Paradiso, Canto IX
A. Vellutello, Folchetto e Raab
"...D'una radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d'esta stella..."
"...Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s'imprenta, com'io fe' di lui..."
"...Per questo l'Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a' lor vivagni..."
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d'esta stella..."
"...Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s'imprenta, com'io fe' di lui..."
"...Per questo l'Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a' lor vivagni..."
Argomento del Canto
Ancora nel III Cielo di Venere. Profezia di Carlo Martello sulla sua discendenza. Incontro con Cunizza da Romano e sue profezie. Incontro con Folchetto di Marsiglia, che indica a Dante l'anima di Raab. Folchetto condanna l'avarizia dei religiosi.
È la notte di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
È la notte di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Profezia di Carlo Martello (1-12)
Dante si rivolge idealmente a Clemenza, la moglie di Carlo Martello, narrando che il beato prima ha chiarito i suoi dubbi e poi gli ha profetizzato gli inganni che i suoi discendenti dovranno subire, raccomandandosi però di tacere e di lasciare passare il tempo, in quanto tali azioni verranno punite da Dio. Alla fine delle sue parole, Carlo torna a rivolgersi a Dio e Dante prorompe in una dura invettiva contro i cattivi cristiani, che si distolgono dai beni celesti per ricercare cose vane.
Incontro con Cunizza da Romano (13-36)
J. Flaxman, Cunizza da Romano
La luce di un altro beato si avvicina a Dante e il suo splendore gli fa capire che desidera parlare con lui, per cui il poeta si rivolge con uno sguardo a Beatrice e la donna gli fa un cenno d'assenso. Dante parla allora allo spirito e lo prega di rispondergli, dimostrando così che può leggere i suoi desideri nella sua mente. L'anima smette di cantare e inizia a parlare a Dante, come colui al quale piace fare del bene: essa dichiara che in quella terra (la Marca Trevigiana) compresa tra la Repubblica di Venezia e le sorgenti di Brenta e Piave sorge un colle non molto alto, da dove discese Ezzelino da Romano che esercitò il suo tirannico dominio su tutta la regione. L'anima che parla è sua sorella Cunizza e risplende in questo Cielo perché in vita subì l'influsso del pianeta Venere, anche se la donna perdona a se stessa questa inclinazione e non se ne rammarica, ciò che forse può sembrare difficile da capire al volgo.
Profezie di Cunizza (37-63)
Palazzo dei Trecento a Treviso (1889)
Cunizza indica a Dante l'anima che gli è più vicina (Folchetto di Marsiglia), dicendo che ebbe grande fama nel mondo e che essa durerà ancora molti secoli. Gli uomini dovrebbero cercare di lasciare dietro di sé un buon ricordo sulla Terra, ciò a cui non bada invece il popolo che abita la Marca Trevigiana, né se ne pente pur subendo continui castighi: tuttavia presto i Padovani arrosseranno col proprio sangue l'acqua della palude del Bacchiglione presso Vicenza, in quanto gli abitanti della Marca sono restii al loro dovere. Anche Rizzardo da Camino, attuale signore di Treviso pieno di superbia, ben presto verrà ucciso; e Feltre rimpiangerà il tradimento consumato dal suo vescovo, tanto odioso che nessuno è stato imprigionato per una colpa simile (egli verserà il sangue di alcuni fuorusciti di Ferrara che consegnerà ai loro nemici per mostrarsi di parte, anche se tale condotta sarà conforme a quella di quel paese). Cunizza legge tali profezie nella mente dei Troni, attraverso i quali Dio esercita la sua giustizia e pronuncia queste severe condanne.
Incontro con Folchetto di Marsiglia (64-108)
Immagine della città di Marsiglia
Cunizza smette di parlare e sembra rivolta a tutt'altro, tornando a danzare in cerchio come faceva prima, mentre lo spirito che ha indicato in precedenza appare a Dante come un rubino colpito dal sole. In Paradiso, osserva il poeta, i beati acquistano fulgore quando gioiscono, come sulla Terra quando si sorride, invece all'Inferno l'ombra diventa oscura quanto più la mente è rattristata. Dante si rivolge allo spirito e afferma che quello legge nella mente divina, perciò nulla può essergli ignoto: perché, allora, la sua voce che canta coi Serafini non risponde ai suoi dubbi? Il poeta non attenderebbe una sua parola, se potesse leggere nella sua mente come il beato in quella di Dante. A questo punto lo spirito spiega che proviene dal Mar Mediterraneo, che si estende per novanta gradi di latitudine cosicché fa meridiano là dove all'inizio fa orizzonte, ed egli è nato tra la foce dell'Ebro e della Magra che per un breve tratto divide la Liguria dalla Toscana. La città in cui nacque, Marsiglia, che subì un'orrenda strage ad opera di Bruto, ha quasi lo stesso tramonto di Bougie, in Algeria (sono sullo stesso meridiano). Il suo nome fu Folco (Folchetto) e in vita subì l'influsso del Cielo di Venere, così come ora egli risplende in esso: né Didone, che offese la memoria di Creusa e Sicheo, né Fillide, che fu delusa da Demofoonte, e neppure Ercole, quando impazzì d'amore per Iole, arsero d'amore quanto fece lui, finché fu in giovane età. Qui, spiega Folchetto, non ci si pente di tale influsso all'amore ma se ne sorride, pensando alla virtù divina che lo ispirò; qui in Paradiso si contempla l'arte divina della creazione che l'amore di Dio abbellisce e si distingue il bene per cui i Cieli danno forma al mondo terreno.
Folchetto indica l'anima di Raab (109-126)
Folchetto vuole appagare tutti i desideri di Dante, quindi deve
proseguire in quanto il poeta vuole sapere chi è l'anima che sfolgora
accanto al beato, proprio come un'acqua cristallina colpita dal sole.
Dante deve sapere che in quella luce c'è l'anima di Raab,
il cui splendore si riverbera su tutti gli spiriti amanti di questo Cielo:
ella fu assunta nel III Cielo prima di ogni altra anima, in seguito al
trionfo di Cristo. Raab è simbolo della grande vittoria ottenuta da
Cristo con il sacrificio della croce, poiché ella favorì la prima
vittoria militare di Giosuè in Terrasanta, la regione di cui ora il papa
poco si ricorda.
