Paradiso, Canto XVIII
J. Flaxman, L'aquila del VI Cielo
Vincendo me col lume d'un sorriso,
ella mi disse: "Volgiti e ascolta;
ché non pur ne' miei occhi è paradiso"...
'DILIGITE IUSTITITIAM' primai
fur verbo e nome di tutto 'l dipinto;
'QUI IUDICATIS TERRAM' fur sezzai...
Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paolo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi...
ella mi disse: "Volgiti e ascolta;
ché non pur ne' miei occhi è paradiso"...
'DILIGITE IUSTITITIAM' primai
fur verbo e nome di tutto 'l dipinto;
'QUI IUDICATIS TERRAM' fur sezzai...
Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paolo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi...
Argomento del Canto
Ancora nel V Cielo di Marte. Conforto di Beatrice; Cacciaguida mostra a Dante alcuni degli spiriti combattenti per la fede. Ascesa al VI Cielo di Giove: gli spiriti giusti formano alcune figure di lettere e poi dell'aquila. Invettiva di Dante contro i papi corrotti e Giovanni XXII.
È il mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È il mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
Conforto di Beatrice (1-21)
S. Dalì, Dante e Beatrice
L'avo Cacciaguida tace, dopo aver rivolto a Dante la profezia dell'esilio, e il poeta medita sulle parole udite con fare pensieroso, quando Beatrice lo invita a non abbattersi e a pensare che ella pregherà per lui presso Dio. Dante fissa lo sguardo nei suoi occhi e non è in grado di descriverne la bellezza, non solo perché non ne ha i mezzi poetici ma anche per l'insufficienza della memoria nel ricordare. Può solo dire che, guardando Beatrice, ogni suo desiderio sembra acquietato, poiché nella donna si riflette l'eterna bellezza di Dio stesso. Beatrice in seguito gli sorride e lo esorta a voltarsi e ad ascoltare, poiché il poeta può trovare gioia anche in altro che non siano i suoi occhi.
Gli spiriti combattenti della croce (22-51)
A. Dürer, Carlo Magno
Dante obbedisce e torna a rivolgersi a Cacciaguida, intuendo dal suo accresciuto fulgore che il beato ha ancora grande desiderio di parlargli. L'avo spiega che nella figura della croce ci sono gli spiriti combattenti per la fede, i quali in Terra hanno acquisito grande fama e potrebbero fornire ricca materia ad ogni poesia. Cacciaguida invita pertanto Dante a guardare i bracci orizzontali della croce, poiché egli indicherà alcuni di questi beati e ognuno di essi, quando verrà nominato, scorrerà rapidamente lungo l'asse della croce. Il poeta osserva e vede l'anima di Giosuè, che si muove all'unisono con la voce dell'avo, quindi quella di Maccabeo e poi quelle di Carlo Magno e Orlando, che il poeta segue con lo sguardo come il falconiere segue il volo del falcone. In seguito vengono nominati Guglielmo duca di Orange e Rinoardo, poi Goffredo di Buglione e il duca Roberto Guiscardo. Alla fine della rassegna si muove anche l'anima dello stesso Cacciaguida, mostrandosi degno artista tra quei cantori del Cielo.
Ascesa al Cielo di Giove (52-69)
Dante torna a rivolgersi a Beatrice, per sapere cosa si aspetta che faccia, e vede i suoi occhi così splendenti come non gli sono mai sembrati finora. Il poeta si avvede di essere salito al Cielo successivo, il VI Cielo di Giove, poiché questo ruota con un arco più ampio e in quanto la bellezza di Beatrice è ulteriormente aumentata. Dante si avvede che la stella ha mutato colore, passando dal rosso di Marte all'argento di Giove, proprio come una donna che dopo essere arrossita riacquista in breve tempo il suo candore.
Ascesa al Cielo di Giove (52-69)
Dante torna a rivolgersi a Beatrice, per sapere cosa si aspetta che faccia, e vede i suoi occhi così splendenti come non gli sono mai sembrati finora. Il poeta si avvede di essere salito al Cielo successivo, il VI Cielo di Giove, poiché questo ruota con un arco più ampio e in quanto la bellezza di Beatrice è ulteriormente aumentata. Dante si avvede che la stella ha mutato colore, passando dal rosso di Marte all'argento di Giove, proprio come una donna che dopo essere arrossita riacquista in breve tempo il suo candore.
Gli spiriti giusti. La scritta simbolica e la figura dell'aquila (70-114)
L'aquila imperiale (© Guillaume Piolle)
Nel Cielo appaiono le anime degli spiriti giusti, i quali si uniscono a formare delle lettere dell'alfabeto, simili a degli uccelli che, dopo essersi levati in volo, si rallegrano a vicenda e formano schiere di varia forma. Le luci dei beati si uniscono a formare varie lettere, cantando e danzando al ritmo del proprio canto, raffigurando quindi una scritta di senso compiuto: Dante invoca le Muse e chiede la loro alta ispirazione, in modo da poter descrivere le figure viste a dispetto della pochezza dei suoi versi. Le anime formano in tutto trentacinque lettere, che unite danno luogo alla scritta 'DILIGITE IUSTITIAM, QUI IUDICATIS TERRAM' («Amate la giustizia, voi che giudicate la Terra»). Alla fine le luci restano unite a formare la 'M', sfolgorando dorate e stagliandosi sul colore argenteo di Giove, poi scendono dall'altro altre luci che si uniscono sulla parte alta della 'M', raffigurando una sorta di giglio araldico. In seguito Dante vede più di mille luci salire dalla parte alta della lettera, simili alle scintille che sprizzano da un ciocco di legno che arde, ed esse formano il collo e la testa di un'aquila. Il poeta osserva che chi ha dipinto quella figura, cioè Dio, non ha maestro né modello e la virtù creativa che dà origine agli esseri viventi ha inizio da Lui. Anche le altre luci che, prima, formavano la figura della 'M', ora si dispongono a rappresentare il corpo dell'aquila.
