Inferno, Canto X
W. Blake, Farinata e Cavalcante
Ed el mi disse: "Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto il vedrai" ...
Di subito drizzato, gridò: "Come?
dicesti 'elli ebbe?' non viv'elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?"...
Dissemi: "Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico,
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio" ...
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto il vedrai" ...
Di subito drizzato, gridò: "Come?
dicesti 'elli ebbe?' non viv'elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?"...
Dissemi: "Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico,
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio" ...
Argomento del Canto
Ancora nella città di Dite, pena degli eresiarchi. Incontro con Farinata Degli Uberti, discorso politico su Firenze. Apparizione di Cavalcante dei Cavalcanti. Profezia di Farinata sull'esilio di Dante. Virgilio conforta Dante promettendogli le spiegazioni di Beatrice. I due poeti arrivano in prossimità del VII Cerchio.
È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È la notte di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
I sepolcri degli epicurei (1-21)
Il VI Cerchio (min. ferrarese, XV sec.)
Virgilio guida Dante fra le tombe della città di Dite,
costeggiando il lato interno delle mura. Dante è incuriosito e chiede
al maestro se sia possibile vedere le anime che giacciono nei sepolcri,
dal momento che i coperchi sono sollevati e non ci sono demoni a
custodire le arche. Virgilio risponde che le tombe saranno chiuse in
eterno il giorno del Giudizio Universale, quando le anime risorte si
saranno riappropriate del corpo nella valle di Iosafat. Spiega inoltre che in questa sorta di cimitero giacciono tutti i seguaci di Epicuro,
che hanno proclamato la mortalità dell'anima, e promette a Dante che
sarà presto soddisfatto il desiderio che gli ha espresso e un altro che
non ha svelato, ovvero di sapere se lì c'è l'anima di Farinata Degli Uberti.
Dante si giustifica dicendo che se gli tiene celati alcuni desideri è
solo per evitare di parlare a sproposito, cosa cui lo stesso Virgilio lo
ha abituato.
Incontro con Farinata (22-51)
G. Doré, La tomba di Farinata
D'improvviso una voce proveniente da una delle tombe apostrofa Dante, identificandolo come toscano e pregandolo di trattenersi poiché il suo accento lo indica come originario della sua stessa città. Dante ne ha timore e si stringe a Virgilio, il quale però lo invita a voltarsi e a guardare Farinata, che si è sollevato in una delle tombe ed è visibile da la cintola in sù. Dante obbedisce e vede il dannato che si erge con la fronte e il petto alti, come se disprezzasse tutto l'Inferno, quindi Virgilio lo spinge verso di lui e gli raccomanda di parlare dignitosamente.
Non appena Dante giunge ai piedi del sepolcro di Farinata, questi gli domanda chi fossero i suoi antenati. Il poeta rivela la sua discendenza e Farinata osserva che gli avi di Dante furono aspri nemici di lui, dei suoi antenati e della sua parte politica (i Ghibellini), tanto che li cacciò per due volte da Firenze. Dante ribatte prontamente che, se essi furono cacciati, seppero rientrare in città entrambe le volte, mentre non si può dire lo stesso degli avi di Farinata.
Apparizione di Cavalcante (52-72)
D'improvviso accanto a Farinata emerge un altro dannato, che si sporge fino al mento come se fosse inginocchiato. Lo spirito si guarda intorno con ansia, cercando qualcuno accanto a Dante che però non vede. Alla fine, piangendo, chiede a Dante dove sia suo figlio e perché non accompagni il poeta in questo viaggio, se Dante è lì per l'altezza del suo ingegno. Dante comprende subito che si tratta di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del suo amico Guido, e risponde che in realtà lui è lì non solo per i suoi meriti e indica Virgilio come colui destinato a guidarlo a qualcuno che, forse, il figlio di Cavalcante ebbe a disdegno. Cavalcante si alza allarmato e chiede a Dante se davvero suo figlio Guido sia morto: poiché il poeta tarda a rispondere, il dannato precipita nuovamente nella tomba per non tornare più fuori.
Non appena Dante giunge ai piedi del sepolcro di Farinata, questi gli domanda chi fossero i suoi antenati. Il poeta rivela la sua discendenza e Farinata osserva che gli avi di Dante furono aspri nemici di lui, dei suoi antenati e della sua parte politica (i Ghibellini), tanto che li cacciò per due volte da Firenze. Dante ribatte prontamente che, se essi furono cacciati, seppero rientrare in città entrambe le volte, mentre non si può dire lo stesso degli avi di Farinata.
