Purgatorio, Canto XXV
G. Doré, Il muro di fiamme
"...Ma perché dentro a tuo voler t'adage,
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
che sia or sanator de le tue piage"...
"...Ma come d'animal divegna fante,
non vedi tu ancor: quest'è quel punto,
che più savio di te fé già errante..."
Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
e la cornice spira fiato in suso
che la reflette e via da lei sequestra...
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
che sia or sanator de le tue piage"...
"...Ma come d'animal divegna fante,
non vedi tu ancor: quest'è quel punto,
che più savio di te fé già errante..."
Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,
e la cornice spira fiato in suso
che la reflette e via da lei sequestra...
Argomento del Canto
Salita dalla VI alla VII Cornice. Spiegazione di Stazio circa la generazione delle anime e dei corpi aerei. Ingresso nella VII Cornice. Esempi di castità.
È il pomeriggio di martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, verso le due.
È il pomeriggio di martedì 12 aprile (o 29 marzo) del 1300, verso le due.
Salita alla VII Cornice. Dubbi di Dante e spiegazione di Virgilio (1-30)
L'ora è avanzata e occorre salire speditamente, in quanto il Sole ha lasciato il meridiano al Toro e la notte allo Scorpione (sono le due pomeridiane). Dante, Virgilio e Stazio percorrono la scala che porta alla VII Cornice con passo veloce, uno dietro l'altro. Dante ha un dubbio e vorrebbe esprimerlo ai due poeti, ma teme di essere importuno ed esita, come il cicognino che leva le ali per spiccare il volo e poi non osa farlo. Virgilio intuisce il desiderio di Dante e lo invita a parlare liberamente, così il discepolo chiede come sia possibile che le anime dei golosi, pur essendo incorporee, dimagriscano per fame. Virgilio risponde spiegando che Meleagro consumò al consumare di un tizzone ardente, e facendo l'esempio dello specchio che riflette l'immagine come il corpo aereo riflette la sofferenza dell'anima. Tuttavia, per far sì che il dubbio di Dante sia chiarito meglio, Virgilio invita Stazio a fornire una spiegazione più dettagliata.
Stazio spiega la generazione dell'anima (31-78)
S.Tommaso trionfa su Averroè (XV sec.)
Stazio accetta di parlare in presenza di Virgilio, ma solo in quanto non
può rifiutare una così cortese richiesta. Inizia dunque la sua
spiegazione e dichiara che nel corpo paterno c'è un sangue perfetto che
non alimenta le vene e che riceve nel cuore la virtù informativa capace
di dare forma a tutte le membra umane. Una volta purificato, esso
diventa seme, scende negli organi genitali maschili e si unisce poi al
sangue femminile nell'utero. Qui essi si fondano e il seme paterno
opera dando vita alla materia, generando quindi un'anima simile a quella
di una pianta, salvo che questa è suscettibile di ulteriore sviluppo.
Essa ha sensazioni simili a quelle di una spugna marina e inizia a
organizzare le sue facoltà sensibili, finché la virtù informativa del
generante si distende nel feto per completare tutto l'organismo.
Va spiegato a questo punto come l'anima vegetativa e sensibile diventi intellettiva, punto delicato che ha tratto in inganno un filosofo ben più saggio di Dante (Averroè): questi, infatti, ha separato l'anima dal possibile intelletto, perché secondo lui non ci sono organi specifici per esso. Stazio spiega invece che, non appena il feto ha sviluppato il cervello, Dio spira nel suo corpo un nuovo spirito, l'anima razionale che assimila in sé la virtù informativa e genera un'unica anima che ha tutte e tre le potenze (vegetativa, sensibile e intellettiva). Perché Dante comprenda meglio il ragionamento, Stazio fa ancora l'esempio del vino, prodotto dall'umore sostanziale della vite e dal calore del sole, elemento immateriale.
Va spiegato a questo punto come l'anima vegetativa e sensibile diventi intellettiva, punto delicato che ha tratto in inganno un filosofo ben più saggio di Dante (Averroè): questi, infatti, ha separato l'anima dal possibile intelletto, perché secondo lui non ci sono organi specifici per esso. Stazio spiega invece che, non appena il feto ha sviluppato il cervello, Dio spira nel suo corpo un nuovo spirito, l'anima razionale che assimila in sé la virtù informativa e genera un'unica anima che ha tutte e tre le potenze (vegetativa, sensibile e intellettiva). Perché Dante comprenda meglio il ragionamento, Stazio fa ancora l'esempio del vino, prodotto dall'umore sostanziale della vite e dal calore del sole, elemento immateriale.
Formazione dei corpi aerei (79-108)
Stazio prosegue spiegando che dopo la morte questa anima si separa dal corpo e porta con sé le facoltà umane (vegetativa e sensibile) e quella divina (intellettiva): le prime due sono ormai inerti, mentre la terza è assai più acuta che in precedenza. L'anima, a seconda che sia dannata o salva, cade sulla riva dell'Acheronte o alla foce del Tevere, e non appena si trova nell'aria la sua virtù informativa agisce proprio come aveva fatto nel corpo in carne e ossa: come l'aria gonfia di umidità forma l'arcobaleno per la luce del sole, così l'anima dà forma all'aria circostante e crea un corpo umbratile che ricorda nell'aspetto quello del corpo mortale. Questo corpo fatto d'aria sviluppa poi tutti i sensi come la vista e il tatto, dando capacità all'anima di parlare, ridere e piangere a seconda dei sentimenti e delle sensazioni fisiche che essa prova, come Dante ha sperimentato in Purgatorio. Questo spiega dunque come sia possibile che le anime dei golosi, pur immateriali, patiscano la fame e dimagriscano.