Invettiva di Dante contro i papi corrotti e Giovanni XXII
Ritratto di Giovanni XXII
Dante è rapito nell'osservare quelle luci simili a gemme che costellano il Cielo di Giove, rappresentando la giustizia il cui influsso promana da quella stella: egli prega Dio di rivolgere lo sguardo sulla Terra, là dove esce il fumo della corruzione che offusca tale benefico influsso, così da adirarsi del commercio simoniaco che avviene in seno alla Chiesa edificata sui miracoli e sul martirio dei suoi adepti. Dante invoca la preghiera dei beati a favore degli uomini in Terra, sviati dal cattivo esempio dei papi corrotti, giacché un tempo si faceva guerra con le spade, ma ora si fa sottraendo ai fedeli il cibo spirituale (l'Eucarestia) che Dio non nega a nessuno. Dante esorta papa Giovanni XXII, che scrive al solo scopo di cancellare, a pensare a san Pietro e san Paolo che diedero la vita per quella Chiesa che ora il pontefice corrompe: ma il papa non se ne cura, poiché pensa solo a san Giovanni Battista effigiato sul fiorino, che visse nel deserto e fu fatto uccidere da Salomè, mentre non conosce né il pescatore (san Pietro) né Polo (san Paolo)
Interpretazione complessiva
Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde alla conclusione dell'episodio di Cacciaguida con la presentazione degli spiriti combattenti, mentre la seconda descrive l'ascesa al Cielo di Giove e la complessa figurazione dell'aquila, preludio al discorso sulla giustizia che occuperà i Canti XIX-XX. In apertura Dante è intento a meditare sulla profezia del suo esilio che gli è stata rivolta dall'avo, che ha temperato in parte l'asprezza di quanto annunciato con la dichiarazione dell'alta missione affidatagli, e ciò è già un preannuncio del successivo discorso sulla giustizia, in quanto il poeta si sente vittima futura di un sopruso politico e se ne rammarica, anche se Beatrice gli ricorda che lei è vicino a Dio al quale rivolgerà le sue preghiere in favore di Dante (dunque la giustizia divina è destinata a prevalere sulle ingiustizie terrene, assegnando nell'Aldilà premi e punizioni a seconda delle azioni compiute in vita). A fare da cerniera tra questo inizio stilisticamente elevato, con la descrizione della straordinaria bellezza degli occhi di Beatrice che Dante non è in grado di descrivere, e la successiva ascesa al VI Cielo, c'è l'ultimo colloquio con Cacciaguida destinato alla presentazione dei principali spiriti combattenti che occupano la croce, che vengono indicati dal beato e che corrono rapidi lungo i bracci laterali per mostrarsi a Dante. Si tratta di personaggi che hanno combattuto per la conquista della Terrasanta (Giosuè, Giuda Maccabeo), o per la sua difesa durante le Crociate (Cacciaguida stesso, Goffredo di Buglione), oppure si sono battuti contro i Saraceni in Spagna (Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d'Orange, Rinoardo) o in Italia meridionale (come Roberto Guiscardo, che Dante credeva opposto ai musulmani in Calabria e Sicilia): Cacciaguida sottolinea i grandi meriti che questi uomini hanno acquisito in vita, tanto da essere degni di comparire in opere poetiche, in quanto hanno impugnato la spada e combattuto per difendere la fede cristiana contro i cosiddetti infedeli, cosa che non è più praticata al tempo di Dante in quanto i papi sono impegnati in maneggi politici piuttosto che a bandire una nuova Crociata; ciò è già stato affermato più volte da Dante nel poema (cfr. ad es. Inf., XXVII, 85 ss.) e anticipa l'invettiva finale contro i papi corrotti che guastano la vigna di Pietro e Paolo, per nulla interessati ad amministrare la giustizia e autori di violenti soprusi come l'esilio patito da Dante e il cui responsabile è Bonifacio VIII, non a caso già attaccato da Guido da Montefeltro nel citato passo infernale. Questi spiriti hanno subìto l'influsso di Marte e hanno perciò combattuto per difendere la fede, ma hanno comunque agito in base alla giustizia, seppure in modo diverso rispetto ai sovrani e ai governanti che Dante colloca nel Cielo di Giove e che hanno correttamente operato nell'esercitare le loro funzioni (c'è dunque un sottile collegamento tra la prima e la seconda parte del Canto, così come c'è analogia tra i due simboli che i beati raffigurano nei due Cieli, ovvero la croce degli spiriti combattenti e l'aquila imperiale degli spiriti giusti).
