Paradiso, Canto X
C. Crivelli, S. Tommaso d'Aquino
Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
s'esser vuoi lieto assai prima che stanco...
Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti...
"...Questi che m'è a destra più vicino,
frate e maestro fummi, ed esso Alberto
è di Cologna, e io Thomas d'Aquino..."
dietro pensando a ciò che si preliba,
s'esser vuoi lieto assai prima che stanco...
Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti...
"...Questi che m'è a destra più vicino,
frate e maestro fummi, ed esso Alberto
è di Cologna, e io Thomas d'Aquino..."
Argomento del Canto
Ascesa di Dante e Beatrice al IV Cielo del Sole. Apparizione degli spiriti sapienti della prima corona. Incontro con san Tommaso d'Aquino, che presenta gli altri undici beati.
È la notte di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
È la notte di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Dante contempla l'ordine del creato (1-27)
Dante osserva che Dio ha creato i Cieli con tale perfezione che non è possibile guardare tale spettacolo senza godere del suo valore, perciò invita il lettore a contemplare il punto in cui si intersecano Equatore celeste ed eclittica e ad ammirare l'opera del supremo artefice. Da quel punto diverge lo Zodiaco, obliquo rispetto all'Equatore per generare le stagioni, per cui se tale divergenza fosse maggiore o minore l'ordine della Terra verrebbe alterato. Il lettore deve pensare a ciò che si preannuncia, poiché il poeta è tutto assorbito dall'alta materia dei suoi versi e non potrà più assisterlo con altre indicazioni.
Ascesa al Cielo del Sole e apparizione delle anime (28-54)
J. Flaxman, Gli spiriti sapienti
Il Sole, che riflette sulla Terra il suo influsso benefico e misura il tempo, si trova nel punto equinoziale e Dante non si accorge di penetrare in esso, se non come colui che ha un improvviso pensiero e se ne avvede quando si è manifestato. Beatrice guida Dante di Cielo in Cielo, tanto velocemente che il suo atto è quasi istantaneo: una volta nel IV Cielo, il poeta vede delle luci ancor più splendenti della luce già intensissima del Sole, cosicché non potrebbe mai descrivere ciò a parole (il linguaggio umano è insufficiente a esprimere contenuti così elevati). Qui appaiono a Dante gli spiriti sapienti, sempre appagati dalla visione di Dio, e Beatrice esorta Dante a ringraziare l'Altissimo per il privilegio cui lo ha ammesso.
Dante ringrazia Dio (55-63)
Il cuore di un uomo non fu mai così ben disposto a rivolgersi a Dio e pronto a esprimere la propria gratitudine, come lo è quello di Dante a tali parole: egli si volge a Dio per ringraziarlo e il suo raccoglimento è tale che dimentica Beatrice. A lei non dispiace, anzi ne sorride al punto che lo splendore dei suoi occhi induce il poeta a dividere la sua attenzione tra Dio e lei stessa.
Dante ringrazia Dio (55-63)
Il cuore di un uomo non fu mai così ben disposto a rivolgersi a Dio e pronto a esprimere la propria gratitudine, come lo è quello di Dante a tali parole: egli si volge a Dio per ringraziarlo e il suo raccoglimento è tale che dimentica Beatrice. A lei non dispiace, anzi ne sorride al punto che lo splendore dei suoi occhi induce il poeta a dividere la sua attenzione tra Dio e lei stessa.
La prima corona di spiriti sapienti (54-81)
A. Vellutello, La prima corona
Dante vede più luci sfolgoranti che circondano lui e Beatrice come una corona, che cantano con voce melodiosa, simili all'alone luminoso che talvolta di notte attornia la Luna quando l'aria è molto umida. Il canto dei beati è così armonioso che per Dante è impossibile descriverlo a parole, così come è impossibile descrivere pienamente le bellezze del Paradiso. Le luci degli spiriti ruotano attorno a Dante e Beatrice per tre volte, simili a stelle che ruotano vicino al polo celeste, poi si arrestano e sembrano donne che danzano e si fermano attendendo che la musica riprenda.
San Tommaso presenta se stesso e gli altri beati (82-138)
Uno dei beati si rivolge a Dante e dichiara che la grazia divina risplende nel poeta, poiché gli è permesso accedere da vivo al Paradiso, quindi è impossibile che gli spiriti non esaudiscano spontaneamente tutti i suoi desideri, proprio come l'acqua scende naturalmente dall'alto verso il basso. Dante vuole sapere quali sono gli altri spiriti della corona e il beato si presenta come un membro dell'Ordine domenicano, dove ci si arricchisce spiritualmente se non si devia dalla regola. Egli è san Tommaso d'Aquino e lo spirito alla sua destra è il suo maestro Alberto Magno. Il beato invita Dante ad ascoltarlo seguendo con lo sguardo le altre luci, quindi presenta Francesco Graziano, che distinse tra legge divina e legge umana, Pietro Lombardo e Salomone, rispetto al quale nessuno fu più sapiente. Il beato indica poi Dionigi l'Areopagita, autore di un'opera sull'angelologia, Paolo Orosio, la cui opera storica aiutò sant'Agostino e Severino Boezio, la cui opera spiega la fallacia del mondo e il cui corpo giace nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, a Pavia. Gli altri spiriti della corona sono Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile e Riccardo di San Vittore, mentre l'ultimo beato alla sinistra di Tommaso è Sigieri di Brabante, che insegnò filosofia a Parigi e dimostrò delle verità che suscitarono invidie contro di lui.
