La Divina Commedia
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Paradiso, Canto I

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Dante e Beatrice in Paradiso (min. XIV sec.)
O buono Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l'amato alloro...



Trasumanar significar 'per verba'
non si poria; però l'essemplo basti
a cui esperienza grazia serba...



"...Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d'un rivo
se d'alto monte scende giuso ad imo..."

Argomento del Canto

Proemio della Cantica. Dante e Beatrice ascendono al Paradiso. Dubbi di Dante e spiegazione di Beatrice circa l'ordine dell'Universo.
È mezzogiorno di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Proemio della Cantica (1-36)

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Apollo Citaredo (II sec. d.C.)
Dante dichiara di essere stato nel Cielo del Paradiso (l'Empireo) che riceve maggiormente la luce divina che si diffonde nell'Universo: lì ha visto cose difficili da riferire a parole, poiché l'intelletto umano non riesce a ricordare ciò che vede quando penetra in Dio. Il poeta tenterà di descrivere il regno santo nella III Cantica e per questo invoca l'assistenza di Apollo, in quanto l'aiuto delle Muse non gli è più sufficiente. Il dio pagano dovrà ispirarlo col suo canto, come fece quando vinse il satiro Marsia, tanto da permettergli di affrontare l'alta materia del Paradiso e meritare così l'alloro poetico. Apollo dovrebbe essere lieto che qualcuno desideri esserne incoronato, poiché ciò accade raramente nei tempi moderni; Dante si augura che il suo esempio sia seguito da altri poeti dopo di lui.

Ascesa di Dante e Beatrice (37-63)
Il sole sorge sull'orizzonte da diversi punti, ma quello da cui sorge quando è l'equinozio di primavera si trova in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quindi i raggi del sole allora sono più benefici per il mondo. Quel punto dell'orizzonte divide l'emisfero nord, in cui è già notte, da quello sud, in cui è giorno pieno: in questo momento Dante vede Beatrice rivolta a sinistra e intenta a fissare il sole come farebbe un'aquila. L'atto della donna induce Dante a imitarla, proprio come un raggio di sole riflesso si leva con lo stesso angolo del primo raggio, per cui il poeta fissa il sole più di quanto farebbe sulla Terra. Nell'Eden le facoltà umane sono accresciute e Dante può vedere la luce aumentare tutt'intorno, come se fosse spuntato un secondo sole.

Trasumanazione di Dante (64-81)

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A. Vellutello, Ascesa di Dante
Dante distoglie lo sguardo dal sole e osserva Beatrice, che a sua volta fissa il Cielo. Il poeta si perde a tal punto nel suo aspetto che subisce una trasformazione simile a quella di Glauco quando divenne una creatura marina: è impossibile descrivere a parole l'andare oltre alla natura umana, perciò il lettore dovrà accontentarsi dell'esempio mitologico e sperare di averne esperienza diretta in Paradiso. Dante non sa dire se, in questo momento, sia ancora in possesso del suo corpo mortale o sia soltanto anima, ma di certo fissa il suo sguardo nei Cieli che ruotano con una melodia armoniosa e gli sembra che la luce del sole abbia acceso in modo straordinario tutto lo spazio circostante.

Primo dubbio di Dante e spiegazione di Beatrice (82-93)
Nel poeta si accende un fortissimo desiderio di conoscere l'origine del suono e della luce, per cui Beatrice, che legge nella sua mente ogni pensiero, si rivolge subito a lui per placare il suo animo. La donna spiega che Dante immagina cose errate, poiché non si trova più in Terra come ancora crede: egli sta salendo in Paradiso e nessuna folgore, cadendo dalla sfera del fuoco in basso, fu tanto rapida quanto lui che torna al luogo che gli è proprio (il Paradiso).

Secondo dubbio di Dante: l'ordine dell'Universo (94-142)

