Inferno, Canto XV
F. Scaramuzza, Brunetto Latini (1859)
E quelli: "O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'ndietro e lascia andar la traccia..."
Ed elli a me: "Se tu segui tua stella
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella..."
"...Non è nuova a li orecchi miei tale arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra..."
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'ndietro e lascia andar la traccia..."
Ed elli a me: "Se tu segui tua stella
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella..."
"...Non è nuova a li orecchi miei tale arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra..."
Argomento del Canto
Ancora nel III girone del VII Cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio (tra cui i sodomiti). Incontro con Brunetto Latini. Profezia di Brunetto sull'esilio di Dante.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
Incontro con una schiera di sodomiti (1-21)
Dante e Virgilio procedono lungo uno degli argini del Flegetonte, che attraversa il sabbione infuocato mentre il fumo che si leva dal fiume di sangue li protegge dalla pioggia di fiamme. Gli argini di pietra sono alti e spessi, simili alle dighe costruite dai Fiamminghi per difendersi dai flutti marini e dai Padovani per proteggere città e castelli dalle piene del Brenta. I due poeti si sono ormai allontanati dalla selva a tal punto che Dante non riesce più a vederla, quando scorge un gruppo di anime (sodomiti) che si avvicinano all'argine e guardano i due come si osserva qualcuno in una notte di novilunio, stringendo gli occhi come fanno i vecchi sarti quando devono infilare l'ago nella cruna.
Colloquio con Brunetto Latini (22-54)
G. da Pisa, I sodomiti (miniatura del 1350 ca.)
Una delle anime della schiera si avvicina a Dante e lo tira per il lembo della veste, gridando la sua meraviglia: il poeta lo guarda bene e nonostante il suo viso sia tutto bruciato dalle fiammelle lo riconosce come Brunetto Latini. Dante lo saluta meravigliandosi di trovarlo lì e il dannato manifesta il desiderio di staccarsi per un po' dalle altre anime e seguire il suo antico discepolo per parlare con lui. Dante ovviamente ne è ben felice e afferma che si attarderà a conversare con lui, sempre che ciò gli sia permesso da Virgilio. Brunetto ribatte che se un dannato di quella schiera smette un istante di camminare, è poi costretto a restar fermo cent'anni senza potersi riparare dalla pioggia di fuoco. Invita quindi Dante a camminare, mentre lui lo seguirà per poi ricongiugersi ai suoi compagni di pena.
Naturalmente Dante non osa scendere dall'argine per avvicinarsi a Brunetto, tuttavia prosegue il cammino tenendo il capo basso, per udire meglio le sue parole e in segno di deferenza. Brunetto chiede a Dante per quale motivo egli compia questo viaggio nell'Aldilà e chi sia la sua guida. Dante risponde di essersi smarrito in una valle prima della fine dei suoi giorni e di averla lasciata solo la mattina del giorno precedente: Virgilio gli era apparso nel momento in cui stava per rientrarci e ora lo riconduce sul retto cammino.
Naturalmente Dante non osa scendere dall'argine per avvicinarsi a Brunetto, tuttavia prosegue il cammino tenendo il capo basso, per udire meglio le sue parole e in segno di deferenza. Brunetto chiede a Dante per quale motivo egli compia questo viaggio nell'Aldilà e chi sia la sua guida. Dante risponde di essersi smarrito in una valle prima della fine dei suoi giorni e di averla lasciata solo la mattina del giorno precedente: Virgilio gli era apparso nel momento in cui stava per rientrarci e ora lo riconduce sul retto cammino.
Profezia dell'esilio di Dante (55-99)
G. Doré, Dante e Brunetto Latini
Brunetto dichiara che Dante non può fallire nella sua missione letteraria e politica, se segue la sua stella e se lui ha ben giudicato quando era in vita. Anzi, se Brunetto non fosse morto precocemente lo avrebbe aiutato lui stesso, visto che il cielo è stato così benevolo con Dante. Tuttavia i Fiorentini, l'ingrato popolo disceso da Fiesole e che conserva ancora la durezza della sua origine, si faranno nemici del poeta a causa delle sue buone azioni e ciò non deve sorprendere, perché il frutto buono non cresce di solito tra quelli cattivi. I Fiorentini sono gente avara, invidiosa e superba e Dante deve quindi tenersi lontano dai loro costumi. Il suo destino è invece così onorevole che entrambe le parti politiche della città, Bianchi e Neri, vorranno sfogare il loro odio su di lui, ma non ne avranno la concreta possibilità. I Fiorentini dovranno rivolgere il proprio astio su se stessi e non toccare quei concittadini che, come Dante, conservano il sangue puro dei Romani che fondarono anticamente la città.