San Tommaso presenta se stesso e gli altri beati (82-138)
Uno dei beati si rivolge a Dante e dichiara che la grazia divina risplende nel poeta, poiché gli è permesso accedere da vivo al Paradiso, quindi è impossibile che gli spiriti non esaudiscano spontaneamente tutti i suoi desideri, proprio come l'acqua scende naturalmente dall'alto verso il basso. Dante vuole sapere quali sono gli altri spiriti della corona e il beato si presenta come un membro dell'Ordine domenicano, dove ci si arricchisce spiritualmente se non si devia dalla regola. Egli è san Tommaso d'Aquino e lo spirito alla sua destra è il suo maestro Alberto Magno. Il beato invita Dante ad ascoltarlo seguendo con lo sguardo le altre luci, quindi presenta Francesco Graziano, che distinse tra legge divina e legge umana, Pietro Lombardo e Salomone, rispetto al quale nessuno fu più sapiente. Il beato indica poi Dionigi l'Areopagita, autore di un'opera sull'angelologia, Paolo Orosio, la cui opera storica aiutò sant'Agostino e Severino Boezio, la cui opera spiega la fallacia del mondo e il cui corpo giace nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, a Pavia. Gli altri spiriti della corona sono Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile e Riccardo di San Vittore, mentre l'ultimo beato alla sinistra di Tommaso è Sigieri di Brabante, che insegnò filosofia a Parigi e dimostrò delle verità che suscitarono invidie contro di lui.
Canto e danza delle anime (139-142)
Non appena Tommaso ha finito di parlare, la corona ricomincia a ruotare e a cantare così dolcemente che ricorda a Dante un orologio che tintinna per chiamare i frati di un convento a celebrare il Mattutino, in modo tale da riempire d'amore lo spirito ben disposto. L'armonia di quel canto è tale che Dante non potrebbe descriverla, poiché solo chi la ascolta direttamente in Paradiso può averne un'idea precisa.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti III-X, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
B. Angelico, Ritratto di san Tommaso
Il Canto descrive l'ascesa al Cielo del Sole di Dante e Beatrice, che lasciano alle spalle i primi tre Cieli in cui i beati avevano subìto un influsso limitante dai rispettivi astri ed entrano in quello che è stato definito il Paradiso vero e proprio, cui corrisponde un innalzamento della materia: ciò è sottolineato dall'elevatezza dello stile e dall'appello al lettore che è invitato a «cibarsi» da solo in quanto l'attenzione del poeta è tutta concentrata sui suoi versi, con un'apostrofe analoga a quella di Purg., IX, 70-72 (anche in quel caso, del resto, Dante stava per varcare la porta del Purgatorio presidiata dall'angelo). L'inizio di questo Canto è una solenne descrizione del grandioso spettacolo del Creato, opera ineffabile di Dio che il lettore è invitato a contemplare in tutta la sua perfezione: la perifrasi astronomica che indica il punto equinoziale dove si trova il Sole dà modo al poeta di spiegare la funzione dell'inclinazione dello Zodiaco, responsabile del ciclo stagionale e quindi dell'ordinato procedere del mondo; l'intero Universo è una macchina meravigliosa in cui ogni ingranaggio funziona in modo perfetto, incluso il ministro maggior de la natura (il Sole) che imprime il suo benefico influsso sulla Terra e la illumina fungendo anche da unità di misura del tempo umano. Questo accenno alla misurazione del tempo tornerà alla fine del Canto, con la descrizione dell'orologio che tintinna e richiama i frati del monastero alla celebrazione del Mattutino, quindi all'inizio della giornata, riprendendo l'immagine iniziale del cosmo come una perfetta costruzione in cui nulla è lasciato al caso (su tutto domina la volontà di Dio, supremo architetto che ha reso possibile tutto questo).