Apparizione di Cavalcante (52-72)
D'improvviso accanto a Farinata emerge un altro dannato, che si sporge fino al mento come se fosse inginocchiato. Lo spirito si guarda intorno con ansia, cercando qualcuno accanto a Dante che però non vede. Alla fine, piangendo, chiede a Dante dove sia suo figlio e perché non accompagni il poeta in questo viaggio, se Dante è lì per l'altezza del suo ingegno. Dante comprende subito che si tratta di Cavalcante dei Cavalcanti, padre del suo amico Guido, e risponde che in realtà lui è lì non solo per i suoi meriti e indica Virgilio come colui destinato a guidarlo a qualcuno che, forse, il figlio di Cavalcante ebbe a disdegno. Cavalcante si alza allarmato e chiede a Dante se davvero suo figlio Guido sia morto: poiché il poeta tarda a rispondere, il dannato precipita nuovamente nella tomba per non tornare più fuori.
Prosegue il colloquio con Farinata (73-93)
G. Giraldi, Farinata e Cavalcante
Farinata, per nulla scomposto dall'accaduto, prosegue il suo discorso
con Dante riprendendo esattamente da dove l'avevano interrotto e dice
che se i suoi avi non seppero rientrare in Firenze dopo la cacciata, ciò
gli provoca più dolore delle pene infernali. Tuttavia non passeranno
più di quattro anni fino al momento in cui anche Dante saprà quanto pesa
non poter tornare nella propria città. Il dannato chiede poi per quale
motivo il Comune di Firenze è così duro in ogni sua legge contro la sua
famiglia e Dante risponde che ciò è per il ricordo della battaglia di Montaperti,
che arrossò di sangue il fiume Arbia. Farinata osserva sconsolato che a
quella battaglia non partecipò lui solo, mentre fu l'unico a opporsi
alla distruzione di Firenze in seguito alla vittoria dei Ghibellini.
Spiegazione di Farinata sulla preveggenza dei dannati (94-123)
Dante chiede a Farinata di risolvergli un dubbio, relativo alla facoltà che gli sembra abbiano i dannati di prevedere il futuro e che ha causato la sua precedente esitazione nel rispondere a Cavalcante. Farinata spiega che i dannati vedono, sì, il futuro, ma in modo imperfetto, riuscendo a scorgere gli eventi solo quando sono molto lontani; quando si avvicinano nel tempo o stanno avvenendo diventano loro invisibili e non sono in grado di saperne nulla, a meno che altri non portino loro delle notizie. Perciò alla fine dei tempi, dopo il Giudizio Universale, la loro conoscenza del futuro sarà del tutto annullata. Dante comprende l'errore commesso e prega Farinata di informare Cavalcante che suo figlio Guido è in realtà ancora nel mondo dei vivi.
Virgilio richiama Dante, che perciò si affretta a domandare al dannato con chi condivida la sua pena nella tomba. Farinata risponde di giacere lì con più di mille anime, tra cui quelle di Federico II di Svevia e del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, mentre tace degli altri. A quel punto Farinata rientra nel sepolcro e Dante segue Virgilio, ripensando tristemente alla profezia dell'esilio.
Spiegazione di Farinata sulla preveggenza dei dannati (94-123)
Dante chiede a Farinata di risolvergli un dubbio, relativo alla facoltà che gli sembra abbiano i dannati di prevedere il futuro e che ha causato la sua precedente esitazione nel rispondere a Cavalcante. Farinata spiega che i dannati vedono, sì, il futuro, ma in modo imperfetto, riuscendo a scorgere gli eventi solo quando sono molto lontani; quando si avvicinano nel tempo o stanno avvenendo diventano loro invisibili e non sono in grado di saperne nulla, a meno che altri non portino loro delle notizie. Perciò alla fine dei tempi, dopo il Giudizio Universale, la loro conoscenza del futuro sarà del tutto annullata. Dante comprende l'errore commesso e prega Farinata di informare Cavalcante che suo figlio Guido è in realtà ancora nel mondo dei vivi.
Virgilio richiama Dante, che perciò si affretta a domandare al dannato con chi condivida la sua pena nella tomba. Farinata risponde di giacere lì con più di mille anime, tra cui quelle di Federico II di Svevia e del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, mentre tace degli altri. A quel punto Farinata rientra nel sepolcro e Dante segue Virgilio, ripensando tristemente alla profezia dell'esilio.