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J. Flaxman, Dante e Beatrice
Beatrice ha risolto il primo dubbio di Dante, ma ora il poeta è tormentato da un altro e chiede alla donna come sia possibile che lui, dotato di un corpo mortale, stia salendo oltre l'aria e il fuoco. Beatrice trae un profondo sospiro, quindi guarda Dante come farebbe una madre col figlio che dice cose insensate e spiega che tutte le cose dell'Universo sono ordinate tra loro, così da formare un tutto armonico. In questo ordine le creature razionali (uomini e angeli) scorgono l'impronta di Dio, che è il fine cui tendono tutte le cose. Tutte le creature, infatti, sono inclini verso Dio in base alla loro natura e tendono a fini diversi per diverse strade, secondo l'impulso che è dato loro. Questo fa sì che il fuoco salga verso l'alto, che si muova il cuore degli esseri irrazionali, che la Terra stia coesa in se stessa; tale condizione è comune alle creature irrazionali e a quelle dotate di intelletto. Dio risiede nell'Empireo come vuole la Provvidenza, e Dante e Beatrice si dirigono lì in quanto il loro istinto naturale li spinge verso il loro principio, che è Dio. È pur vero, spiega Beatrice, che talvolta la creatura non asseconda questo impulso e devia dal suo corso naturale in virtù del suo libero arbitrio; così l'uomo talvolta si piega verso i beni terreni e non verso il Cielo, come una saetta tende verso il basso e non verso l'alto. Dante, se riflette bene, non deve più stupirsi della sua ascesa proprio come di un fiume che scorre dalla montagna a valle; dovrebbe stupirsi del contrario, se cioè non salisse pur privo di impedimenti, come un fuoco che sulla Terra restasse fermo. Alla fine delle sue parole, Beatrice torna a fissare il Cielo.






Qui è possibile vedere un breve video
con il riassunto del Canto,
tratto dal canale YouTube
"La Divina Commedia in HD"






Interpretazione complessiva

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S. Dalì, Dante in Paradiso
Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta così di ampiezza tripla rispetto al proemio del Purgatorio (I, 1-12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno (II, 1-9): la maggiore ampiezza e solennità si spiega con l'accresciuta importanza della materia trattata, dal momento che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e dovrà misurarsi con la difficoltà di riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della visione inesprimibile che tanta parte avrà nel Paradiso. Ciò spiega anche perché Dante debba invocare l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo al dio pagano (che naturalmente è personificazione dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e consentirgli di cingere l'agognato alloro poetico: Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto con cui vinse il satiro Marsia che lo aveva sfidato, in maniera analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e sottolineando il fatto che la poesia di Dante dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con la divinità nella rappresentazione di ciò che supera i limiti umani (ciò sarà ribadito anche nell'esordio del Canto seguente, vv. 7-9). Dante ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l'alloro, per cui la sua ambizione dovrebbe rallegrare Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che c'è forse una fin troppo modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli esprimerà l'orgoglio di essere il primo a percorrere questa strada poetica.
Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l'ora del mezzogiorno (è questa l'interpretazione più ovvia, mentre è improbabile che il poeta intenda l'alba), Dante vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi sensi nell'Eden. I due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche se Dante non se n'è ancora reso conto e ha notato solo l'aumento straordinario della luce: il poeta si sente trasumanar, diventare qualcosa di più che un essere umano e non può descrivere questa sensazione se non con l'esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramutò in una creatura acquatica e si gettò in mare dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrerà spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per rappresentare situazioni prive di termini di paragone «terreni»). L'aumento progressivo della luce e il dolce suono con cui ruotano le sfere celesti accendono in Dante il desiderio di capirne la ragione e Beatrice è sollecita a spiegargli che i due stanno salendo verso il Cielo, come un fulmine che cade dall'alto contro la sua natura; ciò naturalmente suscita un nuovo dubbio nel poeta che si chiede come sia possibile per lui, dotato di un corpo in carne e ossa, salire contro la legge di gravità, dubbio che sarà sciolto da Beatrice con una complessa spiegazione che occupa l'ultima parte del Canto. La donna assume fin dall'inizio l'atteggiamento che avrà sempre nella Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle ingenue domande del discepolo e fornisce spiegazioni di carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione non chiarisce il dubbio di Dante di natura fisica (come fa un corpo grave a trascendere i corpi lievi, l'aria e il fuoco) ma inquadra il problema nell'ambito dell'ordinamento generale dell'Universo, collegandosi ai versi iniziali che descrivevano il riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo. Beatrice spiega infatti che tutte le creature, razionali e non, fanno parte di un tutto armonico che è stato creato da Dio e ordinato in modo preciso, così che ogni cosa tende al suo fine attraverso strade diverse, come navi che giungono in porto solcando il gran mar de l'essere. Ciò vale per le cose inanimate, come il fuoco che tende a salire verso l'alto per sua natura e la terra che è attratta verso il centro dell'Universo, ma anche per gli esseri intelligenti, la cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio; ovviamente essi sono dotati di libero arbitrio, per cui può avvenire che anziché volgersi in quella direzione siano attratti dai beni terreni, ma questo non è il caso di Dante che ha ormai purificato la sua anima nel viaggio attraverso Inferno e Purgatorio. Egli tende dunque verso Dio che risiede nell'Empireo e ciò è un atto del tutto naturale, come quello di un fiume che scorre dall'alto verso il basso, mentre sarebbe innaturale per Dante restare a terra, come un fuoco la cui fiamma non tendesse verso l'alto. Tale spiegazione di natura metafisica anticipa quella che sarà la cifra stilistica di gran parte della III Cantica, in cui spesso i dubbi scientifici di Dante verranno risolti con argomenti dottrinali e verrà ribadito che la sola filosofia umana è di per sé insufficiente a capire i misteri dell'Universo, proprio come lo stesso Virgilio aveva detto più volte rimandando alle chiose di Beatrice-teologia: ciò sarà evidente anche nella spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto seguente, in quanto laddove la ragione umana non può arrivare deve intervenire la fede e dunque Dante deve credere che sta salendo con tutto il corpo in Paradiso, non essendo in grado di comprenderlo.
È interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l'immagine del fuoco per spiegare il movimento di Dante, prima paragonandolo a un fulmine che corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi spiegando che il fuoco tende a salire verso il Cielo della Luna (cioè verso la sfera del fuoco, dove è diretto Dante) e infine paragonando il fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che, altrettanto forzatamente, è attratto verso i beni terreni. La luce come elemento visivo domina largamente l'episodio, segnando il passaggio di Dante dalla dimensione terrena a quella celeste, anche attraverso l'immagine del sole che è evocato nella spiegazione astronomica, poi indicato come oggetto dello sguardo di Beatrice, infine chiamato in causa con l'immagine di un secondo sole che sembra illuminare col suo splendore il cielo: il viaggio di Dante verso la luce è ovviamente il suo percorso verso Dio e tale immagine si ricollega a quella dei versi iniziali in cui la gloria divina si riverberava in tutto l'Universo, e dove si diceva che Dante è giunto nel Cielo che più de la sua luce prende, ovvero quell'Empireo verso il quale ha iniziato a salire in modo prodigioso.