Folchetto condanna l'avarizia dei religiosi (127-142)
Recto e verso di un fiorino (1332-48)
Folchetto prosegue spiegando che Firenze, città che è il prodotto di Lucifero che per primo si ribellò a Dio e la cui invidia è fonte di tanta sofferenza, produce e diffonde il maledetto fiorino che ha sviato le pecore e gli agnelli (tutto il popolo cristiano), dal momento che ha trasformato in lupo il pastore (suscitando avidità nel papa e nei prelati). Per questo i Vangeli e i libri dei Padri della Chiesa sono abbandonati, e si leggono solo i Decretali, come si evince dai loro margini sgualciti. Il papa e i cardinali pensano solo a questo e non si curano di bandire una Crociata per liberare Nazareth, là dove l'arcangelo Gabriele fece a Maria l'Annunciazione. Tuttavia il Vaticano e gli altri luoghi sacri di Roma dove furono martirizzati i primi cristiani, saranno presto liberi dalla profanazione di questi ecclesiastici corrotti. (Foto: © Classical Numismatic Group, Inc).
Interpretazione complessiva
Il Canto chiude l'episodio dedicato a Carlo Martello con le ultime parole del beato che profetizzano gli inganni subìti dai suoi discendenti, per poi presentare Cunizza da Romano e Folchetto di Marsiglia che saranno personaggi ben diversi dal principe angioino, essendosi dati dapprima all'amore sensuale e terreno per poi volgersi a quello divino e guadagnarsi la salvezza. Nei versi di apertura Dante si rivolge idealmente a Clemenza, probabilmente la vedova di Carlo Martello (anche la figlia aveva lo stesso nome), alludendo in modo oscuro alla profezia che lo spirito ha fatto circa i torti futuri alla sua semenza: è un probabile accenno alla fraudolenta usurpazione del regno di Napoli da parte del fratello Roberto d'Angiò ai danni del figlio di Carlo, Caroberto, anche se egli impone al poeta di tacere e di lasciare muover li anni in quanto il castigo divino non potrà tardare. Si tratta di una di quelle profezie oscure e indeterminate il cui esempio più famoso è in Par., XVII, 91-93, quando l'avo Cacciaguida predirà le incredibili imprese di Cangrande Della Scala di cui Dante non dovrà dire nulla; le parole di Carlo Martello sono la chiosa finale al discorso del Canto precedente contro il malgoverno degli Angioini e costituiscono un'ulteriore denuncia delle ingiustizie del mondo contro le quali la punizione divina arriverà presto, così come colpirà inesorabile i tiranni della Marca Trevigiana e i chierici corrotti, protagonisti delle profezie messe in bocca agli altri personaggi di questo Canto. Non a caso le parole di Carlo sono sottolineate da un duro rimprovero di Dante rivolto alle fatture empie, ai cattivi cristiani che si lasciano sviare dalle lusinghe terrene e non servono debitamente Dio, così come l'episodio sarà chiuso dall'invettiva ancor più dura che Folchetto rivolgerà alla Chiesa corrotta e a Firenze, colpevole di spargere nel mondo il maladetto fiore che suscita avidità ed è, quindi, fonte di corruzione.
L'incontro con Cunizza e Folchetto è al centro dell'episodio e i due personaggi, peraltro diversissimi, hanno in comune la stessa vicenda terrena di amore sfrenato e sensuale seguito da un ravvedimento, in quanto entrambi dichiarano di aver subìto l'influsso del pianeta Venere del quale tuttavia non si rammaricano. La questione è assai delicata sotto il profilo teologico e infatti essa, accennata da Cunizza come problematica (che parria forse forte al vostro vulgo, v. 36), viene poi risolta da Folchetto (vv. 103-108) il quale riconduce tutto alla teoria degli influssi astrali e al disegno provvidenziale, per cui l'inclinazione ad amare è una delle influenze che le intelligenze angeliche inviano sulla Terra e sono finalizzate al bene, per quanto tocchi poi agli uomini farne buon uso e realizzare opere virtuose (secondo la teoria del libero arbitrio chiarita in Purg., XVI). Nel caso suo e di Cunizza è stato così e i due, pur essendosi dati ad amori disordinati e licenziosi (Cunizza era addirittura fuggita col trovatore Sordello e le venivano attribuiti vari matrimoni), si sono ravveduti in tempo e hanno ottenuto la salvezza, di cui costituiscono un esempio sorprendente anche se meno clamoroso di quello di Catone Uticense o Manfredi di Svevia; nel caso di Folchetto, inoltre, che fu trovatore e poeta lirico al pari di Guido Guinizelli e Arnaut Daniel, c'è un'ulteriore riflessione sui rischi insiti nella poesia amorosa e sulla necessità di depurarla di ogni elemento che possa indurre al peccato, per cui Dante sembra voler chiudere definitivamente con la letteratura d'amore per dedicarsi alla poesia dell'amore di Dio, come gli episodi della parte finale del Purgatorio hanno ampiamente dimostrato (Folchetto, del resto, aveva smesso gli abiti del trovatore per diventare addirittura vescovo di Tolosa). Un ulteriore e, forse, più stupefacente esempio di spirito amante che ha ottenuto la salvezza è poi quello di Raab, la meretrice di Gerico che aiutò Giosuè a conquistare la città ed è stata la prima anima a salire nel III Cielo dopo il trionfo di Cristo, per cui la sua salvezza è simbolo dell'imperscrutabile giudizio divino non meno di personaggi come Traiano e Rifeo, che vedremo nel Cielo di Giove.