Virgilio conforta Dante (124-136)
Dopo un po' Virgilio chiede a Dante la ragione del suo smarrimento e il discepolo svela le sue preoccupazioni. Virgilio ammonisce Dante a rammentare quello che ha udito contro di sé e gli promette che quando sarà giunto in Paradiso, di fronte a Beatrice, lei gli fornirà ogni spiegazione relativa alla sua vita futura. Poi il poeta latino si volge a sinistra e lascia le mura per imboccare un sentiero che conduce alla parte esterna del Cerchio, da dove si leva un puzzo estremamente spiacevole.
|
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" Un breve video di presentazione del rapporto di amicizia tra Dante e Guido Cavalcanti, tratto dal canale YouTube Video Letteratura |
Interpretazione complessiva
Il protagonista assoluto del Canto è Farinata Degli Uberti, il capo di parte ghibellina vissuto a Firenze nel primo Duecento e appartenente a una delle famiglie più nobili e potenti della città. Dante, che già sa quali dannati siano puniti nel VI Cerchio, è ansioso di verificare se Farinata si trovi effettivamente lì (nel Canto VI Ciacco aveva già preannuciato a Dante la dannazione sua e di altri fiorentini illustri); Virgilio intuisce il desiderio inespresso di Dante e sarà lui stesso a spingerlo con le mani animose e pronte verso la tomba del dannato, raccomandandogli di parlare in modo misurato e dignitoso.
Il colloquio con Farinata avrà argomento prevalentemente politico, relativo alle divisioni interne di Firenze che era patria di entrambi (del resto il dannato riconosce Dante come suo concittadino dalla loquela e lo invita a dialogare con lui per via del suo parlare onesto, cioè dignitoso). Farinata campeggia sulla scena come un gigante, mostrando un fiero disprezzo per tutto l'Inferno, anche se, come spesso accade per i dannati, egli nell'episodio mostra di non comprendere affatto le ragioni della sua perdizione e appare tenacemente legato alle questioni di parte politica, che non hanno più alcun significato nella dimensione ultraterrena. Infatti chiede a Dante chi siano i suoi antenati, per capire a quale fazione appartenga, e quando il poeta si manifesta come Guelfo il dannato gli ricorda subito di essere stato un Ghibellino e di aver sconfitto i Guelfi per ben due volte, nel 1248 e nel 1260, nella celebre battaglia di Montaperti.
Dante si sente punto sul vivo e ribatte prontamente che i Guelfi seppero tornare a Firenze in entrambi i casi, ovvero nel 1250 e soprattutto nel 1266, dopo Benevento. La risposta piccata di Dante è degna di un «contrasto» o di uno scambio polemico di accuse: dopo la parentesi di Cavalcante, infatti, sarà ancora Farinata a rispondere «per le rime» col profetizzare a Dante che di lì a quattro anni, nel 1304, la sconfitta nella battaglia della Lastra impedirà agli esuli fiorentini di rientrare in città, profetizzandogli così indirettamente l'esilio per colpirlo sul piano personale.
A Farinata sta a cuore unicamente la dimensione politica ed è evidente in lui il rimpianto per il dolce mondo e la sua città, specie quando chiede a Dante il motivo di tanto accanimento di Firenze contro i membri della sua famiglia. La risposta di Dante fa riferimento al disastro di Montaperti, ovvero la sconfitta guelfa che fu sempre ricordata come un bagno di sangue ('l grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso) e che indusse a pronunciare tale orazion nel... tempio, ovvero a emanare duri provvedimenti contro tutti i discendenti di Farinata. Questi ribatte che ci fu una ragione per quello scontro, rivendicando il merito di essersi opposto alla distruzione di Firenze che i capi ghibellini avevano ipotizzato.