Note e passi controversi

Il Parnaso citato al v. 16 è il monte della Grecia centrale che, secondo il mito, era sede di Apollo e aveva una doppia cima; nel Medioevo si diffuse l'errata convinzione (attestata da Isidoro di Siviglia, Etym., XIV, 8) che le due cime fossero il Citerone e l'Elicona, abitate rispettivamente da Apollo e dalle Muse, mentre in realtà l'Elicona è un monte diverso. È possibile che qui Dante cada nella stessa confusione e indichi l'un giogo come il Citerone e l'altro con l'Elicona.
Il satiro Marsia (vv. 20-21) è protagonista di un racconto di Ovidio (Met., VI, 382 ss.), in cui sfida Apollo in una gara musicale e, vinto, viene scorticato vivo dal dio.
Apollo è detto delfica deità (v. 32) perché molto venerato anticamente a Delfi, mentre l'alloro è definito fronda / peneia in riferimento al mito di Dafne, la figlia di Peneo trasformatasi in alloro per sfuggire ad Apollo (Met., I, 452 ss.).
Cirra (v. 36) era una città sul golfo di Corinto collegata con Delfi e indicata per designare Apollo stesso.
La complessa spiegazione astronomica dei vv. 37-42 è stata variamente interpretata dai commentatori, anche se probabilmente indica che è l'equinozio di primavera e il sole è in congiunzione con l'Ariete. I quattro cerchi sono forse l'Equatore, l'Eclittica, il Coluro equinoziale e l'orizzonte di Gerusalemme e Purgatorio, che si intersecano formando tre croci (benché non perpendicolari). I vv. 43-45 indicano con ogni probabilità che è mezzogiorno, come detto in Purg., XXXIII, 104, e non l'alba come alcuni hanno ipotizzato (nell'emisfero sud è giorno pieno, mentre in quello opposto è notte).
Il pelegrin del v. 51 può essere il pellegrino che torna in patria, ma anche il falco pellegrino.
L'aumento della luce ai vv. 61-63 indica che Dante si avvicina alla sfera del fuoco, che divide il I Cielo dall'atmosfera.
La similitudine ai vv. 67-69 è tratta da Met., XIII, 898 ss. e si riferisce al pescatore della Beozia Glauco che, avendo notato che i pesci pescati mangiavano un'erba che li faceva balzare di nuovo in acqua, fece lo stesso e si trasformò in una creatura acquatica, gettandosi in mare.
Il sito da cui fugge la folgore (v. 92) è sicuramente la sfera del fuoco, verso cui invece Dante si avvicina.
Il ciel del v. 122 è l'Empireo, nel quale ruota velocissimo il Primo Mobile.