Entrambi i personaggi affrontano poi un discorso politico che sfocia in una minacciosa profezia, sul piano più proprio delle lotte comunali e della tirannide quello di Cunizza e sul piano della corruzione ecclesiastica quello di Folchetto. Quest'ultimo è indicato a Dante proprio dalla donna, che ne elogia la grande fama e dichiara che gli uomini farebbero bene a ricercarla sulla Terra, cosa che non fanno gli abitanti della Marca Trevigiana da cui lei proviene: dopo essersi presentata come sorella di Ezzelino da Romano, lo spietato tiranno che esercitò il suo dominio su quella terra, Cunizza predice una serie di sventure che colpiranno duramente i popoli di quella regione, ovvero la sconfitta dei Guelfi padovani ad opera dei Vicentini di Cangrande Della Scala (nel 1314), l'uccisione del signore di Treviso, Rizzardo da Camino (nel 1312), infine l'odioso tradimento del vescovo di Feltre, Alessandro Novello, che nel 1314 consegnò alcuni fuorusciti ferraresi al vicario angioino che li fece poi decapitare. Le vicende turbolente della Marca si inseriscono nel più generale disordine della terra prava / italica, già denunciato più volte da Dante e ricondotto alla mancanza di un'autorità imperiale nella Penisola (cfr. Purg., VI; XVI), per cui sia il Veneto sia la Romagna sono dominate da feroci tiranni e uomini senza scrupoli, che calpestano i diritti delle popolazioni loro assoggettate e sono autori di soprusi (discorso analogo per la Romagna in Inf., XXVII, 36-54; Purg., XIV, 88-126). È noto che Dante riponeva grandi aspettative in Cangrande signore di Verona, la cui vittoria contro i Guelfi è allusivamente evocata in questo Canto e la cui azione politica avrebbe dovuto ristabilire l'autorità imperiale sull'Italia del Nord, in modo da stroncare la resistenza non solo dei Comuni ribelli come Firenze, ma anche quella di signori e tiranni locali di cui Ezzelino era stato esempio più remoto e Rizzardo da Camino più recente, senza contare gli altri che dominavano su varie città della Romagna e della stessa Toscana.
Un duro castigo è profetizzato anche da Folchetto, che dopo la sua elegante e ricercata prosopopea (con la complessa perifrasi geografica che descrive il Mediterraneo e Marsiglia, la sua città natale) e la spiegazione sull'influsso di Venere che introduce la figura di Raab, prende spunto proprio da questo personaggio per lanciare un durissimo attacco contro la corruzione della Chiesa e, in particolare, contro i papi che pensano solo ad arricchirsi, anziché bandire una Crociata per riconquistare la Terrasanta dove Giosuè riportò la sua prima vittoria. Il tema si ricollega a tutti gli episodi del poema in cui è presente la polemica anti-ecclesiastica, soprattutto Inf., XIX (per il riferimento ai papi simoniaci) e XXVII, 85 ss., dove Guido da Montefeltro accusava Bonifacio VIII di fare guerra ai suoi nemici a Palestrina e non con Saracin né con Giudei, cioè non pensava a riconquistare il Santo Sepolcro: qui l'attacco di Folchetto è rivolto alla città di Firenze, colpevole di coniare e diffondere il fiorino che diventa mezzo di corruzione suscitando la cupidigia del papa e dei cardinali, che si arricchiscono con l'interpretazione capziosa del diritto canonico al fine di lucrare sulle indulgenze e altri provvedimenti simili (ne è dimostrazione il fatto che il Vangelo è trascurato, mentre i Decretali, cioè i manuali di diritto canonico, hanno i margini sdruciti per il troppo uso). Firenze è attaccata in quanto i banchieri di quella città finanziavano la monarchia francese e il fiorino era all'epoca la moneta più diffusa negli scambi commerciali: Folchetto la definisce addirittura il prodotto di Lucifero, poiché il suo denaro ha trasformato i pastori del gregge dei fedeli in famelici lupi (tale accusa riprende la condanna dell'usura e dell'uso eccessivo del denaro, di cui Dante ha parlato soprattutto in Inf., XVI-XVII e su cui tornerà nell'episodio di Cacciaguida, XVI). La dura invettiva di Folchetto anticipa quella di san Tommaso nel Canto XI, quando alla fine del panegirico di san Francesco biasimerà i difetti dell'Ordine domenicano dicendo che il suo pecuglio di nova vivanda / è fatto ghiotto, alludendo alle attività mondane perseguite dai frati per arricchirsi, nonché quella di san Pietro di XXVII, 19 ss., con il riferimento al Vaticano come cimitero / a la milizia che Pietro seguette (anche Pietro parlerà del suo cimiterio profanato da Bonifacio VIII e trasformato in una cloaca). Folchetto predice che presto esso e gli altri luoghi santi saranno liberi dall'avoltero, dalla profanazione di questi posti ad opera del clero corrotto (cfr. Inf., XIX, 4: per oro e per argento avolterate): non sappiamo a cosa esattamente il beato si riferisca, ma certo quest'ultima indeterminata profezia è in tono con l'andamento generale del Canto e si inserisce nel generale preannuncio da parte di Dante di un futuro rinnovamento della società per il ristabilirsi della giustizia, già attribuito in maniera altrettanto oscuro a figure come il «veltro» o il «DXV» e in cui il poeta sembra nutrire una fiducia incrollabile.
L'incontro con Cunizza e Folchetto è al centro dell'episodio e i due personaggi, peraltro diversissimi, hanno in comune la stessa vicenda terrena di amore sfrenato e sensuale seguito da un ravvedimento, in quanto entrambi dichiarano di aver subìto l'influsso del pianeta Venere del quale tuttavia non si rammaricano. La questione è assai delicata sotto il profilo teologico e infatti essa, accennata da Cunizza come problematica (che parria forse forte al vostro vulgo, v. 36), viene poi risolta da Folchetto (vv. 103-108) il quale riconduce tutto alla teoria degli influssi astrali e al disegno provvidenziale, per cui l'inclinazione ad amare è una delle influenze che le intelligenze angeliche inviano sulla Terra e sono finalizzate al bene, per quanto tocchi poi agli uomini farne buon uso e realizzare opere virtuose (secondo la teoria del libero arbitrio chiarita in Purg., XVI). Nel caso suo e di Cunizza è stato così e i due, pur essendosi dati ad amori disordinati e licenziosi (Cunizza era addirittura fuggita col trovatore Sordello e le venivano attribuiti vari matrimoni), si sono ravveduti in tempo e hanno ottenuto la salvezza, di cui costituiscono un esempio sorprendente anche se meno clamoroso di quello di Catone Uticense o Manfredi di Svevia; nel caso di Folchetto, inoltre, che fu trovatore e poeta lirico al pari di Guido Guinizelli e Arnaut Daniel, c'è un'ulteriore riflessione sui rischi insiti nella poesia amorosa e sulla necessità di depurarla di ogni elemento che possa indurre al peccato, per cui Dante sembra voler chiudere definitivamente con la letteratura d'amore per dedicarsi alla poesia dell'amore di Dio, come gli episodi della parte finale del Purgatorio hanno ampiamente dimostrato (Folchetto, del resto, aveva smesso gli abiti del trovatore per diventare addirittura vescovo di Tolosa). Un ulteriore e, forse, più stupefacente esempio di spirito amante che ha ottenuto la salvezza è poi quello di Raab, la meretrice di Gerico che aiutò Giosuè a conquistare la città ed è stata la prima anima a salire nel III Cielo dopo il trionfo di Cristo, per cui la sua salvezza è simbolo dell'imperscrutabile giudizio divino non meno di personaggi come Traiano e Rifeo, che vedremo nel Cielo di Giove.