Come al solito Dante non si accorge dell'essere salito al Cielo successivo, se non da alcuni indizi visivi (il mutato colore della stella, che da rosso è diventato argenteo, il moto circolare del Cielo che è più ampio, l'accresciuta bellezza degli occhi di Beatrice) e in seguito gli appaiono subito gli spiriti giusti che scintillano dorati sul colore tenue del pianeta Giove, sfavillando intorno a Dante e dando vita a una complessa figurazione che introduce il discorso sulla giustizia che occuperà i Canti successivi. Rispetto alle rappresentazioni simboliche del Cielo del Sole e di Marte, lo spettacolo cui assiste qui il poeta assume un aspetto ancor più grandioso e scenografico, in quanto le luci delle anime si dispongono a formare trentacinque lettere in rapida successione che formano la scritta in latino «amate la giustizia, o voi che giudicate la Terra»: è il primo versetto del Libro della Sapienza ed è un accorato appello a tutti coloro che, sulla Terra, hanno responsabilità nell'amministrare la legge o la politica, quindi ai principi laici e agli uomini di Chiesa il cui cattivo esempio è fonte per Dante di quasi tutti i mali denunciati nella Commedia. La scena è talmente complessa che per descriverla al meglio Dante deve fare ricorso a tutto il suo ingegno poetico, invocando l'aiuto delle Muse perché lo assistano in quest'ardua impresa: infatti le luci indugiano a formare la lettera 'M' che conclude la scritta e che unanimemente è interpretata come l'iniziale della parola «Monarchia», mentre altre luci si aggiungono nel colmo (la parte alta) della lettera e la trasformano in un giglio araldico; successivamente altre luci modificheranno la figura fino a tramutarla in un'aquila, ovvero il simbolo politico dell'Impero romano e di quello germanico che ne era il legittimo successore, destinato secondo Dante ad assicurare il buon governo al mondo cristiano e la giustizia attraverso l'applicazione delle leggi. La rappresentazione è un modo per affermare nuovamente la necessità di un'autorità centrale e suprema, che per Dante coincideva con l'imperatore tedesco e la cui assenza in Italia era fonte di soprusi e ingiustizie, nonché di quel disordine politico in cui il suo stesso esilio era maturato. Si è molto discusso inoltre sul valore simbolico da assegnare al giglio araldico, la figura intermedia tra la 'M' e l'aquila, poiché potrebbe rappresentare l'insegna della monarchia francese e indicare quindi la casa di Carlo Magno che fu il creatore del Sacro Romano Impero, ma anche la casa dei Capetingi che governava la Francia nel Trecento e si opponeva con Filippo il Bello all'autorità imperiale: forse è più probabile la prima interpretazione, ma anche la seconda non è da scartare, in quanto Filippo è citato dall'aquila nella rassegna dei principi malvagi alla fine del Canto XIX, ed è noto come Dante criticasse il re francese per la sua politica guelfa e anti-imperiale. Dante potrebbe voler indicare che l'attuale Impero tedesco è nato da quella monarchia francese che ora, con Filppo il Bello, cerca di opporglisi, mentre dovrebbe accettare di buon grado di sottomettersi alla sua autorità in considerazione del valore provvidenziale che l'Impero ha secondo il poeta (anche in Par., VI, 109-111 Giustiniano attaccava Carlo II d'Angiò per la sua politica anti-imperiale e lo ammoniva sul fatto che Dio non avrebbe mutato l'armi, cioè il simbolo dell'aquila, con i suoi gigli).
Il grandioso spettacolo dell'aquila induce Dante a celebrare l'alto valore della giustizia il cui influsso nasce dal VI Cielo e dovrebbe illuminare i governanti terreni, cosa che invece non avviene a causa della diffusione dell'avarizia e della sete di potere, tanto fra i principi laici quanto fra gli alti prelati: il finale del Canto è occupato dalla tremenda invettiva che Dante rivolge ai papi corrotti e simoniaci, che hanno trasformato di nuovo il Tempio in un mercato attraverso la compravendita delle cose sacre e si oppongono all'autorità imperiale grazie all'alleanza con la monarchia francese, specie dopo che Clemente V ha trasferito la sede papale ad Avignone su pressioni di Filippo il Bello. Dante attacca in particolare Giovanni XXII, il papa che a quell'epoca era sul soglio di Pietro e che era colpevole ai suoi occhi di usare l'arma della scomunica per colpire i suoi nemici politici, nonché accumulare immense ricchezze grazie all'alienazione dei benefici ecclestiastici: il pontefice aveva scomunicato nel 1317 Cangrande Della Scala, vicario imperiale intento ad assediare Brescia, il che ha fatto ipotizzare che il Canto fosse scritto da Dante intorno a quell'anno e addirittura alla corte di Verona, fatto di cui non ci sono conferme ma che non si può escludere. Il papa è accusato di scrivere solo per cancellare, il che è forse allusione all'annullamento dei benefici ecclestiastici per far sì che la Curia ne intascasse i proventi, dando prova quindi di spaventosa avidità e per giunta negli anni in cui divampava lo scontro tra Francescani spirituali e conventuali (è noto che Giovanni XXII parteggiava per questi ultimi, favorevoli a un ammorbidimento della Regola). L'invettiva è particolamente aspra e con sottile sarcasmo, poiché Dante esorta il papa a pensare ai fondatori della Chiesa di Roma (san Pietro e Paolo) che morirono per difenderla, mentre Giovanni XXII pensa solo a san Giovanni Battista la cui effigie era incisa sul fiorino, per sottolineare la cupidigia mostrata dal pontefice (cfr. Par., IX, 127-142 e il discorso di Folchetto di Marsiglia): le parole attribuite al papa suonano terribilmente sacrileghe, in quanto il Battista è indicato come colui che per salti fu tratto al martiro, con allusione alla danza di Salomè che indusse Erode a far decapitare san Giovanni, mentre Pietro e Paolo sono indicati rispettivamente come il pescator (con evidente disprezzo per l'umile mestiere esercitato da Pietro) e Polo, che è la forma popolare di Paolo e che ha un valore irriverente e blasfemo. L'invettiva di Dante anticipa quella, altrettanto dura nei toni e nel contenuto, che proprio san Pietro rivolgerà a Bonifacio VIII nel Canto XXVII, mentre il tema della corruzione ecclesiastica che offende la giustizia sarà toccato anche da Pier Damiani (Canto XXI) e san Benedetto (Canto XXII).