L'episodio di Cavalcante, il padre del poeta Guido Cavalcanti che interrompe il dialogo tra i due, è solo apparentemente fuori tono rispetto al tema fondamentale: i due erano stati avversari politici, poiché Cavalcante era di parte guelfa (fu esiliato nel 1260, rientrò a Firenze nel 1266), quindi la sua vicenda personale ricalca i temi del colloquio fra Dante e il Ghibellino. Inoltre entrambi, Farinata e Cavalcante, sono incapaci di comprendere le vere ragioni della loro dannazione, in quanto il primo è ancora tutto preso dagli odi di parte e dalle lotte politiche, il secondo chiede a Dante perché il figlio non lo accompagni in questo viaggio straordinario che lui ritiene che Dante faccia per altezza d'ingegno. Entrambi sono epicurei, quindi hanno una visione materiale della vita che esclude la dimensione trascendente ed è proprio questo a provocare il grottesco equivoco che causa la disperazione di Cavalcante. Dante, infatti, risponde in modo ambiguo dicendo Da me stesso non vegno: / colui ch'attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno. L'ambiguità sta nel pronome cui, che può significare «a colei che» oppure «a colui che»: Dante intende dire probabilmente che Virgilio lo guida attraverso l'Inferno a colei (Beatrice) che, forse, Guido ebbe a disdegno (e il disdegno potrebbe essere il disdor trobadorico verso la Beatrice terrena, benché di questo non vi siano conferme certe e quindi Dante potrebbe riferirsi a un episodio di ambiente stilnovista che non ci è noto). In tal caso è perfettamente normale l'uso del passato ebbe, poiché la Beatrice terrena è morta nel 1290: Dante, allegoricamente, vuol dire che la ragione lo guida alla salvezza e alla grazia, che forse Guido disprezzò essendo anche lui vicino all'epicureismo.
Cavalcante invece equivoca e crede che Dante dica che Virgilio lo guida a colui che Guido ebbe a disdegno, cioè probabilmente a Dio: in tal caso l'uso del passato ebbe non è giustificato in alcun modo, tranne nel caso in cui Guido fosse già morto. Da qui la sua disperazione e l'esitazione di Dante che sa da Ciacco che i dannati possono antivedere il futuro, quindi non comprende come possa Cavalcante non sapere che il figlio Guido nella primavera del 1300 fosse vivo e vegeto (morirà nell'agosto dello stesso anno).
L'equivoco serve a chiarire che Cavalcante non comprende nulla del viaggio allegorico di Dante, essendo totalmente sordo a tutto ciò che riguarda la fede cristiana, la grazia e la salvezza rappresentate da Beatrice. Non meno sordo è Farinata, che riprende il colloquio interrotto senza fare una piega per quanto accaduto e si mostra ansioso solo di rintuzzare l'attacco politico di Dante, profetizzandogli l'esilio che lo attende di lì a pochi anni. Sarà lo stesso Farinata a sciogliere l'equivoco creatosi col compagno di pena, spiegando a Dante che i dannati possono prevedere solo gli eventi lontani, mentre quelli imminenti o presenti sono per loro invisibili.
La conclusione del Canto è la logica conseguenza di questo discorso, con Virgilio che ricorda a Dante che sarà proprio Beatrice a spiegargli nel dettaglio la sua vita futura, quindi rammentando che la grazia, non la sola conoscenza razionale, è l'obiettivo del viaggio dantesco. Per l'ennesima volta viene ribadito che la sola filosofia razionale è insufficiente a salvarsi, come ben dimostra la presenza nel Cerchio di illustri pensatori quali Epicuro, Federico II, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, tutti destinati a essere chiusi in eterno nelle loro tombe infuocate il giorno del Giudizio, dopo essersi rivestiti delle loro carni (e il Giudizio viene citato da Virgilio in apertura di Canto come da Farinata in conclusione, a voler dire che la sentenza finale sarà implacabile con tutti quelli che pretendono di arrivare alla salvezza eterna solo per altezza d'ingegno).
Il colloquio con Farinata avrà argomento prevalentemente politico, relativo alle divisioni interne di Firenze che era patria di entrambi (del resto il dannato riconosce Dante come suo concittadino dalla loquela e lo invita a dialogare con lui per via del suo parlare onesto, cioè dignitoso). Farinata campeggia sulla scena come un gigante, mostrando un fiero disprezzo per tutto l'Inferno, anche se, come spesso accade per i dannati, egli nell'episodio mostra di non comprendere affatto le ragioni della sua perdizione e appare tenacemente legato alle questioni di parte politica, che non hanno più alcun significato nella dimensione ultraterrena. Infatti chiede a Dante chi siano i suoi antenati, per capire a quale fazione appartenga, e quando il poeta si manifesta come Guelfo il dannato gli ricorda subito di essere stato un Ghibellino e di aver sconfitto i Guelfi per ben due volte, nel 1248 e nel 1260, nella celebre battaglia di Montaperti.
Dante si sente punto sul vivo e ribatte prontamente che i Guelfi seppero tornare a Firenze in entrambi i casi, ovvero nel 1250 e soprattutto nel 1266, dopo Benevento. La risposta piccata di Dante è degna di un «contrasto» o di uno scambio polemico di accuse: dopo la parentesi di Cavalcante, infatti, sarà ancora Farinata a rispondere «per le rime» col profetizzare a Dante che di lì a quattro anni, nel 1304, la sconfitta nella battaglia della Lastra impedirà agli esuli fiorentini di rientrare in città, profetizzandogli così indirettamente l'esilio per colpirlo sul piano personale.
