Purgatorio, Canto XII
A. Bloemart, Niobe e i suoi figli (1591)
Vedea colui che fu nobil creato
più ch'altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender da l'un lato...
Or superbite, e via col viso altero,
figliuoli d'Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentiero! ...
Menocci ove la roccia era tagliata;
quivi mi batté l'ali per la fronte;
poi mi promise sicura l'andata...
più ch'altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender da l'un lato...
Or superbite, e via col viso altero,
figliuoli d'Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentiero! ...
Menocci ove la roccia era tagliata;
quivi mi batté l'ali per la fronte;
poi mi promise sicura l'andata...
Argomento del Canto
Ancora nella I Cornice. Esempi di superbia punita; ammonimento agli uomini. Incontro con l'angelo dell'umiltà. Salita alla II Cornice.
È mezzogiorno di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
È mezzogiorno di lunedì 11 aprile (o 28 marzo) del 1300.
I due poeti lasciano i superbi (1-24)
Dante cammina chinato assieme a Oderisi da Gubbio, come se i due fossero buoi aggiogati insieme, poi Virgilio invita il discepolo a lasciare la schiera dei superbi per proseguire il cammino di espiazione. Dante torna a camminare in posizione eretta, anche se il suo atteggiamento interiore continua ad essere umile, e segue il maestro lungo la I Cornice camminando in modo assai più agile e spedito delle anime penitenti. Virgilio esorta poi Dante a guardare in basso, poiché il pavimento della Cornice potrà essergli di utile insegnamento: infatti esso presenta delle sculture del tutto simili ai coperchi di certe tombe poste nel pavimento delle chiese, istoriati con l'aspetto del defunto e tali da provocare dolore in coloro che le osservano; così è il pavimento della Cornice, con la differenza che queste sculture sono di aspetto più bello in quanto realizzate da Dio.
Esempi di superbia punita (25-63)
G. Doré, Aracne
Dante vede scolpiti sul pavimento della Cornice gli esempi di superbia punita: vede Lucifero, il più bello degli angeli, precipitare dal Cielo dopo essere stato folgorato da Dio e dall'altro lato il gigante Briareo giacere a terra morto, dopo essere stato colpito dal fulmine di Giove. Vede Apollo, Pallade, Marte armati intorno al padre Giove, mentre osservano le membra dei giganti abbattuti nella battaglia di Flegra; vede anche il gigante Nembrod, smarrito ai piedi della Torre di Babele, mentre guarda le altre genti che a Sennaàr eressero con lui la superba costruzione.
Dante vede l'esempio di Niobe, raffigurata con aspetto dolente in mezzo ai cadaveri dei quattordici figli, e quello di Saul, che si uccide gettandosi sulla propria spada a Gilboa, luogo che poi non fu più bagnato da pioggia o rugiada. Vede poi Aracne, già trasformata per metà in ragno e triste sui brandelli del tessuto che ebbe la presunzione di realizzare; vede anche Roboamo, la cui immagine non sembra minacciare ma lo raffigura mentre pieno di paura è portato via da un carro, senza che nessuno lo insegua.
Il pavimento mostra poi Alcmeone che uccide la madre, Erifile, che aveva denunciato il marito Anfiarao in cambio di un prezioso monile; Sennacherib, ucciso dai figli nel tempio e lì lasciato morto; la crudele uccisione di re Ciro da parte di Tamiri, che lo accusò di aver avuto sete del sangue di suo figlio e adesso nel sangue lo annegava; la rotta e la fuga degli Assiri, dopo l'uccisione di Oloferne da parte di Giuditta, con quel che restava della sua decapitazione. L'ultimo esempio mostra la rovina di Troia, ridotta in cenere e finalmente umiliata dopo la superbia sempre mostrata dalla città.
Dante vede l'esempio di Niobe, raffigurata con aspetto dolente in mezzo ai cadaveri dei quattordici figli, e quello di Saul, che si uccide gettandosi sulla propria spada a Gilboa, luogo che poi non fu più bagnato da pioggia o rugiada. Vede poi Aracne, già trasformata per metà in ragno e triste sui brandelli del tessuto che ebbe la presunzione di realizzare; vede anche Roboamo, la cui immagine non sembra minacciare ma lo raffigura mentre pieno di paura è portato via da un carro, senza che nessuno lo insegua.
Il pavimento mostra poi Alcmeone che uccide la madre, Erifile, che aveva denunciato il marito Anfiarao in cambio di un prezioso monile; Sennacherib, ucciso dai figli nel tempio e lì lasciato morto; la crudele uccisione di re Ciro da parte di Tamiri, che lo accusò di aver avuto sete del sangue di suo figlio e adesso nel sangue lo annegava; la rotta e la fuga degli Assiri, dopo l'uccisione di Oloferne da parte di Giuditta, con quel che restava della sua decapitazione. L'ultimo esempio mostra la rovina di Troia, ridotta in cenere e finalmente umiliata dopo la superbia sempre mostrata dalla città.
Ammonimento agli uomini (64-72)
G. Doré, Lucifero cacciato dal Cielo
Quale maestro di pittura o disegno potrebbe mai realizzare immagini così perfette come quelle viste da Dante sul pavimento della Cornice, che farebbero meravigliare un ingegno raffinato? I morti sembrano davvero morti e così i vivi, e nemmeno chi vide la scena dal vero la vide meglio di quanto abbia visto Dante finché ha osservato chino le sculture. Il poeta si rivolge ironicamente agli uomini, figli di Eva, e li esorta a continuare a camminare col viso altero e a non chinare lo sguardo, così da vedere il malvagio cammino che percorrono.