Gli spiriti che appaiono in questo Cielo sono delle luci sfavillanti che risaltano per luminosità nella luce pur intensissima del Sole, in un modo che per Dante è quasi impossibile da descrivere a parole: è il preannuncio di quella poetica dell'«inesprimibile» che tanta parte avrà nella Cantica e che in questo Canto è più volte ribadita, col dire che il linguaggio umano è troppo inferiore all'elevatezza della materia (vv. 43-44: Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami, / sì nol direi che mai s'imaginasse; 74-75: chi non s'impenna sì che la sù voli, / dal muto aspetti quindi le novelle; 147-148: in dolcezza ch'esser non pò nota / se non colà dove gioir s'insempra). Inizia da questo Cielo anche l'uso di immagini astratte nell'apparizione dei beati, che infatti formano una corona di dodici spiriti che circondano Dante e Beatrice e ruotano intorno con un canto melodioso: il cerchio è simbolo di perfezione e sapienza, ricordando anche il disco solare il cui influsso questi beati hanno subìto in vita, così come negli altri Cieli vedremo i beati formare una croce, l'aquila imperiale, una scala dorata. Dopo il ringraziamento a Dio da parte di Dante, a ciò esortato da Beatrice, è san Tommaso d'Aquino a presentare se stesso come uno dei beati della corona e a indicare gli altri undici spiriti al poeta: la scelta del domenicano è ovviamente non casuale, trattandosi del maggior filosofo cristiano del Medioevo e appartenente a uno dei due principali Ordini mendicanti, così come filosofi e teologi di primo piano sono i beati che formano con lui la corona. Il lungo discorso di san Tommaso è stilisticamente elevato, con la metafora iniziale del vino e della fiala («ampolla») che dovrà soddisfare la sete di conoscenza di Dante, l'adynaton dell'acqua che non può non scendere verso il basso, il paragone tra i beati della corona e i fiori che formano una ghirlanda, che in questo caso abbellisce Beatrice che ha portato fin qui Dante. San Tommaso presenta gli undici spiriti partendo dal suo maestro Alberto Magno alla sua destra e procedendo in quella direzione, facendo di ognuno il nome tranne nel caso di Salomone, indicato come colui che fu tanto saggio che a veder tanto non surse 'l secondo (questa frase susciterà il dubbio di Dante, che Tommaso chiarirà nel Canto XIII); tra gli altri spicca soprattutto Boezio, una delle principali fonti dantesche il cui cristianesimo è dubbio per i moderni, nonché Sigieri di Brabante, la cui ortodossia fu messa in discussione della Chiesa e da Tommaso stesso, che qui invece lo presenta come assertore di verità dottrinali (il loro accostamento in Paradiso è simmetrico a quello di san Bonaventura e Gioacchino da Fiore, in XII, 139-141). Tommaso presenta invece se stesso come uno degli agnelli della santa greggia di san Domenico, l'Ordine dove ci si arricchisce di meriti a condizione di non deviare dalla regola, altra affermazione che indurrà Dante a dubitare e il cui chiarimento sarà occupato interamente dal Canto successivo: il beato farà infatti il panegirico di san Francesco, fondatore dell'altro Ordine mendicante, per poi biasimare i difetti del proprio e cioè l'inclinazione peccaminosa ai beni terreni e alle ricchezze, parte della polemica contro la corruzione della Chiesa che diventerà essenziale nella III Cantica (il Canto XII avrà invece struttura speculare rispetto all'XI, poiché san Bonaventura, francescano, dopo il panegirico di san Domenico biasimerà i difetti del proprio Ordine, ovvero la poca fedeltà dei confratelli alla regola di Francesco).
Il Canto si chiude come detto con la descrizione del movimento armonioso della corona che viene paragonata al meccanismo di un orologio, i cui ingranaggi si integrano perfettamente per far suonare il richiamo alle ore canoniche: l'immagine si ricollega a quella iniziale del Sole indicato come principale indicatore del tempo e rimanda a quella del monastero dove il tempo è suddiviso nei momenti liturgici e dove i monaci vivono in perfetta armonia come gli spiriti di questo Cielo (che appartennero quasi tutti, come quelli della seconda corona, a ordini monastici). Da rilevare infine la presenza nei versi finali dell'onomatopea tin tin, che riproduce il suono dell'orologio in maniera semplice e immediata, e del verbo s'insempra che chiude il Canto ed è uno dei tanti neologismi danteschi presenti nella Cantica, che qui come altrove ha la funzione di impreziosire ed innalzare lo stile in corrispondenza con un argomento elevato (tali artifici, come si vedrà, diventeranno via via più frequenti nel corso del Paradiso).
Gli spiriti che appaiono in questo Cielo sono delle luci sfavillanti che risaltano per luminosità nella luce pur intensissima del Sole, in un modo che per Dante è quasi impossibile da descrivere a parole: è il preannuncio di quella poetica dell'«inesprimibile» che tanta parte avrà nella Cantica e che in questo Canto è più volte ribadita, col dire che il linguaggio umano è troppo inferiore all'elevatezza della materia (vv. 43-44: Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami, / sì nol direi che mai s'imaginasse; 74-75: chi non s'impenna sì che la sù voli, / dal muto aspetti quindi le novelle; 147-148: in dolcezza ch'esser non pò nota / se non colà dove gioir s'insempra). Inizia da questo Cielo anche l'uso di immagini astratte nell'apparizione dei beati, che infatti formano una corona di dodici spiriti che circondano Dante e Beatrice e ruotano intorno con un canto melodioso: il cerchio è simbolo di perfezione e sapienza, ricordando anche il disco solare il cui influsso questi beati hanno subìto in vita, così come negli altri Cieli vedremo i beati formare una croce, l'aquila imperiale, una scala dorata. Dopo il ringraziamento a Dio da parte di Dante, a ciò esortato da Beatrice, è san Tommaso d'Aquino a presentare se stesso come uno dei beati della corona e a indicare gli altri undici spiriti al poeta: la scelta del domenicano è ovviamente non casuale, trattandosi del maggior filosofo cristiano del Medioevo e appartenente a uno dei due principali Ordini mendicanti, così come filosofi e teologi di primo piano sono i beati che formano con lui la corona. Il lungo discorso di san Tommaso è stilisticamente elevato, con la metafora iniziale del vino e della fiala («ampolla») che dovrà soddisfare la sete di conoscenza di Dante, l'adynaton dell'acqua che non può non scendere verso il basso, il paragone tra i beati della corona e i fiori che formano una ghirlanda, che in questo caso abbellisce Beatrice che ha portato fin qui Dante. San Tommaso presenta gli undici spiriti partendo dal suo maestro Alberto Magno alla sua destra e procedendo in quella direzione, facendo di ognuno il nome tranne nel caso di Salomone, indicato come colui che fu tanto saggio che a veder tanto non surse 'l secondo (questa frase susciterà il dubbio di Dante, che Tommaso chiarirà nel Canto XIII); tra gli altri spicca soprattutto Boezio, una delle principali fonti dantesche il cui cristianesimo è dubbio per i moderni, nonché Sigieri di Brabante, la cui ortodossia fu messa in discussione della Chiesa e da Tommaso stesso, che qui invece lo presenta come assertore di verità dottrinali (il loro accostamento in Paradiso è simmetrico a quello di san Bonaventura e Gioacchino da Fiore, in XII, 139-141). Tommaso presenta invece se stesso come uno degli agnelli della santa greggia di san Domenico, l'Ordine dove ci si arricchisce di meriti a condizione di non deviare dalla regola, altra affermazione che indurrà Dante a dubitare e il cui chiarimento sarà occupato interamente dal Canto successivo: il beato farà infatti il panegirico di san Francesco, fondatore dell'altro Ordine mendicante, per poi biasimare i difetti del proprio e cioè l'inclinazione peccaminosa ai beni terreni e alle ricchezze, parte della polemica contro la corruzione della Chiesa che diventerà essenziale nella III Cantica (il Canto XII avrà invece struttura speculare rispetto all'XI, poiché san Bonaventura, francescano, dopo il panegirico di san Domenico biasimerà i difetti del proprio Ordine, ovvero la poca fedeltà dei confratelli alla regola di Francesco).
