Inferno, Canto XXII
G. Stradano, I barattieri (1587)
Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni...
Tra male gatte era venuto 'l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: "State in là, mentr'io lo 'nforco"...
Ma l'altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno...
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni...
Tra male gatte era venuto 'l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: "State in là, mentr'io lo 'nforco"...
Ma l'altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno...
Argomento del Canto
I dieci diavoli dei Malebranche scortano Dante e Virgilio lungo l'argine della V Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge). Incontro con Ciampòlo di Navarra, uno dei barattieri, che indica altri dannati (frate Gomita e Michele Zanche). Inganno di Ciampòlo ai danni dei diavoli. Fuga dei due poeti.
È la mattina di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, tra le sette e le otto.
È la mattina di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300, tra le sette e le otto.
Dante e Virgilio camminano coi diavoli (1-30)
Dante commenta lo sconcio segnale di Barbariccia osservando che ha già visto cavalieri mettersi in marcia, attaccare battaglia o battere in ritirata, e ha visto cavalieri compiere scorribande e giostrare in tornei, obbedendo a segnali fatti con trombe, tamburi, campane, fuochi: mai, però, ha sentito un segnale come quello scurrile prodotto dal diavolo. Dante e Virgilio procedono guidati dai Malebranche, mentre il poeta osserva la pece cercando di scorgere i peccatori all'interno. Ne vede alcuni che ermergono solo con il dorso, come i delfini quando nuotano in mare nelle vicinanze delle navi, pronti a tornare sotto quando si avvicina Barbariccia (li paragona anche a delle rane che sporgono dall'acqua solo il muso e tengono il resto del corpo nascosto).
Ciampòlo di Navarra (31-63)
Anonimo pisano, miniatura del 1345 ca.
Uno dei dannati è meno rapido di altri a tornare sotto la pece e Graffiacane, che gli è proprio di fronte, è lesto ad afferrarlo per i capelli con l'uncino e a tirarlo su come una lontra (Dante conosce i nomi dei dieci diavoli perché ha sentito Malacoda mentre li nominava). Tutti i demoni esortano Rubicante a scuoiare il dannato con gli artigli, ma Dante chiede a Virgilio se può domandare al malcapitato quale sia il suo nome. Virgilio si avvicina e glielo chiede, quindi il dannato risponde di essere originario del regno di Navarra, nato da uno scialacquatore suicida e posto dalla madre a servizio di un signore. Dice di essere stato alla corte di re Tebaldo II, dove commise molte baratterie che gli hanno causato la dannazione. Il suo racconto è interrotto da Ciriatto che lo azzanna, ma poi Barbariccia lo protegge con le braccia e intima ai compagni di lasciarlo a lui perché lo infilzi con l'uncino. Il diavolo si rivolge a Virgilio e lo esorta a chiedere altro al dannato, prima che venga straziato.
Altri barattieri: frate Gomìta e Michel Zanche (64-93)
Virgilio si affretta a domandare al dannato se con lui ci siano degli italiani e lui risponde che si è separato da poco da un barattiere, rammaricandosi di essere finito tra gli uncini dei Malebranche. Libicocco è impaziente e colpisce il dannato con l'uncino, straziandogli un braccio; anche Draghignazzo lo ferisce alle gambe, ma Barbariccia intima loro con un'occhiataccia di star fermi. I diavoli si acquietano e Virgilio domanda al dannato chi sia il compagno di pena da cui si è separato. Il barattiere risponde che è frate Gomìta, governatore della Gallura e maestro di inganni, che ebbe in suo potere i nemici del suo signore (Nino Visconti) e li liberò in cambio di denaro, non tralasciando di compiere altre baratterie. Insieme a lui c'è anche Michel Zanche, già governatore di Logudoro, che parla sempre della Sardegna con il frate. Il dannato direbbe di più, ma teme che uno dei Malebranche (Farfarello) sia pronto a infliggergli tormenti.