L'angelo dell'umiltà (73-99)
L'animo di Dante non si è reso conto di quanto spazio abbiano percorso né di quanto tempo sia trascorso, poiché era tutto preso da ciò che vedeva e udiva, finché Virgilio invita il discepolo ad alzare lo sguardo perché non è più tempo di camminare chinato. Il maestro indica un angelo che si avvicina e dice che è appena terminata l'ora sesta (è passato mezzogiorno). Dante deve assumere un'espressione e atteggiamenti deferenti, in modo da indurre l'angelo a farli salire alla Cornice seguente, poiché questo giorno non ritornerà mai. Dante è abitutato agli ammonimenti di Virgilio circa la necessità di non perder tempo, quindi capisce subito cosa vuol dire: vede poi l'angelo che viene verso di loro, vestito di bianco e col volto luminoso come la stella Venere al mattino. L'angelo apre le braccia e poi le ali, invitando i due poeti a venire verso i gradini della scala che agevolmente li porterà alla II Cornice. Aggiunge la considerazione che le anime si presentano di rado a quel varco, perché gli uomini, pur essendo creati per volare in alto, rivolgono facilmente i loro desideri verso il basso. L'angelo conduce poi i due poeti alla scala scavata nella roccia, colpisce la fronte di Dante con le ali e gli promette un cammino sicuro.
L'angelo dell'umiltà (73-99)
L'animo di Dante non si è reso conto di quanto spazio abbiano percorso né di quanto tempo sia trascorso, poiché era tutto preso da ciò che vedeva e udiva, finché Virgilio invita il discepolo ad alzare lo sguardo perché non è più tempo di camminare chinato. Il maestro indica un angelo che si avvicina e dice che è appena terminata l'ora sesta (è passato mezzogiorno). Dante deve assumere un'espressione e atteggiamenti deferenti, in modo da indurre l'angelo a farli salire alla Cornice seguente, poiché questo giorno non ritornerà mai. Dante è abitutato agli ammonimenti di Virgilio circa la necessità di non perder tempo, quindi capisce subito cosa vuol dire: vede poi l'angelo che viene verso di loro, vestito di bianco e col volto luminoso come la stella Venere al mattino. L'angelo apre le braccia e poi le ali, invitando i due poeti a venire verso i gradini della scala che agevolmente li porterà alla II Cornice. Aggiunge la considerazione che le anime si presentano di rado a quel varco, perché gli uomini, pur essendo creati per volare in alto, rivolgono facilmente i loro desideri verso il basso. L'angelo conduce poi i due poeti alla scala scavata nella roccia, colpisce la fronte di Dante con le ali e gli promette un cammino sicuro.
Salita alla II Cornice (100-136)
San Miniato al Monte (Firenze)
Come a Firenze, per salire al monte dove ha sede la basilica di S. Miniato che domina dall'alto la città così ben governata (detto in senso ironico) si possono usare delle scale realizzate sul fianco della montagna, costruite nel tempo in cui a Firenze non c'era la corruzione odierna, allo stesso modo la parete del Purgatorio che conduce alla II Cornice è meno ripida dove c'è la scala, ma questa è stretta tra le rocce. Mentre i due poeti si accingono a salire, sentono delle voci che cantano Beati pauperes spiritu, in modo così soave che è impossibile descriverle. Quanto sono diversi gli accessi del secondo regno rispetto a quelli dell'Inferno, visto che qui si entra accompagnati da canti e laggiù da terribili lamenti! Dante sale con grande facilità, più agevolmente di quanto non camminasse prima in pianura. Il poeta chiede a Virgilio qual è il peso di cui si è liberato, dal momento che si sente così leggero, e il maestro risponde che quando le altre sei P saranno cancellate dalla sua fronte come l'angelo ha appena fatto con la prima, i suoi piedi si muoveranno con tanta facilità che non solo non sentiranno fatica, ma proveranno piacere a salire. Allora Dante reagisce come quelli che hanno in testa qualcosa che non vedono e di cui si accorgono grazie ai cenni altrui, per cui si toccano il capo e scoprono al tatto ciò che non possono vedere con la vista. Egli infatti si tocca la fronte e sente solo le sei lettere rimaste, cosa che induce Virgilio a sorridere.
Interpretazione complessiva
Il Canto è simmetricamente diviso in due parti, di cui la prima chiude l'ampio episodio dedicato alla superbia mostrando gli esempi di questo peccato punito, mentre la seconda ci introduce alla Cornice successiva con la descrizione dell'angelo dell'umiltà e l'accesso alla scala che consente ai due poeti di salire. Gli esempi di superbia punita sono anch'essi scolpiti come quelli di umiltà del Canto X, con la differenza che questi effigiano il pavimento della Cornice e costringono Dante e i superbi a calpestarli, in segno spregiativo rispetto alla presunzione dei personaggi raffigurati: si tratta anche in questo caso di opere d'arte straordinarie, realizzate dalla mano di Dio e perciò incredibilmente più realistiche di qualunque scultura prodotta da un artista umano, il che chiude l'ampio discorso intorno all'arte che ha occupato buona parte dei Canti X-XI. L'insolita ampiezza degli esempi si spiega con la gravità del peccato di superbia, lo stesso compiuto da Lucifero nella sua ribellione a Dio e che ha così originato il male del peccato che affligge il mondo: si tratta di ben tredici esempi, che occupano altrettante terzine e sono tratti quasi in egual misura dal mito classico e dalla tradizione biblica; le prime dodici terzine sono disposte in tre gruppi di quattro e iniziano rispettivamente con le lettere V, O, M, come i versi dell'ultima terzina, a formare l'acrostico VOM («uomo», l'essere soggetto a questo peccato: e infatti la conclusione di questa prima parte è un ironico e antifrastico invito agli uomini, detti figliuoli d'Eva, a continuare a camminare a testa alta, invece di chinare lo sguardo per capire quanto sia sbagliato il cammino intrapreso).