Il Canto si chiude come detto con la descrizione del movimento armonioso della corona che viene paragonata al meccanismo di un orologio, i cui ingranaggi si integrano perfettamente per far suonare il richiamo alle ore canoniche: l'immagine si ricollega a quella iniziale del Sole indicato come principale indicatore del tempo e rimanda a quella del monastero dove il tempo è suddiviso nei momenti liturgici e dove i monaci vivono in perfetta armonia come gli spiriti di questo Cielo (che appartennero quasi tutti, come quelli della seconda corona, a ordini monastici). Da rilevare infine la presenza nei versi finali dell'onomatopea tin tin, che riproduce il suono dell'orologio in maniera semplice e immediata, e del verbo s'insempra che chiude il Canto ed è uno dei tanti neologismi danteschi presenti nella Cantica, che qui come altrove ha la funzione di impreziosire ed innalzare lo stile in corrispondenza con un argomento elevato (tali artifici, come si vedrà, diventeranno via via più frequenti nel corso del Paradiso).
Note e passi controversi
I vv. 1-5 indicano che Dio (lo primo e ineffabile Valore), guardando il Figlio con lo Spirito Santo (l'Amore) che spira da entrambi, ha creato il movimento armonioso dei Cieli (quanto per mente e per loco si gira, ovvero grazie alle Intelligenze angeliche motrici).
Al v. 9 l'un moto e l'altro indicano i due opposti movimenti rotatori dei corpi celesti, quello diurno da est a ovest sul piano dell'Equatore celeste e quello annuo da ovest a est, sull'eclittica. I due piani di Equatore celeste ed eclittica formano un angolo di 23 gradi e mezzo e si intersecano in due punti detti equinoziali, che corrispondono alla posizione del Sole ai due equinozi: in questo momento il Sole si trova al punto dell'equinozio di primavera.
L'oblico cerchio (v. 13) è lo Zodiaco, che in realtà è una fascia larga circa 18 gradi: la sua inclinazione e quella dell'eclittica rispetto all'Equatore celete è responsabile del ciclo delle stagioni e rende quindi possibile la vita sulla Terra (vv. 16-21).
Al v. 22 il banco è probabilmente quello dello studente, mentre alcuni pensano al «desco» del convivio in quanto Dante usa poi la metafora del cibo.
I vv. 31-32 indicano che il Sole è nel punto equinoziale (cfr. vv. 8-9). Le spire indicano l'orbita descritta dal Sole, che nel sistema tolemaico si riteneva ruotasse intorno alla Terra e perciò percorreva un'orbita a spirale ascendente e discendente (ora siamo dopo l'equinozio di primavera, quindi il Sole ogni giorno sorge un po' più presto).
Al v. 37 il vb. scorge significa «guida»; di bene in meglio indica il passaggio da un Cielo a quello superiore, più perfetto.
Al v. 53 il Sol de li angeli è ovviamente Dio, con metafora che rimanda all'astro di questo Cielo (anche al v. 76: quelli ardenti soli, riferito ai beati della prima corona).
Al v. 55 digesto è latinismo e vuol dire «digerito», nel senso di «ben disposto».
I vv. 67-69 alludono all'alone luminoso che talvolta, nel cielo notturno, circonda la Luna (figlia di Latona, perché anticamente identificata con Diana): zona vale «fascia», «cintura», mentre il fil è il «raggio» lunare trattenuto dall'aria pregna di umidità.
Il v. 78 si riferisce al moto apparente delle stelle più vicine al polo celeste, lento e perfettamente circolare.
I vv. 79-81 alludono alla danza delle «ballate», in cui le donne danzavano appunto in cerchio al suono della ripresa; dopo un giro intero, veniva cantata la prima strofa e il ballo riprendeva, continuando così per tutta la ballata. Dante si riferisce al momento in cui le danzatrici, terminata la ripresa o una strofa, si fermano attendendo la prosecuzione della danza.
