Inferno, Canto XXIV
W. Blake, La Bolgia dei ladri
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio...
...e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa...
"...Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch'io fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana"...
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio...
...e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa...
"...Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch'io fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana"...
Argomento del Canto
Dante e Virgilio si arrampicano lungo l'argine della VI Bolgia e giungono nella VII Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge),in cui sono puniti i ladri. Incontro con Vanni Fucci, che profetizza a Dante le vicende del suo esilio.
È la mattina di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, tra le dieci e le undici.
È la mattina di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, tra le dieci e le undici.
Sgomento e conforto di Dante (1-21)
Dante è stupito nel vedere Virgilio corrucciato per le parole di Catalano, come il contadino che alla fine dell'inverno si alza al mattino e vede la terra coperta di brina, la scambia per neve ed è disperato, poi però si accorge che la brina si è sciolta e, riconfortato, esce contento a pascolare le bestie. Allo stesso modo, infatti, il maestro ha fatto preoccupare Dante che lo ha visto turbato, ma non appena i due giungono alla rovina del ponte roccioso Virgilio si rivolge al discepolo con la stessa dolcezza dimostrata ai piedi del colle.
Ascesa sull'argine della VII Bolgia (22-60)
A. Vellutello, I ladri circondati dagli ipocriti
Virgilio osserva con attenzione la rovina, poi apre le braccia e sorregge Dante aiutandolo nella salita, spingendolo cioè verso uno spuntone di roccia cui possa aggrapparsi e dandogli preziose indicazioni su come proseguire. La via è impervia, tale che i due possono a malapena compiere la scalata, aiutati dal fatto che le Malebolge sono un piano inclinato verso il pozzo centrale e quindi la sponda interna di ogni Bolgia è meno ripida e più corta di quella esterna. Con enormi sforzi i due poeti raggiungono la sommità dell'argine e Dante è senza respiro, al punto che si siede appena arrivato. Virgilio lo rimprovera dicendogli che non si raggiunge la fama stando seduto o sotto le coperte, e senza fama la vita di un uomo è destinata a passare come fumo nell'aria e schiuma nell'acqua. Lo esorta ad alzarsi e a vincere la sua stanchezza, dal momento che essi devono compiere una ben più ardua salita (fino al cielo). Le parole del maestro hanno l'effetto di scuotere Dante, che si alza e si dice pronto a proseguire il cammino.
La Bolgia dei ladri (61-96)
I due poeti prendono il ponte che sovrasta la VII Bolgia, assai più stretto e disagevole di quello percorso sopra la V Bolgia. Dante parla per non apparire troppo stanco, ma a un tratto sente una voce proveniente dalla Bolgia, che pronuncia parole incomprensibili. Dante è già arrivato al punto più alto del ponte e anche da lì non capisce quello che sente, salvo che chi sta parlando sembra si stia muovendo. Guardando nel fondo della Bolgia non vede nulla per l'oscurità, quindi prega Virgilio di raggiungere l'argine che separa la Bolgia dalla successiva e il maestro volentieri acconsente. I due percorrono tutto il ponte sino all'argine tra la VII e l'VIII Bolgia e da qui Dante può vedere che la fossa è piena di orribili serpenti, tutti diversi tra loro, e lo spettacolo è così spaventoso da fargli ancora paura al ricordarlo. Il deserto di Libia non produce rettili più numerosi e orrendi di quelli, nè l'Etiopia o l'Arabia. In questo ammasso di serpenti corrono dannati nudi e terrorizzati (i ladri), con le mani legate dietro la schiena da serpi che insinuano il capo e la coda attorno ai fianchi, annodandosi davanti al ventre.
La Bolgia dei ladri (61-96)
I due poeti prendono il ponte che sovrasta la VII Bolgia, assai più stretto e disagevole di quello percorso sopra la V Bolgia. Dante parla per non apparire troppo stanco, ma a un tratto sente una voce proveniente dalla Bolgia, che pronuncia parole incomprensibili. Dante è già arrivato al punto più alto del ponte e anche da lì non capisce quello che sente, salvo che chi sta parlando sembra si stia muovendo. Guardando nel fondo della Bolgia non vede nulla per l'oscurità, quindi prega Virgilio di raggiungere l'argine che separa la Bolgia dalla successiva e il maestro volentieri acconsente. I due percorrono tutto il ponte sino all'argine tra la VII e l'VIII Bolgia e da qui Dante può vedere che la fossa è piena di orribili serpenti, tutti diversi tra loro, e lo spettacolo è così spaventoso da fargli ancora paura al ricordarlo. Il deserto di Libia non produce rettili più numerosi e orrendi di quelli, nè l'Etiopia o l'Arabia. In questo ammasso di serpenti corrono dannati nudi e terrorizzati (i ladri), con le mani legate dietro la schiena da serpi che insinuano il capo e la coda attorno ai fianchi, annodandosi davanti al ventre.