Il primo esempio è proprio quello di Lucifero, precipitato dal Cielo dopo la sua folle ribellione a Dio dovuta a invidia e superbia e la cui vicenda era spesso accostata alla analoga ribellione dei giganti della mitologia classica: infatti gli altri due esempi sono tratti dalla Titanomachia, con Briareo fulminato da Giove e direttamente contrapposto a Lucifero, e poi con gli altri giganti sconfitti e uccisi dagli dei dopo la battaglia di Flegra (a loro è fatto seguire Nembrod, il personaggio biblico erroneamente interpretato come un gigante e quale autore della costruzione della Torre di Babele, episodio fin troppo simile alla ribellione dei giganti classici e perciò a questa assimilato). Gli altri esempi accostano ugualmente personaggi tratti dalla tradizione classica e da quella biblica, spesso protagonisti di folli sfide o oltraggi verso la divinità: è il caso di Niobe, che irrise Latona per la sua scarsa prole e fu punita con la morte dei quattordici figli, di Aracne, che sfidò Atena nella tessitura e fu tramutata in ragno, di Saul, che incorse nell'ira di Dio per la sua arroganza, del re assiro Sennacherib, che disprezzò il Dio di Israele beffandosi della fiducia che Ezechia riponeva in lui. Gli altri episodi sono rimarchevoli per l'esemplarità del castigo, come Erifile uccisa dal figlio Alcmeone per vendicare il padre, o il re persiano Ciro ucciso dalla regina Tamiri per vendicare la morte del figlio, o ancora l'esercito assiro sconfitto dopo che Giuditta decapitò Oloferne. L'ultimo esempio è classico (quello di Troia ridotta in cenere alla fine della lunga guerra), riassumendo in modo clamoroso il triste destino di una città che aveva dominato l'Asia Minore e che pagò la sua presunzione con la totale distruzione.
Più distesa la seconda parte del Canto, in cui Dante, dopo la considerazione che il tempo è trascorso senza che lui se ne sia accorto (in maniera analoga all'inizio del Canto IV), è invitato dal maestro ad affrettarsi a raggiungere l'accesso alla II Cornice in quanto è ormai passato mezzogiorno. È l'angelo dell'umiltà a indirizzare i due poeti verso la scala, non prima di aver cancellato dalla fronte di Dante la prima P corrispondente al primo peccato capitale espiato: l'angelo sottolinea che ben di rado delle anime passano da lì per salire alla Cornice successiva, considerazione che è analoga alla difficoltà con cui l'angelo guardiano aveva aperto la porta del Purgatorio. Dante si sofferma sulla maggiore facilità dell'ascesa, come se si fosse liberato da un peso: ciò conferma quanto detto da Virgilio circa la salita del monte (IV, 85-96) e dà modo a Dante di spiegare con la vivace similitudine finale il fatto che la prima P sia stata cancellata, il che ricorda che il suo percorso, qui nel Purgatorio, è soprattutto un cammino di purificazione. Notevole ed elaborata, infine, la similitudine che descrive la scala con l'immagine di quelle che conducono alla basilica di San Miniato al Monte, sopra Firenze: al di là dell'indicazione geografica, analoga ad altre simili già viste nei primi Canti del Purgatorio (cfr. III, 49-51; IV, 25-27), è da notare l'antifrasi di Firenze indicata come la ben guidata, con ovvio riferimento al malgoverno dei Neri dopo il 1302, nonché la rievocazione dei tempi antichi in cui la città non conosceva gli episodi di corruzione di fine Duecento (è il riferimento al quaderno e alla doga che un tempo erano sicure, non essendoci casi di corruzione in campo giudiziario o fra le magistrature comunali: la rievocazione dell'antica Firenze tornerà in Par., XVI, nelle parole anch'esse nostalgiche dell'avo Cacciaguida).
Il primo esempio è proprio quello di Lucifero, precipitato dal Cielo dopo la sua folle ribellione a Dio dovuta a invidia e superbia e la cui vicenda era spesso accostata alla analoga ribellione dei giganti della mitologia classica: infatti gli altri due esempi sono tratti dalla Titanomachia, con Briareo fulminato da Giove e direttamente contrapposto a Lucifero, e poi con gli altri giganti sconfitti e uccisi dagli dei dopo la battaglia di Flegra (a loro è fatto seguire Nembrod, il personaggio biblico erroneamente interpretato come un gigante e quale autore della costruzione della Torre di Babele, episodio fin troppo simile alla ribellione dei giganti classici e perciò a questa assimilato). Gli altri esempi accostano ugualmente personaggi tratti dalla tradizione classica e da quella biblica, spesso protagonisti di folli sfide o oltraggi verso la divinità: è il caso di Niobe, che irrise Latona per la sua scarsa prole e fu punita con la morte dei quattordici figli, di Aracne, che sfidò Atena nella tessitura e fu tramutata in ragno, di Saul, che incorse nell'ira di Dio per la sua arroganza, del re assiro Sennacherib, che disprezzò il Dio di Israele beffandosi della fiducia che Ezechia riponeva in lui. Gli altri episodi sono rimarchevoli per l'esemplarità del castigo, come Erifile uccisa dal figlio Alcmeone per vendicare il padre, o il re persiano Ciro ucciso dalla regina Tamiri per vendicare la morte del figlio, o ancora l'esercito assiro sconfitto dopo che Giuditta decapitò Oloferne. L'ultimo esempio è classico (quello di Troia ridotta in cenere alla fine della lunga guerra), riassumendo in modo clamoroso il triste destino di una città che aveva dominato l'Asia Minore e che pagò la sua presunzione con la totale distruzione.