L'inganno di Ciampòlo (94-132)
G. Doré, Ciampòlo di Navarra
Barbariccia si rivolge a Farfarello e lo invita bruscamente a farsi in là, quindi il dannato pieno di timore dice che se Dante e Virgilio vogliono vedere dei toscani e dei lombardi tra i barattieri lui potrà richiarmarli con un segnale convenuto, purché i demoni stiano un po' indietro. Cagnazzo scuote il capo e afferma che questo è un inganno escogitato dal peccatore per cavarsi d'impaccio, ma il barattiere ribatte che sarebbe davvero troppo malizioso a mettere in piedi una beffa per accrescere la pena dei suoi compagni. Alichino minaccia il navarrese che, se tenterà di scappare, lo inseguirà volando e non correndo, quindi esorta gli altri diavoli a lasciarlo libero e a nascondersi dietro l'argine che strapiomba nella VI Bolgia, in modo che i dannati nella pece non possano vederli. Tutti i demoni obbediscono ad Alichino e lasciano il navarrese, che ne approfitta per saltare via e immergersi sotto la pece. I Malebranche si pentono dell'errore e Alichino si getta all'inseguimento volando sulla superficie della pece, non riuscendo però ad afferrare il dannato come il falcone non riesce a ghermire l'anatra che si immerge sott'acqua.
La zuffa dei demoni (133-151)
Calcabrina, infuriato contro Alichino, vola verso di lui per azzuffarsi col compagno e non appena il dannato è sparito sotto la pece rivolge gli artigli contro il demone, che però è lesto a difendersi e ad artigliarlo a sua volta. I due finiscono dentro la pece bollente, dove il calore li induce subito a separarsi, ma la pece imbratta loro le ali e impedisce di levarsi in volo. Barbariccia, infuriato, manda quattro dei suoi in volo sull'altro argine e li dispone in punti precisi con gli uncini, per permettere a Alichino e Calcabrina di levarsi dalla pece che li invischia. Dante e Virgilio ne approfittano per scappare.
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Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
Interpretazione complessiva
Il Canto è il seguito ideale della «commedia degli inganni» iniziata in quello precedente, che si arricchisce in questo secondo episodio di un nuovo protagonista (è Ciampòlo di Navarra, il barattiere che finisce tristemente tra le grinfie dei Malebranche e riesce a sfuggire loro con un inganno). In effetti proprio l'imbroglio è il tema dominante nella descrizione della V Bolgia, il che non stupisce se si pensa che i barattieri erano in fondo dei truffatori che approfittarono del loro ruolo pubblico per arraffare quattrini: si è discusso se tra loro Dante includa anche i semplici truffatori che non ricoprirono magistrature, ma tutti quelli nominati nei Canti XXI-XXII sono legati a qualche ufficio pubblico e del resto la baratteria era un delitto strettamente connesso con le cariche comunali (Dante stesso fu accusato di ciò dai Guelfi Neri nel 1302). Nell'episodio precedente era stato Malacoda a ingannare Virgilio, mentre qui sarà l'astuto Ciampòlo a farsi beffe dei Malebranche per scampare alle loro angherie; a loro volta Dante e Virgilio approfitteranno dell'accaduto per allontanarsi, riuscendo poi (all'inizio del Canto XXIII) a gettarsi nella Bolgia seguente dove i diavoli per decreto divino non possono inoltrarsi.
I versi iniziali sono un commento allo sconcio segnale con cui Barbariccia ha dato inizio alla marcia, che viene definito diversa cennamella (era uno strumento a canna, usato per i segnali militari) ed è ironicamente paragonato alle ben diverse segnalazioni che si usano in campo bellico. La terminologia militare è un preciso riferimento alle battaglie cui Dante aveva preso parte (già in XXI, 94-96 c'era un accenno all'assedio di Caprona) e indica che l'esercito dei Malebranche è sghangherato e grottesco, cosa che sarà dimostrata dal modo ridicolo con cui si lasceranno beffare. L'esordio è anche una parentesi stilisticamente elevata, che apre un Canto dominato invece da un linguaggio crudo, dai suoni aspri e dall'atmosfera violentemente comico-realistica.