Ingresso nella VII Cornice. Esempi di castità (109-139)
G. Doré, Le anime dei lussuriosi
I tre poeti sono ormai giunti nella VII Cornice, per cui iniziano a girare verso destra e osservano che la parete rocciosa emette delle fiamme, mentre la Cornice emana una sorta di vento verso l'alto che fa sì che la cortina infuocata lasci uno stretto corridoio verso l'orlo esterno. I tre iniziano dunque a percorrere la Cornice costeggiandone il ciglio, tra il vuoto da una parte e il fuoco dall'altra, cosa che spaventa non poco Dante. Virgilio raccomanda al discepolo di stare bene attento a non mettere un piede in fallo, mentre Dante sente degli spiriti entro il fuoco che cantano l'inno Summae Deus clementiae, per cui ha il forte desiderio di voltarsi verso di loro: guarda e vede delle anime (i lussuriosi) che camminano nel muro di fiamme, dividendo lo sguardo fra loro e il pavimento che deve percorrere. Le anime terminano il canto dell'inno e dichiarano gli esempi di castità, come quello di Maria che disse all'arcangelo Gabriele Virum non cognosco, di Diana che visse castamente nelle selve da cui scacciò Callisto, delle mogli e dei mariti che vissero con castità il vincolo matrimoniale. Dante pensa che le anime facciano questo durante tutta la loro espiazione, rimarginando in tal modo la piaga del peccato.
Interpretazione complessiva
Il Canto ha argomento prevalemente didascalico, essendo dedicato per la maggior parte alla complessa spiegazione di Stazio circa la generazione dell'anima e la formazione dei corpi umbratili dopo la morte, per chiarire il dubbio di Dante sulla fisicità della pena dei golosi. Sullo stupore destato da un simile tormento l'autore ha insistito più volte nei Canti XXIII-XXIV, per cui egli approfitta della ascesa della scala che porta alla VII Cornice (dopo l'indicazione astronomica dell'ora) per chiedere spiegazioni ai due maestri, invitato da Virgilio a parlare dopo la sua iniziale esitazione che riprende una situazione già vista in precedenza. È Virgilio a fornire una prima risposta sommaria, che si limita a indicare l'esempio concreto di un corpo che si consuma per cause esterne (quello mitologico di Meleagro) e quello dello specchio che indica come il corpo aereo rifletta la sofferenza dell'anima, per quanto tale spiegazione sia insufficiente dal punto di vista dottrinale: Virgilio invita allora Stazio, anima salva e destinata al Paradiso, a completare la sua chiosa, compito che il poeta latino assolve non prima di aver riconosciuto la superiorità del maestro con una excusatio propter infirmitatem (è un artificio retorico, in quanto il magistero di Stazio è qui superiore come lo sarà in Paradiso quello di Beatrice, le cui spiegazioni teologiche sono in parte prefigurate).
Stazio spiega a Dante la complessa procedura con cui si forma l'anima umana dopo il concepimento, seguendo strettamente la trattazione in materia di san Tommaso d'Aquino: preme soprattutto a Dante ribadire che l'anima dell'uomo ha tre potenze, due delle quali sono comuni alle piante (quella vegetativa) e agli animali (quella sensitiva o sensibile), mentre la terza (quella razionale o intellettiva) è infusa nell'uomo direttamente dal motor primo, cioè da Dio. Ciò distingue l'uomo dalle creature inferiori e in questo la spiegazione di Stazio prende in modo dichiarato le distanze dalla dottrina di Averroè, che nel suo gran comento alla filosofia aristotelica aveva affermato che l'anima umana era un'entità separata dall'intelletto possibile: Aristotele, infatti, nel De anima aveva distinto tra intelletto possibile e intelletto attivo, affermando che il secondo agisce sul primo trasformando in atto le verità che nell'intelletto possibile sono solo in potenza, come la luce trasforma in atto i colori che al buio sono in potenza. Il filosofo antico non aveva però chiarito se l'intelletto attivo sia nell'uomo, in Dio o in entrambi, da cui i dubbi dei filosofi medievali e la teoria avorroistica secondo la quale l'intelletto possibile è separato dall'anima umana, di cui si negava così l'immortalità (tale teoria modificava la dottrina araba in materia, per cui Averroè era stato condannato dagli stessi musulmani). Stazio spiega invece che la facoltà intellettiva è infusa da Dio nell'uomo e si lega inscindibilmente alle altre due potenze, vegetativa e sensibile, formando un'unica sostanza come il vino che è prodotto dall'umore della vite (elemento materiale) e dalla luce e dal calore del sole (elemento immateriale), negando quindi in modo deciso le implicazioni della teoria averroistica giudicate pericolose sul piano teologico. Stazio illustra poi il processo per cui l'anima, una volta separata dal corpo dopo la morte, produce un corpo d'aria agendo su di essa con la stessa «virtù informativa» che aveva agito sul corpo materiale, per cui questo corpo aereo non solo acquista lo stesso aspetto fisico dell'individuo quando era in vita, ma prova le stesse sensazioni fisiche di un corpo terreno e può gioire, soffrire, ridere e piangere come Dante ha visto attraverso l'Inferno e il Purgatorio. Tale spiegazione si discosta almeno in parte dalla dottrina tomistica e giustifica l'esigenza narrativa e poetica di rappresentare le anime nella loro fisicità e materialità, per quanto Dante si attenga a tale principio in maniera non sempre coerente e obbedendo principalmente alla sua fantasia creativa (si veda oltre).