Più distesa la seconda parte del Canto, in cui Dante, dopo la considerazione che il tempo è trascorso senza che lui se ne sia accorto (in maniera analoga all'inizio del Canto IV), è invitato dal maestro ad affrettarsi a raggiungere l'accesso alla II Cornice in quanto è ormai passato mezzogiorno. È l'angelo dell'umiltà a indirizzare i due poeti verso la scala, non prima di aver cancellato dalla fronte di Dante la prima P corrispondente al primo peccato capitale espiato: l'angelo sottolinea che ben di rado delle anime passano da lì per salire alla Cornice successiva, considerazione che è analoga alla difficoltà con cui l'angelo guardiano aveva aperto la porta del Purgatorio. Dante si sofferma sulla maggiore facilità dell'ascesa, come se si fosse liberato da un peso: ciò conferma quanto detto da Virgilio circa la salita del monte (IV, 85-96) e dà modo a Dante di spiegare con la vivace similitudine finale il fatto che la prima P sia stata cancellata, il che ricorda che il suo percorso, qui nel Purgatorio, è soprattutto un cammino di purificazione. Notevole ed elaborata, infine, la similitudine che descrive la scala con l'immagine di quelle che conducono alla basilica di San Miniato al Monte, sopra Firenze: al di là dell'indicazione geografica, analoga ad altre simili già viste nei primi Canti del Purgatorio (cfr. III, 49-51; IV, 25-27), è da notare l'antifrasi di Firenze indicata come la ben guidata, con ovvio riferimento al malgoverno dei Neri dopo il 1302, nonché la rievocazione dei tempi antichi in cui la città non conosceva gli episodi di corruzione di fine Duecento (è il riferimento al quaderno e alla doga che un tempo erano sicure, non essendoci casi di corruzione in campo giudiziario o fra le magistrature comunali: la rievocazione dell'antica Firenze tornerà in Par., XVI, nelle parole anch'esse nostalgiche dell'avo Cacciaguida).
La concezione dell'arte nel Purgatorio.
W. Blake, Gli esempi della I Cornice
Nella II Cantica emerge in diversi episodi una concezione dell'arte molto lontana da quella rinascimentale e moderna, in quanto Dante riconduce l'opera d'arte a una funzione esclusivamente didattica e pedagogica e respinge con forza ogni finalità edonistica, come invece avverrà in modo consueto nei secc. XV-XVI. L'arte (sia quella figurativa come la scultura o la pittura, sia la poesia e la musica) ha per l'uomo medievale come unico scopo l'insegnamento della parola di Dio, deve cioè guidarlo nel suo cammino di redenzione e non dargli piacere distogliendolo dalla preoccupazione per il suo destino ultraterreno: in questo senso va letto il duro rimprovero che Catone rivolge a Dante, Virgilio e alle altre anime che si attardano ad ascoltare il canto di Casella, come a nessun toccasse altro la mente e scordandosi di iniziare il loro percorso di purificazione (Purg., II, 115 ss.). Le anime sono colpevoli in quanto il loro cuore si è acquietato abbandonandosi all'ascolto della musica, mentre il cuore del cristiano deve sempre essere inquietum e teso alla faticosa conquista della salvezza, per cui ogni distrazione rappresentata dall'arte è vista come un ostacolo sulla via della beatitudine (la musica, come si vedrà, sarà parte della rappresentazione del Paradiso, ma in quanto funzionale alla descrizione della pace eterna di quel regno e non certo come espressione di qualcosa che fornisce piacere all'anima di per se stessa).