Come al solito Dante non si accorge dell'essere salito al Cielo successivo, se non da alcuni indizi visivi (il mutato colore della stella, che da rosso è diventato argenteo, il moto circolare del Cielo che è più ampio, l'accresciuta bellezza degli occhi di Beatrice) e in seguito gli appaiono subito gli spiriti giusti che scintillano dorati sul colore tenue del pianeta Giove, sfavillando intorno a Dante e dando vita a una complessa figurazione che introduce il discorso sulla giustizia che occuperà i Canti successivi. Rispetto alle rappresentazioni simboliche del Cielo del Sole e di Marte, lo spettacolo cui assiste qui il poeta assume un aspetto ancor più grandioso e scenografico, in quanto le luci delle anime si dispongono a formare trentacinque lettere in rapida successione che formano la scritta in latino «amate la giustizia, o voi che giudicate la Terra»: è il primo versetto del Libro della Sapienza ed è un accorato appello a tutti coloro che, sulla Terra, hanno responsabilità nell'amministrare la legge o la politica, quindi ai principi laici e agli uomini di Chiesa il cui cattivo esempio è fonte per Dante di quasi tutti i mali denunciati nella Commedia. La scena è talmente complessa che per descriverla al meglio Dante deve fare ricorso a tutto il suo ingegno poetico, invocando l'aiuto delle Muse perché lo assistano in quest'ardua impresa: infatti le luci indugiano a formare la lettera 'M' che conclude la scritta e che unanimemente è interpretata come l'iniziale della parola «Monarchia», mentre altre luci si aggiungono nel colmo (la parte alta) della lettera e la trasformano in un giglio araldico; successivamente altre luci modificheranno la figura fino a tramutarla in un'aquila, ovvero il simbolo politico dell'Impero romano e di quello germanico che ne era il legittimo successore, destinato secondo Dante ad assicurare il buon governo al mondo cristiano e la giustizia attraverso l'applicazione delle leggi. La rappresentazione è un modo per affermare nuovamente la necessità di un'autorità centrale e suprema, che per Dante coincideva con l'imperatore tedesco e la cui assenza in Italia era fonte di soprusi e ingiustizie, nonché di quel disordine politico in cui il suo stesso esilio era maturato. Si è molto discusso inoltre sul valore simbolico da assegnare al giglio araldico, la figura intermedia tra la 'M' e l'aquila, poiché potrebbe rappresentare l'insegna della monarchia francese e indicare quindi la casa di Carlo Magno che fu il creatore del Sacro Romano Impero, ma anche la casa dei Capetingi che governava la Francia nel Trecento e si opponeva con Filippo il Bello all'autorità imperiale: forse è più probabile la prima interpretazione, ma anche la seconda non è da scartare, in quanto Filippo è citato dall'aquila nella rassegna dei principi malvagi alla fine del Canto XIX, ed è noto come Dante criticasse il re francese per la sua politica guelfa e anti-imperiale. Dante potrebbe voler indicare che l'attuale Impero tedesco è nato da quella monarchia francese che ora, con Filppo il Bello, cerca di opporglisi, mentre dovrebbe accettare di buon grado di sottomettersi alla sua autorità in considerazione del valore provvidenziale che l'Impero ha secondo il poeta (anche in Par., VI, 109-111 Giustiniano attaccava Carlo II d'Angiò per la sua politica anti-imperiale e lo ammoniva sul fatto che Dio non avrebbe mutato l'armi, cioè il simbolo dell'aquila, con i suoi gigli).
Il grandioso spettacolo dell'aquila induce Dante a celebrare l'alto valore della giustizia il cui influsso nasce dal VI Cielo e dovrebbe illuminare i governanti terreni, cosa che invece non avviene a causa della diffusione dell'avarizia e della sete di potere, tanto fra i principi laici quanto fra gli alti prelati: il finale del Canto è occupato dalla tremenda invettiva che Dante rivolge ai papi corrotti e simoniaci, che hanno trasformato di nuovo il Tempio in un mercato attraverso la compravendita delle cose sacre e si oppongono all'autorità imperiale grazie all'alleanza con la monarchia francese, specie dopo che Clemente V ha trasferito la sede papale ad Avignone su pressioni di Filippo il Bello. Dante attacca in particolare Giovanni XXII, il papa che a quell'epoca era sul soglio di Pietro e che era colpevole ai suoi occhi di usare l'arma della scomunica per colpire i suoi nemici politici, nonché accumulare immense ricchezze grazie all'alienazione dei benefici ecclestiastici: il pontefice aveva scomunicato nel 1317 Cangrande Della Scala, vicario imperiale intento ad assediare Brescia, il che ha fatto ipotizzare che il Canto fosse scritto da Dante intorno a quell'anno e addirittura alla corte di Verona, fatto di cui non ci sono conferme ma che non si può escludere. Il papa è accusato di scrivere solo per cancellare, il che è forse allusione all'annullamento dei benefici ecclestiastici per far sì che la Curia ne intascasse i proventi, dando prova quindi di spaventosa avidità e per giunta negli anni in cui divampava lo scontro tra Francescani spirituali e conventuali (è noto che Giovanni XXII parteggiava per questi ultimi, favorevoli a un ammorbidimento della Regola). L'invettiva è particolamente aspra e con sottile sarcasmo, poiché Dante esorta il papa a pensare ai fondatori della Chiesa di Roma (san Pietro e Paolo) che morirono per difenderla, mentre Giovanni XXII pensa solo a san Giovanni Battista la cui effigie era incisa sul fiorino, per sottolineare la cupidigia mostrata dal pontefice (cfr. Par., IX, 127-142 e il discorso di Folchetto di Marsiglia): le parole attribuite al papa suonano terribilmente sacrileghe, in quanto il Battista è indicato come colui che per salti fu tratto al martiro, con allusione alla danza di Salomè che indusse Erode a far decapitare san Giovanni, mentre Pietro e Paolo sono indicati rispettivamente come il pescator (con evidente disprezzo per l'umile mestiere esercitato da Pietro) e Polo, che è la forma popolare di Paolo e che ha un valore irriverente e blasfemo. L'invettiva di Dante anticipa quella, altrettanto dura nei toni e nel contenuto, che proprio san Pietro rivolgerà a Bonifacio VIII nel Canto XXVII, mentre il tema della corruzione ecclesiastica che offende la giustizia sarà toccato anche da Pier Damiani (Canto XXI) e san Benedetto (Canto XXII).