La spiegazione di Stazio trae spunto dalla pena dei golosi, ma si lega in qualche modo anche a quella dei lussuriosi che sono bruciati dal muro di fiamme della VII Cornice ed è non meno fisica e materiale, tanto che lo stesso Dante ne farà esperienza diretta attraversando il fuoco nel Canto XXVII: il finale di questo Canto XXV illustra proprio la pena degli spiriti che camminano nel fuoco e alternano il canto dell'inno alla dichiarazione degli esempi di castità, tratti come sempre dalla tradizione cristiana (la verginità di Maria che partorirà Gesù) e da quella classica (la castità di Diana e delle ninfe boscherecce), con un ultimo exemplum generico (le mogli e i mariti che si attengono al vincolo matrimoniale) che è l'unico caso oltre a quello di Purg., XIII, 36 relativo alla massima evangelica dell'amare i propri nemici. La curiosità di Dante che osserva le anime nel fuoco e bada a non mettere il piede in fallo cadendo nel vuoto anticipa l'ulteriore descrizione dei penitenti che occuperà buona parte del Canto seguente, in cui ci sarà l'incontro con Guinizelli e il prosieguo del discorso intorno alla letteratura amorosa già avviato con Bonagiunta.
Stazio spiega a Dante la complessa procedura con cui si forma l'anima umana dopo il concepimento, seguendo strettamente la trattazione in materia di san Tommaso d'Aquino: preme soprattutto a Dante ribadire che l'anima dell'uomo ha tre potenze, due delle quali sono comuni alle piante (quella vegetativa) e agli animali (quella sensitiva o sensibile), mentre la terza (quella razionale o intellettiva) è infusa nell'uomo direttamente dal motor primo, cioè da Dio. Ciò distingue l'uomo dalle creature inferiori e in questo la spiegazione di Stazio prende in modo dichiarato le distanze dalla dottrina di Averroè, che nel suo gran comento alla filosofia aristotelica aveva affermato che l'anima umana era un'entità separata dall'intelletto possibile: Aristotele, infatti, nel De anima aveva distinto tra intelletto possibile e intelletto attivo, affermando che il secondo agisce sul primo trasformando in atto le verità che nell'intelletto possibile sono solo in potenza, come la luce trasforma in atto i colori che al buio sono in potenza. Il filosofo antico non aveva però chiarito se l'intelletto attivo sia nell'uomo, in Dio o in entrambi, da cui i dubbi dei filosofi medievali e la teoria avorroistica secondo la quale l'intelletto possibile è separato dall'anima umana, di cui si negava così l'immortalità (tale teoria modificava la dottrina araba in materia, per cui Averroè era stato condannato dagli stessi musulmani). Stazio spiega invece che la facoltà intellettiva è infusa da Dio nell'uomo e si lega inscindibilmente alle altre due potenze, vegetativa e sensibile, formando un'unica sostanza come il vino che è prodotto dall'umore della vite (elemento materiale) e dalla luce e dal calore del sole (elemento immateriale), negando quindi in modo deciso le implicazioni della teoria averroistica giudicate pericolose sul piano teologico. Stazio illustra poi il processo per cui l'anima, una volta separata dal corpo dopo la morte, produce un corpo d'aria agendo su di essa con la stessa «virtù informativa» che aveva agito sul corpo materiale, per cui questo corpo aereo non solo acquista lo stesso aspetto fisico dell'individuo quando era in vita, ma prova le stesse sensazioni fisiche di un corpo terreno e può gioire, soffrire, ridere e piangere come Dante ha visto attraverso l'Inferno e il Purgatorio. Tale spiegazione si discosta almeno in parte dalla dottrina tomistica e giustifica l'esigenza narrativa e poetica di rappresentare le anime nella loro fisicità e materialità, per quanto Dante si attenga a tale principio in maniera non sempre coerente e obbedendo principalmente alla sua fantasia creativa (si veda oltre).
La spiegazione di Stazio trae spunto dalla pena dei golosi, ma si lega in qualche modo anche a quella dei lussuriosi che sono bruciati dal muro di fiamme della VII Cornice ed è non meno fisica e materiale, tanto che lo stesso Dante ne farà esperienza diretta attraversando il fuoco nel Canto XXVII: il finale di questo Canto XXV illustra proprio la pena degli spiriti che camminano nel fuoco e alternano il canto dell'inno alla dichiarazione degli esempi di castità, tratti come sempre dalla tradizione cristiana (la verginità di Maria che partorirà Gesù) e da quella classica (la castità di Diana e delle ninfe boscherecce), con un ultimo exemplum generico (le mogli e i mariti che si attengono al vincolo matrimoniale) che è l'unico caso oltre a quello di Purg., XIII, 36 relativo alla massima evangelica dell'amare i propri nemici. La curiosità di Dante che osserva le anime nel fuoco e bada a non mettere il piede in fallo cadendo nel vuoto anticipa l'ulteriore descrizione dei penitenti che occuperà buona parte del Canto seguente, in cui ci sarà l'incontro con Guinizelli e il prosieguo del discorso intorno alla letteratura amorosa già avviato con Bonagiunta.