Apparizione di Vanni Fucci (97-126)
G. Doré, I ladri
Un dannato è assalito da un serpente, che lo morde sulla nuca: lo sventurato arde e in un batter d'occhio si trasforma in cenere, per poi cadere a terra, raccogliersi e tramutarsi di nuovo nella stessa figura di prima, in modo assai simile a ciò che si narra della fenice che muore e rinasce ogni cinquecento anni. Il peccatore si rialza e ha l'aria sgomenta, come colui che cade a terra vittima di un'ossessione diabolica o di una paralisi. Virgilio gli chiede chi sia e il dannato risponde di essere finito lì dalla Toscana poco tempo prima. Il suo nome è Vanni Fucci e Pistoia è la città in cui è nato, vivendo un'esistenza degna di una bestia.
Profezia della sconfitta dei Guelfi Bianchi (127-151)
Dante prega Virgilio di dire al dannato di non scappare e di chiedergli quale colpa lo abbia condotto all'Inferno, dal momento che il poeta crede di averlo conosciuto in vita. Il peccatore sente le parole di Dante e non si nasconde, rivolgendo a lui il viso con vergogna; poi dichiara di dolersi più del fatto di essere visto da lui in questa misera condizione che non di aver perso la vita. Non potendo negare una risposta a Dante, afferma di scontare il furto degli arredi sacri nel duomo di Pistoia, falsamente attribuito ad altri. Poi ingiunge al poeta di ascoltare il suo annuncio, perché una volta tornato sulla Terra non goda di averlo visto tra i dannati: profetizza che prima Pistoia caccerà i Guelfi Neri, poi Firenze farà lo stesso coi Bianchi e poco dopo una tempesta uscita dalla Lunigiana (Moroello Malaspina) conquisterà Pistoia e con essa l'ultimo caposaldo dei Bianchi fiorentini. Vanni conclude la profezia precisando che ha detto tutto ciò per fare del male a Dante.
Profezia della sconfitta dei Guelfi Bianchi (127-151)
Dante prega Virgilio di dire al dannato di non scappare e di chiedergli quale colpa lo abbia condotto all'Inferno, dal momento che il poeta crede di averlo conosciuto in vita. Il peccatore sente le parole di Dante e non si nasconde, rivolgendo a lui il viso con vergogna; poi dichiara di dolersi più del fatto di essere visto da lui in questa misera condizione che non di aver perso la vita. Non potendo negare una risposta a Dante, afferma di scontare il furto degli arredi sacri nel duomo di Pistoia, falsamente attribuito ad altri. Poi ingiunge al poeta di ascoltare il suo annuncio, perché una volta tornato sulla Terra non goda di averlo visto tra i dannati: profetizza che prima Pistoia caccerà i Guelfi Neri, poi Firenze farà lo stesso coi Bianchi e poco dopo una tempesta uscita dalla Lunigiana (Moroello Malaspina) conquisterà Pistoia e con essa l'ultimo caposaldo dei Bianchi fiorentini. Vanni conclude la profezia precisando che ha detto tutto ciò per fare del male a Dante.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto è dedicato alla presentazione della Bolgia dei ladri, la cui descrizione occuperà anche il Canto successivo e sarà caratterizzata da uno stile particolarmente ricercato, specie nel descrivere le metamorfosi dei dannati. Protagonista dell'episodio è Vanni Fucci, che però compare solo nella seconda parte del Canto e all'inizio del successivo, mentre buona parte del XXIV è occupato dal percorso di avvicinamento alla VII Bolgia in un «crescendo» che culmina nelle parole irose del ladro pistoiese.
Il Canto si apre coi due poeti ancora nella VI Bolgia, dopo che Virgilio ha appreso dell'inganno di Malacoda e si duole di essere stato beffato. La similitudine dell'esordio paragona lo sgomento di Dante di fronte al maestro a quello del contadino che una mattina di fine inverno scambia la brina per neve, disperandosi per i propri animali e poi rincuorandosi quando capisce il proprio errore; lo stesso accade a Dante quando vede Virgilio rasserenato, che anzi lo aiuta e lo sprona a scalare la rovina di rocce per guadagnare la sommità dell'argine. È un'ascesa ardua e sfiancante, specie per Dante che ha un corpo in carne ed ossa, ma il maestro lo esorta a proseguire perché non si guadagna la fama restanto sotto coltre (naturalmente è la fama positiva, che si acquista con azioni onorevoli, al contrario di quella dei ladri che si sono macchiati di colpe infamanti: non a caso Vanni Fucci si lamenterà proprio di essere visto da Dante nella miseria della dannazione). Virgilio accenna anche al seguito del viaggio dantesco che dovrà salire più lunga scala, fino al Paradiso Terrestre dove lo attende Beatrice, il che ovviamente riempie Dante di buoni propositi e indica che il percorso del poeta è illuminato dalla grazia.