Note e passi controversi
La 'M' maiuscola gotica, il giglio araldico e l'aquila imperiale
I vv. 16-18 vogliono dire che l'eterna bellezza di Dio si riflette in quella di Beatrice, così da placare tutti i desideri di Dante (il secondo aspetto è il «riflesso»).
Il v. 19 può voler dire che Beatrice col suo sorriso vince Dante forzandolo a guardare verso la croce, oppure abbagliando la sua vista.
Al v. 24 tolta significa «presa».
L'albero citato ai vv. 29-30 da Cacciaguida è il Paradiso, che riceve vita dalla cima (da Dio) e non dalle radici, produce sempre frutti e non perde mai le foglie. Tale immagine era frequente nei mistici medievali e anche nel testo biblico.
Al v. 33 musa vuol dire «poesia» (cfr. XV, 26).
Al v. 36 il lampo è detto foco veloce della nube, perché si riteneva che fosse generato in essa.
Il v. 42 vuol dire che la letizia del beato era come la frusta (ferza) e che fa girare la trottola (paleo), in quanto la luce dello spirito ruota su se stessa (il paleo era una trottola conica che si faceva girare con una specie di frusta).
Il v. 57 indica che Beatrice aveva gli occhi tanto lucenti da superare il suo solito aspetto (solere è infinito sostantivato).
Al v. 63 quel miracol indica il sorriso di Beatrice, più addorno in quanto più bello.
Al v. 70 giovial facella vuol dire «stella di Giove», poiché l'agg. «gioviale» deriva dal lat. med. iovialis, e non invece «allegra», «lieta».
Nostra favella (v. 72) indica le lettere dell'alfabeto.
Al v. 82 diva Pegasea indica genericamente la Musa, poiché il cavallo alato Pegaso secondo il mito classico fece scaturire dall'Elicona la fonte Ippocrene che era simbolo dell'ispirazione poetica.
La frase 'DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM' (vv. 91-93) è il primo versetto del Libro della Sapienza ed è un appello a coloro che hanno responsabilità di governo affinché siano giusti ed equi. In Conv., IV, 16 Dante traduce un altro passo dello stesso Libro (VI, 23), dicendo: «Amate lo lume di sapienza, voi che siete dinanzi a li populi» (Diligite lumen sapientiae, omnes qui praeestis populis).
Al v. 93 sezzai è forma arcaica per «ultimi» (cfr. Inf., VII, 130: al da sezzo).
I vv. 100-102 descrivono le faville che sprizzano dal fuoco del camino, alludendo alla superstizione per cui i vecchi erano soliti trarre auspici per il futuro osservandole. Agurarsi è forma popolare per «augurarsi», «trarre auspici».
La trasformazione descritta ai vv. 97-108 indica che le luci dapprima si ammucchiano nella parte alta della 'M', una maiuscola gotica, rendendola simile a un giglio araldico e poi altre si aggiungono fino a tramutarla in un'aquila come lo stemma imperiale (vedi fig.).
I vv. 109-111, non del tutto chiari, vogliono dire che Dio (l'autore di questa rappresentazione) non ha maestri né modelli, e quella virtù creativa che è forma dei vari esseri generanti da un nido all'altro, si riconosce (si rammenta) da Lui.
I vv. 121-123 alludono al passo evangelico in cui Gesù cacciò i mercanti dal Tempio (Matth., XXI, 12-13; Luc., XIX, 45-46, ecc.), episodio paragonato alla compravendita di cose sacre perpetrato dai papi nella Curia.
La milizia del ciel (v. 124) indica i beati.
I vv. 127-129 alludono all'arma della scomunica, usata dai papi per colpire i loro nemici politici anziché far loro guerra con le spade; è probabile che Dante si riferisca alla scomunica lanciata da Giovanni XXII contro Cangrande nel 1317. Il pan che Dio non nega a nessuno è l'Eucarestia, sottratto invece ai fedeli dai papi corrotti.
I vv. 130-132 sono un'apostrofe a papa Giovanni XXII, accusato di abrogare i benefici ecclesiastichi per consentire alla Curia di incamerarne i proventi e arricchirsi; meno probabile un'allusione all'uso di scrivere scomuniche per poi cancellarle in cambio di denaro, perché di questo non c'è prova per questo pontefice. La vigna è ovviamente la Chiesa, come in XII, 86.
I vv. 134-135 alludono a san Giovanni Battista, che secondo il Vangelo (Luc., I, 80) si ritirò a vivere nel deserto e fu fatto decapitare da Erode su richiesta di Salomè, che aveva danzato per lui in un banchetto (per salti vuol dire «con una danza» ed ha valore chiaramente irrisorio). Il santo, patrono di Firenze, era effigiato sul verso del fiorino.
Il v. 136 indica san Pietro con l'appellativo pescator, alludendo al suo umile mestiere, mentre Polo è la forma volgare di Paolo. Giovanni XXII si riferisce dunque ai due santi in modo sprezzante e derisorio.
Il v. 19 può voler dire che Beatrice col suo sorriso vince Dante forzandolo a guardare verso la croce, oppure abbagliando la sua vista.