Trattando l'ombre come cosa salda: la fisicità delle anime
I traditori della patria (min. XV sec.)
Dante descrive le anime dei primi due regni dell'Oltretomba come entità materiali e dall'aspetto umano, nude e in grado di sopportare pene fisiche tanto all'Inferno che al Purgatorio, cosa può suscitare dubbi in quanto l'anima è una sostanza inconsistente e come tale non dovrebbe avere né aspetto esteriore né sensibilità al dolore fisico. Il tema provocava perplessità e oscillazioni fra gli stessi teologi cristiani, i quali erano per lo più inclini a negare tale materialità all'anima: san Tommaso affermava (Summa theol., Suppl., q. LXIX) che l'anima separata dal corpo non ha un corpo vero e proprio (Anima separata a corpore non habet aliquod corpus), salvo poi precisare (q. LXX) che l'anima conservava la potenza sensitiva e poteva essere tormentata dal fuoco, quello che altri teologi definivano ignis corporeus. La dottrina rilevava la contraddizione tra l'inconsistenza delle anime e la necessità di rappresentare le pene infernali e purgatoriali come qualcosa di fisico, soprattutto per agire (ad esempio nelle arti figurative) sulla fantasia dei fedeli e operare una sorta di «deterrenza» dal commettere i peccati, minacciando punizioni che fossero facilmente comprensibili a delle menti semplici. Del resto anche la letteratura classica descriveva le anime dei morti come ombre evanescenti ma dall'aspetto umano, senza contare che la dottrina cristiana affermava che il Giorno del Giudizio le anime si sarebbero riappropriate del corpo mortale e, dopo la gran sentenza, avrebbero sofferto insieme ad esso le pene infernali o goduto della pace celeste.
Dante nella Commedia si attiene per lo più a questo criterio e descrive quindi le pene inflitte alle anime come qualcosa di fisico, fornendo anche una sorta di spiegazione dottrinale del fenomeno: in Purg., III, 22 ss. Virgilio spiega a Dante che il corpo mortale nel quale faceva ombra giace sulla Terra, mentre quello che ha attualmente è umbratile e fatto d'aria, pur conservando la capacità di provare sensazioni fisiche (A sofferir tormenti e caldi e geli / simili corpi la Virtù dispone / che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli). Di fronte poi alla pena dei golosi, che patiscono la fame e sono consumati dalla magrezza, lo stupore di Dante verrà attenuato dalla spiegazione di Stazio (XXV, 79-108) che, pur discostandosi in parte dal tomismo, illustra la creazione dopo la morte di un corpo aereo che circonda l'anima e conserva la potenza vegetativa e sensibile, per cui l'anima può provare tutte le sensazioni di un corpo umano, incluso il dolore. Dante non si attiene in modo sempre coerente a tale spiegazione, descrivendo le anime dei trapassati ora come inconsistenti, ora come corpi veri e propri dotati di una reale fisicità: in Inf., VI, 34-36 lui e Virgilio camminano sulle anime dei golosi attraversando la lor vanità che par persona, e in Purg., II, 79-81 il poeta tenta inutilmente di abbracciare l'amico Casella ritrovandosi le braccia al petto, come già Enea con Creusa e Anchise. Non mancano tuttavia esempi opposti, specie nella I Cantica: in Inf., VIII, 40-42 Virgilio respinge Filippo Argenti che tenta di trascinare Dante dalla barca di Flegiàs nella palude stigia, mentre in XXXII, 97 ss. Dante afferra Bocca degli Abati (posto fra i traditori della patria in Cocito) per i capelli della nuca e gliene strappa addirittura una ciocca, nel tentativo di costringerlo a rivelare il proprio nome. Qualcosa di simile avviene persino in Paradiso, dove le anime dei beati conservano una parziale umanità nel I Cielo, in cui appaiono come immagini evanescenti riflesse sull'acqua (Par., III, 10 ss.) e nel II Cielo, dove sono delle sagome a malapena distinguibili nella luce che le avvolge (V, 106-108), mentre più avanti saranno pure luci senza alcunché di fisico. È chiaro che sulle scelte stilistiche di Dante opera l'esigenza narrativa di rappresentare la realtà ultraterrena in modo comprensibile all'intelletto umano, il che spiega le apparenti incongruenze in materia: vale la chiosa di Beatrice di Par., IV, 40 ss., che per spiegare a Dante perché i beati si mostrino a lui nei vari Cieli anziché nell'Empireo afferma che Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno, facendo l'esempio del testo biblico che attribuisce tratti fisici a Dio e agli angeli e altro intende, per la necessità di farsi capire dai fedeli con immagini visive e facilmente comprensibili. In quest'ottica perdono di interesse le discussioni dei dantisti sulla presunta incoerenza di Dante in materia dottrinale relativamente ai corpi delle anime, specie quando si rammenti che la Commedia è un'opera poetica e non un trattato di teologia, anche se l'elemento dottrinale è parte integrante del poema e ne costituirà l'essenza soprattutto nella III Cantica.