Dante rifiuta quindi il concetto tipicamente rinascimentale di ars gratia artis, dell'arte per l'arte, in quanto essa deve fornire utili ammaestramenti all'uomo in campo escatologico, e allo stesso modo è respinta la concezione, essa pure tipica del Cinquecento, di un'arte che imita perfettamente la natura, tanto da considerare l'artista (specie il pittore e lo scultore) come una sorta di «demiurgo». Solo Dio è in grado di riprodurre fedelmente lo spettacolo naturale, quindi l'artista che si mettesse a gareggiare con Lui peccherebbe di superbia intellettuale e rischierebbe la salvezza: è l'idea centrale nei Canti che descrivono la I Cornice del Purgatorio, in cui gli esempi di virtù premiata e vizio punito sono scolpiti su bassorilievi in marmo e, in quanto prodotto dell'arte divina, sono incredibilmente superiori a qualunque opera scultorea degli uomini. Le immagini sono così realistiche che traggono in inganno i sensi e inducono Dante a credere di sentir parlare i personaggi, di percepire l'odore dell'incenso (X, 28 ss.): ciò è possibile in quanto Dio è l'autore di questo visibile parlare, mentre più avanti Dante osserva che nessun maestro di disegno o pittura sarebbe mai in grado di realizzare immagini così vive, tanto che neppure chi vide la scena reale la percepì meglio di lui di fronte alle sculture (XII, 64-69). Per Dante sarebbe dunque sembrato blasfemo l'atteggiamento di Michelangelo di fronte al Mosè appena scolpito, quando secondo una nota leggenda avrebbe esclamato «Perché mi guardi e non favelli?», colpito dalla perfetta verosimiglianza della scultura realizzata; questo sarà tuttavia l'atteggiamento proprio dell'arte del Rinascimento, che riprenderà quella dell'arte classica in cui era perfettamente normale esaltare l'abilità dell'artista in quanto capace di imitare in modo realistico la realtà (Anchise in Aen., VI, 847-848 parlava di popoli come i Greci capaci di scolpire spirantia... aera, «bronzi in grado di respirare» e vivos... de marmore vultus, «volti in marmo che sembrano vivi»). Del resto lo stesso proemio alla II Cantica conteneva un duro richiamo alla superbia dell'artista che pretende di gareggiare con la divinità, attraverso l'esempio classico delle Pieridi trasformate in gazze per aver sfidato le Muse nel canto; e l'insistenza riservata da Dante al peccato di superbia e alla Cornice in cui questo è punito si spiega anche per la considerazione della superbia in campo artistico, in cui il poeta si sentiva direttamente coinvolto come l'ampio discorso di Oderisi da Gubbio del Canto XI dimostra.
Dante rifiuta quindi il concetto tipicamente rinascimentale di ars gratia artis, dell'arte per l'arte, in quanto essa deve fornire utili ammaestramenti all'uomo in campo escatologico, e allo stesso modo è respinta la concezione, essa pure tipica del Cinquecento, di un'arte che imita perfettamente la natura, tanto da considerare l'artista (specie il pittore e lo scultore) come una sorta di «demiurgo». Solo Dio è in grado di riprodurre fedelmente lo spettacolo naturale, quindi l'artista che si mettesse a gareggiare con Lui peccherebbe di superbia intellettuale e rischierebbe la salvezza: è l'idea centrale nei Canti che descrivono la I Cornice del Purgatorio, in cui gli esempi di virtù premiata e vizio punito sono scolpiti su bassorilievi in marmo e, in quanto prodotto dell'arte divina, sono incredibilmente superiori a qualunque opera scultorea degli uomini. Le immagini sono così realistiche che traggono in inganno i sensi e inducono Dante a credere di sentir parlare i personaggi, di percepire l'odore dell'incenso (X, 28 ss.): ciò è possibile in quanto Dio è l'autore di questo visibile parlare, mentre più avanti Dante osserva che nessun maestro di disegno o pittura sarebbe mai in grado di realizzare immagini così vive, tanto che neppure chi vide la scena reale la percepì meglio di lui di fronte alle sculture (XII, 64-69). Per Dante sarebbe dunque sembrato blasfemo l'atteggiamento di Michelangelo di fronte al Mosè appena scolpito, quando secondo una nota leggenda avrebbe esclamato «Perché mi guardi e non favelli?», colpito dalla perfetta verosimiglianza della scultura realizzata; questo sarà tuttavia l'atteggiamento proprio dell'arte del Rinascimento, che riprenderà quella dell'arte classica in cui era perfettamente normale esaltare l'abilità dell'artista in quanto capace di imitare in modo realistico la realtà (Anchise in Aen., VI, 847-848 parlava di popoli come i Greci capaci di scolpire spirantia... aera, «bronzi in grado di respirare» e vivos... de marmore vultus, «volti in marmo che sembrano vivi»). Del resto lo stesso proemio alla II Cantica conteneva un duro richiamo alla superbia dell'artista che pretende di gareggiare con la divinità, attraverso l'esempio classico delle Pieridi trasformate in gazze per aver sfidato le Muse nel canto; e l'insistenza riservata da Dante al peccato di superbia e alla Cornice in cui questo è punito si spiega anche per la considerazione della superbia in campo artistico, in cui il poeta si sentiva direttamente coinvolto come l'ampio discorso di Oderisi da Gubbio del Canto XI dimostra.
Note e passi controversi
Alcuni mss. leggono al v. 5 con la vela e coi remi, che è considerata «lectio facilior» (Dante segue probabilmente Virgilio, Aen., III, 520: velorum pandimus alas).
Le tombe terragne del v. 17 sono le sepolture sotto il pavimento di chiese e conventi che un tempo erano assai diffuse, tanto che saranno citate anche da Foscolo nei Sepolcri (104 ss.).
L'espressione dà delle calcagne (v. 21) vuol dire letteralmente «dà di sprone», quindi «pungola».
Apollo è detto Timbreo al v. 31 per il culto praticato a lui a Timbra, nella Troade.
Sennaàr (v. 36) era la pianura vicino a Babilonia dove si iniziò a costruire la Torre, secondo il racconto biblico.
Il v. 42 allude alla maledizione scagliata da David contro la località di Gelboè (Gilboa), dopo la morte di Saul, che non avrebbe più ricevuto pioggia e sarebbe stata sterile.
Alcmeone (v. 50) era figlio di Anfiarao, l'indovino morto nella guerra di Tebe e incluso da Dante fra gli indovini della IV Bolgia (Inf., XX, 31-36).
Nei vv. 55-57 Dante segue strettamente il racconto dello storico Paolo Orosio (Hist., II, 7), secondo il quale Tamiri disse a Ciro: Satia te sanguine quem sitisti («saziati del sangue di cui fosti assetato»).