La seconda parte del Canto mostra la Bolgia dei ladri, dalla quale provengono voci incomprensibili e in cui Dante non vede nulla per l'oscurità. È come se il poeta volesse creare nel lettore l'attesa per lo spettacolo orribile della fossa, che infatti viene mostrato solo dal v. 81: un groviglio spaventoso di serpenti, quale neppure il deserto di Libia, Etiopia o Arabia potrebbe eguagliare (l'accenno alla Libia preannuncia la gara poetica che Dante farà con Lucano nel Canto seguente, poiché nel Bellum civile il poeta latino aveva descritto i serpenti del deserto africano attraversato dai soldati di Catone, vittime anch'essi di orrende metamorfosi). Vanni Fucci compare nei versi finali, ma ancora una volta senza una presentazione diretta, creando maggiore attesa: il dannato subisce una trasformazione, quindi è Virgilio (su invito di Dante) a chiedere il suo nome. La «prosopopea» del ladro è quale possiamo attenderci da un personaggio simile, improntata all'ira e alle metafore animalesche: Vanni dice di essere piovuto da poco dalla Toscana in questa gola fiera, di aver amato una vita bestial... e non umana, di essere stato una bestia e un «mulo», cioè un bastardo (pare che «bestia» fosse il suo soprannome), di aver avuto Pistoia come tana. La sua figura è in parte simile a quelle di Farinata e Capaneo in quanto anch'essi disdegnavano la giustizia divina, ma il ladro si mostra ancor più furente e dominato dall'ira e, soprattutto, si duole di essere visto da Dante in questa miserabile condizione. Vanni non ha dunque nulla della grandezza tragica di quei personaggi e sfoga tutto il suo malanimo verso Dante, specie per essere costretto a rispondere alla sua domanda e svelare quale peccato lo abbia condotto lì, cioè il furto degli arredi sacri nel duomo di Pistoia che falsamente era stato attribuito ad altri (come sempre il racconto dantesco svela la verità della condizione ultraterrena, ristabilendo la verità e attribuendo le giuste responsabilità ad ognuno).
La conclusione è in linea con il tono dell'episodio, in quanto Vanni predice a Dante le future sciagure dei Guelfi Bianchi negli anni del suo esilio per procurargli dolore (per il fatto che Dante lo ha visto lì e perché Vanni era Guelfo Nero, quindi avversario politico del poeta). Qualcosa di simile aveva fatto anche Farinata, ma qui siamo molto lontani dalla compostezza e dalla dignità del capo ghibellino: Vanni predice in modo oscuro e minaccioso la presa di Pistoia da parte di Moroello Malaspina nel 1306, paragonandolo a un fulmine avvolto da nubi oscure che verrà dalla Lunigiana a combattere i Bianchi nel Pistoiese, fino a colpirli tutti e a rendere impossibile il rientro degli esuli di parte Bianca a Firenze. La profezia finale si ricollega in parte alla similitudine iniziale, che spiegava la disperazione di Dante per l'incertezza sul prosieguo del viaggio (per l'atteggiamento di Virgilio) e poi il conforto, mentre qui sono le parole di Vanni a gettare un'ombra di inquietudine sul futuro del poeta come già aveva fatto Farinata. Allora Virgilio aveva confortato Dante preannunciadogli che Beatrice gli avrebbe spiegato ogni cosa, mentre qui durante l'ascesa il maestro aveva ricordato a Dante che lui giungerà nell'Eden, dove sarà proprio la donna ad attenderlo; l'accenno alla fama non è dunque casuale, essendo Dante destinato ad ottenerla grazie a ciò che scriverà nel poema, come del resto in Paradiso gli verrà spiegato da Cacciaguida dopo avergli chiarito ogni dubbio sul suo destino personale.
Il Canto si apre coi due poeti ancora nella VI Bolgia, dopo che Virgilio ha appreso dell'inganno di Malacoda e si duole di essere stato beffato. La similitudine dell'esordio paragona lo sgomento di Dante di fronte al maestro a quello del contadino che una mattina di fine inverno scambia la brina per neve, disperandosi per i propri animali e poi rincuorandosi quando capisce il proprio errore; lo stesso accade a Dante quando vede Virgilio rasserenato, che anzi lo aiuta e lo sprona a scalare la rovina di rocce per guadagnare la sommità dell'argine. È un'ascesa ardua e sfiancante, specie per Dante che ha un corpo in carne ed ossa, ma il maestro lo esorta a proseguire perché non si guadagna la fama restanto sotto coltre (naturalmente è la fama positiva, che si acquista con azioni onorevoli, al contrario di quella dei ladri che si sono macchiati di colpe infamanti: non a caso Vanni Fucci si lamenterà proprio di essere visto da Dante nella miseria della dannazione). Virgilio accenna anche al seguito del viaggio dantesco che dovrà salire più lunga scala, fino al Paradiso Terrestre dove lo attende Beatrice, il che ovviamente riempie Dante di buoni propositi e indica che il percorso del poeta è illuminato dalla grazia.