Dante ribatte che, se dipendesse da lui, Brunetto sarebbe ancora nel mondo, dal momento che vivo è in lui il ricordo del maestro che gli insegnò come acquistare fama eterna, quindi finché vivrà le sue parole esprimeranno sempre questo affetto. Dante dichiara di prendere atto della oscura profezia, riservandosi di farsela spiegare meglio da Beatrice quando la raggiungerà. Il poeta aggiunge inoltre che è pronto ai colpi della fortuna, in quanto ha già udito una simile profezia. Virgilio si volge allora sulla sua destra e dice a Dante che è buon ascoltatore chi prende nota di ciò che gli viene detto.
Dante ribatte che, se dipendesse da lui, Brunetto sarebbe ancora nel mondo, dal momento che vivo è in lui il ricordo del maestro che gli insegnò come acquistare fama eterna, quindi finché vivrà le sue parole esprimeranno sempre questo affetto. Dante dichiara di prendere atto della oscura profezia, riservandosi di farsela spiegare meglio da Beatrice quando la raggiungerà. Il poeta aggiunge inoltre che è pronto ai colpi della fortuna, in quanto ha già udito una simile profezia. Virgilio si volge allora sulla sua destra e dice a Dante che è buon ascoltatore chi prende nota di ciò che gli viene detto.
Brunetto indica altri sodomiti e si allontana (100-124)
Dante prosegue il cammino e intanto non cessa di parlare con Brunetto, al quale chiede chi siano i suoi compagni di pena. Lui risponde che farà i nomi delle anime più note, poiché sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Brunetto spiega che i sodomiti di quella schiera sono tutti chierici e letterati di gran fama, tra i quali Prisciano, Francesco d'Accorso e colui che Bonifacio VIII trasferì da Firenze a Vicenza, dove morì lordo di tale peccato, vale a dire il vescovo Andrea de' Mozzi. Brunetto si attarderebbe ancora, ma il colloquio si deve interrompere in quanto già vede il fumo sollevato da un'altra schiera di sodomiti, della quale lui non può far parte. Si congeda da Dante raccomandandogli il Trésor, che gli ha dato fama imperitura, quindi si allontana di corsa. Dante lo paragona a un corridore che corre il palio di Verona e ne è vincitore.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
|
Interpretazione complessiva
Protagonista assoluto del Canto è Brunetto Latini, il notaio e uomo politico fiorentino che fu anche maestro di retorica ed ebbe fra i suoi allievi il giovane Dante. L'autore della Commedia lo rievoca in questo episodio con grande affetto sul piano umano, ma anche con una ferma condanna della sua sodomia di cui non si hanno testimonianze certe a parte quella ambigua di Giovanni Villani che lo definisce «mondano uomo». Presente sullo sfondo è anche la città di Firenze, patria di entrambi e colpita da Brunetto con una dura invettiva nel predire l'esilio al discepolo.
L'atteggiamento di Dante verso l'antico maestro è di stupore nel vederlo dannato (Siete voi qui, ser Brunetto?), di profonda deferenza e rispetto (gli dà del voi, come fa con Farinata, Cavalcante, Cacciaguida e Beatrice, lo chiama col titolo onorifico ser), ne rievoca affettuosamente la cara e buona imagine paterna di quando a Firenze gli insegnava ad acquistare fama imperitura, esprime la sua eterna gratitudine per il magistero ricevuto. Ciò nondimeno lo colloca tra i dannati, il che dimostra che c'è un contrasto netto tra la fama e i meriti terreni, letterari e politici, e la giustizia divina, implacabile con chi si è macchiato di gravi colpe. Si ripete la stessa situazione già vista con gli illustri fiorentini ch'a ben far puoser li 'ngegni, tra cui Farinata e Tegghiaio Aldobrandi la cui dannazione è stata preannunciata da Ciacco e che sono, moralmente, tra l'anime più nere. Anche Brunetto, inoltre, si dimostra poco consapevole della propria colpa e ancora attaccato alla vita terrena, dal momento che si complimenta con Dante per il privilegio di poter visitare da vivo il regno dei morti e sembra credere che ciò sia dovuto esclusivamente ai suoi meriti di intellettuale e politico, come già Cavalcante aveva parlato di altezza d'ingegno. La spiegazione di Dante è volutamente ambigua, con l'accenno allo smarrimento nella selva oscura e a Virgilio come colui che lo riporta a ca, sul retto cammino attraverso l'Inferno: Dante indica Virgilio come il suo vero maestro morale, ma Brunetto non sembra comprendere le sue parole e osserva che Dante deve seguire la sua stella che lo condurrà a glorioso porto, ovvero alla gloria letteraria e politica cui è destinato come lo stesso Brunetto si era accorto quando era in vita. Come già Cavalcante, anche Brunetto non capisce nulla del percorso di purificazione compiuto dal discepolo e dal suo orizzonte è del tutto esclusa la grazia divina, ovvero Beatrice che è il vero punto di arrivo dello straordinario viaggio dantesco.