Le reliquie del martiro (v. 60) indicano il tronco decapitato di Oloferne, e non il massacro degli Assiri.
Maestro... di stile (v. 64) indica il disegnatore, poiché lo «stile» era un'asticciola metallica che serviva per disegnare: alcuni hanno pensato allo scultore, ma stile non può indicare lo scalpello; altri ancora hanno ipotizzato che gli esempi siano non scolpiti ma disegnati, però il paragone con le tombe terragne lo esclude. Le ombre e' tratti del v. 65 indicano probabilmente le figure e i loro lineamenti, senza bisogno di pensare a effetti di chiaroscuro.
Alcuni editori attribuiscono i vv. 94-96 a Dante e non all'angelo, ma sembra più probabile che sia l'angelo a osservare la scarsità delle anime che passano da quel varco.
I vv. 104-105 alludono a due gravi fatti di corruzione avvenuti a Firenze alla fine del XIII sec. Il primo ebbe come protagonista Niccolò Acciaioli, assolto in un processo grazie a una falsa testimonianza ammessa dal podestà Monfiorito di Coderda che poi confessò la colpa: l'Acciaioli fu eletto priore e, approfittando della carica, prese gli atti del processo (il quaderno) e cancellò la falsa testimonianza, cosa che fu scoperta e denunciata (l'uomo fu arrestato). Il secondo episodio riguarda Durante Chiaramontesi, frate della penitenza, che fu sovrintendente per la vendita del sale e alterò la misura ufficiale dello staio, togliendo da esso una doga di legno e arricchendosi (fu condannato a morte).
L'aggettivo scempie (v. 133) è stato variamente interpretato, ma forse è aggettivo riferito alle dita e vuol dire «staccate l'una dall'altra».
Le tombe terragne del v. 17 sono le sepolture sotto il pavimento di chiese e conventi che un tempo erano assai diffuse, tanto che saranno citate anche da Foscolo nei Sepolcri (104 ss.).
L'espressione dà delle calcagne (v. 21) vuol dire letteralmente «dà di sprone», quindi «pungola».
Apollo è detto Timbreo al v. 31 per il culto praticato a lui a Timbra, nella Troade.
Sennaàr (v. 36) era la pianura vicino a Babilonia dove si iniziò a costruire la Torre, secondo il racconto biblico.
Il v. 42 allude alla maledizione scagliata da David contro la località di Gelboè (Gilboa), dopo la morte di Saul, che non avrebbe più ricevuto pioggia e sarebbe stata sterile.
Alcmeone (v. 50) era figlio di Anfiarao, l'indovino morto nella guerra di Tebe e incluso da Dante fra gli indovini della IV Bolgia (Inf., XX, 31-36).
Nei vv. 55-57 Dante segue strettamente il racconto dello storico Paolo Orosio (Hist., II, 7), secondo il quale Tamiri disse a Ciro: Satia te sanguine quem sitisti («saziati del sangue di cui fosti assetato»).
Le reliquie del martiro (v. 60) indicano il tronco decapitato di Oloferne, e non il massacro degli Assiri.
Maestro... di stile (v. 64) indica il disegnatore, poiché lo «stile» era un'asticciola metallica che serviva per disegnare: alcuni hanno pensato allo scultore, ma stile non può indicare lo scalpello; altri ancora hanno ipotizzato che gli esempi siano non scolpiti ma disegnati, però il paragone con le tombe terragne lo esclude. Le ombre e' tratti del v. 65 indicano probabilmente le figure e i loro lineamenti, senza bisogno di pensare a effetti di chiaroscuro.
Alcuni editori attribuiscono i vv. 94-96 a Dante e non all'angelo, ma sembra più probabile che sia l'angelo a osservare la scarsità delle anime che passano da quel varco.
I vv. 104-105 alludono a due gravi fatti di corruzione avvenuti a Firenze alla fine del XIII sec. Il primo ebbe come protagonista Niccolò Acciaioli, assolto in un processo grazie a una falsa testimonianza ammessa dal podestà Monfiorito di Coderda che poi confessò la colpa: l'Acciaioli fu eletto priore e, approfittando della carica, prese gli atti del processo (il quaderno) e cancellò la falsa testimonianza, cosa che fu scoperta e denunciata (l'uomo fu arrestato). Il secondo episodio riguarda Durante Chiaramontesi, frate della penitenza, che fu sovrintendente per la vendita del sale e alterò la misura ufficiale dello staio, togliendo da esso una doga di legno e arricchendosi (fu condannato a morte).
L'aggettivo scempie (v. 133) è stato variamente interpretato, ma forse è aggettivo riferito alle dita e vuol dire «staccate l'una dall'altra».