Il dato più interessante è offerto dalle metafore animalesche, che ricorrono assai di frequente nei versi successivi: i barattieri che si celano sotto la pece sono paragonati prima a delfini, poi a rane che sporgono il muso dall'acqua; Ciampòlo, afferrato da un diavolo, viene tirato in secca come una lontra; Rubicante è esortato a scuoiarlo con gli «unghioni», come una belva affamata; Ciriatto è descritto come un cinghiale (porco) cui esce di bocca una zanna per lato; Ciampòlo è paragonato a un topo venuto a trovarsi tra male gatte; Barbariccia si rivolge a Fafarello chiamandolo malvagio uccello; Alichino che non riesce ad afferrare il dannato è paragonato a un falcone che non riesce a ghermire un'anatra sul pelo dell'acqua e poi a uno sparvier grifagno (pronto per la caccia) quando si azzuffa con Calcabrina; i due, invischiati nella pece, sono detti impaniati, vocabolo venatorio. I termini animaleschi non sono rari nella rappresentazione dell'Inferno, ma qui conferiscono un tono grottesco e degradato a tutto lo spettacolo, sottolineando da un lato la misera condizione dei dannati alla mercé dello strazio dei demoni, dall'altro la tetra bestialità dei Malebranche che si credono astuti ma saranno incredibilmente beffati dal barattiere.
E in effetti tutta la scena è paragonabile a una farsa, in cui prevalgono i toni burleschi e un feroce sarcasmo che colpisce i vari protagonisti (Dante stesso parla di ludo, ovvero rappresentazione teatrale): Ciriatto azzanna il dannato facendogli sentire come una sola zanna sdruscia, squarciandone le carni; Barbariccia è definito pomposamente decurio e gran proposto, facendo ironia sul fatto che il diavolo è lo scalcinato caporione di una malandata squadraccia; Ciampòlo dice che Farfarello è pronto a grattargli la tigna, espressione volgare che significa «picchiare»; i due diavoli che finiscono nella pece sono subito separati dal caldo, mentre poi si dirà che sono cotti dentro da la crosta, proprio come i dannati che Virgilio aveva definito nel Canto precedente lessi dolenti. Metafore culinarie si intrecciano con termini rari o popolari, dai suoni aspri e gutturali, come accapriccia, arruncigliò, sdruscia, in cesso, rintoppo, buffa: qualcosa di simile avverrà anche nel Canto XXX durante la descrizione dei falsari e delle loro orribili malattie, nonché della rissa tra Sinone e Mastro Adamo che Dante si attarderà a osservare venendo poi aspramente ripreso da Virgilio. Qui la zuffa tra i demoni è l'occasione propizia di cui i due poeti approfittano per allontanarsi, il che dimostra una volta di più la goffa stupidità dei Malebranche che (similmente ad altre figure diaboliche dell'Inferno dantesco) non hanno nulla di veramente spaventoso, ma sono ridotti a una dimensione burlesca e parodica tipica della letteratura medievale e lontanissima dalla rappresentazione fascinosa e sinistra che del demonio offrirà in seguito tanta letteratura moderna, sino ai giorni nostri.
I versi iniziali sono un commento allo sconcio segnale con cui Barbariccia ha dato inizio alla marcia, che viene definito diversa cennamella (era uno strumento a canna, usato per i segnali militari) ed è ironicamente paragonato alle ben diverse segnalazioni che si usano in campo bellico. La terminologia militare è un preciso riferimento alle battaglie cui Dante aveva preso parte (già in XXI, 94-96 c'era un accenno all'assedio di Caprona) e indica che l'esercito dei Malebranche è sghangherato e grottesco, cosa che sarà dimostrata dal modo ridicolo con cui si lasceranno beffare. L'esordio è anche una parentesi stilisticamente elevata, che apre un Canto dominato invece da un linguaggio crudo, dai suoni aspri e dall'atmosfera violentemente comico-realistica.
Il dato più interessante è offerto dalle metafore animalesche, che ricorrono assai di frequente nei versi successivi: i barattieri che si celano sotto la pece sono paragonati prima a delfini, poi a rane che sporgono il muso dall'acqua; Ciampòlo, afferrato da un diavolo, viene tirato in secca come una lontra; Rubicante è esortato a scuoiarlo con gli «unghioni», come una belva affamata; Ciriatto è descritto come un cinghiale (porco) cui esce di bocca una zanna per lato; Ciampòlo è paragonato a un topo venuto a trovarsi tra male gatte; Barbariccia si rivolge a Fafarello chiamandolo malvagio uccello; Alichino che non riesce ad afferrare il dannato è paragonato a un falcone che non riesce a ghermire un'anatra sul pelo dell'acqua e poi a uno sparvier grifagno (pronto per la caccia) quando si azzuffa con Calcabrina; i due, invischiati nella pece, sono detti impaniati, vocabolo venatorio. I termini animaleschi non sono rari nella rappresentazione dell'Inferno, ma qui conferiscono un tono grottesco e degradato a tutto lo spettacolo, sottolineando da un lato la misera condizione dei dannati alla mercé dello strazio dei demoni, dall'altro la tetra bestialità dei Malebranche che si credono astuti ma saranno incredibilmente beffati dal barattiere.