Al v. 24 tolta significa «presa».
L'albero citato ai vv. 29-30 da Cacciaguida è il Paradiso, che riceve vita dalla cima (da Dio) e non dalle radici, produce sempre frutti e non perde mai le foglie. Tale immagine era frequente nei mistici medievali e anche nel testo biblico.
Al v. 33 musa vuol dire «poesia» (cfr. XV, 26).
Al v. 36 il lampo è detto foco veloce della nube, perché si riteneva che fosse generato in essa.
Il v. 42 vuol dire che la letizia del beato era come la frusta (ferza) e che fa girare la trottola (paleo), in quanto la luce dello spirito ruota su se stessa (il paleo era una trottola conica che si faceva girare con una specie di frusta).
Il v. 57 indica che Beatrice aveva gli occhi tanto lucenti da superare il suo solito aspetto (solere è infinito sostantivato).
Al v. 63 quel miracol indica il sorriso di Beatrice, più addorno in quanto più bello.
Al v. 70 giovial facella vuol dire «stella di Giove», poiché l'agg. «gioviale» deriva dal lat. med. iovialis, e non invece «allegra», «lieta».
Nostra favella (v. 72) indica le lettere dell'alfabeto.
Al v. 82 diva Pegasea indica genericamente la Musa, poiché il cavallo alato Pegaso secondo il mito classico fece scaturire dall'Elicona la fonte Ippocrene che era simbolo dell'ispirazione poetica.
La frase 'DILIGITE IUSTITIAM QUI IUDICATIS TERRAM' (vv. 91-93) è il primo versetto del Libro della Sapienza ed è un appello a coloro che hanno responsabilità di governo affinché siano giusti ed equi. In Conv., IV, 16 Dante traduce un altro passo dello stesso Libro (VI, 23), dicendo: «Amate lo lume di sapienza, voi che siete dinanzi a li populi» (Diligite lumen sapientiae, omnes qui praeestis populis).
Al v. 93 sezzai è forma arcaica per «ultimi» (cfr. Inf., VII, 130: al da sezzo).
I vv. 100-102 descrivono le faville che sprizzano dal fuoco del camino, alludendo alla superstizione per cui i vecchi erano soliti trarre auspici per il futuro osservandole. Agurarsi è forma popolare per «augurarsi», «trarre auspici».
La trasformazione descritta ai vv. 97-108 indica che le luci dapprima si ammucchiano nella parte alta della 'M', una maiuscola gotica, rendendola simile a un giglio araldico e poi altre si aggiungono fino a tramutarla in un'aquila come lo stemma imperiale (vedi fig.).
I vv. 109-111, non del tutto chiari, vogliono dire che Dio (l'autore di questa rappresentazione) non ha maestri né modelli, e quella virtù creativa che è forma dei vari esseri generanti da un nido all'altro, si riconosce (si rammenta) da Lui.
I vv. 121-123 alludono al passo evangelico in cui Gesù cacciò i mercanti dal Tempio (Matth., XXI, 12-13; Luc., XIX, 45-46, ecc.), episodio paragonato alla compravendita di cose sacre perpetrato dai papi nella Curia.
La milizia del ciel (v. 124) indica i beati.
I vv. 127-129 alludono all'arma della scomunica, usata dai papi per colpire i loro nemici politici anziché far loro guerra con le spade; è probabile che Dante si riferisca alla scomunica lanciata da Giovanni XXII contro Cangrande nel 1317. Il pan che Dio non nega a nessuno è l'Eucarestia, sottratto invece ai fedeli dai papi corrotti.
I vv. 130-132 sono un'apostrofe a papa Giovanni XXII, accusato di abrogare i benefici ecclesiastichi per consentire alla Curia di incamerarne i proventi e arricchirsi; meno probabile un'allusione all'uso di scrivere scomuniche per poi cancellarle in cambio di denaro, perché di questo non c'è prova per questo pontefice. La vigna è ovviamente la Chiesa, come in XII, 86.
I vv. 134-135 alludono a san Giovanni Battista, che secondo il Vangelo (Luc., I, 80) si ritirò a vivere nel deserto e fu fatto decapitare da Erode su richiesta di Salomè, che aveva danzato per lui in un banchetto (per salti vuol dire «con una danza» ed ha valore chiaramente irrisorio). Il santo, patrono di Firenze, era effigiato sul verso del fiorino.
Il v. 136 indica san Pietro con l'appellativo pescator, alludendo al suo umile mestiere, mentre Polo è la forma volgare di Paolo. Giovanni XXII si riferisce dunque ai due santi in modo sprezzante e derisorio.