Testo Di pari, come buoi che vanno a giogo,
m’andava io con quell’anima carca, fin che ‘l sofferse il dolce pedagogo. 3 Ma quando disse: «Lascia lui e varca; ché qui è buono con l’ali e coi remi, quantunque può, ciascun pinger sua barca»; 6 dritto sì come andar vuolsi rife’mi con la persona, avvegna che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi. 9 Io m’era mosso, e seguia volontieri del mio maestro i passi, e amendue già mostravam com’eravam leggeri; 12 ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe: buon ti sarà, per tranquillar la via, veder lo letto de le piante tue». 15 Come, perché di lor memoria sia, sovra i sepolti le tombe terragne portan segnato quel ch’elli eran pria, 18 onde lì molte volte si ripiagne per la puntura de la rimembranza, che solo a’ pii dà de le calcagne; 21 sì vid’io lì, ma di miglior sembianza secondo l’artificio, figurato quanto per via di fuor del monte avanza. 24 Vedea colui che fu nobil creato più ch’altra creatura, giù dal cielo folgoreggiando scender, da l’un lato. 27 Vedea Briareo, fitto dal telo celestial giacer, da l’altra parte, grave a la terra per lo mortal gelo. 30 Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, mirar le membra d’i Giganti sparte. 33 Vedea Nembròt a piè del gran lavoro quasi smarrito, e riguardar le genti che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro. 36 O Niobè, con che occhi dolenti vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti! 39 O Saùl, come in su la propria spada quivi parevi morto in Gelboè, che poi non sentì pioggia né rugiada! 42 O folle Aragne, sì vedea io te già mezza ragna, trista in su li stracci de l’opera che mal per te si fé. 45 O Roboàm, già non par che minacci quivi ‘l tuo segno; ma pien di spavento nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci. 48 Mostrava ancor lo duro pavimento come Almeon a sua madre fé caro parer lo sventurato addornamento. 51 Mostrava come i figli si gittaro sovra Sennacherìb dentro dal tempio, e come, morto lui, quivi il lasciaro. 54 Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio che fé Tamiri, quando disse a Ciro: «Sangue sitisti, e io di sangue t’empio». 57 Mostrava come in rotta si fuggiro li Assiri, poi che fu morto Oloferne, e anche le reliquie del martiro. 60 Vedeva Troia in cenere e in caverne; o Ilión, come te basso e vile mostrava il segno che lì si discerne! 63 Qual di pennel fu maestro o di stile che ritraesse l’ombre e’ tratti ch’ivi mirar farieno uno ingegno sottile? 66 Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero, quant’io calcai, fin che chinato givi. 69 Or superbite, e via col viso altero, figliuoli d’Eva, e non chinate il volto sì che veggiate il vostro mal sentero! 72 Più era già per noi del monte vòlto e del cammin del sole assai più speso che non stimava l’animo non sciolto, 75 quando colui che sempre innanzi atteso andava, cominciò: «Drizza la testa; non è più tempo di gir sì sospeso. 78 Vedi colà un angel che s’appresta per venir verso noi; vedi che torna dal servigio del dì l’ancella sesta. 81 Di reverenza il viso e li atti addorna, sì che i diletti lo ‘nviarci in suso; pensa che questo dì mai non raggiorna!». 84 Io era ben del suo ammonir uso pur di non perder tempo, sì che ‘n quella materia non potea parlarmi chiuso. 87 A noi venìa la creatura bella, biancovestito e ne la faccia quale par tremolando mattutina stella. 90 Le braccia aperse, e indi aperse l’ale; disse: «Venite: qui son presso i gradi, e agevolemente omai si sale. 93 A questo invito vegnon molto radi: o gente umana, per volar sù nata, perché a poco vento così cadi?». 96 Menocci ove la roccia era tagliata; quivi mi batté l’ali per la fronte; poi mi promise sicura l’andata. 99 Come a man destra, per salire al monte dove siede la chiesa che soggioga la ben guidata sopra Rubaconte, 102 si rompe del montar l’ardita foga per le scalee che si fero ad etade ch’era sicuro il quaderno e la doga; 105 così s’allenta la ripa che cade quivi ben ratta da l’altro girone; ma quinci e quindi l’alta pietra rade. 108 Noi volgendo ivi le nostre persone, ‘Beati pauperes spiritu!’ voci cantaron sì, che nol diria sermone. 111 Ahi quanto son diverse quelle foci da l’infernali! ché quivi per canti s’entra, e là giù per lamenti feroci. 114 Già montavam su per li scaglion santi, ed esser mi parea troppo più lieve che per lo pian non mi parea davanti. 117 Ond’io: «Maestro, dì, qual cosa greve levata s’è da me, che nulla quasi per me fatica, andando, si riceve?». 120 Rispuose: «Quando i P che son rimasi ancor nel volto tuo presso che stinti, saranno, com’è l’un, del tutto rasi, 123 fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, che non pur non fatica sentiranno, ma fia diletto loro esser sù pinti». 126 Allor fec’io come color che vanno con cosa in capo non da lor saputa, se non che ‘ cenni altrui sospecciar fanno; 129 per che la mano ad accertar s’aiuta, e cerca e truova e quello officio adempie che non si può fornir per la veduta; 132 e con le dita de la destra scempie trovai pur sei le lettere che ‘ncise quel da le chiavi a me sovra le tempie: a che guardando, il mio duca sorrise. 136 |
ParafrasiIo procedevo affiancato a quell'anima curva sotto il peso del masso, come due buoi aggiogati, finché Virgilio lo tollerò.