La seconda parte del Canto mostra la Bolgia dei ladri, dalla quale provengono voci incomprensibili e in cui Dante non vede nulla per l'oscurità. È come se il poeta volesse creare nel lettore l'attesa per lo spettacolo orribile della fossa, che infatti viene mostrato solo dal v. 81: un groviglio spaventoso di serpenti, quale neppure il deserto di Libia, Etiopia o Arabia potrebbe eguagliare (l'accenno alla Libia preannuncia la gara poetica che Dante farà con Lucano nel Canto seguente, poiché nel Bellum civile il poeta latino aveva descritto i serpenti del deserto africano attraversato dai soldati di Catone, vittime anch'essi di orrende metamorfosi). Vanni Fucci compare nei versi finali, ma ancora una volta senza una presentazione diretta, creando maggiore attesa: il dannato subisce una trasformazione, quindi è Virgilio (su invito di Dante) a chiedere il suo nome. La «prosopopea» del ladro è quale possiamo attenderci da un personaggio simile, improntata all'ira e alle metafore animalesche: Vanni dice di essere piovuto da poco dalla Toscana in questa gola fiera, di aver amato una vita bestial... e non umana, di essere stato una bestia e un «mulo», cioè un bastardo (pare che «bestia» fosse il suo soprannome), di aver avuto Pistoia come tana. La sua figura è in parte simile a quelle di Farinata e Capaneo in quanto anch'essi disdegnavano la giustizia divina, ma il ladro si mostra ancor più furente e dominato dall'ira e, soprattutto, si duole di essere visto da Dante in questa miserabile condizione. Vanni non ha dunque nulla della grandezza tragica di quei personaggi e sfoga tutto il suo malanimo verso Dante, specie per essere costretto a rispondere alla sua domanda e svelare quale peccato lo abbia condotto lì, cioè il furto degli arredi sacri nel duomo di Pistoia che falsamente era stato attribuito ad altri (come sempre il racconto dantesco svela la verità della condizione ultraterrena, ristabilendo la verità e attribuendo le giuste responsabilità ad ognuno).
La conclusione è in linea con il tono dell'episodio, in quanto Vanni predice a Dante le future sciagure dei Guelfi Bianchi negli anni del suo esilio per procurargli dolore (per il fatto che Dante lo ha visto lì e perché Vanni era Guelfo Nero, quindi avversario politico del poeta). Qualcosa di simile aveva fatto anche Farinata, ma qui siamo molto lontani dalla compostezza e dalla dignità del capo ghibellino: Vanni predice in modo oscuro e minaccioso la presa di Pistoia da parte di Moroello Malaspina nel 1306, paragonandolo a un fulmine avvolto da nubi oscure che verrà dalla Lunigiana a combattere i Bianchi nel Pistoiese, fino a colpirli tutti e a rendere impossibile il rientro degli esuli di parte Bianca a Firenze. La profezia finale si ricollega in parte alla similitudine iniziale, che spiegava la disperazione di Dante per l'incertezza sul prosieguo del viaggio (per l'atteggiamento di Virgilio) e poi il conforto, mentre qui sono le parole di Vanni a gettare un'ombra di inquietudine sul futuro del poeta come già aveva fatto Farinata. Allora Virgilio aveva confortato Dante preannunciadogli che Beatrice gli avrebbe spiegato ogni cosa, mentre qui durante l'ascesa il maestro aveva ricordato a Dante che lui giungerà nell'Eden, dove sarà proprio la donna ad attenderlo; l'accenno alla fama non è dunque casuale, essendo Dante destinato ad ottenerla grazie a ciò che scriverà nel poema, come del resto in Paradiso gli verrà spiegato da Cacciaguida dopo avergli chiarito ogni dubbio sul suo destino personale.
Le profezie dell'esilio nell'Inferno
Sono in tutto quattro, affidate a personaggi molto diversi tra loro e riguardanti aspetti diversi della vicenda biografica di Dante; come anche quelle del Purgatorio, hanno in comune il carattere poco chiaro e oscuro, che renderà necessaria la chiosa di Cacciaguida nel Canto XVII del Paradiso.