TestoGià si godeva solo
del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava lo mio, temprando col dolce l’acerbo; 3 e quella donna ch’a Dio mi menava disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono presso a colui ch’ogne torto disgrava». 6 Io mi rivolsi a l’amoroso suono del mio conforto; e qual io allor vidi ne li occhi santi amor, qui l’abbandono: 9 non perch’io pur del mio parlar diffidi, ma per la mente che non può redire sovra sé tanto, s’altri non la guidi. 12 Tanto poss’io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto libero fu da ogne altro disire, 15 fin che ‘l piacere etterno, che diretto raggiava in Beatrice, dal bel viso mi contentava col secondo aspetto. 18 Vincendo me col lume d’un sorriso, ella mi disse: «Volgiti e ascolta; ché non pur ne’ miei occhi è paradiso». 21 Come si vede qui alcuna volta l’affetto ne la vista, s’elli è tanto, che da lui sia tutta l’anima tolta, 24 così nel fiammeggiar del folgór santo, a ch’io mi volsi, conobbi la voglia in lui di ragionarmi ancora alquanto. 27 El cominciò: «In questa quinta soglia de l’albero che vive de la cima e frutta sempre e mai non perde foglia, 30 spiriti son beati, che giù, prima che venissero al ciel, fuor di gran voce, sì ch’ogne musa ne sarebbe opima. 33 Però mira ne’ corni de la croce: quello ch’io nomerò, lì farà l’atto che fa in nube il suo foco veloce». 36 Io vidi per la croce un lume tratto dal nomar Iosuè, com’el si feo; né mi fu noto il dir prima che ‘l fatto. 39 E al nome de l’alto Macabeo vidi moversi un altro roteando, e letizia era ferza del paleo. 42 Così per Carlo Magno e per Orlando due ne seguì lo mio attento sguardo, com’occhio segue suo falcon volando. 45 Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo e ‘l duca Gottifredi la mia vista per quella croce, e Ruberto Guiscardo. 48 Indi, tra l’altre luci mota e mista, mostrommi l’alma che m’avea parlato qual era tra i cantor del cielo artista. 51 Io mi rivolsi dal mio destro lato per vedere in Beatrice il mio dovere, o per parlare o per atto, segnato; 54 e vidi le sue luci tanto mere, tanto gioconde, che la sua sembianza vinceva li altri e l’ultimo solere. 57 E come, per sentir più dilettanza bene operando, l’uom di giorno in giorno s’accorge che la sua virtute avanza, 60 sì m’accors’io che ‘l mio girare intorno col cielo insieme avea cresciuto l’arco, veggendo quel miracol più addorno. 63 E qual è ‘l trasmutare in picciol varco di tempo in bianca donna, quando ‘l volto suo si discarchi di vergogna il carco, 66 tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto, per lo candor de la temprata stella sesta, che dentro a sé m’avea ricolto. 69 Io vidi in quella giovial facella lo sfavillar de l’amor che lì era, segnare a li occhi miei nostra favella. 72 E come augelli surti di rivera, quasi congratulando a lor pasture, fanno di sé or tonda or altra schiera, 75 sì dentro ai lumi sante creature volitando cantavano, e faciensi or D, or I, or L in sue figure. 78 Prima, cantando, a sua nota moviensi; poi, diventando l’un di questi segni, un poco s’arrestavano e taciensi. 81 O diva Pegasëa che li ‘ngegni fai gloriosi e rendili longevi, ed essi teco le cittadi e ‘ regni, 84 illustrami di te, sì ch’io rilevi le lor figure com’io l’ho concette: paia tua possa in questi versi brevi! 87 Mostrarsi dunque in cinque volte sette vocali e consonanti; e io notai le parti sì, come mi parver dette. 90 ‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto; ‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai. 93 Poscia ne l’emme del vocabol quinto rimasero ordinate; sì che Giove pareva argento lì d’oro distinto. 96 E vidi scendere altre luci dove era il colmo de l’emme, e lì quetarsi cantando, credo, il ben ch’a sé le move. 99 Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi surgono innumerabili faville, onde li stolti sogliono agurarsi, 102 resurger parver quindi più di mille luci e salir, qual assai e qual poco, sì come ‘l sol che l’accende sortille; 105 e quietata ciascuna in suo loco, la testa e ‘l collo d’un’aguglia vidi rappresentare a quel distinto foco. 108 Quei che dipinge lì, non ha chi ‘l guidi; ma esso guida, e da lui si rammenta quella virtù ch’è forma per li nidi. 111 L’altra beatitudo, che contenta pareva prima d’ingigliarsi a l’emme, con poco moto seguitò la ‘mprenta. 114 O dolce stella, quali e quante gemme mi dimostraro che nostra giustizia effetto sia del ciel che tu ingemme! 117 Per ch’io prego la mente in che s’inizia tuo moto e tua virtute, che rimiri ond’esce il fummo che ’l tuo raggio vizia; 120 sì ch’un’altra fiata omai s’adiri del comperare e vender dentro al templo che si murò di segni e di martìri. 123 O milizia del ciel cu’ io contemplo, adora per color che sono in terra tutti sviati dietro al malo essemplo! 126 Già si solea con le spade far guerra; ma or si fa togliendo or qui or quivi lo pan che ’l pio Padre a nessun serra. 129 Ma tu che sol per cancellare scrivi, pensa che Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi. 132 Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro sì a colui che volle viver solo e che per salti fu tratto al martiro, ch’io non conosco il pescator né Polo». 136 |
ParafrasiOrmai il beato (Cacciaguida) godeva solo delle sue parole, e io di quelle che avevo udito, attenuando l'asprezza (della profezia dell'esilio) con la dolcezza (della gloria futura);