Entrambi i personaggi affrontano poi un discorso politico che sfocia in una minacciosa profezia, sul piano più proprio delle lotte comunali e della tirannide quello di Cunizza e sul piano della corruzione ecclesiastica quello di Folchetto. Quest'ultimo è indicato a Dante proprio dalla donna, che ne elogia la grande fama e dichiara che gli uomini farebbero bene a ricercarla sulla Terra, cosa che non fanno gli abitanti della Marca Trevigiana da cui lei proviene: dopo essersi presentata come sorella di Ezzelino da Romano, lo spietato tiranno che esercitò il suo dominio su quella terra, Cunizza predice una serie di sventure che colpiranno duramente i popoli di quella regione, ovvero la sconfitta dei Guelfi padovani ad opera dei Vicentini di Cangrande Della Scala (nel 1314), l'uccisione del signore di Treviso, Rizzardo da Camino (nel 1312), infine l'odioso tradimento del vescovo di Feltre, Alessandro Novello, che nel 1314 consegnò alcuni fuorusciti ferraresi al vicario angioino che li fece poi decapitare. Le vicende turbolente della Marca si inseriscono nel più generale disordine della terra prava / italica, già denunciato più volte da Dante e ricondotto alla mancanza di un'autorità imperiale nella Penisola (cfr. Purg., VI; XVI), per cui sia il Veneto sia la Romagna sono dominate da feroci tiranni e uomini senza scrupoli, che calpestano i diritti delle popolazioni loro assoggettate e sono autori di soprusi (discorso analogo per la Romagna in Inf., XXVII, 36-54; Purg., XIV, 88-126). È noto che Dante riponeva grandi aspettative in Cangrande signore di Verona, la cui vittoria contro i Guelfi è allusivamente evocata in questo Canto e la cui azione politica avrebbe dovuto ristabilire l'autorità imperiale sull'Italia del Nord, in modo da stroncare la resistenza non solo dei Comuni ribelli come Firenze, ma anche quella di signori e tiranni locali di cui Ezzelino era stato esempio più remoto e Rizzardo da Camino più recente, senza contare gli altri che dominavano su varie città della Romagna e della stessa Toscana.
Un duro castigo è profetizzato anche da Folchetto, che dopo la sua elegante e ricercata prosopopea (con la complessa perifrasi geografica che descrive il Mediterraneo e Marsiglia, la sua città natale) e la spiegazione sull'influsso di Venere che introduce la figura di Raab, prende spunto proprio da questo personaggio per lanciare un durissimo attacco contro la corruzione della Chiesa e, in particolare, contro i papi che pensano solo ad arricchirsi, anziché bandire una Crociata per riconquistare la Terrasanta dove Giosuè riportò la sua prima vittoria. Il tema si ricollega a tutti gli episodi del poema in cui è presente la polemica anti-ecclesiastica, soprattutto Inf., XIX (per il riferimento ai papi simoniaci) e XXVII, 85 ss., dove Guido da Montefeltro accusava Bonifacio VIII di fare guerra ai suoi nemici a Palestrina e non con Saracin né con Giudei, cioè non pensava a riconquistare il Santo Sepolcro: qui l'attacco di Folchetto è rivolto alla città di Firenze, colpevole di coniare e diffondere il fiorino che diventa mezzo di corruzione suscitando la cupidigia del papa e dei cardinali, che si arricchiscono con l'interpretazione capziosa del diritto canonico al fine di lucrare sulle indulgenze e altri provvedimenti simili (ne è dimostrazione il fatto che il Vangelo è trascurato, mentre i Decretali, cioè i manuali di diritto canonico, hanno i margini sdruciti per il troppo uso). Firenze è attaccata in quanto i banchieri di quella città finanziavano la monarchia francese e il fiorino era all'epoca la moneta più diffusa negli scambi commerciali: Folchetto la definisce addirittura il prodotto di Lucifero, poiché il suo denaro ha trasformato i pastori del gregge dei fedeli in famelici lupi (tale accusa riprende la condanna dell'usura e dell'uso eccessivo del denaro, di cui Dante ha parlato soprattutto in Inf., XVI-XVII e su cui tornerà nell'episodio di Cacciaguida, XVI). La dura invettiva di Folchetto anticipa quella di san Tommaso nel Canto XI, quando alla fine del panegirico di san Francesco biasimerà i difetti dell'Ordine domenicano dicendo che il suo pecuglio di nova vivanda / è fatto ghiotto, alludendo alle attività mondane perseguite dai frati per arricchirsi, nonché quella di san Pietro di XXVII, 19 ss., con il riferimento al Vaticano come cimitero / a la milizia che Pietro seguette (anche Pietro parlerà del suo cimiterio profanato da Bonifacio VIII e trasformato in una cloaca). Folchetto predice che presto esso e gli altri luoghi santi saranno liberi dall'avoltero, dalla profanazione di questi posti ad opera del clero corrotto (cfr. Inf., XIX, 4: per oro e per argento avolterate): non sappiamo a cosa esattamente il beato si riferisca, ma certo quest'ultima indeterminata profezia è in tono con l'andamento generale del Canto e si inserisce nel generale preannuncio da parte di Dante di un futuro rinnovamento della società per il ristabilirsi della giustizia, già attribuito in maniera altrettanto oscuro a figure come il «veltro» o il «DXV» e in cui il poeta sembra nutrire una fiducia incrollabile.
Note e passi controversi
Clemenza (v. 1) era il nome sia della moglie sia della figlia di Carlo Martello, per cui è incerto a quale delle due donne si rivolga Dante: la vedova del principe era già morta all'epoca della visione (morì infatti nel 1295), tuttavia l'espressione Carlo tuo sembra riferirsi a un rapporto coniugale.