E in effetti tutta la scena è paragonabile a una farsa, in cui prevalgono i toni burleschi e un feroce sarcasmo che colpisce i vari protagonisti (Dante stesso parla di ludo, ovvero rappresentazione teatrale): Ciriatto azzanna il dannato facendogli sentire come una sola zanna sdruscia, squarciandone le carni; Barbariccia è definito pomposamente decurio e gran proposto, facendo ironia sul fatto che il diavolo è lo scalcinato caporione di una malandata squadraccia; Ciampòlo dice che Farfarello è pronto a grattargli la tigna, espressione volgare che significa «picchiare»; i due diavoli che finiscono nella pece sono subito separati dal caldo, mentre poi si dirà che sono cotti dentro da la crosta, proprio come i dannati che Virgilio aveva definito nel Canto precedente lessi dolenti. Metafore culinarie si intrecciano con termini rari o popolari, dai suoni aspri e gutturali, come accapriccia, arruncigliò, sdruscia, in cesso, rintoppo, buffa: qualcosa di simile avverrà anche nel Canto XXX durante la descrizione dei falsari e delle loro orribili malattie, nonché della rissa tra Sinone e Mastro Adamo che Dante si attarderà a osservare venendo poi aspramente ripreso da Virgilio. Qui la zuffa tra i demoni è l'occasione propizia di cui i due poeti approfittano per allontanarsi, il che dimostra una volta di più la goffa stupidità dei Malebranche che (similmente ad altre figure diaboliche dell'Inferno dantesco) non hanno nulla di veramente spaventoso, ma sono ridotti a una dimensione burlesca e parodica tipica della letteratura medievale e lontanissima dalla rappresentazione fascinosa e sinistra che del demonio offrirà in seguito tanta letteratura moderna, sino ai giorni nostri.
Note e passi controversi
I vv. 4-5 alludono alla battaglia di Campaldino del 1289 tra Guelfi fiorentini e Ghibellini aretini, cui prese parte lo stesso Dante; nel Canto precedente aveva fatto riferimento all'assedio di Caprona dello stesso anno.
I vv. 14-15 (ne la chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni) allude a un detto proverbiale, citato anche da poeti comici come l'Angiolieri.
I vv. 19-21 fanno riferimento a una nota credenza popolare, per cui si riteneva che i delfini nuotassero vicini alle navi per avvisare i marinai dell'arrivo di una tempesta.
L'espressione e poi ch'e' si chiamaro (v. 39), riferita ai demoni, significa probabilmente «quando che si chiamarono l'un l'altro», mentre altri intendono «dopo che furono chiamati da Malacoda».
Il porco cui è paragonato Ciriatto (v. 56) è sicuramente il porco selvatico, ovvero il cinghiale.
Il v. 59 (ma Barbariccia il chiuse con le braccia) può voler dire che il diavolo tenga fermo con le braccia il dannato, nel qual caso il v. 123 (e dal proposto lor si sciolse) vorrebbe dire che egli «si divincolò dal loro capo», cioè Barbariccia stesso; altri intendono che il demone si limiti ad allargare le braccia per allontanare i compagni, quindi il v. 123 vorrebbe dire che Ciampòlo «si sottrasse ai loro propositi», ipotesi per la verità un po' troppo sottile.
Al v. 88 donno è titolo onorifico di Michel Zanche, sinonimo di «messere» (al v. 83 vuol dire invece «signore»).
Grifagno (v. 139) è termine della falconeria e indica lo sparviero adulto, pronto per la caccia.
L'espressione dentro da la crosta (v. 150) può significare «dentro, oltre la pelle indurita dalla cottura», oppure, meglio, «dentro la superficie vischiosa della pece».
I vv. 14-15 (ne la chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni) allude a un detto proverbiale, citato anche da poeti comici come l'Angiolieri.