Dante nella Commedia si attiene per lo più a questo criterio e descrive quindi le pene inflitte alle anime come qualcosa di fisico, fornendo anche una sorta di spiegazione dottrinale del fenomeno: in Purg., III, 22 ss. Virgilio spiega a Dante che il corpo mortale nel quale faceva ombra giace sulla Terra, mentre quello che ha attualmente è umbratile e fatto d'aria, pur conservando la capacità di provare sensazioni fisiche (A sofferir tormenti e caldi e geli / simili corpi la Virtù dispone / che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli). Di fronte poi alla pena dei golosi, che patiscono la fame e sono consumati dalla magrezza, lo stupore di Dante verrà attenuato dalla spiegazione di Stazio (XXV, 79-108) che, pur discostandosi in parte dal tomismo, illustra la creazione dopo la morte di un corpo aereo che circonda l'anima e conserva la potenza vegetativa e sensibile, per cui l'anima può provare tutte le sensazioni di un corpo umano, incluso il dolore. Dante non si attiene in modo sempre coerente a tale spiegazione, descrivendo le anime dei trapassati ora come inconsistenti, ora come corpi veri e propri dotati di una reale fisicità: in Inf., VI, 34-36 lui e Virgilio camminano sulle anime dei golosi attraversando la lor vanità che par persona, e in Purg., II, 79-81 il poeta tenta inutilmente di abbracciare l'amico Casella ritrovandosi le braccia al petto, come già Enea con Creusa e Anchise. Non mancano tuttavia esempi opposti, specie nella I Cantica: in Inf., VIII, 40-42 Virgilio respinge Filippo Argenti che tenta di trascinare Dante dalla barca di Flegiàs nella palude stigia, mentre in XXXII, 97 ss. Dante afferra Bocca degli Abati (posto fra i traditori della patria in Cocito) per i capelli della nuca e gliene strappa addirittura una ciocca, nel tentativo di costringerlo a rivelare il proprio nome. Qualcosa di simile avviene persino in Paradiso, dove le anime dei beati conservano una parziale umanità nel I Cielo, in cui appaiono come immagini evanescenti riflesse sull'acqua (Par., III, 10 ss.) e nel II Cielo, dove sono delle sagome a malapena distinguibili nella luce che le avvolge (V, 106-108), mentre più avanti saranno pure luci senza alcunché di fisico. È chiaro che sulle scelte stilistiche di Dante opera l'esigenza narrativa di rappresentare la realtà ultraterrena in modo comprensibile all'intelletto umano, il che spiega le apparenti incongruenze in materia: vale la chiosa di Beatrice di Par., IV, 40 ss., che per spiegare a Dante perché i beati si mostrino a lui nei vari Cieli anziché nell'Empireo afferma che Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d'intelletto degno, facendo l'esempio del testo biblico che attribuisce tratti fisici a Dio e agli angeli e altro intende, per la necessità di farsi capire dai fedeli con immagini visive e facilmente comprensibili. In quest'ottica perdono di interesse le discussioni dei dantisti sulla presunta incoerenza di Dante in materia dottrinale relativamente ai corpi delle anime, specie quando si rammenti che la Commedia è un'opera poetica e non un trattato di teologia, anche se l'elemento dottrinale è parte integrante del poema e ne costituirà l'essenza soprattutto nella III Cantica.
Note e passi controversi
I vv. 2-3 indicano che il sole ha lasciato il meridiano alla costellazione del Toro e la notte a quella dello Scorpione; il sole, all'epoca della visione, è in congiunzione con l'Ariete e questa si trova sul meridiano a mezzogiorno. Quando lascia il posto al Toro sono trascorse circa due ore, quindi sono le due del pomeriggio.
I vv. 17-18 alludono all'atto di scoccare una freccia, tendendo la corda sino a far toccare il ferro, cioè la punta della freccia, con l'arco.
Ai vv. 21-23 Virgilio ricorda il mito di Meleagro, figlio di Oeneo e Atlea, che per decreto delle Parche era destinato a vivere quanto un tizzone gettato dalle dee sul fuoco al momento della sua nascita. La madre nascose il tizzone e lo spense, ma dopo che Meleagro uccise i fratelli della madre, questa, adirata con lui, gettò nuovamente il tizzone sul fuoco e Meleagro si consumò con quello.
Il sangue perfetto citato da Stazio al v. 37 è quello destinato al concepimento: cfr. san Tommaso, Summa theol., III, q. XXXI (sanguis qui... est praeparatus ad conceptum, quasi purior et perfectior alio sanguine).
Al v. 56 alcuni mss. leggono fungo in luogo di spungo (spugna), che è lezione più difficile.
Al v. 61 fante significa «parlante», quindi indica l'essere umano.
Il savio citato al v. 63 è Averroè, la cui dottrina relativa all'anima viene confutata da Stazio nei versi seguenti.
Al v. 75 sé in sé rigira vuol dire «che riflette se stessa su se stessa», cioè ha coscienza del proprio essere.
I vv. 85-86 indicano che l'anima dopo la morte cade sulle rive dell'Acheronte, se dannata, o alla foce del Tevere, se salva.
Piorno (v. 91) è forma arcaica per «piovorno», quindi «pregno di umidità».