Gli 'nganni (v. 2) a cui accenna Dante si riferiscono sicuramente all'usurpazione del regno di Napoli da parte di Roberto, fratello di Carlo Martello, ai danni del figlio Caroberto: in verità Carlo II d'Angiò aveva avallato tale successione ed essa era stata validata prima da papa Bonifacio VIII, poi da Clemente V (i due papi di cui Dante ha predetto la dannazione in Inf., XIX).
Al v. 19 compenso vuol dire letteralmente «contrappeso», poiché Dante chiede a Cunizza di soddisfare il suo desiderio mettendo un contrappeso metaforico sulla bilancia del suo volere.
Il colle citato al v. 28 è il colle di Romano, che sorge non lontano da Bassano del Grappa e su cui era il castello degli Ezzelini.
Al v. 29 la facella (fiaccola incendiaria) è metaforicamente Ezzelino, che esercitò il suo dominio tirannico sulla Marca Trevigiana: l'immagine ricorda quella di Ecuba che sognò di partorire una torcia quando generò Paride, mentre una leggenda analoga circolava anche riguardo alla madre di Ezzelino (almeno secondo il commento di Pietro di Dante).
Il v. 40 (questo centesimo anno ancor s'incinqua) indica che l'anno secolare, il 1300, si ripeterà cinque volte, passeranno cioè cinque secoli (in generale, passerà molto tempo) prima che la fama di Folchetto svanisca. S'incinqua è neologismo dantesco, simile a s'addua (VII, 6), s'intrea (XIII, 57) e s'inmilla (XXVIII, 93).
Il Tagliamento e l'Adige (v. 44) sono i fiumi che delimitano la Marca Trevigiana a est ed ovest.
I vv. 46-48 alludono sicuramente alla sconfitta subìta dai Guelfi di Padova il 17 dic. 1314 ad opera dei Ghibellini di Vicenza, aiutati da Cangrande Della Scala: essi cambieranno l'acqua del Bacchiglione arrossandola col proprio sangue (altri interpretano il passo come allusione al fatto che i Vicentini deviarono le acque del fiume come azione di guerra contro i Padovani).
I fiumi Sile e Cagnano, oggi chiamato Botteniga (v. 49) si uniscono presso Treviso; colui che signoreggia sulla città è Rizzardo da Camino, figlio di quel Gherardo citato da Marco Lombardo (Purg., XVI, 124) come esempio di liberalità e cortesia: succedette al padre nel 1306 e fu ucciso in una congiura nel 1312.
I vv. 52-54 alludono al vescovo di Feltre, Alessandro Novello, che nel luglio 1314 consegnò tre fuorusciti ferraresi nelle mani del vicario angioino Pino della Tosa, che poi li fece decapitare. Il termine malta (v. 54) indica genericamente «prigione», attestato variamente nella letteratura del Due-Trecento, anche se c'erano varie prigioni che avevano quel nome (una, collocata nel lago di Bolsena, era adibita a carcere per ecclesiastici ed è forse quella indicata da Cunizza).
I Troni (v. 61) sono il terzo ordine della prima gerarchia angelica, che governa il VII Cielo di Saturno e attraverso cui Dio esercita la giustizia.
Il balasso (v. 69) è una specie di rubino, il cui nome deriva dall'arabo «balaksh» (dalla regione di Balascam da cui si importavano, secondo la testimonianza di Marco Polo nel Milione, XXXV).
Il vb. s'inluia (v. 73) è neologismo dantesco, come m'intuassi e m'inmii (v. 80), e significano «penetrare in lui, in te, in me». Cfr. l'analogo t'inlei di XXII, 127.
I fuochi pii / che di sei ali facen la coculla sono i Serafini, detti «fuochi» perché Serafino in ebraico vuol dire «ardente», e che si ammantano di sei ali (coculla, «cocolla», è il saio con cappuccio dei monaci). Questi angeli sono così descritti in Is., VI, 2.
Il v. 82 indica il Mediterraneo, di cui Folchetto spiega che si estende da ovest a est per novanta gradi, così che il cerchio che a Cadice è il suo orizzonte orientale, a Gerusalemme diventa il suo meridiano. Il Mediterraneo, in realtà, si estende per soli quarantadue gradi.
Buggea (v. 92) è l'odierna Bougie, in Algeria, che essendo quasi sullo stesso meridiano di Marsiglia vede il sole sorgere e tramontare nello stesso momento. Il v. 93 allude alla strage dei Marsigliesi fatta da Bruto nella guerra civile (cfr. Lucano, Phars., III, 572-573).
La figlia di Belo (v. 97) è Didone. La Rodopea (v. 100) è invece Fillide, figlia di Sitone re Tracia, dov'è il monte Rodope: innamoratasi di Demofoonte, figlio di Teseo e Fedra, e abbandonata da lui, s'impiccò venendo poi mutata in mandorlo (cfr. Ovidio, Her., II).
I vv. 106-108 sono molto controversi per l'interpretazione, e anche perché alcuni mss. leggono con tanto effetto, e discernesi 'l bene / per che 'l modo di sù quel di giù torna. La lezione a testo intende affetto come l'amore di Dio, e dà al vb. torna (v. 108, in rima equivoca col v. 104) il senso di «tornia», quindi «dà forma».
I vv. 117-118 alludono alla teoria astronomica secondo cui il cono d'ombra proiettato dalla Terra aveva la sua fine nel Cielo di Venere.
Palma al v. 121 vuol dire «testimonianza», mentre al v. 123 (in rima equivoca) indica le palme di Cristo che furono entrambe inchiodate sulla croce. Altri intendono il v. 123 come riferito a Giosuè, che pregò con entrambe le mani Dio e ottenne l'alta vittoria su Gerico.
Il v. 132 sarà riecheggiato da san Pietro nella sua invettiva di XXVII, 55-56: In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi.
I Decretali (v. 134) sono i testi di diritto canonico, i cui vivagni («margini») sono sgualciti per il troppo uso. Folchetto allude all'interpretazione capziosa del diritto canonico per lucrare sulle indulgenze e simili provvedimenti.
Gli 'nganni (v. 2) a cui accenna Dante si riferiscono sicuramente all'usurpazione del regno di Napoli da parte di Roberto, fratello di Carlo Martello, ai danni del figlio Caroberto: in verità Carlo II d'Angiò aveva avallato tale successione ed essa era stata validata prima da papa Bonifacio VIII, poi da Clemente V (i due papi di cui Dante ha predetto la dannazione in Inf., XIX).