I vv. 19-21 fanno riferimento a una nota credenza popolare, per cui si riteneva che i delfini nuotassero vicini alle navi per avvisare i marinai dell'arrivo di una tempesta.
L'espressione e poi ch'e' si chiamaro (v. 39), riferita ai demoni, significa probabilmente «quando che si chiamarono l'un l'altro», mentre altri intendono «dopo che furono chiamati da Malacoda».
Il porco cui è paragonato Ciriatto (v. 56) è sicuramente il porco selvatico, ovvero il cinghiale.
Il v. 59 (ma Barbariccia il chiuse con le braccia) può voler dire che il diavolo tenga fermo con le braccia il dannato, nel qual caso il v. 123 (e dal proposto lor si sciolse) vorrebbe dire che egli «si divincolò dal loro capo», cioè Barbariccia stesso; altri intendono che il demone si limiti ad allargare le braccia per allontanare i compagni, quindi il v. 123 vorrebbe dire che Ciampòlo «si sottrasse ai loro propositi», ipotesi per la verità un po' troppo sottile.
Al v. 88 donno è titolo onorifico di Michel Zanche, sinonimo di «messere» (al v. 83 vuol dire invece «signore»).
Grifagno (v. 139) è termine della falconeria e indica lo sparviero adulto, pronto per la caccia.
L'espressione dentro da la crosta (v. 150) può significare «dentro, oltre la pelle indurita dalla cottura», oppure, meglio, «dentro la superficie vischiosa della pece».
TestoIo vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo; 3 corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra; 6 quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane; 9 né già con sì diversa cennamella cavalier vidi muover né pedoni, né nave a segno di terra o di stella. 12 Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni. 15 Pur a la pegola era la mia ’ntesa, per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente ch’entro v’era incesa. 18 Come i dalfini, quando fanno segno a’ marinar con l’arco de la schiena, che s’argomentin di campar lor legno, 21 talor così, ad alleggiar la pena, mostrav’alcun de’ peccatori il dosso e nascondea in men che non balena. 24 E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, sì che celano i piedi e l’altro grosso, 27 sì stavan d’ogne parte i peccatori; ma come s’appressava Barbariccia, così si ritraén sotto i bollori. 30 I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia, uno aspettar così, com’elli ’ncontra ch’una rana rimane e l’altra spiccia; 33 e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le ’mpegolate chiome e trassel sù, che mi parve una lontra. 36 I’ sapea già di tutti quanti ’l nome, sì li notai quando fuorono eletti, e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come. 39 «O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!», gridavan tutti insieme i maladetti. 42 E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi è lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi». 45 Lo duca mio li s’accostò allato; domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose: «I’ fui del regno di Navarra nato. 48 Mia madre a servo d’un segnor mi puose, che m’avea generato d’un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose. 51 Poi fui famiglia del buon re Tebaldo: quivi mi misi a far baratteria; di ch’io rendo ragione in questo caldo». 54 E Ciriatto, a cui di bocca uscia d’ogne parte una sanna come a porco, li fé sentir come l’una sdruscia. 57 Tra male gatte era venuto ’l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia, e disse: «State in là, mentr’io lo ’nforco». 60 E al maestro mio volse la faccia: «Domanda», disse, «ancor, se più disii saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia». 63 Lo duca dunque: «Or dì : de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?». E quelli: «I’ mi partii, 66 poco è, da un che fu di là vicino. Così foss’io ancor con lui coperto, ch’i’ non temerei unghia né uncino!». 69 E Libicocco «Troppo avem sofferto», disse; e preseli ’l braccio col runciglio, sì che, stracciando, ne portò un lacerto. 72 Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde ’l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio. 75 Quand’elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch’ancor mirava sua ferita, domandò ’l duca mio sanza dimoro: 78 «Chi fu colui da cui mala partita di’ che facesti per venire a proda?». Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita, 81 quel di Gallura, vasel d’ogne froda, ch’ebbe i nemici di suo donno in mano, e fé sì lor, che ciascun se ne loda. 84 Danar si tolse, e lasciolli di piano, sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano. 87 Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche. 90 Omè, vedete l’altro che digrigna: i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello non s’apparecchi a grattarmi la tigna». 