L'inno Summae Deus clementiae (v. 121) cantato dai lussuriosi non ha nulla a che vedere con questo peccato, ma è probabile che Dante si riferisca a quello che si canta al mattutino del sabato e che condanna la lussuria: esso oggi inizia con le parole Summae parens clementiae, mentre al tempo di Dante l'incipit era quello riportato nel Canto (cfr. il commento del Lana).
L'esempio di castità di Maria è tratto da Luc., I, 34, quando la Vergine risponde all'annunciazione dell'arcangelo Gabriele con le parole: Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco? («Come potrà avvenire questo, visto che non conosco uomo?»).
Elice (v. 131) è il nome meno comune della ninfa Callisto, sedotta da Giove.
I vv. 138-139 sono parsi ad alcuni commentatori un accenno a delle piaghe effettivamente subite dai lussuriosi, forse delle P incise sulle loro fronti: l'ipotesi è suggestiva, ma nulla conferma che tale pratica riguardi anche i penitenti e non solo Dante (riguardo a Stazio, per esempio, non se ne fa cenno).
I vv. 17-18 alludono all'atto di scoccare una freccia, tendendo la corda sino a far toccare il ferro, cioè la punta della freccia, con l'arco.
Ai vv. 21-23 Virgilio ricorda il mito di Meleagro, figlio di Oeneo e Atlea, che per decreto delle Parche era destinato a vivere quanto un tizzone gettato dalle dee sul fuoco al momento della sua nascita. La madre nascose il tizzone e lo spense, ma dopo che Meleagro uccise i fratelli della madre, questa, adirata con lui, gettò nuovamente il tizzone sul fuoco e Meleagro si consumò con quello.
Il sangue perfetto citato da Stazio al v. 37 è quello destinato al concepimento: cfr. san Tommaso, Summa theol., III, q. XXXI (sanguis qui... est praeparatus ad conceptum, quasi purior et perfectior alio sanguine).
Al v. 56 alcuni mss. leggono fungo in luogo di spungo (spugna), che è lezione più difficile.
Al v. 61 fante significa «parlante», quindi indica l'essere umano.
Il savio citato al v. 63 è Averroè, la cui dottrina relativa all'anima viene confutata da Stazio nei versi seguenti.
Al v. 75 sé in sé rigira vuol dire «che riflette se stessa su se stessa», cioè ha coscienza del proprio essere.
I vv. 85-86 indicano che l'anima dopo la morte cade sulle rive dell'Acheronte, se dannata, o alla foce del Tevere, se salva.
Piorno (v. 91) è forma arcaica per «piovorno», quindi «pregno di umidità».
L'inno Summae Deus clementiae (v. 121) cantato dai lussuriosi non ha nulla a che vedere con questo peccato, ma è probabile che Dante si riferisca a quello che si canta al mattutino del sabato e che condanna la lussuria: esso oggi inizia con le parole Summae parens clementiae, mentre al tempo di Dante l'incipit era quello riportato nel Canto (cfr. il commento del Lana).
L'esempio di castità di Maria è tratto da Luc., I, 34, quando la Vergine risponde all'annunciazione dell'arcangelo Gabriele con le parole: Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco? («Come potrà avvenire questo, visto che non conosco uomo?»).
Elice (v. 131) è il nome meno comune della ninfa Callisto, sedotta da Giove.
I vv. 138-139 sono parsi ad alcuni commentatori un accenno a delle piaghe effettivamente subite dai lussuriosi, forse delle P incise sulle loro fronti: l'ipotesi è suggestiva, ma nulla conferma che tale pratica riguardi anche i penitenti e non solo Dante (riguardo a Stazio, per esempio, non se ne fa cenno).
Testo
Ora era onde ‘l
salir non volea storpio;
ché ‘l sole avea il cerchio di merigge lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio: 3 per che, come fa l’uom che non s’affigge ma vassi a la via sua, che che li appaia, se di bisogno stimolo il trafigge, 6 così intrammo noi per la callaia, uno innanzi altro prendendo la scala che per artezza i salitor dispaia. 9 E quale il cicognin che leva l’ala per voglia di volare, e non s’attenta d’abbandonar lo nido, e giù la cala; 12 tal era io con voglia accesa e spenta di dimandar, venendo infino a l’atto che fa colui ch’a dicer s’argomenta. 15 Non lasciò, per l’andar che fosse ratto, lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca l’arco del dir, che ‘nfino al ferro hai tratto». 18 Allor sicuramente apri’ la bocca e cominciai: «Come si può far magro là dove l’uopo di nodrir non tocca?». 21 «Se t’ammentassi come Meleagro si consumò al consumar d’un stizzo, non fora», disse, «a te questo sì agro; 24 e se pensassi come, al vostro guizzo, guizza dentro a lo specchio vostra image, ciò che par duro ti parrebbe vizzo. 27 Ma perché dentro a tuo voler t’adage, ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego che sia or sanator de le tue piage». 