La prima è quella di Ciacco (VI), che risponde alle domande di Dante sul destino politico di Firenze e spiega che Bianchi e Neri si combatteranno, coi Bianchi che dapprima prevarranno ma poi saranno cacciati dai Neri di lì a pochi anni, alludendo al colpo di mano operato da Carlo di Valois che rovescerà i Bianchi nel 1301 e provocherà indirettamente l'esilio di Dante. La seconda, più diretta, è affidata a Farinata Degli Uberti (X), che profetizza a Dante non l'esilio in sé ma la sconfitta nella battaglia della Lastra che nel 1304 impedirà definitivamente ai fuoriusciti fiorentini di rientrare in città (quindi Dante saprà quanto pesa l'arte di non poter tornare, come accadde ai Ghibellini del tempo del dannato). La terza è messa in bocca a Brunetto Latini (XV), l'ex-maestro di Dante che parla in tono più affettuoso ma non meno oscuro, predicendo che le sue buone azioni gli procureranno l'invidia e l'ostilità dei fiorentini, Bianchi e Neri, ma lui sarà lontano e non potrà subire la loro irosa vendetta. Infine quella di Vanni Fucci (XXIV), la più enigmatica di tutte, che allude alla presa di Pistoia (ultima roccaforte dei Bianchi) da parte del signore di Lunigiana Moroello Malaspina, paragonato a un fulmine avvolto da nere nubi che scatenerà una tempesta sul territorio pistoiese, tale da squarciare le nubi e colpire ogni Guelfo Bianco; Moroello sarà evocato, secondo Vanni, da Marte, dio della guerra nonché primo protettore della città di Firenze (il suicida del finale del Canto XIII aveva detto che il dio pagano, per questo, avrebbe sempre rattristato i fiorentini con la sua arte, cioè la guerra).
La prima è quella di Ciacco (VI), che risponde alle domande di Dante sul destino politico di Firenze e spiega che Bianchi e Neri si combatteranno, coi Bianchi che dapprima prevarranno ma poi saranno cacciati dai Neri di lì a pochi anni, alludendo al colpo di mano operato da Carlo di Valois che rovescerà i Bianchi nel 1301 e provocherà indirettamente l'esilio di Dante. La seconda, più diretta, è affidata a Farinata Degli Uberti (X), che profetizza a Dante non l'esilio in sé ma la sconfitta nella battaglia della Lastra che nel 1304 impedirà definitivamente ai fuoriusciti fiorentini di rientrare in città (quindi Dante saprà quanto pesa l'arte di non poter tornare, come accadde ai Ghibellini del tempo del dannato). La terza è messa in bocca a Brunetto Latini (XV), l'ex-maestro di Dante che parla in tono più affettuoso ma non meno oscuro, predicendo che le sue buone azioni gli procureranno l'invidia e l'ostilità dei fiorentini, Bianchi e Neri, ma lui sarà lontano e non potrà subire la loro irosa vendetta. Infine quella di Vanni Fucci (XXIV), la più enigmatica di tutte, che allude alla presa di Pistoia (ultima roccaforte dei Bianchi) da parte del signore di Lunigiana Moroello Malaspina, paragonato a un fulmine avvolto da nere nubi che scatenerà una tempesta sul territorio pistoiese, tale da squarciare le nubi e colpire ogni Guelfo Bianco; Moroello sarà evocato, secondo Vanni, da Marte, dio della guerra nonché primo protettore della città di Firenze (il suicida del finale del Canto XIII aveva detto che il dio pagano, per questo, avrebbe sempre rattristato i fiorentini con la sua arte, cioè la guerra).
Note e passi controversi
La prima terzina indica il periodo dell'anno appena iniziato in cui si è sotto la costellazione dell'Acquario e la durata della notte eguaglia quasi quella del giorno (si è vicini all'equinozio primaverile). Al v. 18 impiastro significa propriamente «medicina», quindi «rimedio».
I vv. 34-40 spiegano la formazione delle Malebolge, il cui piano digrada verso il pozzo centrale, quindi ogni fossa ha la parete esterna (verso l'alta ripa) più alta e ripida, quella interna (verso il pozzo) pià bassa e meno ripida.
La voce di cui si parla al v. 65 è certo di uno dei ladri della Bolgia, ma non è sicuro che si tratti di Vanni Fucci che comparirà poco dopo. Alcuni mss. leggono il v. 69 ma chi parlava ad ira parea mosso, mentre la lezione a testo, più difficile, indica che chi parla sembra in movimento (nel senso che la voce sembra allontanarsi o avvicinarsi).
I serpenti elencati ai vv. 86-87 (chelidri, iaculi, faree, cencri, anfisibene) sono tutti citati da Lucano in Phars., IX, 710 ss.; il passo prelude alla gara poetica che Dante farà con lui e Ovidio nel Canto successivo.
L'elitropia era, secondo i lapidari medievali, una pietra dalle magiche virtù, tra cui quella di curare dal morso di serpente e di rendere invisibili chi si poneva sotto di essa (cfr. Boccaccio, Dec., VIII, 3).
La pena dei ladri ha un contrappasso evidente, in quanto le serpi (animali demoniaci, immagine del maligno che tentò Eva) legano loro le mani dietro la schiena; i dannati si trasformeranno essi stessi in serpenti, a sottolineare la natura maligna e bifida del loro peccato.