Al v. 19 compenso vuol dire letteralmente «contrappeso», poiché Dante chiede a Cunizza di soddisfare il suo desiderio mettendo un contrappeso metaforico sulla bilancia del suo volere.
Il colle citato al v. 28 è il colle di Romano, che sorge non lontano da Bassano del Grappa e su cui era il castello degli Ezzelini.
Al v. 29 la facella (fiaccola incendiaria) è metaforicamente Ezzelino, che esercitò il suo dominio tirannico sulla Marca Trevigiana: l'immagine ricorda quella di Ecuba che sognò di partorire una torcia quando generò Paride, mentre una leggenda analoga circolava anche riguardo alla madre di Ezzelino (almeno secondo il commento di Pietro di Dante).
Il v. 40 (questo centesimo anno ancor s'incinqua) indica che l'anno secolare, il 1300, si ripeterà cinque volte, passeranno cioè cinque secoli (in generale, passerà molto tempo) prima che la fama di Folchetto svanisca. S'incinqua è neologismo dantesco, simile a s'addua (VII, 6), s'intrea (XIII, 57) e s'inmilla (XXVIII, 93).
Il Tagliamento e l'Adige (v. 44) sono i fiumi che delimitano la Marca Trevigiana a est ed ovest.
I vv. 46-48 alludono sicuramente alla sconfitta subìta dai Guelfi di Padova il 17 dic. 1314 ad opera dei Ghibellini di Vicenza, aiutati da Cangrande Della Scala: essi cambieranno l'acqua del Bacchiglione arrossandola col proprio sangue (altri interpretano il passo come allusione al fatto che i Vicentini deviarono le acque del fiume come azione di guerra contro i Padovani).
I fiumi Sile e Cagnano, oggi chiamato Botteniga (v. 49) si uniscono presso Treviso; colui che signoreggia sulla città è Rizzardo da Camino, figlio di quel Gherardo citato da Marco Lombardo (Purg., XVI, 124) come esempio di liberalità e cortesia: succedette al padre nel 1306 e fu ucciso in una congiura nel 1312.
I vv. 52-54 alludono al vescovo di Feltre, Alessandro Novello, che nel luglio 1314 consegnò tre fuorusciti ferraresi nelle mani del vicario angioino Pino della Tosa, che poi li fece decapitare. Il termine malta (v. 54) indica genericamente «prigione», attestato variamente nella letteratura del Due-Trecento, anche se c'erano varie prigioni che avevano quel nome (una, collocata nel lago di Bolsena, era adibita a carcere per ecclesiastici ed è forse quella indicata da Cunizza).
I Troni (v. 61) sono il terzo ordine della prima gerarchia angelica, che governa il VII Cielo di Saturno e attraverso cui Dio esercita la giustizia.
Il balasso (v. 69) è una specie di rubino, il cui nome deriva dall'arabo «balaksh» (dalla regione di Balascam da cui si importavano, secondo la testimonianza di Marco Polo nel Milione, XXXV).
Il vb. s'inluia (v. 73) è neologismo dantesco, come m'intuassi e m'inmii (v. 80), e significano «penetrare in lui, in te, in me». Cfr. l'analogo t'inlei di XXII, 127.
I fuochi pii / che di sei ali facen la coculla sono i Serafini, detti «fuochi» perché Serafino in ebraico vuol dire «ardente», e che si ammantano di sei ali (coculla, «cocolla», è il saio con cappuccio dei monaci). Questi angeli sono così descritti in Is., VI, 2.
Il v. 82 indica il Mediterraneo, di cui Folchetto spiega che si estende da ovest a est per novanta gradi, così che il cerchio che a Cadice è il suo orizzonte orientale, a Gerusalemme diventa il suo meridiano. Il Mediterraneo, in realtà, si estende per soli quarantadue gradi.
Buggea (v. 92) è l'odierna Bougie, in Algeria, che essendo quasi sullo stesso meridiano di Marsiglia vede il sole sorgere e tramontare nello stesso momento. Il v. 93 allude alla strage dei Marsigliesi fatta da Bruto nella guerra civile (cfr. Lucano, Phars., III, 572-573).
La figlia di Belo (v. 97) è Didone. La Rodopea (v. 100) è invece Fillide, figlia di Sitone re Tracia, dov'è il monte Rodope: innamoratasi di Demofoonte, figlio di Teseo e Fedra, e abbandonata da lui, s'impiccò venendo poi mutata in mandorlo (cfr. Ovidio, Her., II).
I vv. 106-108 sono molto controversi per l'interpretazione, e anche perché alcuni mss. leggono con tanto effetto, e discernesi 'l bene / per che 'l modo di sù quel di giù torna. La lezione a testo intende affetto come l'amore di Dio, e dà al vb. torna (v. 108, in rima equivoca col v. 104) il senso di «tornia», quindi «dà forma».
I vv. 117-118 alludono alla teoria astronomica secondo cui il cono d'ombra proiettato dalla Terra aveva la sua fine nel Cielo di Venere.
Palma al v. 121 vuol dire «testimonianza», mentre al v. 123 (in rima equivoca) indica le palme di Cristo che furono entrambe inchiodate sulla croce. Altri intendono il v. 123 come riferito a Giosuè, che pregò con entrambe le mani Dio e ottenne l'alta vittoria su Gerico.
Il v. 132 sarà riecheggiato da san Pietro nella sua invettiva di XXVII, 55-56: In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi.
I Decretali (v. 134) sono i testi di diritto canonico, i cui vivagni («margini») sono sgualciti per il troppo uso. Folchetto allude all'interpretazione capziosa del diritto canonico per lucrare sulle indulgenze e simili provvedimenti.
