che vi è deposta sopra, prima che tu ascenda al Paradiso siederà l'anima dell'alto Arrigo VII, che sarà imperatore sulla Terra e verrà a raddrizzare l'Italia prima che essa sia pronta ad accoglierlo. La cieca avarizia che vi seduce vi ha resi simili al bambino che muore di fame, e tuttavia manda via la nutrice. E allora sarà pontefice nella Curia di Roma un tale (Clemente V) che non andrà con lui per una sola strada e agirà in modo diverso pubblicamente e in segreto. Ma Dio lo tollererà poco tempo nel santo ufficio; infatti egli sarà spinto giù (nella buca della III Bolgia) dove si trova già Simon mago per i suoi crimini, e spingerà ancora più a fondo il papa di Anagni (Bonifacio VIII)». |