A Farinata sta a cuore unicamente la dimensione politica ed è evidente in lui il rimpianto per il dolce mondo e la sua città, specie quando chiede a Dante il motivo di tanto accanimento di Firenze contro i membri della sua famiglia. La risposta di Dante fa riferimento al disastro di Montaperti, ovvero la sconfitta guelfa che fu sempre ricordata come un bagno di sangue ('l grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso) e che indusse a pronunciare tale orazion nel... tempio, ovvero a emanare duri provvedimenti contro tutti i discendenti di Farinata. Questi ribatte che ci fu una ragione per quello scontro, rivendicando il merito di essersi opposto alla distruzione di Firenze che i capi ghibellini avevano ipotizzato.
L'episodio di Cavalcante, il padre del poeta Guido Cavalcanti che interrompe il dialogo tra i due, è solo apparentemente fuori tono rispetto al tema fondamentale: i due erano stati avversari politici, poiché Cavalcante era di parte guelfa (fu esiliato nel 1260, rientrò a Firenze nel 1266), quindi la sua vicenda personale ricalca i temi del colloquio fra Dante e il Ghibellino. Inoltre entrambi, Farinata e Cavalcante, sono incapaci di comprendere le vere ragioni della loro dannazione, in quanto il primo è ancora tutto preso dagli odi di parte e dalle lotte politiche, il secondo chiede a Dante perché il figlio non lo accompagni in questo viaggio straordinario che lui ritiene che Dante faccia per altezza d'ingegno. Entrambi sono epicurei, quindi hanno una visione materiale della vita che esclude la dimensione trascendente ed è proprio questo a provocare il grottesco equivoco che causa la disperazione di Cavalcante. Dante, infatti, risponde in modo ambiguo dicendo Da me stesso non vegno: / colui ch'attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno. L'ambiguità sta nel pronome cui, che può significare «a colei che» oppure «a colui che»: Dante intende dire probabilmente che Virgilio lo guida attraverso l'Inferno a colei (Beatrice) che, forse, Guido ebbe a disdegno (e il disdegno potrebbe essere il disdor trobadorico verso la Beatrice terrena, benché di questo non vi siano conferme certe e quindi Dante potrebbe riferirsi a un episodio di ambiente stilnovista che non ci è noto). In tal caso è perfettamente normale l'uso del passato ebbe, poiché la Beatrice terrena è morta nel 1290: Dante, allegoricamente, vuol dire che la ragione lo guida alla salvezza e alla grazia, che forse Guido disprezzò essendo anche lui vicino all'epicureismo.
Cavalcante invece equivoca e crede che Dante dica che Virgilio lo guida a colui che Guido ebbe a disdegno, cioè probabilmente a Dio: in tal caso l'uso del passato ebbe non è giustificato in alcun modo, tranne nel caso in cui Guido fosse già morto. Da qui la sua disperazione e l'esitazione di Dante che sa da Ciacco che i dannati possono antivedere il futuro, quindi non comprende come possa Cavalcante non sapere che il figlio Guido nella primavera del 1300 fosse vivo e vegeto (morirà nell'agosto dello stesso anno).
L'equivoco serve a chiarire che Cavalcante non comprende nulla del viaggio allegorico di Dante, essendo totalmente sordo a tutto ciò che riguarda la fede cristiana, la grazia e la salvezza rappresentate da Beatrice. Non meno sordo è Farinata, che riprende il colloquio interrotto senza fare una piega per quanto accaduto e si mostra ansioso solo di rintuzzare l'attacco politico di Dante, profetizzandogli l'esilio che lo attende di lì a pochi anni. Sarà lo stesso Farinata a sciogliere l'equivoco creatosi col compagno di pena, spiegando a Dante che i dannati possono prevedere solo gli eventi lontani, mentre quelli imminenti o presenti sono per loro invisibili.