La similitudine della fenice (vv. 106-111) è tratta quasi letteralemente da Ovidio, Met., XV, 392 ss.: Assyrii phoenica vocant; non fruge neque herbis, / sed turis lacrimis et suco vivit amomi. / Haec ubi quinque suae complevit saecula vitae / ilicet in ramis tremulaeque cacumine palmae / unguibus et puro nidum sibi construit ore, / quo simul ac casias et nardi lenis aristas / quassaque cum fulva substravit cinnama murra, / se superimponit finitque in odoribus aevum («Gli Assiri la chiamano fenice; non si nutre di biada o d'erba, ma di lacrime di incenso e di succo d'amomo. Essa, quando ha compiuto i cinque secoli di vita, si fabbrica un nido tra i rami e sulla cima di una tremula palma con gli artigli e il becco immacolato, e qui, non appena ha steso foglie di casia e leggere spighe di nardo e cinnamo trito con bionda mirra, vi si sdraia sopra e muore tra i profumi»)
I vv. 112-114 paragonano il ladro che si riprende dalla metamorfosi a chi è svenuto improvvisamente, a causa di un'ossessione diabolica o di una oppilazion, un'ostruzione degli spiriti vitali che era prevista dalla fisiologia del tempo.
Il senso del verbo mucci (v. 127) è probabilmente «scappare», ma l'intepretazione è controversa.
Campo Piceno (v. 148) indica il territorio di Pistoia, così detto per una errata interpretazione di un passo di Sallustio (Cat., 57).
I vv. 34-40 spiegano la formazione delle Malebolge, il cui piano digrada verso il pozzo centrale, quindi ogni fossa ha la parete esterna (verso l'alta ripa) più alta e ripida, quella interna (verso il pozzo) pià bassa e meno ripida.
La voce di cui si parla al v. 65 è certo di uno dei ladri della Bolgia, ma non è sicuro che si tratti di Vanni Fucci che comparirà poco dopo. Alcuni mss. leggono il v. 69 ma chi parlava ad ira parea mosso, mentre la lezione a testo, più difficile, indica che chi parla sembra in movimento (nel senso che la voce sembra allontanarsi o avvicinarsi).
I serpenti elencati ai vv. 86-87 (chelidri, iaculi, faree, cencri, anfisibene) sono tutti citati da Lucano in Phars., IX, 710 ss.; il passo prelude alla gara poetica che Dante farà con lui e Ovidio nel Canto successivo.
L'elitropia era, secondo i lapidari medievali, una pietra dalle magiche virtù, tra cui quella di curare dal morso di serpente e di rendere invisibili chi si poneva sotto di essa (cfr. Boccaccio, Dec., VIII, 3).
La pena dei ladri ha un contrappasso evidente, in quanto le serpi (animali demoniaci, immagine del maligno che tentò Eva) legano loro le mani dietro la schiena; i dannati si trasformeranno essi stessi in serpenti, a sottolineare la natura maligna e bifida del loro peccato.
La similitudine della fenice (vv. 106-111) è tratta quasi letteralemente da Ovidio, Met., XV, 392 ss.: Assyrii phoenica vocant; non fruge neque herbis, / sed turis lacrimis et suco vivit amomi. / Haec ubi quinque suae complevit saecula vitae / ilicet in ramis tremulaeque cacumine palmae / unguibus et puro nidum sibi construit ore, / quo simul ac casias et nardi lenis aristas / quassaque cum fulva substravit cinnama murra, / se superimponit finitque in odoribus aevum («Gli Assiri la chiamano fenice; non si nutre di biada o d'erba, ma di lacrime di incenso e di succo d'amomo. Essa, quando ha compiuto i cinque secoli di vita, si fabbrica un nido tra i rami e sulla cima di una tremula palma con gli artigli e il becco immacolato, e qui, non appena ha steso foglie di casia e leggere spighe di nardo e cinnamo trito con bionda mirra, vi si sdraia sopra e muore tra i profumi»)
I vv. 112-114 paragonano il ladro che si riprende dalla metamorfosi a chi è svenuto improvvisamente, a causa di un'ossessione diabolica o di una oppilazion, un'ostruzione degli spiriti vitali che era prevista dalla fisiologia del tempo.
Il senso del verbo mucci (v. 127) è probabilmente «scappare», ma l'intepretazione è controversa.
Campo Piceno (v. 148) indica il territorio di Pistoia, così detto per una errata interpretazione di un passo di Sallustio (Cat., 57).