30 «Se la veduta etterna li dislego», rispuose Stazio, «là dove tu sie, discolpi me non potert’io far nego». 33 Poi cominciò: «Se le parole mie, figlio, la mente tua guarda e riceve, lume ti fiero al come che tu die. 36 Sangue perfetto, che poi non si beve da l’assetate vene, e si rimane quasi alimento che di mensa leve, 39 prende nel core a tutte membra umane virtute informativa, come quello ch’a farsi quelle per le vene vane. 42 Ancor digesto, scende ov’è più bello tacer che dire; e quindi poscia geme sovr’altrui sangue in natural vasello. 45 Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme, l’un disposto a patire, e l’altro a fare per lo perfetto loco onde si preme; 48 e, giunto lui, comincia ad operare coagulando prima, e poi avviva ciò che per sua matera fé constare. 51 Anima fatta la virtute attiva qual d’una pianta, in tanto differente, che questa è in via e quella è già a riva, 54 tanto ovra poi, che già si move e sente, come spungo marino; e indi imprende ad organar le posse ond’è semente. 57 Or si spiega, figliuolo, or si distende la virtù ch’è dal cor del generante, dove natura a tutte membra intende. 60 Ma come d’animal divegna fante, non vedi tu ancor: quest’è tal punto, che più savio di te fé già errante, 63 sì che per sua dottrina fé disgiunto da l’anima il possibile intelletto, perché da lui non vide organo assunto. 66 Apri a la verità che viene il petto; e sappi che, sì tosto come al feto l’articular del cerebro è perfetto, 69 lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant’arte di natura, e spira spirito novo, di vertù repleto, 72 che ciò che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un’alma sola, che vive e sente e sé in sé rigira. 75 E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sole che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola. 78 Quando Làchesis non ha più del lino, solvesi da la carne, e in virtute ne porta seco e l’umano e ‘l divino: 81 l’altre potenze tutte quante mute; memoria, intelligenza e volontade in atto molto più che prima agute. 84 Sanza restarsi per sé stessa cade mirabilmente a l’una de le rive; quivi conosce prima le sue strade. 87 Tosto che loco lì la circunscrive, la virtù formativa raggia intorno così e quanto ne le membra vive. 90 E come l’aere, quand’è ben piorno, per l’altrui raggio che ‘n sé si reflette, di diversi color diventa addorno; 93 così l’aere vicin quivi si mette in quella forma ch’è in lui suggella virtualmente l’alma che ristette; 96 e simigliante poi a la fiammella che segue il foco là ‘vunque si muta, segue lo spirto sua forma novella. 99 Però che quindi ha poscia sua paruta, è chiamata ombra; e quindi organa poi ciascun sentire infino a la veduta. 102 Quindi parliamo e quindi ridiam noi; quindi facciam le lagrime e ‘ sospiri che per lo monte aver sentiti puoi. 105 Secondo che ci affiggono i disiri e li altri affetti, l’ombra si figura; e quest’è la cagion di che tu miri». 108 E già venuto a l’ultima tortura s’era per noi, e vòlto a la man destra, ed eravamo attenti ad altra cura. 111 Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso che la reflette e via da lei sequestra; 114 ond’ir ne convenia dal lato schiuso ad uno ad uno; e io temea ‘l foco quinci, e quindi temeva cader giuso. 117 Lo duca mio dicea: «Per questo loco si vuol tenere a li occhi stretto il freno, però ch’errar potrebbesi per poco». 120 ‘Summae Deus clementiae’ nel seno al grande ardore allora udi’ cantando, che di volger mi fé caler non meno; 123 e vidi spirti per la fiamma andando; per ch’io guardava a loro e a’ miei passi compartendo la vista a quando a quando. 126 Appresso il fine ch’a quell’inno fassi, gridavano alto: ‘Virum non cognosco’; indi ricominciavan l’inno bassi. 129 Finitolo, anco gridavano: «Al bosco si tenne Diana, ed Elice caccionne che di Venere avea sentito il tòsco». 132 Indi al cantar tornavano; indi donne gridavano e mariti che fuor casti come virtute e matrimonio imponne. 135 E questo modo credo che lor basti per tutto il tempo che ‘l foco li abbruscia: con tal cura conviene e con tai pasti che la piaga da sezzo si ricuscia. 139 |
ParafrasiL'ora era tale che la salita non doveva avere ostacoli; infatti il sole aveva lasciato il meridiano al Toro e la notte allo Scorpione (erano le due del pomeriggio); dunque, come fa l'uomo che non si arresta, ma prosegue il suo cammino qualunque cosa incontri, se è pungolato dallo stimolo del bisogno, così noi entrammo nel passaggio, procedendo uno dietro all'altro lungo la scala che era tanto stretta da costringerci a separarci in quel modo.