Il v. 96 (u' ben s'impingua se non si vaneggia) si riferisce alla corruzione dell'Ordine domenicano, come san Tommaso spiegherà a Dante in XI, 118-139).
Al v. 104 l'uno e l'altro foro indicano probabilmente la distinzione tra legge divina e umana elaborata da Graziano, base del diritto canonico.
I vv. 107-108 alludono alle parole del prologo dei Libri sententiarum di Pietro Lombardo, in cui lo scrittore diceva di voler offrire alla Chiesa il suo tributo, come la povera vedova del Vangelo (Luc., XXI, 1-4).
Il v. 111 si riferisce al dubbio sulla salvezza di Salomone, per via della sua lussuria senile (III Reg., XI, 1-9). Il re biblico è definito come l'uomo più saggio mai vissuto (a veder tanto non surse il secondo), frase che san Tommaso spiegherà in XIII, 31 ss.
I vv. 115-117 presentano Dionigi l'Areopagita, cui veniva attribuito il trattato De coelesti Hierarchia che sarà base dell'angelologia dantesca (cfr. Canto XXVIII).
L'avvocato de' tempi cristiani indicato al v. 119 è probabilmente lo storico Paolo Orosio, autore degli Historiarum libri VII adversus paganos che scrisse su consiglio di sant'Agostino per avvalorare il De civitate Dei (alcuni pensano invece al retore Mario Vittorino).
Al v. 128 Cieldauro indica la basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia, dove fu sepolto Boezio.
I pensieri / gravi (vv. 134-135) che afflissero Sigieri di Brabante e gli fecero sembrare tardo il morire sono probabilmente le persecuzioni degli avversari, tra cui lo stesso Tommaso, ma forse indicano i dubbi sull'indagine filosofica (le due ipotesi non si escludono a vicenda).
Il Vico de li Strami (v. 137) è la Rue du Fouarre («via della paglia») a Parigi, dov'erano le scuole di filosofia in cui Sigieri insegnava. Si chiamava così perché gli studenti portavano con sé della paglia dove sedersi durante le lezioni.
I vv. 139 ss. sono una delle prime attestazioni degli orologi nel Medioevo, meccanismi rudimentali che funzionavano con ruote dentate e contrappesi e che facevano suonare dei martelletti o dei campanelli, come sveglia. La sposa di Dio è la Chiesa, che si alza all'alba per mattinar lo sposo («recitare il Mattutino in onore di Cristo»).
Il vb. s'insempra (v. 148) vuol dire «diventa eterno» ed è neologismo dantesco, coniato sull'avverbio «sempre» (cfr. t'insusi, XVII, 13 e s'indova, XXXIII, 138).
Al v. 9 l'un moto e l'altro indicano i due opposti movimenti rotatori dei corpi celesti, quello diurno da est a ovest sul piano dell'Equatore celeste e quello annuo da ovest a est, sull'eclittica. I due piani di Equatore celeste ed eclittica formano un angolo di 23 gradi e mezzo e si intersecano in due punti detti equinoziali, che corrispondono alla posizione del Sole ai due equinozi: in questo momento il Sole si trova al punto dell'equinozio di primavera.
L'oblico cerchio (v. 13) è lo Zodiaco, che in realtà è una fascia larga circa 18 gradi: la sua inclinazione e quella dell'eclittica rispetto all'Equatore celete è responsabile del ciclo delle stagioni e rende quindi possibile la vita sulla Terra (vv. 16-21).
Al v. 22 il banco è probabilmente quello dello studente, mentre alcuni pensano al «desco» del convivio in quanto Dante usa poi la metafora del cibo.
I vv. 31-32 indicano che il Sole è nel punto equinoziale (cfr. vv. 8-9). Le spire indicano l'orbita descritta dal Sole, che nel sistema tolemaico si riteneva ruotasse intorno alla Terra e perciò percorreva un'orbita a spirale ascendente e discendente (ora siamo dopo l'equinozio di primavera, quindi il Sole ogni giorno sorge un po' più presto).
Al v. 37 il vb. scorge significa «guida»; di bene in meglio indica il passaggio da un Cielo a quello superiore, più perfetto.
Al v. 53 il Sol de li angeli è ovviamente Dio, con metafora che rimanda all'astro di questo Cielo (anche al v. 76: quelli ardenti soli, riferito ai beati della prima corona).
Al v. 55 digesto è latinismo e vuol dire «digerito», nel senso di «ben disposto».
I vv. 67-69 alludono all'alone luminoso che talvolta, nel cielo notturno, circonda la Luna (figlia di Latona, perché anticamente identificata con Diana): zona vale «fascia», «cintura», mentre il fil è il «raggio» lunare trattenuto dall'aria pregna di umidità.
Il v. 78 si riferisce al moto apparente delle stelle più vicine al polo celeste, lento e perfettamente circolare.
I vv. 79-81 alludono alla danza delle «ballate», in cui le donne danzavano appunto in cerchio al suono della ripresa; dopo un giro intero, veniva cantata la prima strofa e il ballo riprendeva, continuando così per tutta la ballata. Dante si riferisce al momento in cui le danzatrici, terminata la ripresa o una strofa, si fermano attendendo la prosecuzione della danza.