TestoIn quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra e già le notti al mezzo dì sen vanno, 3 quando la brina in su la terra assempra l’imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra, 6 lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca, 9 ritorna in casa, e qua e là si lagna, come ’l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna, 12 veggendo ’l mondo aver cangiata faccia in poco d’ora, e prende suo vincastro, e fuor le pecorelle a pascer caccia. 15 Così mi fece sbigottir lo mastro quand’io li vidi sì turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro; 18 ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch’io vidi prima a piè del monte. 21 Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio. 24 E come quei ch’adopera ed estima, che sempre par che ’nnanzi si proveggia, così, levando me sù ver la cima 27 d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa; ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia». 30 Non era via da vestito di cappa, ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam sù montar di chiappa in chiappa. 33 E se non fosse che da quel precinto più che da l’altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto. 36 Ma perché Malebolge inver’ la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta 39 che l’una costa surge e l’altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l’ultima pietra si scoscende. 42 La lena m’era del polmon sì munta quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre, anzi m’assisi ne la prima giunta. 45 «Omai convien che tu così ti spoltre», disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, né sotto coltre; 48 sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma. 51 E però leva sù: vinci l’ambascia con l’animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s’accascia. 54 Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia». 57 Leva’mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch’i’ non mi sentìa; e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito». 60 Su per lo scoglio prendemmo la via, ch’era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria. 63 Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l’altro fosso, a parole formar disconvenevole. 66 Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso fossi de l’arco già che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso. 69 Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi 72 da l’altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com’i’ odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro». 75 «Altra risposta», disse, «non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de’ seguir con l’opera tacendo». 78 Noi discendemmo il ponte da la testa dove s’aggiugne con l’ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta: 81 e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di sì diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa. 84 Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, 87 né tante pestilenzie né sì ree mostrò già mai con tutta l’Etiopia né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. 90 Tra questa cruda e tristissima copia correan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia: 93 con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate. 96 Ed ecco a un ch’era da nostra proda, s’avventò un serpente che ’l trafisse là dove ’l collo a le spalle s’annoda. 99 Né O sì tosto mai né I si scrisse, com’el s’accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse; 102 e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa, e ’n quel medesmo ritornò di butto. 105 Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; 108 erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, e nardo e mirra son l’ultime fasce. 111 E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch’a terra il tira, o d’altra oppilazion che lega l’omo, 114 quando si leva, che ’ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch’elli ha sofferta, e guardando sospira: 117 tal era il peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant’è severa, che cotai colpi per vendetta croscia! 120 Lo duca il domandò poi chi ello era; per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera. 123 Vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana». 126 E io al duca: «Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù ’l pinse; ch’io ’l vidi uomo di sangue e di crucci». 129 E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse, ma drizzò verso me l’animo e ’l volto, e di trista vergogna si dipinse; 132 poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l’altra vita tolto. 135 Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch’io fui ladro a la sagrestia d’i belli arredi, 138 e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da’ luoghi bui, 141 apri li orecchi al mio annunzio, e odi: Pistoia in pria d’i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi. 144 Tragge Marte vapor di Val di Magra ch’è di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetuosa e agra 147 sovra Campo Picen fia combattuto; ond’ei repente spezzerà la nebbia, sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto. E detto l’ho perché doler ti debbia!». 151 |
ParafrasiIn quella stagione dell'anno iniziato da poco, in cui il sole intiepidisce i raggi sotto la costellazione dell'Acquario e la durata delle notti si avvicina a quella dei giorni, quando la brina sulla terra ricorda l'immagine della sua bianca sorella (la neve), ma la sua penna non ha per molto l'inchiostro (è destinata a durar poco),