e quella donna che mi guidava a Dio disse: «Non ti abbattere, e pensa che io sono vicina a Colui (Dio) che ripara ogni ingiustizia». Io mi rivolsi a colei che mi confortava con l'amorevole suono della sua voce; e non posso certo descrivere qui l'amore che io vidi allora nei suoi occhi santi: non solo perché io non mi fido delle mie capacità espressive, ma perché la mia memoria non può tornare a ricordare tanto, se non è sorretta da Dio. Di quel momento posso dire solo che, guardando Beatrice, il mio affetto fu libero da ogni altro desiderio, fino a che la bellezza eterna di Dio, che raggiava direttamente in Beatrice, si rifletteva verso di me dal suo bel viso. Vincendomi con la luce del suo sorriso, Beatrice mi disse: «Voltati e ascolta; infatti, il Paradiso non è soltanto nei miei occhi». Come talvolta sulla Terra si vede l'affetto nello sguardo, se questo è tale che tutta l'anima sia presa da lui, così nello sfolgorio di quella luce santa (Cacciaguida) verso cui mi voltai capii quanto il beato avesse ancora desiderio di parlarmi un poco. Egli cominciò: «In questo quinto Cielo dell'albero (il Paradiso), che riceve la vita dalla cima, fruttifica sempre e non perde mai le foglie, ci sono spiriti beati che sulla Terra, prima di morire, ebbero gran fama, al punto che offrirebbero ricca materia a ogni ispirazione poetica. Perciò osserva nei bracci laterali della croce: lo spirito che nominerò, compirà l'atto che nella nube fa il lampo (scorrerà rapidissimo da una parte all'altra)». Io vidi che, al nominare Giosuè, una luce si mosse per la croce all'unisono, tanto che l'ascoltare e il vedere avvennero allo stesso tempo. E al nome del nobile Maccabeo vidi un'altra luce muoversi girando su se stessa, e la gioia era la frusta che faceva muovere la trottola. Così, ai nomi di Carlo Magno e Orlando, il mio sguardo attento ne seguì altre due, come l'occhio che segue il volo del proprio falcone da caccia. Poi Guglielmo d'Orange e Rinoardo e Goffredo di Buglione attrassero la mia vista lungo quella croce, e così Roberto Guiscardo. In seguito, essendosi mossa per riunirsi alle altre luci, l'anima che mi aveva parlato (Cacciaguida) mi si mostrò degna artista tra quei cantori del cielo (riprendendo a cantare). Io mi voltai alla mia destra perché Beatrice mi indicasse il mio dovere, espresso nelle sue parole o nei suoi gesti; e vidi i suoi occhi tanto splendenti, tanto pieni di gioia, che il suo aspetto superava in bellezza qualunque altro solitamente avesse e l'ultimo che avevo visto. E come l'uomo, sentendo una maggiore gioia nel fare il bene, di giorno in giorno si accorge di accrescere la propria virtù, così io mi accorsi che il mio ruotare intorno col Cielo era divenuto più ampio, vedendo che la bellezza di Beatrice era aumentata. E come una donna dal colorito pallido riacquista velocemente il suo aspetto, quando il suo volto perde il rossore della vergogna, così io vidi quando guardai la sesta stella (di Giove) che aveva un colore più candido di Marte e che mi aveva accolto in sé. Io vidi nella stella di Giove le anime che vi erano ospitate e che sfolgoravano, formando delle lettere visibili ai miei occhi. E come uccelli levatisi in volo da un fiume, quasi rallegrandosi a vicenda del pasto consumato, si raggruppano in cerchio o in altre forme, così dentro quelle luci le anime sante cantavano volteggiando, e assumevano l'aspetto ora di una 'D', ora di una 'I' o di una 'L'. Dapprima, cantando, si muovevano al ritmo del loro canto; poi, trasformandosi in uno di questi segni (lettere), si fermavano e tacevano un poco. O Musa, che fai gloriosi gli ingegni e li rendi longevi, ed essi grazie a te fanno lo stesso con città e regni, dammi la tua ispirazione, così che io rammenti quelle lettere così come le ho viste: risplenda in questi pochi versi tutta la tua potenza! Dunque si mostrarono in tutto trentacinque lettere, tra vocali e consonanti; e io annotai mentalmente le lettere, così come mi parve che fossero scritte. 'Amate la giustizia' furono il verbo e il nome che apparvero per primi in tutta la figura; 'voi che giudicate la Terra' furono gli ultimi. In seguito si fermarono nella 'M' della quinta parola, in modo tale che Giove, di colore argenteo, risaltava del loro splendore dorato. E vidi scendere altre luci nella parte alta della 'M', e fermarsi lì mentre cantavano, credo, in onore di Dio che le attira a sé. Poi, come colpendo i ciocchi che ardono si levano moltissime faville, dalle quali gli sciocchi sono soliti trarre auspici, così da quel punto (la parte alta della 'M') sembrò che si alzassero più di mille luci, alcune di più e altre di meno, a seconda di come aveva deciso il sole (Dio) che le aveva accese; e vidi che ciascuna, una volta fermatasi nel punto assegnato, formava la testa e il collo di un'aquila in quello splendore che si stagliava (sull'argento di Giove). Colui che dipinge lì (Dio) non ha modelli né maestri, ma è Lui stesso maestro, e da Lui si riconosce quella virtù creativa che è forma per gli esseri generanti nei nidi. Le altre luci dei beati, che prima sembravano contente di formare il giglio araldico dalla 'M', con piccoli movimenti completarono la figura dell'aquila. O dolce stella, quali e quante gemme (i beati) mi dimostrarono che la nostra giustizia umana è prodotto del Cielo che tu impreziosisci! Dunque io prego la mente (di Dio) in cui la tua virtù e il tuo moto iniziano, di osservare da dove esce il fumo che oscura il tuo raggio; cosicché si adiri un'altra volta del mercato che si fa dentro al Tempio, che fu costruito con miracoli e col martirio (la Chiesa). O esercito del Cielo che io contemplo, prega per coloro che, in Terra, sono sviati dal cattivo esempio dei papi! Un tempo si faceva guerra di solito con le spade; ora invece si fa togliendo a questo e a quello il pane (l'Eucarestia) che Dio non nega a nessuno (con le scomuniche). Ma tu che scrivi solo per cancellare (papa Giovanni XXII), pensa che san Pietro e san Paolo, che morirono per la vigna (la Chiesa) che tu corrompi, sono ancora vivi. Certo tu puoi dire: «Io desidero solamente colui (san Giovanni Battista) che volle vivere nel deserto e che fu condotto al martirio con una danza (di Salomè), cosicché io non conosco il pescatore (Pietro) né Polo (Paolo)». |