La conclusione del Canto è la logica conseguenza di questo discorso, con Virgilio che ricorda a Dante che sarà proprio Beatrice a spiegargli nel dettaglio la sua vita futura, quindi rammentando che la grazia, non la sola conoscenza razionale, è l'obiettivo del viaggio dantesco. Per l'ennesima volta viene ribadito che la sola filosofia razionale è insufficiente a salvarsi, come ben dimostra la presenza nel Cerchio di illustri pensatori quali Epicuro, Federico II, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, tutti destinati a essere chiusi in eterno nelle loro tombe infuocate il giorno del Giudizio, dopo essersi rivestiti delle loro carni (e il Giudizio viene citato da Virgilio in apertura di Canto come da Farinata in conclusione, a voler dire che la sentenza finale sarà implacabile con tutti quelli che pretendono di arrivare alla salvezza eterna solo per altezza d'ingegno).
Note e passi controversi
I vv. 10-12 alludono alla valle di Iosafat, vicino a Gerusalemme, dove secondo la Bibbia tutte le anime risorte il Giorno del Giudizio andranno a rivestirsi dei loro corpi mortali, prima di ascoltare la sentenza finale.
Al v. 18 Virgilio dice di aver letto nella mente di Dante il suo reale desiderio, cioè verificare se in quel Cerchio è dannato Farinata (Ciacco ne aveva predetto la perdizione).
Al v. 34 viso è lat. per «sguardo».
Il v. 39 (Le parole tue sien conte) può voler dire che Dante deve parlare in modo misurato e dignitoso, oppure ornato e forbito.
Le rime ai vv. 41, 43, 45 (-oso/-uso) e ai vv. 65, 67, 69 (-ome/-ume) sono rime siciliane.
Il pronome latineggiante cui (v. 63) è stato variamente interpretato, ma vuol dire probabilmente «a colei che» (a Beatrice). In questo caso il disdegno mostrato da Guido verso di lei può valere unicamente sul piano allegorico (verso la grazia e la teologia), oppure anche sul piano letterale (disdor del poeta stilnovista verso la donna amata da Dante, ma di ciò non abbiamo conferme dirette).
Il v. 76 si legge in alcuni mss. «E se,» continuando al primo detto..., mentre la lezione più accreditata vede il sé come pronome retto dal verbo continuando, col senso «e proseguendo il discorso iniziato...».
La donna che qui regge (v. 80) è la Luna, identificata con Proserpina-Ecate. Farinata intende dire che passeranno meno di cinquanta mesi, ovvero meno di quattro anni.
L'Arbia (v. 86) è un fiumiciattolo che scorre nei pressi di Montaperti.
Il lezzo (v. 136) che proviene dalla valle sottostante il Cerchio è il puzzo che si leva dal VII Cerchio, dove sono puniti i violenti.
Al v. 18 Virgilio dice di aver letto nella mente di Dante il suo reale desiderio, cioè verificare se in quel Cerchio è dannato Farinata (Ciacco ne aveva predetto la perdizione).
Al v. 34 viso è lat. per «sguardo».
Il v. 39 (Le parole tue sien conte) può voler dire che Dante deve parlare in modo misurato e dignitoso, oppure ornato e forbito.
Le rime ai vv. 41, 43, 45 (-oso/-uso) e ai vv. 65, 67, 69 (-ome/-ume) sono rime siciliane.
Il pronome latineggiante cui (v. 63) è stato variamente interpretato, ma vuol dire probabilmente «a colei che» (a Beatrice). In questo caso il disdegno mostrato da Guido verso di lei può valere unicamente sul piano allegorico (verso la grazia e la teologia), oppure anche sul piano letterale (disdor del poeta stilnovista verso la donna amata da Dante, ma di ciò non abbiamo conferme dirette).
Il v. 76 si legge in alcuni mss. «E se,» continuando al primo detto..., mentre la lezione più accreditata vede il sé come pronome retto dal verbo continuando, col senso «e proseguendo il discorso iniziato...».
La donna che qui regge (v. 80) è la Luna, identificata con Proserpina-Ecate. Farinata intende dire che passeranno meno di cinquanta mesi, ovvero meno di quattro anni.
L'Arbia (v. 86) è un fiumiciattolo che scorre nei pressi di Montaperti.
Il lezzo (v. 136) che proviene dalla valle sottostante il Cerchio è il puzzo che si leva dal VII Cerchio, dove sono puniti i violenti.