Il v. 96 (u' ben s'impingua se non si vaneggia) si riferisce alla corruzione dell'Ordine domenicano, come san Tommaso spiegherà a Dante in XI, 118-139).
Al v. 104 l'uno e l'altro foro indicano probabilmente la distinzione tra legge divina e umana elaborata da Graziano, base del diritto canonico.
I vv. 107-108 alludono alle parole del prologo dei Libri sententiarum di Pietro Lombardo, in cui lo scrittore diceva di voler offrire alla Chiesa il suo tributo, come la povera vedova del Vangelo (Luc., XXI, 1-4).
Il v. 111 si riferisce al dubbio sulla salvezza di Salomone, per via della sua lussuria senile (III Reg., XI, 1-9). Il re biblico è definito come l'uomo più saggio mai vissuto (a veder tanto non surse il secondo), frase che san Tommaso spiegherà in XIII, 31 ss.
I vv. 115-117 presentano Dionigi l'Areopagita, cui veniva attribuito il trattato De coelesti Hierarchia che sarà base dell'angelologia dantesca (cfr. Canto XXVIII).
L'avvocato de' tempi cristiani indicato al v. 119 è probabilmente lo storico Paolo Orosio, autore degli Historiarum libri VII adversus paganos che scrisse su consiglio di sant'Agostino per avvalorare il De civitate Dei (alcuni pensano invece al retore Mario Vittorino).
Al v. 128 Cieldauro indica la basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia, dove fu sepolto Boezio.
I pensieri / gravi (vv. 134-135) che afflissero Sigieri di Brabante e gli fecero sembrare tardo il morire sono probabilmente le persecuzioni degli avversari, tra cui lo stesso Tommaso, ma forse indicano i dubbi sull'indagine filosofica (le due ipotesi non si escludono a vicenda).
Il Vico de li Strami (v. 137) è la Rue du Fouarre («via della paglia») a Parigi, dov'erano le scuole di filosofia in cui Sigieri insegnava. Si chiamava così perché gli studenti portavano con sé della paglia dove sedersi durante le lezioni.
I vv. 139 ss. sono una delle prime attestazioni degli orologi nel Medioevo, meccanismi rudimentali che funzionavano con ruote dentate e contrappesi e che facevano suonare dei martelletti o dei campanelli, come sveglia. La sposa di Dio è la Chiesa, che si alza all'alba per mattinar lo sposo («recitare il Mattutino in onore di Cristo»).
Il vb. s'insempra (v. 148) vuol dire «diventa eterno» ed è neologismo dantesco, coniato sull'avverbio «sempre» (cfr. t'insusi, XVII, 13 e s'indova, XXXIII, 138).
Testo
Guardando nel suo Figlio
con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira, lo primo e ineffabile Valore 3 quanto per mente e per loco si gira con tant’ordine fé, ch’esser non puote sanza gustar di lui chi ciò rimira. 6 Leva dunque, lettore, a l’alte rote meco la vista, dritto a quella parte dove l’un moto e l’altro si percuote; 9 e lì comincia a vagheggiar ne l’arte di quel maestro che dentro a sé l’ama, tanto che mai da lei l’occhio non parte. 12 Vedi come da indi si dirama l’oblico cerchio che i pianeti porta, per sodisfare al mondo che li chiama. 15 Che se la strada lor non fosse torta, molta virtù nel ciel sarebbe in vano, e quasi ogne potenza qua giù morta; 18 e se dal dritto più o men lontano fosse ‘l partire, assai sarebbe manco e giù e sù de l’ordine mondano. 21 Or ti riman, lettor, sovra ‘l tuo banco, dietro pensando a ciò che si preliba, s’esser vuoi lieto assai prima che stanco. 24 Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba; ché a sé torce tutta la mia cura quella materia ond’io son fatto scriba. 27 Lo ministro maggior de la natura, che del valor del ciel lo mondo imprenta e col suo lume il tempo ne misura, 30 con quella parte che sù si rammenta congiunto, si girava per le spire in che più tosto ognora s’appresenta; 33 e io era con lui; ma del salire non m’accors’io, se non com’uom s’accorge, anzi ‘l primo pensier, del suo venire. 36 È Beatrice quella che sì scorge di bene in meglio, sì subitamente che l’atto suo per tempo non si sporge. 39 Quant’esser convenia da sé lucente quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi, non per color, ma per lume parvente! 42 Perch’io lo ‘ngegno e l’arte e l’uso chiami, sì nol direi che mai s’imaginasse; ma creder puossi e di veder si brami. 45 E se le fantasie nostre son basse a tanta altezza, non è maraviglia; ché sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse. 48 Tal era quivi la quarta famiglia de l’alto Padre, che sempre la sazia, mostrando come spira e come figlia. 51 E Beatrice cominciò: «Ringrazia, ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo sensibil t’ha levato per sua grazia». 54 Cor di mortal non fu mai sì digesto a divozione e a rendersi a Dio con tutto ‘l suo gradir cotanto presto, 57 come a quelle parole mi fec’io; e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise, che Beatrice eclissò ne l’oblio. 60 Non le dispiacque; ma sì se ne rise, che lo splendor de li occhi suoi ridenti mia mente unita in più cose divise. 63 Io vidi più folgór vivi e vincenti far di noi centro e di sé far corona, più dolci in voce che in vista lucenti: 66 così cinger la figlia di Latona vedem talvolta, quando l’aere è pregno, sì che ritenga il fil che fa la zona. 69 Ne la corte del cielo, ond’io rivegno, si trovan molte gioie care e belle tanto che non si posson trar del regno; 72 e ‘l canto di quei lumi era di quelle; chi non s’impenna sì che là sù voli, dal muto aspetti quindi le novelle. 