Testo

La gloria di colui che tutto move 
per l’universo penetra, e risplende 
in una parte più e meno altrove.                                       3

Nel ciel che più de la sua luce prende 
fu’ io, e vidi cose che ridire 
né sa né può chi di là sù discende;                                 6

perché appressando sé al suo disire, 
nostro intelletto si profonda tanto, 
che dietro la memoria non può ire.                                  9

Veramente quant’io del regno santo 
ne la mia mente potei far tesoro, 
sarà ora materia del mio canto.                                      12

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro 
fammi del tuo valor sì fatto vaso, 
come dimandi a dar l’amato alloro.                               15

Infino a qui l’un giogo di Parnaso 
assai mi fu; ma or con amendue 
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.                                18

Entra nel petto mio, e spira tue 
sì come quando Marsia traesti 
de la vagina de le membra sue.                                     21

O divina virtù, se mi ti presti 
tanto che l’ombra del beato regno 
segnata nel mio capo io manifesti,                                24

vedra’mi al piè del tuo diletto legno 
venire, e coronarmi de le foglie 
che la materia e tu mi farai degno.                                 27

Sì rade volte, padre, se ne coglie 
per triunfare o cesare o poeta, 
colpa e vergogna de l’umane voglie,                             30

che parturir letizia in su la lieta 
delfica deità dovria la fronda 
peneia, quando alcun di sé asseta.                              33

Poca favilla gran fiamma seconda: 
forse di retro a me con miglior voci 
si pregherà perché Cirra risponda.                                36

Surge ai mortali per diverse foci 
la lucerna del mondo; ma da quella 
che quattro cerchi giugne con tre croci,                         39

con miglior corso e con migliore stella 
esce congiunta, e la mondana cera 
più a suo modo tempera e suggella.                             42

Fatto avea di là mane e di qua sera 
tal foce, e quasi tutto era là bianco 
quello emisperio, e l’altra parte nera,                            45
 
quando Beatrice in sul sinistro fianco 
vidi rivolta e riguardar nel sole: 
aguglia sì non li s’affisse unquanco.                               48

E sì come secondo raggio suole 
uscir del primo e risalire in suso, 
pur come pelegrin che tornar vuole,                              51

così de l’atto suo, per li occhi infuso 
ne l’imagine mia, il mio si fece, 
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.                             54

Molto è licito là, che qui non lece 
a le nostre virtù, mercé del loco 
fatto per proprio de l’umana spece.                               57

Io nol soffersi molto, né sì poco, 
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno, 
com’ferro che bogliente esce del foco;                          60

e di sùbito parve giorno a giorno 
essere aggiunto, come quei che puote 
avesse il ciel d’un altro sole addorno.                           63

Beatrice tutta ne l’etterne rote 
fissa con li occhi stava; e io in lei 
le luci fissi, di là sù rimote.                                               66

Nel suo aspetto tal dentro mi fei, 
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba 
che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi.                           69

Trasumanar significar per verba 
non si poria; però l’essemplo basti 
a cui esperienza grazia serba.                                        72

S’i’ era sol di me quel che creasti 
novellamente, amor che ‘l ciel governi, 
tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti.                              75

Quando la rota che tu sempiterni 
desiderato, a sé mi fece atteso 
con l’armonia che temperi e discerni,                           78

parvemi tanto allor del cielo acceso 
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume 
lago non fece alcun tanto disteso.                                  81

La novità del suono e ‘l grande lume 
di lor cagion m’accesero un disio 
mai non sentito di cotanto acume.                                 84

Ond’ella, che vedea me sì com’io, 
a quietarmi l’animo commosso, 
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio,                           87

e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso 
col falso imaginar, sì che non vedi 
ciò che vedresti se l’avessi scosso.                              90

Tu non se’ in terra, sì come tu credi; 
ma folgore, fuggendo il proprio sito, 
non corse come tu ch’ad esso riedi».                           93

S’io fui del primo dubbio disvestito 
per le sorrise parolette brevi, 
dentro ad un nuovo più fu’ inretito,                                 96

e dissi: «Già contento requievi 
di grande ammirazion; ma ora ammiro 
com’io trascenda questi corpi levi».                              99