Il dannato è quindi prigioniero di una dimensione unicamente terrena e materiale, tant'è vero che il suo discorso prosegue con la profezia a Dante dell'esilio da Firenze (anche in questo c'è un'analogia con l'episodio di Farinata). L'invettiva contro la città parte dal presupposto che i Fiorentini diverranno nemici di Dante per il suo ben far, per la sua corretta azione politica, e ciò si spiega in quanto gli abitanti della città discendono in gran parte da quelli di Fiesole e quindi conservano la rozzezza e la selvatichezza propria dei montanari. Brunetto si rifà alla nota leggenda secondo cui Fiesole era stata rasa al suolo dopo la ribellione di Catilina e Cesare aveva fondato una nuova città (Firenze) in cui erano stati accolti i superstiti della città distrutta, il che spiegherebbe le divisioni politiche della Firenze del Duecento. Dante considerava la propria famiglia discendente dagli antichi Romani (Par., XVI, 40-45), quindi le parole di Brunetto creano un contrasto tra lui e i concittadini discendenti dai Fiesolani, per cui non c'è da stupirsi di tanto odio e accanimento contro di lui da parte di Bianchi e Neri, questi ultimi perché avversari politici e gli altri perché Dante se ne staccherà dopo la battaglia della Lastra. Dante è paragonato a un dolce fico che è nato tra i lazzi sorbi (frutti dal sapore agro), cioè tra gente piena di invidia, superbia e avarizia incapace di apprezzare chi come lui si dedica con passione e lealtà all'attività politica. Ma i Fiorentini, secondo Brunetto, non riusciranno a prevalere sul poeta: con una serie di forti metafore animalesche (becco, bestie fiesolane, strame, letame) augura loro di divorarsi l'un l'altro e di non toccare i discendenti del puro sangue romano, la sementa santa che fu gettata al momento della fondazione della città. Dante ribatte che la Fortuna può indirizzare contro di lui i suoi colpi e far girare la sua ruota, proprio come il contadino agita la sua marra, la zappa con cui può trovare un tesoro immeritato (il riferimento è probabilmente una leggenda popolare secondo cui un umile contadino toscano aveva casualmente trovato sottoterra dell'argento: implicitamente i Fiorentini sono paragonati a questo rozzo bifolco, come già prima si è detto che provengono dal monte e dal macigno). L'episodio si chiude con il commiato da Brunetto, la cui ultima immagine è quella del corridore che vince il palio di Verona.
L'atteggiamento di Dante verso l'antico maestro è di stupore nel vederlo dannato (Siete voi qui, ser Brunetto?), di profonda deferenza e rispetto (gli dà del voi, come fa con Farinata, Cavalcante, Cacciaguida e Beatrice, lo chiama col titolo onorifico ser), ne rievoca affettuosamente la cara e buona imagine paterna di quando a Firenze gli insegnava ad acquistare fama imperitura, esprime la sua eterna gratitudine per il magistero ricevuto. Ciò nondimeno lo colloca tra i dannati, il che dimostra che c'è un contrasto netto tra la fama e i meriti terreni, letterari e politici, e la giustizia divina, implacabile con chi si è macchiato di gravi colpe. Si ripete la stessa situazione già vista con gli illustri fiorentini ch'a ben far puoser li 'ngegni, tra cui Farinata e Tegghiaio Aldobrandi la cui dannazione è stata preannunciata da Ciacco e che sono, moralmente, tra l'anime più nere. Anche Brunetto, inoltre, si dimostra poco consapevole della propria colpa e ancora attaccato alla vita terrena, dal momento che si complimenta con Dante per il privilegio di poter visitare da vivo il regno dei morti e sembra credere che ciò sia dovuto esclusivamente ai suoi meriti di intellettuale e politico, come già Cavalcante aveva parlato di altezza d'ingegno. La spiegazione di Dante è volutamente ambigua, con l'accenno allo smarrimento nella selva oscura e a Virgilio come colui che lo riporta a ca, sul retto cammino attraverso l'Inferno: Dante indica Virgilio come il suo vero maestro morale, ma Brunetto non sembra comprendere le sue parole e osserva che Dante deve seguire la sua stella che lo condurrà a glorioso porto, ovvero alla gloria letteraria e politica cui è destinato come lo stesso Brunetto si era accorto quando era in vita. Come già Cavalcante, anche Brunetto non capisce nulla del percorso di purificazione compiuto dal discepolo e dal suo orizzonte è del tutto esclusa la grazia divina, ovvero Beatrice che è il vero punto di arrivo dello straordinario viaggio dantesco.