il contadino a cui manca il foraggio si alza e guarda fuori, e vede la campagna tutta bianca: allora si batte il fianco, ritorna in casa, si lagna qua e là, come il pover'uomo che non sa cosa fare; poi ritorna e riacquista la speranza, vedendo che il mondo ha cambiato volto (che la brina si è sciolta) in poco tempo, e prende il suo bastone e porta le pecore fuori al pascolo. Così il maestro mi fece impallidire quando io lo vidi col volto così turbato, e altrettanto rapidamente giunse il rimedio al male; infatti, come noi giungemmo alla rovina del ponte, la mia guida si rivolse a me con l'espressione dolce che vidi in lui ai piedi del colle. Aprì le braccia e dopo aver considerato per un po' tra sé guardando bene la rovina, mi sollevò. E come colui che agisce e riflette sul da farsi, che sembra sempre pensare prima a cosa fare, così, sollevandomi verso la sporgenza di una roccia, individuava un altro spuntone dicendomi: «Aggrappati poi a quello; ma prima prova a vedere se ti regge». Non era un cammino per gente che indossasse il mantello, poiché noi potevamo a malapena salire di spuntone in spuntone, Virgilio senza il corpo mortale e io spinto da lui. E se non fosse che da quella parte (interna) dell'argine la parete era più corta, non so lui ma io non ce l'avrei fatta. Ma poiché le Malebolge declinano verso il margine del profondo pozzo, la posizione di ciascuna Bolgia fa sì che una parete è più alta dell'altra; alla fine giungemmo in cima alla rovina, sulla sommità dell'argine. Non avevo più fiato nei polmoni quando fui arrivato in alto, al punto che non potevo proseguire oltre, anzi, mi sedetti non appena arrivai. Il maestro mi disse: «Ora conviene che tu ti dia da fare, poiché sedendo sui cuscini o stando sdraiati sotto le coperte non si acquista la fama; e chi passa la sua vita senza di essa, lascia sulla Terra una traccia di sé paragonabile al fumo nell'aria e alla schiuma nell'acqua. Dunque alzati subito: vinci l'affanno con l'animo che vince ogni contrasto, se il corpo pesante non l'abbatte. Dobbiamo salire una scala ben più ardua; non è sufficiente esserci separati da questi dannati e se mi capisci fa' in modo che ciò ti giovi». Allora mi alzai, mostrando di avere maggiore energia di quanto fosse in realtà, e dissi: «Va', che sono forte e pieno di coraggio». Prendemmo la via su per il ponte roccioso, che era impervio, stretto e difficile da percorrere, e assai più ripido di quello precedente. Per non sembrare affaticato andavo parlando; a un tratto si sentì provenire dalla Bolgia una voce che pronunciava parole sconnesse. Non so cosa dicesse, anche se ero già al culmine del ponte che sovrastava la fossa; ma chi parlava sembrava che si stesse muovendo. Io guardavo in basso, ma i miei occhi per quanto attenti non potevano vedere il fondo oscuro; allora dissi: «Maestro, cerchiamo di raggiungere la fine del ponte e scendiamo sull'argine; infatti da qui ascolto e non sento, e guardo in basso e non vedo nulla». Mi disse: «Non ti do altra risposta se non con l'agire; infatti alla giusta domanda devono seguire i fatti e non le parole». Noi scendemmo là dove il ponte si congiunge con l'argine dell'VIII Bolgia, e da lì potei vedere la VII: e vidi all'interno un orribile groviglio di serpenti, di specie talmente diverse che il solo ricordarlo mi guasta il sangue. La Libia non si vanti più con la sua sabbia, poiché se produce chelidri, iacule, faree, cencri e anfisibene, non mostrò mai tanti animali pestiferi con tutta l'Etiopia e con la regione (Arabia) all'altezza del Mar Rosso. In mezzo a questa orrenda e tristissima calca correvano dannati nudi e spaventati, senza speranza di un rifugio o dell'elitropia: avevano le mani legate dietro la schiena da serpi, che insinuavano lungo la schiena la coda e il capo e si annodavano davanti al ventre. Ed ecco che un serpente si avventò contro un dannato che era dalla nostra parte e lo morse sulla nuca, tra collo e spalle. Non si scrissero mai una "o" né una "i" così velocemente come quello si accese e bruciò, e diventò tutto cenere cadendo a terra; e dopo essere caduto al suolo così ridotto, la cenere si raccolse da sé e il dannato riacquistò improvvisamente le sue sembianze. Così i saggi narrano che la fenice muore e poi rinasce, quando è vicina ai cinquecento anni di età; nella sua vita non si nutre di erba né di biada, ma solo di lacrime di incenso e di amomo, e il suo ultimo nido è fatto di foglie di nardo e mirra. E come colui che cade senza saperne la causa, per la forza di un demone che lo tira a terra o di un'ostruzione degli spiriti vitali, e quando si rialza si guarda intorno, tutto smarrito per il dolore che ha sofferto e guarda sospirando; così era il peccatore dopo essersi rialzato. Oh, potenza divina, quanto sei severa dal momento che assesti colpi tali per la tua vendetta! Il maestro domandò poi al dannato chi fosse, per cui rispose: «Io venni dalla Toscana in questa fossa crudele da poco tempo. Mi piacque la vita di una bestia e non di un uomo, proprio come il bastardo che fui; sono Vanni Fucci, detto la bestia, e Pistoia fu la tana dove sono vissuto». E io a Virgilio: «Digli che non scappi e chiedigli quale colpa lo ha portato quaggiù; infatti lo conobbi quand'era ancora in carne e ossa». E il dannato, che sentì, non si nascose ma anzi alzò il viso verso di me e si dipinse tristemente di vergogna; poi disse: «Mi spiace più che tu mi veda in questa misera condizione, che non di essere stato strappato dalla vita mortale. Non posso negare quello che mi chiedi; sono dannato in questa Bolgia perché commisi il furto degli arredi sacri nella sacrestia, che fu attribuito a torto ad altri. Ma affinché tu non possa godere di questa visione, se mai uscirai da questi luoghi oscuri, apri le orecchie e ascolta la mia profezia: prima Pistoia esilierà i Guelfi Neri, poi sarà Firenze a liberarsi dei Bianchi. Marte attirerà dalla Val di Magra (Lunigiana) un vapore igneo (fulmine) che sarà avvolto di nere nubi; e con una tempesta impetuosa e tremenda si combatterà nel territorio pistoiese; quindi il fulmine (Moroello Malaspina) spazzerà via la nebbia e ogni Guelfo Bianco sarà ferito. E ho detto questo per farti del male!» |