Ond’ella, appresso d’un pio sospiro, 
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante 
che madre fa sovra figlio deliro,                                     102

e cominciò: «Le cose tutte quante 
hanno ordine tra loro, e questo è forma 
che l’universo a Dio fa simigliante.                               105

Qui veggion l’alte creature l’orma 
de l’etterno valore, il qual è fine 
al quale è fatta la toccata norma.                                   108

Ne l’ordine ch’io dico sono accline 
tutte nature, per diverse sorti, 
più al principio loro e men vicine;                                  111

onde si muovono a diversi porti 
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna 
con istinto a lei dato che la porti.                                   114

Questi ne porta il foco inver’ la luna; 
questi ne’ cor mortali è permotore; 
questi la terra in sé stringe e aduna;                            117

né pur le creature che son fore 
d’intelligenza quest’arco saetta 
ma quelle c’hanno intelletto e amore.                          120

La provedenza, che cotanto assetta, 
del suo lume fa ‘l ciel sempre quieto 
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;                   123

e ora lì, come a sito decreto, 
cen porta la virtù di quella corda 
che ciò che scocca drizza in segno lieto.                     126

Vero è che, come forma non s’accorda 
molte fiate a l’intenzion de l’arte, 
perch’a risponder la materia è sorda,                          129

così da questo corso si diparte 
talor la creatura, c’ha podere 
di piegar, così pinta, in altra parte;                                132

e sì come veder si può cadere 
foco di nube, sì l’impeto primo 
l’atterra torto da falso piacere.                                        135

Non dei più ammirar, se bene stimo, 
lo tuo salir, se non come d’un rivo 
se d’alto monte scende giuso ad imo.                         138

Maraviglia sarebbe in te se, privo 
d’impedimento, giù ti fossi assiso, 
com’a terra quiete in foco vivo». 

Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.                                142

Parafrasi

La potenza di Colui (Dio) che muove ogni cosa si diffonde in tutto l'Universo e splende più in alcune parti, meno in altre.
Io fui nel Cielo (Empireo) che è più illuminato dalla sua luce, e vidi cose che chi scende di lassù non sa né può riferire;




infatti, avvicinandosi all'oggetto del suo desiderio (Dio), il nostro intelletto si addentra tanto in profondità che la memoria non lo può seguire.

Tuttavia, l'argomento del mio canto sarà ciò che io riuscii a fissare nella mia mente del regno santo (Paradiso).


O buono Apollo, concedimi la tua ispirazione per l'ultima Cantica, tanto quanto tu richiedi per concedere l'agognato alloro poetico.


Finora mi è stata sufficiente una sola cima del monte Parnaso (l'ispirazione delle Muse); ma ora devo accingermi al lavoro rimasto con l'aiuto di entrambe (anche di Apollo).

Entra nel mio petto e ispirami, proprio come quando tirasti fuori Marsia dall'involucro delle sue membra (lo scorticasti vivo).


O virtù divina, se ti concedi a me quel tanto che basti a che io esprima una traccia del regno dei beati impressa nella mia mente, mi vedrai venire ai piedi del tuo amato albero, e incoronarmi con le sue foglie di cui tu e l'alto argomento del poema mi renderanno degno.



Capita così di rado, padre, che si colga l'alloro per il trionfo di un condottiero o di un poeta (per colpa e vergogna della poca ambizione umana), che la fronda di Peneo (l'alloro) dovrebbe far nascere gioia nella gioiosa divinità di Delfi (Apollo), quando è desiderata da qualcuno.



Una grande fiamma segue una debole scintilla: forse dopo di me altri, con voci migliori, pregheranno perché Cirra (Apollo) risponda.


La lanterna del mondo (il sole) sorge ai mortali da diversi punti dell'orizzonte: ma da quel punto in cui quattro cerchi si intersecano formando tre croci, esso nasce in congiunzione con una stagione più mite e con una stella propizia (l'Ariete, all'equinozio primaverile) ed esercita un più benefico influsso sul mondo.



Quel punto aveva fatto pieno giorno in Purgatorio e notte sulla Terra, e un emisfero era tutto bianco e l'altro nero, quando vidi Beatrice voltata a sinistra e intenta a fissare il sole: un'aquila non lo fissò mai in tal modo.




E come il raggio riflesso è solito allontanarsi da quello di incidenza e salire in alto con lo stesso angolo, come un pellegrino che vuole tornare in patria, così dal suo atteggiamento infuso nella mia facoltà immaginativa nacque il mio, e fissai il sole al di là delle normali capacità umane.