Testo
Da poi che Carlo tuo, bella
Clemenza,
m’ebbe chiarito, mi narrò li ‘nganni che ricever dovea la sua semenza; 3 ma disse: «Taci e lascia muover li anni»; sì ch’io non posso dir se non che pianto giusto verrà di retro ai vostri danni. 6 E già la vita di quel lume santo rivolta s’era al Sol che la riempie come quel ben ch’a ogne cosa è tanto. 9 Ahi anime ingannate e fatture empie, che da sì fatto ben torcete i cuori, drizzando in vanità le vostre tempie! 12 Ed ecco un altro di quelli splendori ver’ me si fece, e ‘l suo voler piacermi significava nel chiarir di fori. 15 Li occhi di Beatrice, ch’eran fermi sovra me, come pria, di caro assenso al mio disio certificato fermi. 18 «Deh, metti al mio voler tosto compenso, beato spirto», dissi, «e fammi prova ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!». 21 Onde la luce che m’era ancor nova, del suo profondo, ond’ella pria cantava, seguette come a cui di ben far giova: 24 «In quella parte de la terra prava italica che siede tra Rialto e le fontane di Brenta e di Piava, 27 si leva un colle, e non surge molt’alto, là onde scese già una facella che fece a la contrada un grande assalto. 30 D’una radice nacqui e io ed ella: Cunizza fui chiamata, e qui refulgo perché mi vinse il lume d’esta stella; 33 ma lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte, e non mi noia; che parria forse forte al vostro vulgo. 36 Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che più m’è propinqua, grande fama rimase; e pria che moia, 39 questo centesimo anno ancor s’incinqua: vedi se far si dee l’omo eccellente, sì ch’altra vita la prima relinqua. 42 E ciò non pensa la turba presente che Tagliamento e Adice richiude, né per esser battuta ancor si pente; 45 ma tosto fia che Padova al palude cangerà l’acqua che Vincenza bagna, per essere al dover le genti crude; 48 e dove Sile e Cagnan s’accompagna, tal signoreggia e va con la testa alta, che già per lui carpir si fa la ragna. 51 Piangerà Feltro ancora la difalta de l’empio suo pastor, che sarà sconcia sì, che per simil non s’entrò in malta. 54 Troppo sarebbe larga la bigoncia che ricevesse il sangue ferrarese, e stanco chi ‘l pesasse a oncia a oncia, 57 che donerà questo prete cortese per mostrarsi di parte; e cotai doni conformi fieno al viver del paese. 60 Sù sono specchi, voi dicete Troni, onde refulge a noi Dio giudicante; sì che questi parlar ne paion buoni». 63 Qui si tacette; e fecemi sembiante che fosse ad altro volta, per la rota in che si mise com’era davante. 66 L’altra letizia, che m’era già nota per cara cosa, mi si fece in vista qual fin balasso in che lo sol percuota. 69 Per letiziar là sù fulgor s’acquista, sì come riso qui; ma giù s’abbuia l’ombra di fuor, come la mente è trista. 72 «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia», diss’io, «beato spirto, sì che nulla voglia di sé a te puot’esser fuia. 75 Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla sempre col canto di quei fuochi pii che di sei ali facen la coculla, 78 perché non satisface a’ miei disii? Già non attendere’ io tua dimanda, s’io m’intuassi, come tu t’inmii». 81 «La maggior valle in che l’acqua si spanda», incominciaro allor le sue parole, «fuor di quel mar che la terra inghirlanda, 84 tra ‘ discordanti liti contra ‘l sole tanto sen va, che fa meridiano là dove l’orizzonte pria far suole. 87 Di quella valle fu’ io litorano tra Ebro e Macra, che per cammin corto parte lo Genovese dal Toscano. 90 Ad un occaso quasi e ad un orto Buggea siede e la terra ond’io fui, che fé del sangue suo già caldo il porto. 93 Folco mi disse quella gente a cui fu noto il nome mio; e questo cielo di me s’imprenta, com’io fe’ di lui; 96 ché più non arse la figlia di Belo, noiando e a Sicheo e a Creusa, di me, infin che si convenne al pelo; 99 né quella Rodopea che delusa fu da Demofoonte, né Alcide quando Iole nel core ebbe rinchiusa. 102 Non però qui si pente, ma si ride, non de la colpa, ch’a mente non torna, ma del valor ch’ordinò e provide. 105 Qui si rimira ne l’arte ch’addorna cotanto affetto, e discernesi ‘l bene per che ‘l mondo di sù quel di giù torna. 108 Ma perché tutte le tue voglie piene ten porti che son nate in questa spera, proceder ancor oltre mi convene. 111 Tu vuo’ saper chi è in questa lumera che qui appresso me così scintilla, come raggio di sole in acqua mera. 114 Or sappi che là entro si tranquilla Raab; e a nostr’ordine congiunta, di lei nel sommo grado si sigilla. 117 Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta che ‘l vostro mondo face, pria ch’altr’alma del triunfo di Cristo fu assunta. 120 Ben si convenne lei lasciar per palma in alcun cielo de l’alta vittoria che s’acquistò con l’una e l’altra palma, 123 perch’ella favorò la prima gloria di Iosuè in su la Terra Santa, che poco tocca al papa la memoria. 126 La tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui è la ’nvidia tanto pianta, 129 produce e spande il maladetto fiore c’ha disviate le pecore e li agni, però che fatto ha lupo del pastore. 132 Per questo l’Evangelio e i dottor magni son derelitti, e solo ai Decretali si studia, sì che pare a’ lor vivagni. 135 A questo intende il papa e’ cardinali; non vanno i lor pensieri a Nazarette, là dove Gabriello aperse l’ali. 138 Ma Vaticano e l’altre parti elette di Roma che son state cimitero a la milizia che Pietro seguette, tosto libere fien de l’avoltero». 142 |
ParafrasiDopo che il tuo Carlo, bella Clemenza, ebbe chiarito i miei dubbi, mi raccontò gli inganni che doveva subire la sua discendenza;