Il dannato è quindi prigioniero di una dimensione unicamente terrena e materiale, tant'è vero che il suo discorso prosegue con la profezia a Dante dell'esilio da Firenze (anche in questo c'è un'analogia con l'episodio di Farinata). L'invettiva contro la città parte dal presupposto che i Fiorentini diverranno nemici di Dante per il suo ben far, per la sua corretta azione politica, e ciò si spiega in quanto gli abitanti della città discendono in gran parte da quelli di Fiesole e quindi conservano la rozzezza e la selvatichezza propria dei montanari. Brunetto si rifà alla nota leggenda secondo cui Fiesole era stata rasa al suolo dopo la ribellione di Catilina e Cesare aveva fondato una nuova città (Firenze) in cui erano stati accolti i superstiti della città distrutta, il che spiegherebbe le divisioni politiche della Firenze del Duecento. Dante considerava la propria famiglia discendente dagli antichi Romani (Par., XVI, 40-45), quindi le parole di Brunetto creano un contrasto tra lui e i concittadini discendenti dai Fiesolani, per cui non c'è da stupirsi di tanto odio e accanimento contro di lui da parte di Bianchi e Neri, questi ultimi perché avversari politici e gli altri perché Dante se ne staccherà dopo la battaglia della Lastra. Dante è paragonato a un dolce fico che è nato tra i lazzi sorbi (frutti dal sapore agro), cioè tra gente piena di invidia, superbia e avarizia incapace di apprezzare chi come lui si dedica con passione e lealtà all'attività politica. Ma i Fiorentini, secondo Brunetto, non riusciranno a prevalere sul poeta: con una serie di forti metafore animalesche (becco, bestie fiesolane, strame, letame) augura loro di divorarsi l'un l'altro e di non toccare i discendenti del puro sangue romano, la sementa santa che fu gettata al momento della fondazione della città. Dante ribatte che la Fortuna può indirizzare contro di lui i suoi colpi e far girare la sua ruota, proprio come il contadino agita la sua marra, la zappa con cui può trovare un tesoro immeritato (il riferimento è probabilmente una leggenda popolare secondo cui un umile contadino toscano aveva casualmente trovato sottoterra dell'argento: implicitamente i Fiorentini sono paragonati a questo rozzo bifolco, come già prima si è detto che provengono dal monte e dal macigno). L'episodio si chiude con il commiato da Brunetto, la cui ultima immagine è quella del corridore che vince il palio di Verona.
Note e passi controversi
Guizzante e Bruggia (v. 4) sono la forma italianizzata di Wissant e Bruges, città fiamminghe assai frequentate nel Duecento da mercanti fiorentini. La Carentana (alcuni mss. leggono Chiarentana) è probabilmente la Carinzia, dove in estate si sciolgono le nevi che ingrossano il corso del Brenta.
L'immagine ai vv. 18-19 è tratta da Virgilio (Aen., VI, 270 ss.).
Il verbo arrostarsi (v. 39) vuol dire probabilmente «schermirsi», «ripararsi», ma potrebbe significare anche «muovere la rosta», cioè il ventaglio fatto di frasche (Dante allude comunque al movimento delle mani che scacciano le fiammelle).
Al v. 51 Dante intende dire che lo smarrimento nella selva oscura è avvenuto prima del compimento dei 35 anni d'età, dunque prima che la sua età... fosse piena (il viaggio avviene nella settimana santa del 1300, mentre Dante era nato tra maggio e giugno del 1265).
Il v. 52 indica che è passato circa un giorno dall'inizio del viaggio, essendo ora l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo).
La stella (v. 55) cui fa riferimento Brunetto è sicuramente una metafora per indicare la giusta rotta che conduce al porto, ma alcuni commentatori hanno ipotizzato che possa riferirsi alla costellazione dei Gemelli sotto il cui segno era nato Dante: Brunetto alluderebbe al destino di Dante che lui aveva previsto in vita grazie alle sue conoscenze astrologiche. Il dannato dice inoltre che il cielo era benigno verso Dante, mentre Beatrice (Purg., XXX, 109-117) parlerà delle stelle compagne volendo forse dire la stessa cosa.