TestoOra sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle. 3 «O virtù somma, che per li empi giri mi volvi», cominciai, «com’a te piace, parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. 6 La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati tutt’i coperchi, e nessun guardia face». 9 E quelli a me: «Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che là sù hanno lasciati. 12 Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l’anima col corpo morta fanno. 15 Però a la dimanda che mi faci quinc’entro satisfatto sarà tosto, e al disio ancor che tu mi taci». 18 E io: «Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m’hai non pur mo a ciò disposto». 21 «O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. 24 La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria natio a la qual forse fui troppo molesto». 27 Subitamente questo suono uscìo d’una de l’arche; però m’accostai, temendo, un poco più al duca mio. 30 Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s’è dritto: da la cintola in sù tutto ’l vedrai». 33 Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno a gran dispitto. 36 E l’animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: «Le parole tue sien conte». 39 Com’io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». 42 Io ch’era d’ubidir disideroso, non gliel celai, ma tutto gliel’apersi; ond’ei levò le ciglia un poco in suso; 45 poi disse: «Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fiate li dispersi». 48 «S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte», rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell’arte». 51 Allor surse a la vista scoperchiata un’ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s’era in ginocchie levata. 54 Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s’altri era meco; e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 57 piangendo disse: «Se per questo cieco carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 60 E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui ch’attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 63 Le sue parole e ’l modo de la pena m’avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena. 66 Di subito drizzato gridò: «Come? dicesti "elli ebbe"? non viv’elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 69 Quando s’accorse d’alcuna dimora ch’io facea dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora. 72 Ma quell’altro magnanimo, a cui posta restato m’era, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa: 75 e sé continuando al primo detto, «S’elli han quell’arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. 78 Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa. 81 E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?». 84 Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio». 87 Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso, «A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo sanza cagion con li altri sarei mosso. 90 Ma fu’ io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto». 93 «Deh, se riposi mai vostra semenza», prega’ io lui, «solvetemi quel nodo che qui ha ’nviluppata mia sentenza. 96 El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che ’l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo». 99 «Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. 102 Quando s’appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. 105 Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta». 108 Allor, come di mia colpa compunto, dissi: «Or direte dunque a quel caduto che ’l suo nato è co’vivi ancor congiunto; 111 e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che ’l fei perché pensava già ne l’error che m’avete soluto». 114 E già ’l maestro mio mi richiamava; per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lu’ istava. 117 Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: qua dentro è ’l secondo Federico, e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». 120 Indi s’ascose; e io inver’ l’antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico. 123 Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?». E io li sodisfeci al suo dimando. 126 «La mente tua conservi quel ch’udito hai contra te», mi comandò quel saggio. «E ora attendi qui», e drizzò ’l dito: 129 «quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell’occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il viaggio». 132 Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo per un sentier ch’a una valle fiede, che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo. 136 |
ParafrasiA quel punto il mio maestro procedette per un sentiero nascosto, tra le mura e le tombe, e io lo seguii.