Ma quando disse: «Lascialo e passa oltre; infatti qui è bene che ognuno spinga la sua barca, meglio che può, con vele e remi»; tornai a drizzare la mia figura come quando si cammina, anche se i miei pensieri restarono umili e prostrati. Io mi ero mosso, e seguivo volentieri i passi del mio maestro, e entrambi ormai mostravamo di essere spediti; e lui mi disse: «Abbassa gli occhi a terra: ti sarà utile, per rasserenare il tuo cammino, vedere dove poggi i piedi». Come le tombe scavate a terra portano sopra i sepolti dei coperchi con l'effigie dei defunti, per ricordarli, per cui spesso lì si ha nostalgia dei propri cari per il dolore del ricordo che stimola solo gli uomini devoti; così io vidi scolpito il pavimento della Cornice che sporge dal monte, ma in modo più raffinato perché era opera di Dio. Vedevo da una parte colui (Lucifero) che fu creato più nobile di ogni altra creatura, che cadeva giù dal Cielo colpito dalla folgore. Vedevo dall'altra parte Briareo che giaceva dopo essere stato colpito dal fulmine di Giove, pesante a terra e gelato dalla morte. Vedevo Apollo, Atena, Marte, ancora armati e intorno al loro padre Giove, che osservavano le membra sparse dei giganti. Vedevo Nembrod ai piedi della grande opera (la Torre di Babele) quasi smarrito, che guardava le genti che furono superbe insieme a lui a Sennaàr. O Niobe, con quali occhi addolorati ti vedevo scolpita sulla strada, tra i tuoi quattordici figli uccisi! O Saul, come sembravi morto, lì nella scultura, sulla tua spada a Gelboè, dove in seguito non cadde pioggia né rugiada! O folle Aracne, ti vedevo già mezza tramutata in ragno, triste sugli stracci dell'opera che tu producesti a tuo danno. O Roboamo, qui la tua immagine non sembra minacciare, ma appare piena di spaventato e portata via da un carro, senza che qualcuno la insegua. Il duro pavimento mostrava ancora come Alcmeone fece apparire prezioso a sua madre (Erifile) lo sventurato monile. Mostrava come i figli si scagliarono contro Sennacherib, nel tempio, e come lo lasciarono qui dopo averlo ucciso. Mostrava la rovina e il crudele scempio che Tamiri fece di Ciro, quando gli disse: «Hai avuto sete di sangue e io di sangue ti riempio». Mostrava come gli Assiri fuggirono in rotta, dopo che Oloferne fu ucciso (da Giuditta), e anche ciò che restava del suo tronco decapitato. Vedevo Troia ridotta in cenere e rovine; o Ilio, come ti mostrava bassa e vile la scultura che si vede lì! Quale maestro di pittura o disegno ci fu mai, capace di ritrarre le figure e i tratti che lì, in Purgatorio, farebbero meravigliare un ingegno raffinato? I morti sembravano morti e i vivi sembravano vivi: chi vide la scena reale non vide meglio di me, finché osservai chinato le scene scolpite che calpestavo. Allora insuperbite, figli di Eva, e andate avanti col viso altero, e non chinate lo sguardo per vedere il vostro cammino malvagio! Avevamo percorso un maggior tratto del monte e speso una parte più ampia della giornata, di quanto non realizzasse il mio animo concentrato, quando colui che andava avanti sempre attento, mi disse: «Alza la testa; non è più tempo di camminare con lo sguardo a terra. Vedi là un angelo che si accinge a venire verso di noi; vedi che l'ora sesta torna dopo aver compiuto il suo servizio al giorno (è passato mezzogiorno). Rendi riverenti il tuo viso e i gesti, così che ci indirizzi volentieri verso l'alto; pensa che questo giorno non tornerà mai!» Io ero abituato a questi ammonimenti per non perder tempo, così che su quell'argomento non poteva parlarmi in modo oscuro. La bella creatura veniva verso di noi, vestita di bianco e col volto che brillava come la stella del mattino. Aprì le braccia, quindi spalancò le ali; disse: «Venite: i gradini sono qui vicino, e ormai si sale agevolmente. Poche anime raccolgono questo invito: o uomini, nati per volare in alto, perché cadete in basso per qualunque alito di vento?» Ci condusse dove la roccia era tagliata; qui mi colpì la fronte con le ali; poi mi promise un cammino sicuro. Come sul lato destro, per salire al monte dove sorge la chiesa (S. Miniato) che domina la città ben governata (Firenze) sopra Rubaconte, la ripida parete diventa più lieve grazie a delle scale che furono costruite in un'epoca in cui il quaderno e la doga erano più sicure; così la parete del monte, che cade ripidissima dall'altra Cornice, diventa più dolce, ma l'alta roccia la stringe da una parte e dall'altra. Mentre noi ci accingevamo a salire, delle voci cantarono 'Beati i poveri di spirito', in modo così soave che sarebbe impossibile descriverlo a parole. Ah, quanto sono diversi quegli accessi da quelli dell'Inferno! infatti qui si entra accolti da canti, laggiù da feroci lamenti. Ormai salivamo su per quelle scale sante, e mi sembrava di essere assi più leggero di quanto non fossi prima quando camminavo in pianura. Allora dissi: «Maestro, dimmi: quale peso è stato levato da me, così che mentre procedo non sento quasi nessuna fatica?» Mi rispose: «Quando le P che sono rimaste ancora sulla tua fronte, sia pure sbiadite, saranno cancellate come lo è stata la prima, i tuoi piedi saranno vinti dalla buona volontà al punto che non solo non sentiranno fatica, ma proveranno piacere a essere spinti in alto». Allora io feci come quelli che vanno con qualcosa in testa che non sanno, se non perché altri gli fanno dei gesti che glielo fanno immaginare; per cui la mano va ad accertarsi e cerca e trova e svolge quel compito che non può essere compiuto dalla vista; e con le dita della mano destra staccate l'una dall'altra trovai solo sei delle lettere che l'angelo guardiano mi aveva inciso sopra le tempie: e vedendo tutto ciò, il mio maestro sorrise. |