93 E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: «Fatti ’n costà, malvagio uccello!». 96 «Se voi volete vedere o udire», ricominciò lo spaurato appresso «Toschi o Lombardi, io ne farò venire; 99 ma stieno i Malebranche un poco in cesso, sì ch’ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso, 102 per un ch’io son, ne farò venir sette quand’io suffolerò, com’è nostro uso di fare allor che fori alcun si mette». 105 Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso, crollando ’l capo, e disse: «Odi malizia ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!». 108 Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: «Malizioso son io troppo, quand’io procuro a’ mia maggior trestizia». 111 Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali, io non ti verrò dietro di gualoppo, 114 ma batterò sovra la pece l’ali. Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali». 117 O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l’altra costa li occhi volse; quel prima, ch’a ciò fare era più crudo. 120 Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, e in un punto saltò e dal proposto lor si sciolse. 123 Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!». 126 Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto non potero avanzar: quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto: 129 non altrimenti l’anitra di botto, quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa, ed ei ritorna sù crucciato e rotto. 132 Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa; 135 e come ’l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra ’l fosso ghermito. 138 Ma l’altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno. 141 Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l’ali sue. 144 Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fé volar da l’altra costa con tutt’i raffi, e assai prestamente 147 di qua, di là discesero a la posta; porser li uncini verso li ’mpaniati, ch’eran già cotti dentro da la crosta; e noi lasciammo lor così ’mpacciati. 151 |
ParafrasiIo ho visto in altre occasioni dei cavalieri mettersi in marcia, attaccare battaglia e sfilare in parata, talvolta battere in ritirata; ho visto soldati a cavallo nella vostra terra, o Aretini, e li ho visti fare incursioni, partecipare a tornei a squadre e individuali;
li ho visti obbedire a squilli di tromba, a campane, a tamburi e a segnali dai castelli, con strumenti nostrani e stranieri; ma non ho mai visto cavalieri o fanti muoversi al suono di un così bizzarro strumento a fiato, né ho visto una nave muoversi per un segnale simile venuto da terra o dal cielo. Noi camminavamo coi dieci diavoli: feroce compagnia, ahimè, ma in chiesa si deve stare coi santi e alla taverna con gli ubriaconi. Io avevo occhi solo alla pece, per vedere tutto quanto era contenuto nella Bolgia e la gente che vi era bruciata all'interno. Come i delfini, quando emergono con la schiena e indicano ai marinai che devono salvare la loro nave (da una tempesta), così talvolta, per alleviare la loro pena, alcuni peccatori mostravano il dorso fuori della pece, e si nascondevano in men che non si dica. E come i ranocchi stanno a pelo d'acqua in un fosso, col muso fuori e celando le zampe e il resto del corpo, così stavano i peccatori da ogni parte; ma non appena si avvicinava Barbariccia, tornavano sotto la pece bollente. Io vidi, e ancora ne provo orrore in cuore, un dannato che esitava, proprio come quando una rana resta fuor d'acqua e un'altra si immerge; e Graffiacane, che gli era proprio di fronte, afferrò con l'uncino i suoi capelli imbrattati di pece e lo tirò su come se fosse una lontra. Io conoscevo il nome di tutti quanti i demoni, perché li notai quando furono scelti e prestai attenzione quando si chiamavano l'un l'altro. I maledetti gridavano a una voce: «O Rubicante, mettigli gli artigli addosso e scuoialo!» E io: «Maestro mio, se puoi, fa' in modo che io sappia chi è lo sventurato che è caduto nelle mani dei suoi avversari». Il mio maestro gli si avvicinò a lato; gli chiese chi fosse e quello rispose: «Io nacqui nel regno di Navarra. Mia madre mi mise a servizio di un signore, dopo avermi generato con un ribaldo che fu scialacquatore e suicida. Poi fui al servizio