Gli chiesi: «O sommo sapiente, che mi conduci per i Cerchi infernali, ti prego di rispondermi e soddisfare il mio desiderio. SI potrebbero vedere i dannati che giacciono nelle tombe? Tutti i coperchi sono sollevati e nessun demone fa loro la guardia». E lui a me: «Saranno tutti richiusi quando le anime torneranno qui dalla valle di Giosafat coi corpi che hanno lasciato sulla Terra. In questo punto del cimitero sono puniti Epicuro e tutti i suoi seguaci, che proclamano la mortalità dell'anima. Perciò ben presto sarà soddisfatto il desiderio che mi hai svelato, e anche quell'altro (vedere Farinata) che tu non vuoi dirmi». E io: «Mia buona guida, io non ti nascondo i miei pensieri se non per parlare poco, e sei stato proprio tu a insegnarmelo in varie occasioni». «O toscano, che te ne vai per la città del fuoco parlando in modo così dignitoso, abbi la compiacenza di trattenerti. Il tuo accento indica che sei nato in quella nobile patria alla quale, forse, fui troppo fastidioso». Questa voce uscì improvvisamente da una delle tombe, per cui ebbi paura e mi strinsi un poco al mio maestro. Ed egli mi disse: «Voltati, che fai? Non vedi laggiù Farinata che si è sollevato? Lo puoi vedere dalla cintola in su». Io avevo già fitto il mio sguardo nel suo; e lui si ergeva con la fronte e il petto alti, come se disprezzasse tutto l'Inferno. E le mani di Virgilio, pronte e animose, mi spinsero fra le tombe verso di lui, mentre il maestro diceva: «Fa' che le tue parole siano misurate». Non appena fui ai piedi della sua tomba, mi guardò un poco e poi, quasi con disdegno, mi domandò: «Chi furono i tuoi avi?» Io, che ero smanioso di obbedire, non glieli nascosi ma, anzi, risposi pienamente; allora lui sollevò un poco le ciglia, poi disse: «Essi furono aspri nemici miei, dei miei avi e della mia parte politica (Ghibellini), al punto che per due volte li cacciai da Firenze». Io gli risposi: «Se essi furono cacciati, tornarono poi da ogni parte, in entrambe le occasioni; ma i vostri avi, invece, non furono altrettanto bravi». In quel momento apparve alla nostra vista un'anima, che si sporgeva accanto a quella di Farinata fino al mento: credo che fosse inginocchiata. Mi guardò intorno, come se avesse desiderio di vedere se c'era qualcun altro con me; e poi che smise di osservare, mi disse piangendo: «Se tu vai per questo cieco carcere per i tuoi meriti di intellettuale, dov'è mio figlio? E perché non è qui con te?» E io a lui: «Non sono qui per mio solo merito: colui che attende là (Virgilio) mi conduce attraverso l'Inferno verso colei (Beatrice) che vostro figlio Guido, forse, ebbe a disdegno (disprezzò)». Le sue parole e il fatto che fosse tra gli Epicurei mi avevano fatto capire il nome di costui (Cavalcante); perciò risposi così prontamente. E lui, improvvisamente sollevatosi, gridò: «Come? Hai detto "egli ebbe"? Guido non vive ancora? la dolce luce del sole non colpisce più i suoi occhi?» Quando si accorse che esitavo a rispondere, ricadde supino e non ricomparve più fuori dalla tomba. Ma quell'altro nobile dannato, alla cui domanda mi ero fermato, non mutò aspetto, né parve minimamente colpito dall'accaduto: e proseguendo il discorso iniziato, disse: «Se i miei avi hanno appreso male l'arte di rientrare in Firenze, ciò mi procura più sofferenza di questa tomba. Ma non passeranno cinquanta fasi lunari (meno di quattro anni) che anche tu saprai quant'è dolorosa quell'arte. E ora dimmi (e possa tu tornare nel dolce mondo terreno): perché i fiorentini sono così duri in ogni loro provvedimento contro la mia famiglia?» E io a lui: «Lo strazio e l'orrenda strage di Montaperti, che colorarono di rosso il fiume Arbia, ci induce a emanare queste leggi». Dopo che ebbe scosso il capo sospirando, disse: «Non fui certo il solo a combattere quella battaglia, né certo ci sarei andato senza una valida ragione. In compenso fui l'unico a difendere Firenze a viso aperto, quando ciascun capo ghibellino era pronto a raderla al suolo». Allora lo pregai: «Orsù, possa la vostra discendenza trovare pace: risolvetemi quel dubbio che aggroviglia i miei ragionamenti. Mi sembra che voi dannati vediate, se ho capito bene, gli eventi futuri, mentre abbiate altra conoscenza del presente». Disse: «Noi, come chi ha un difetto di vista (presbite), vediamo le cose che sono lontane nel tempo; soltanto questo ci permette Dio. Quando le cose si avvicinano o accadono, il nostro intelletto è vano e se altri non ci porta notizie, non sappiamo nulla della vostra condizione umana. Perciò puoi capire che la nostra conoscenza (del futuro) sarà totalmente annullata dal momento in cui sarà chiusa la porta del futuro, ovvero il giorno del Giudizio». Allora, come pentito della mia colpa, dissi: «Poi direte a quel dannato che suo figlio è ancora in vita; e se poc'anzi non gli diedi subito risposta, ditegli che lo feci perché ero nell'errore che voi mi avete spiegato». E ormai Virgilio mi richiamava; perciò pregai in fretta lo spirito che mi dicesse chi erano i suoi compagni di pena. Mi rispose: «Qui giaccio con più di mille dannati: qua dentro è Federico II di Svevia, nonché il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; non ti dico nulla degli altri». Quindi tornò nella tomba; e io mi incamminai verso l'antico poeta, ripensando a quelle parole che mi sembravano ostili. Virgilio si mosse; e poi, mentre camminava, mi disse: «Perché sei così turbato?» E io glielo spiegai. Quel saggio mi comandò: «La tua mente ricordi bene ciò che hai sentito contro di te. E ora ascolta,» e drizzò il dito: «quando sarai davanti al dolce raggio di colei che coi suoi begli occhi vede ogni cosa (Beatrice), saprai da lei il tuo destino futuro». Quindi si volse a sinistra: ci allontanammo dal muro e ci dirigemmo verso l'orlo esterno del Cerchio, per un sentiero che conduce a una valle da cui fin lassù arrivava un gran puzzo. |