ma disse: «Non riferire questo e lascia trascorrere gli anni»; cosicché io non posso dire se non che le vostre sventure saranno giustamente punite da Dio. E ormai l'anima di quella santa luce si era rivolta al Sole (Dio) che la ricolma come quel bene che è più grande di qualunque cosa. Ahimè, anime fuorviate e creature malvagie, che distogliete i cuori da un bene simile e indirizzate la vostra mente verso cose vane! Ed ecco che un altro di quegli splendori si avvicinò a me e con il suo fulgore manifestava la volontà di rispondere alle mie domande. Gli occhi di Beatrice, che erano fissi su di me, come avevano fatto prima mi diedero un cenno d'assenso al mio desiderio di parlare. Dissi: «Orsù, spirito beato, metti subito un contrappeso alla mia volontà (esaudisci il mio desiderio), e dimostrami che i miei pensieri possono essere riflessi nella tua mente!» Allora quella luce, che ancora non conoscevo, dalla sua profondità in cui prima cantava, iniziò a parlare come colui a cui piace fare del bene: «In quella parte della malvagia terra d'Italia che è compresa fra Rialto (Venezia) e le sorgenti di Brenta e Piave, sorge un colle non molto alto, da dove discese una torcia incendiaria (Ezzelino da Romano) che esercitò un tirannico dominio sulla regione. Entrambi nascemmo dagli stessi genitori (fummo fratelli): fui chiamata Cunizza e risplendo in questo Cielo perché fui sopraffatta dall'influsso di questo pianeta (Venere); ma con gioia perdono a me stessa la causa di questa mia sorte e non me ne rammarico; cosa che, forse, potrebbe sembrare difficile da capire per il volgo. Di questa splendente e preziosa gemma del nostro Cielo che mi è più vicina (Folchetto di Marsiglia) è rimasta una grande fama; e prima che essa svanisca, passeranno non meno di cinque secoli: vedi se l'uomo deve badare ad acquistare la fama, in modo da lasciare dietro la sua vita mortale un'altra vita gloriosa. Invece il popolo che oggi abita la Marca Trevigiana, compresa tra il Tagliamento e l'Adige, non pensa a questo, e pur subendo castighi non se ne pente; ma accadrà presto che i Padovani cambieranno col loro sangue l'acqua della palude che bagna Vicenza (il Bacchiglione), scontando il fatto di essere restii al loro dovere (verso l'Impero); e là dove il Sile e il Cagnano si uniscono (a Treviso) c'è un tiranno (Rizzardo da Camino) che domina con superbia, tanto che già si ordisce la congiura che lo eliminerà. Inoltre Feltre rimpiangerà il tradimento del suo empio vescovo (Alessandro Novello), che sarà talmente odioso che nessuno fu mai imprigionato per un atto simile. Troppo grande dovrebbe essere il recipiente che contenesse tutto il sangue ferrarese e sarebbe stanco chi lo pesasse con precisione, il sangue che questo prete cortese spargerà per mostrare la sua fedeltà al suo partito; e questi doni saranno conformi ai costumi di quella terra. In alto ci sono degli specchi, che voi chiamate Troni, da dove Dio giudicante risplende a noi; dunque tali discorsi ci sembrano giusti». A questo punto tacque; e mi mostrò di essersi rivolta ad altro, dato che ricominciò a danzare in tondo come faceva in precedenza. L'altro spirito gioioso, che mi era già stato presentato come un'anima preziosa, mi si mostrò come un raffinato rubino colpito dalla luce del sole. In Paradiso si acquista fulgore quando si è lieti, come sulla Terra quando si ride; invece all'Inferno l'ombra si rabbuia all'esterno, tanto quanto la mente è rattristata. Io dissi: «Dio vede tutto e la tua vista si compenetra in Lui, o spirito beato, così che nessun desiderio può sottrarsi a te (tu vedi bene cosa io desideri). Dunque, perché la tua voce, che allieta sempre il Cielo col canto di quegli angeli (i Serafini) che si ammantano di sei ali, non esaudisce i miei desideri? Io non attenderei certo che tu parlassi, se potessi penetrare in te come tu puoi farlo in me». Allora le sue parole cominciarono così: «Il maggior avvallamento (il Mediterraneo) in cui si spande l'acqua dell'Oceano che circonda le terre, si estende verso oriente tra i lidi opposti tanto che si fa meridiano là dove prima fa orizzonte (a Gerusalemme). Io nacqui sulle coste di quell'avvallamento (del Mediterraneo), tra i fiumi Ebro e Magra, che per un breve tratto divide la Liguria dalla Toscana. La città di Buggea e quella (Marsiglia) dove nacqui, che versò tanto sangue nel porto, hanno quasi la stessa alba e lo stesso orizzonte (sono poste sullo stesso meridiano). Quelli che mi conobbero mi chiamarono Folco (Folchetto); e questo Cielo risplende della mia luce come io risplendetti della sua; infatti la figlia di Belo (Didone), che offese Creusa e Sicheo, non arse d'amore più di me, finché fui giovane; né arsero d'amore la rodopea Fillide, che fu abbandonata da Demofoonte, né l'Alcide (Ercole) quando fu innamorato di Iole. Tuttavia qui non ci si pente di questo, ma ci si rallegra: non della colpa, il cui ricordo è cancellato in noi, ma della virtù divina che determinò e dispose questo. Qui in Paradiso si contempla l'arte divina della creazione che l'amore di Dio abbellisce e si distingue il fine provvidenziale per cui i Cieli danno forma al mondo terreno. Ma affinché tutti i desideri di conoscenza che sono nati in te in questo Cielo siano soddisfatti pienamente, devo dirti ancora qualcos'altro. Tu vuoi sapere chi è in questa luce che sfavilla qui accanto a me, in modo tale che sembra un raggio di sole in un'acqua cristallina. Ora sappi che lì dentro gode la pace Raab; e, unita al nostro Cielo, esso riceve l'impronta di lei al massimo grado (è lo spirito più luminoso). Essa fu assunta da questo Cielo, in cui termina il cono d'ombra proiettato dalla Terra, prima di ogni altra anima dal trionfo di Cristo. Fu giusto lasciarla in un Cielo come simbolo della grande vittoria che si ottenne con la crocifissione di Cristo, perché essa favorì la prima vittoria militare di Giosuè in Terrasanta (a Gerico), di cui oggi il papa si ricorda troppo poco. Firenze, la tua città che è prodotto di colui (Lucifero) che per primo si ribellò a Dio e la cui invidia è fonte di tanta sofferenza, conia e diffonde il maledetto fiorino che ha sviato tutto il popolo cristiano, in quanto ha trasformato il pastore in un lupo. Per questo il Vangelo e i libri dei Padri della Chiesa sono trascurati, e si leggono solo i Decretali, come appare dai loro margini sgualciti. Il papa e i cardinali pensano solo a questo; i loro pensieri non vanno certo a Nazareth, dove l'arcangelo Gabriele aprì le ali (per fare l'Annunciazione a Maria). Tuttavia il Vaticano e gli altri luoghi sacri di Roma, che hanno visto il martirio dei primi cristiani che seguirono Pietro, saranno presto liberi da questa profanazione». |