75 Poi, sì cantando, quelli ardenti soli si fuor girati intorno a noi tre volte, come stelle vicine a’ fermi poli, 78 donne mi parver, non da ballo sciolte, ma che s’arrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte. 81 E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando lo raggio de la grazia, onde s’accende verace amore e che poi cresce amando, 84 multiplicato in te tanto resplende, che ti conduce su per quella scala u’ sanza risalir nessun discende; 87 qual ti negasse il vin de la sua fiala per la tua sete, in libertà non fora se non com’acqua ch’al mar non si cala. 90 Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora questa ghirlanda che ‘ntorno vagheggia la bella donna ch’al ciel t’avvalora. 93 Io fui de li agni de la santa greggia che Domenico mena per cammino u’ ben s’impingua se non si vaneggia. 96 Questi che m’è a destra più vicino, frate e maestro fummi, ed esso Alberto è di Cologna, e io Thomas d’Aquino. 99 Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo, di retro al mio parlar ten vien col viso girando su per lo beato serto. 102 Quell’altro fiammeggiare esce del riso di Grazian, che l’uno e l’altro foro aiutò sì che piace in paradiso. 105 L’altro ch’appresso addorna il nostro coro, quel Pietro fu che con la poverella offerse a Santa Chiesa suo tesoro. 108 La quinta luce, ch’è tra noi più bella, spira di tal amor, che tutto ‘l mondo là giù ne gola di saper novella: 111 entro v’è l’alta mente u’ sì profondo saver fu messo, che, se ‘l vero è vero a veder tanto non surse il secondo. 114 Appresso vedi il lume di quel cero che giù in carne più a dentro vide l’angelica natura e ‘l ministero. 117 Ne l’altra piccioletta luce ride quello avvocato de’ tempi cristiani del cui latino Augustin si provide. 120 Or se tu l’occhio de la mente trani di luce in luce dietro a le mie lode, già de l’ottava con sete rimani. 123 Per vedere ogni ben dentro vi gode l’anima santa che ‘l mondo fallace fa manifesto a chi di lei ben ode. 126 Lo corpo ond’ella fu cacciata giace giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da essilio venne a questa pace. 129 Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro d’Isidoro, di Beda e di Riccardo, che a considerar fu più che viro. 132 Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri gravi a morir li parve venir tardo: 135 essa è la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidiosi veri». 138 Indi, come orologio che ne chiami ne l’ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami, 141 che l’una parte e l’altra tira e urge, tin tin sonando con sì dolce nota, che ‘l ben disposto spirto d’amor turge; 144 così vid’io la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza ch’esser non pò nota se non colà dove gioir s’insempra. 148 |
ParafrasiLa prima e indicibile Potenza (il Padre), guardando il Figlio con lo Spirito Santo che spira eternamente da entrambi, creò l'armonioso movimento dei Cieli in modo così perfetto che non è possibile ammirarlo senza godere dell'immagine divina.
Dunque, o lettore, alza lo sguardo con me alle sfere celesti, proprio verso quel punto in cui i due movimenti opposti si intersecano (il punto equinoziale); e comincia ad ammirare lì l'opera d'arte di quell'artefice (Dio) che la ama dentro di sé, al punto che non ne distoglie mai lo sguardo. Vedi come da lì diverge lo Zodiaco che porta con sé i pianeti, per soddisfare le esigenze della Terra che li invoca (per le influenze e per il ciclo stagionale). Infatti, se la sua traiettoria non fosse obliqua rispetto all'Equatore celeste, molti influssi astrali sarebbero inutili e qui, sulla Terra, ogni potenzialità della natura resterebbe inattiva; e se la divergenza fosse maggiore o minore, l'ordine del mondo sarebbe assai manchevole in entrambi gli emisferi. Adesso resta, lettore, sopra il tuo banco, pensando a ciò che ti dico e che si preannuncia, se vuoi rallegrarti prima di essere stanco. Io ti ho posto le vivande di fronte; adesso devi mangiare da solo, poiché quella materia (il Paradiso) che io sono chiamato a trascrivere attira a sé tutta la mia attenzione. Il maggiore ministro della natura (il Sole), che diffonde il suo benefico influsso sulla Terra e con la sua luce misura il tempo, unito con quel punto (equinoziale) che ho detto prima, ruotava in quella spirale in cui ogni giorno sorge un po' prima; E io ero con lui; ma non mi accorsi di esservi asceso, se non come colui che si accorge di un pensiero improvviso solo dopo che questo è comparso. Beatrice guida da un Cielo a quello superiore così rapidamente, che il suo atto è praticamente istantaneo. Le luci dei beati che erano dentro al Cielo del Sole dovevano essere davvero splendenti, perché io le distinguevo anche se non erano di colore diverso! Per quanto io invochi il mio ingegno, l'arte e l'esperienza, non potrei descrivere tutto ciò per renderne un'idea compiuta; tuttavia si può credere e dunque