Là nell'Eden sono permesse molte cose che non lo sono sulla Terra, grazie a quel luogo creato come proprio della specie umana.


Io non potei fissare il sole a lungo, ma neppure così poco da non vederlo sfavillare tutt'intorno, come un ferro incandescente appena uscito dal fuoco;

e subito sembrò che al giorno ne fosse stato aggiunto un altro, come se Dio avesse adornato il cielo di un secondo sole.


Beatrice teneva lo sguardo fisso sulle ruote celesti; e io fissai a mia volta lo sguardo su di lei, distogliendolo dal cielo.


Nel guardarla divenni dentro tale quale diventò Glauco quando mangiò l'erba, che lo trasformò in una divinità marina.


Elevarsi al di là dei limiti umani non si potrebbe spiegare a parole: perciò basti l'esempio mitologico a coloro ai quali la grazia divina riserva l'esperienza diretta.

Se io ero solo ciò che tu, amore che governi il Cielo, creasti per ultima (l'anima razionale), lo sai tu che mi sollevasti con la tua luce.


Quando il movimento rotatorio dei Cieli, che tu rendi eterno col desiderio delle ruote celesti di avvicinarsi a te, attirò la mia attenzione con l'armonia che tu regoli e stabilisci, il cielo mi sembrò a tal punto acceso dalla luce del sole che la pioggia o un fiume non crearono mai un lago tanto ampio.



La novità del suono e la luce intensa accesero in me il desiderio di conoscerne la causa, così acuto come non lo sentii mai.


Allora Beatrice, che leggeva nella mia mente come me stesso, prima che le chiedessi qualcosa aprì la bocca per placare il mio animo turbato e disse: «Tu stesso ti rendi incapace di comprendere con una falsa immaginazione, così che non vedi ciò che vedresti se te fossi liberato.



Tu non sei in Terra, come credi: ma un fulmine, lasciando la sua sede naturale (la sfera del fuoco), non corse così velocemente come tu che torni al luogo che ti è proprio (l'Empireo)».

Se io fui liberato dal primo dubbio grazie a quelle brevi e sorridenti parole, fui colto da un altro dubbio, e dissi: «Ora la mia grande meraviglia si è placata; ma adesso mi stupisco di come io possa salire oltre questi corpi leggeri (aria e fuoco)».




Allora lei, dopo un sospiro devoto, mi guardò con l'aspetto di una madre che si rivolge al figlio che dice sciocchezze, e iniziò: «Tutte le cose create sono ordinate fra loro, e questa è la forma che rende l'Universo simile a Dio.




In questo ordine le creature razionali (uomini e angeli) vedono l'impronta della virtù divina, che è il fine ultimo di tutto l'ordine medesimo.

In quest'ordine che dico tutte le nature ricevono la loro inclinazione, in modi diversi, più o meno vicine al loro principio creatore (Dio);


per cui tendono a diversi obiettivi nell'ampiezza dell'Universo, e ciascuna è spinta da un istinto dato ad essa.


Questo istinto porta il fuoco verso l'alto; esso muove i cuori degli esseri irrazionali ed esso stringe e rende coesa la terra;


quest'istinto fa muovere non solo le creature prive di intelligenza, ma anche quelle dotate di anima razionale.


La Provvidenza, che stabilisce tutto questo, fa sempre quieto con la sua luce il Cielo (Empireo) nel quale ruota quello più veloce (Primo Mobile; Dio risiede nell'Empireo);

e ci porta lì, come a un sito stabilito, la forza di quell'istinto naturale che indirizza a buon fine ogni essere che muove.


È pur vero che, come la forma molte volte non corrisponde all'intenzione dell'artista, perché la materia non risponde come dovrebbe, così talvolta la creatura razionale si allontana da questo corso, avendo il potere (libero arbitrio) di piegare in altra direzione, pur così ben indirizzata;



e come si può vedere un fulmine che cade da una nuvola, così l'istinto naturale può far tendere l'uomo verso il basso, attirato dal falso piacere dei beni terreni.

Non devi più stupirti, se giudico correttamente, per il fatto che tu sali, se non come di un fiume che scorre dalla montagna a valle.


Ci sarebbe da stupirsi se tu, privo di impedimenti, fossi rimasto a terra, proprio come un fuoco che rimanesse quieto e non salisse verso l'alto». Dopo le sue parole, Beatrice rivolse lo sguardo al Cielo.



Guida ai Canti del Paradiso
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