del buon re Tebaldo II (di Champagne): qui iniziai a compiere baratterie, di cui sconto la pena in questo calore». E Ciriatto, a cui usciva da ogni lato della bocca una zanna come a un cinghiale, gli fece sentire come una sola lacerava le carni. Il topo era finito tra le grinfie di gatte malvagie; ma Barbariccia lo protesse con le braccia, dicendo: «State lontani, mentre lo infilzo». E poi il demone si rivolse a Virgilio, dicendogli: «Domandagli ancora, se desideri sapere altro di lui, prima che qualcuno lo faccia a pezzi». Allora il maestro: «Dimmi: sai se tra gli altri dannati sotto la pece ci siano degli italiani?» E quello: «Io mi separai poco fa da uno che proviene da un paese vicino (la Sardegna). Fossi ancora insieme a lui coperto dalla pece, in quanto non avrei paura degli artigli né degli uncini dei Malebranche!» E Libicocco disse: «Abbiamo pazientato troppo»; e gli prese il braccio con l'uncino, cosicché gli portò via un brandello di carne. Anche Draghignazzo volle ferirlo alle gambe, ma il loro capo rivolse a tutti loro un'occhiata severa. Quando essi si furono placati un poco, il mio maestro chiese subito al dannato, che ancora guardava la sua ferita: «Chi fu colui dal quale dici che ti sei malamente separato per venire a riva?» E lui rispose: «Fu frate Gomìta, della Gallura, ricettacolo di ogni imbroglio, che ebbe in suo potere i nemici del suo signore (Nino Visconti) e si comportò con loro in modo che ciascuno ne ebbe vantaggio. Ne prese danari e li liberò facilmente, così come racconta; e anche negli altri incarichi fu un barattiere non mediocre, ma sopraffino. È solito stare con lui messer Michele Zanche di Logudoro e le loro lingue non si stancano mai di parlare della Sardegna. Ahimè, vedete il diavolo (Farfarello) che digrigna i denti: io direi altro, ma temo che quello sia pronto a procurarmi sofferenze». E il gran capo, rivolto a Farfarello che stralunava gli occhi per colpire, disse: «Fatti in là, uccello malefico!» Poi il dannato, spaurito, ricominciò: «Se voi volete vedere o sentire toscani o lombardi, io li farò venire qui; ma i Malebranche stiano un poco indietro, così che i dannati non temano le loro rappresaglie; e io, stando in questo punto in disparte, in cambio di uno solo come me, ne farò emergere sette fischiando, come siamo soliti fare quando qualcuno di noi affiora dalla pece». A quelle parole Cagnazzo alzò il muso, scrollando la testa, e disse: «Senti che inganno ha escogitato per gettarsi sotto la pece!» Allora il dannato, che conosceva ogni astuzia per imbrogliare, rispose: «Sarei davvero troppo furbo se procurassi ai miei compagni di pena nuovi tormenti». Alichino non si trattenne e di contro agli altri disse al dannato: «Se tu ti tufferai, non ti inseguirò a piedi ma volando sulla pece. Lasciategli il collo e ripariamoci dietro l'argine, così vedremo se tu da solo vali più di tutti noi». O lettore, adesso ascolterai una nuova farsa: ogni diavolo rivolse lo sguardo all'argine opposto, a cominciare da colui (Cagnazzo) che era più restio a fare questo. Il Navarrese colse prontamente l'occasione; puntò i piedi sulla roccia e in un istante saltò e si divincolò dal loro capo (Barbariccia). Ognuno di loro si sentì colpevole della cosa, ma soprattutto quello che l'aveva provocata (Alichino); quindi si mosse e gridò al dannato: «Ti ho preso!» Ma non gli servì a molto, poiché le ali non furono più rapide della paura del barattiere: quello si immerse e il demone si impennò volando in alto e sollevando il petto: proprio come fa l'anitra di colpo, quando il falcone si avvicina e lei si tuffa in acqua, così che il rapace torna in alto stizzito e stanco. Calcabrina, infuriato per la beffa, lo inseguì volando e desiderò che il dannato scappasse per azzuffarsi col compagno; e non appena il barattiere fu scomparso, rivolse gli artigli contro Alichino e lo ghermì proprio sopra il fossato. Ma l'altro fu pronto a difendersi come uno sparviero adulto e ad artigliarlo a sua volta, ed entrambi caddero in mezzo al bollente stagno di pece. Il caldo li fece subito dividere, ma sollevarsi in volo era impossibile, tanto avevano le ali imbrattate di pece. Barbariccia, avvilito insieme agli altri, ne fece volare quattro sull'altro argine con tutti gli uncini, e quelli scesero rapidamente da un lato e dall'altro nei punti loro assegnati; porsero gli uncini ai due compagni impegolati, che erano già cotti sotto la superficie vischiosa della pece; e noi li lasciammo lì in quell'impaccio. |