bisogna desiderare di vederlo. E se il nostro linguaggio è così inadeguato a una materia così alta, non bisogna stupirsi; infatti nessun occhio umano ha mai visto una luce più intensa di quella del Sole. Qui si presentava in tal modo la quarta schiera dei beati (spiriti sapienti), che il Padre sazia di continuo mostrandogli il mistero della Trinità. E Beatrice iniziò: «Ringrazia, ringrazia il Sole degli angeli (Dio) che per sua grazia ti ha sollevato a questo Sole materiale». Il cuore di un uomo non fu mai così ben disposto alla devozione e così pronto a rendersi a Dio con tutta la sua gratitudine, come lo fui io a quelle parole; e il mio amore si rivolse a Lui a tal punto che si dimenticò totalmente di Beatrice. A lei non dispiacque, anzi, ne sorrise, al punto che lo splendore dei suoi occhi gioiosi indusse la mia mente a dividersi tra più cose (Dio e il suo sorriso beato). Io vidi diverse luci vivide e sfolgoranti più del Sole circondarci come una corona, di cui noi eravamo il centro, che cantavano più dolcemente di quanto fossero luminose: così, talvolta, vediamo la Luna circondata da un alone, quando l'aria è umida e trattiene il raggio lunare che forma una fascia. Nella corte del Paradiso, da dove ritorno, si trovano molti gioielli belli e preziosi, tanto che non si possono portar via da quel regno; e il canto di quelle luci era uno di questi gioielli; chi non è in grado di volare fin lassù (diventando beato dopo la morte) non si aspetti che io lo descriva, come un muto non può recare le notizie. Dopo che quei soli ardenti (gli spiriti), cantando così, ebbero compiuto tre giri, come stelle vicine ai poli celesti, mi sembrarono delle donne che ancora stanno danzando e che si fermano in silenzio, ascoltando finché non hanno sentito la musica che fa riprendere il ballo. E dentro a una di quelle luci sentii dire: «Poiché il raggio della grazia divina, dal quale si accende il vero amore che poi, amando, continua a crescere, risplende moltiplicato in te, visto che ti conduce su per quella scala (il Paradiso) dalla quale nessuno scende senza risalire; se qualcuno ti negasse il vino della sua ampolla per placare la tua sete (di conoscenza), non agirebbe in libertà proprio come un'acqua che non scendesse dal monte fino al mare. Tu vuoi sapere di quali fiori è formata questa ghirlanda (la corona di spiriti) che contempla tutt'intorno alla bella donna che ti guida al Cielo. Io fui uno degli agnelli del santo gregge che san Domenico conduce per il cammino, dove ci si arricchisce di beni spirituali se non si devia dalla regola. Questi, che è immediatamente alla mia destra, fu frate e fu mio maestro: è Alberto Magno di Colonia, e io sono Tommaso d'Aquino. Se tu vuoi sapere i nomi di tutti gli altri, segui le mie parole facendo scorrere lo sguardo lungo le luci di questa beata corona. Quell'altra luce fiammeggiante è prodotta dal sorriso di Francesco Graziano, che aiutò l'una e l'altra legge in modo tale che piace al Paradiso. L'altro che dopo di lui abbellisce la nostra schiera, fu quel Pietro Lombardo che offrì alla Santa Chiesa ogni suo avere come la poverella del Vangelo. La quinta luce, che è la più bella fra noi, spira di un tale amore che tutto il mondo desidera conoscere il suo destino: dentro vi è l'alta mente dove fu infuso un sapere così profondo, che, se le Scritture dicono il vero, non ci fu un uomo più saggio di lui (Salomone). Vicino vedi la luce di quel cero (Dionigi l'Areopagita) che quando era vivo vide più addentro di ogni altro la natura e la funzione degli angeli. Nell'altra luce più piccola ride quell'avvocato dei tempi cristiani (Paolo Orosio) della cui opera in latino si avvalse sant'Agostino. Ora, se tu fai scorrere di luce in luce l'occhio della tua mente dietro le mie parole, ti resta da scoprire chi sia l'ottava luce. Dentro vi gode l'anima santa che dimostra la fallacia del mondo a chi legge bene le sue opere, giacché ora vede il sommo bene (Severino Boezio). Lo corpo da cui essa fu strappata giace sulla Terra nella basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro; e la sua anima giunse a questa pace dal martirio e dall'esilio terreno. Oltre vedi fiammeggiare lo spirito ardente di Isidoro di Siviglia, del Venerabile Beda, di Riccardo di San Vittore che nella contemplazione di Dio fu più che un uomo. E questi, dal quale il tuo sguardo torna su di me, è la luce di uno spirito che fu oppresso da gravi pensieri, tanto che la morte gli sembrò tarda: essa è la luce eterna di Sigieri di Brabante, che, esercitando l'insegnamento nella 'Via della paglia' a Parigi, dimostrò delle verità dottrinali che suscitarono invidie contro di lui». A quel punto, come un orologio che, nell'ora in cui la Chiesa si leva, la chiama a recitare il Mattutino a Cristo affinché egli la ami ancora, in cui una parte tira e l'altra spinge (le ruote dentate), tintinnando in modo così dolce che riempie d'amore lo spirito ben disposto; così io vidi quella gloriosa corona di spiriti muoversi e cantare con un'armonia e una melodia così dolce che non la si può capire, se non in Paradiso dove la gioia diventa eterna. |