E come il cicognino che solleva l'ala per volontà di volare, e poi non osa lasciare il nido e la mette giù; così ero io che volevo domandare e non osavo farlo, assumendo l'atteggiamento di chi si dispone a parlare. Nonostante l'andatura fosse spedita, il mio dolce padre (Virgilio) non lasciò cadere la cosa e disse: «Scocca l'arco delle tue parole, visto che l'hai teso fino a far toccare il dardo all'arco stesso». Allora, rassicurato, aprii la bocca e iniziai a dire: «Come è possibile che dimagrisca chi non ha bisogno di nutrirsi?» Disse: «Se ricordassi come Meleagro si consumò al consumare di un tizzone, questo non sarebbe per te difficile; e se pensassi come la vostra immagine viene riflessa nello specchio, ciò che ti sembra duro ti sembrerebbe facile. Ma affinché tu possa acquietarti nel tuo desiderio, ecco qui Stazio; e io lo prego che sani le tue piaghe (che ti sciolga ogni dubbio)». Stazio rispose: «Se gli rivelo l'orizzonte delle verità eterne, qui in tua presenza, invoco a mia discolpa il non potermi sottrarre alla tua richiesta». Poi iniziò: «Se la tua mente, figlio, ascolta con attenzione le mie parole, esse ti illumineranno riguardo alla questione di cui parli. La parte più perfetta del sangue, che non viene assorbita dalle vene avide e rimane come un alimento che tu togli dalla mensa, acquista dal cuore la potenza di dar forma a tutte le membra umane, come quel sangue che va per le vene trasformandosi in quelle. Esso, dopo essere stato trasformato, scende negli organi genitali maschili; e di qui, poi, stilla sopra il sangue della donna nella matrice naturale (l'utero). Qui vengono raccolti entrambi insieme, l'uno predisposto a subire, l'altro ad agire grazie al luogo perfetto (il cuore) da cui vengono; e il seme maschile, unito al sangue femminile, comincia a operare dapprima coagulandosi, e poi dando vita alla materia che ha prodotto (il feto). La virtù informativa, divenuta un'anima come quella delle piante, con la differenza che questa (del feto) è destinata allo sviluppo, l'altra (delle piante) è già compiuta, opera al punto che già si muove e ha sensazioni, come una spugna marina; e in seguito inizia a formare gli organi adatti alle ricezioni sensibili delle quali è origine. Ora, figliolo, la virtù informativa che viene dal cuore del padre si dispiega e si protende fin dove la natura predispone tutte le membra (del feto). Ma tu ancora non comprendi come si trasformi da animale in essere razionale: questo è il punto che ha già tratto in errore un filosofo più saggio di te (Averroè), al punto che nella sua dottrina separò dall'anima l'intelletto possibile, perché non vide alcun organo adatto a questa funzione. Apri il cuore alla novità che sto per dirti: e sappi che, non appena nel feto il cervello è perfettamente sviluppato, il primo motore (Dio) si volge lieto a una simile opera di natura, e vi ispira un nuovo spirito (la potenza intellettiva), piena di virtù, che attira e incorpora nella sua sostanza ciò che qui trova attivo e crea un'anima sola, che vive (ha la potenza vegetativa), sente (ha la potenza sensibile) e ha coscienza di sé. E affinché tu ti stupisca meno delle mie parole, pensa al vino che è prodotto dal calore del sole unito all'umore che cola dalla vite. Quando Lachesi non ha più filo da tessere (alla fine della vita), l'anima si separa dal corpo e porta con sé le facoltà umane (vegetativa e sensibile) e divina (intellettiva): tutte le altre potenze sono inerti, mentre la memoria, l'intelligenza e la volontà sono in atto molto più acute di prima. Senza fermarsi, l'anima cade in modo mirabile a una delle due rive (Acheronte o Tevere); qui conosce subito il suo destino ultraterreno. Non appena lo spazio lì la circonda, la virtù informativa irraggia intorno proprio come faceva nelle membra del corpo materiale. E come l'aria, quando è ben pregna di umidità, si tinge dei colori dell'arcobaleno per il raggio del sole che la attraversa; così l'aria che circonda lì l'anima assume quella forma che le imprime l'anima stessa lì ferma, grazie alla virtù informativa; e poi, simile alla fiammella che segue il fuoco ovunque si sposti, la nuova forma segue l'anima. Poiché da quel momento ha un suo aspetto esteriore, è chiamata ombra; e in seguito sviluppa tutte le sensazioni, fino alla vista. Con questo corpo umbratile noi parliamo e ridiamo; con esso produciamo le lacrime e i sospiri che puoi aver sentito per il monte. L'ombra assume l'aspetto a seconda dei desideri e degli altri sentimenti che proviamo; e questa è la causa che ti ha fatto meravigliare». E ormai eravamo giunti all'ultima pena, e ci eravamo rivolti verso destra, ed eravamo presi da altra preoccupazione. Qui (nella VII Cornice) la parete emette in fuori una fiamma, e la Cornice soffia un vento verso l'alto che fa ripiegare la fiamma e la allontana dall'orlo; dunque dovevamo camminare in fila indiana lungo l'orlo esterno della Cornice; e io temevo il fuoco da un lato, di cadere nel vuoto dall'altro. Il mio maestro diceva: «In questo luogo dobbiamo concentrare lo sguardo sui nostri passi, perché si potrebbe facilmente mettere un piede in fallo». Allora sentii che dentro la grande fiamma qualcuno cantava 'O Signore di somma clemenza', il che mi diede gran desiderio di voltarmi; e vidi anime che camminavano entro il fuoco; allora io guardavo verso di loro e ai miei passi, dividendo il mio sguardo tra gli uni e gli altri. Dopo che le anime finivano di cantare quell'inno, gridavano forte: 'Non conosco uomo'; poi ricominciavano l'inno, a bassa voce. Finito l'inno, gridavano ancora: «Diana visse nei boschi, da cui cacciò la ninfa Callisto che aveva provato il veleno di Venere». Quindi tornavano all'inno; e poi gridavano di mogli e mariti che furono casti, come il vincolo matrimoniale impone loro. E credo che questa modalità sia da loro tenuta per tutto il tempo in cui il fuoco li brucia: con tale medicina e tali alimenti (con la preghiera e la pena) devono rimarginare infine la loro piaga (quella del peccato). |