I vv. 61 ss. ricordano la leggenda, assai diffusa nel Due-Trecento, secondo la quale Fiesole si era ribellata a Roma per opera di Catilina e venne rasa al suolo; Cesare fece costruire sulle rive dell'Arno una nuova città, che venne chiamata Firenze e che accolse entro le sue mura i superstiti di Fiesole, da cui secondo Dante discendono i Fiorentini più selvatici e malvagi.
I lazzi sorbi (v. 65) sono dei frutti dal sapore aspro, qui metafora per dire che una persona onesta (dolce fico) non può vivere in mezzo a gente corrotta come i Fiorentini.
Il v. 67 si riferisce a un antico detto che voleva i Fiorentini ciechi, cioè sciocchi in quanto avevano permesso a Totila di radere al suolo la città nella guerra greco-gotica, o forse per l'inganno subìto da parte dei Pisani (i Fiorentini avevano custodito la loro città durante la spedizione alle Baleari e in cambio i Pisani avevano inviato due colonne di porfido guaste, prese per buone dagli abitanti di Firenze).
I Fiorentini sono detti avari, invidiosi e superbi (v. 68), rei quindi degli stessi vizi già dichiarati da Ciacco (Inf., VI, 74).
Il becco al v. 72 potrebbe essere il caprone, nel qual caso l'erba sarà da intendere come lo strame del v. 73, ma anche il becco dell'uccello.
I vv. 73-78 alludono alla leggenda secondo cui Firenze fu fondata dagli antichi Romani e la nobiltà più pura della città discenderebbe dalla loro stirpe: Dante si riteneva appartenente a questa nobiltà, dunque le bestie fiesolane sono la parte restante dei cittadini.
La donna citata al v. 90 è naturalmente Beatrice.
I vv. 95-96 alludono forse a un detto proverbiale di cui non siamo informati, anche se in un passo del Convivio (IV, 6) Dante riferisce di aver visto un contadino sul monte Falterona che, zappando, trovò in maniera inaspettata un tesoro sepolto: il poeta vuol forse dire che la Fortuna può girare la sua ruota e dispensare premi immeritati, così come il contadino può immeritatamente trovare tesori usando la sua marra, la sua zappa.
I vv. 110-114 alludono in perifrasi a Andrea de' Mozzi, il vescovo che Bonifacio VIII (detto servo de' servi, l'espressione che designava il pontefice nei documenti della Curia) aveva trasferito d'Arno in Bacchiglione, cioè da Firenze a Vicenza.
Il v. 119 indica Li livres dou Trésor, una sorta di enciclopedia in lingua d'oïl composta da Brunetto tra 1262 e 1266.
Il drappo verde del v. 122 è il taglio di stoffa pregiata che veniva dato in premio al vincitore del palio di Verona.
L'immagine ai vv. 18-19 è tratta da Virgilio (Aen., VI, 270 ss.).
Il verbo arrostarsi (v. 39) vuol dire probabilmente «schermirsi», «ripararsi», ma potrebbe significare anche «muovere la rosta», cioè il ventaglio fatto di frasche (Dante allude comunque al movimento delle mani che scacciano le fiammelle).
Al v. 51 Dante intende dire che lo smarrimento nella selva oscura è avvenuto prima del compimento dei 35 anni d'età, dunque prima che la sua età... fosse piena (il viaggio avviene nella settimana santa del 1300, mentre Dante era nato tra maggio e giugno del 1265).
Il v. 52 indica che è passato circa un giorno dall'inizio del viaggio, essendo ora l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo).
La stella (v. 55) cui fa riferimento Brunetto è sicuramente una metafora per indicare la giusta rotta che conduce al porto, ma alcuni commentatori hanno ipotizzato che possa riferirsi alla costellazione dei Gemelli sotto il cui segno era nato Dante: Brunetto alluderebbe al destino di Dante che lui aveva previsto in vita grazie alle sue conoscenze astrologiche. Il dannato dice inoltre che il cielo era benigno verso Dante, mentre Beatrice (Purg., XXX, 109-117) parlerà delle stelle compagne volendo forse dire la stessa cosa.
I vv. 61 ss. ricordano la leggenda, assai diffusa nel Due-Trecento, secondo la quale Fiesole si era ribellata a Roma per opera di Catilina e venne rasa al suolo; Cesare fece costruire sulle rive dell'Arno una nuova città, che venne chiamata Firenze e che accolse entro le sue mura i superstiti di Fiesole, da cui secondo Dante discendono i Fiorentini più selvatici e malvagi.
I lazzi sorbi (v. 65) sono dei frutti dal sapore aspro, qui metafora per dire che una persona onesta (dolce fico) non può vivere in mezzo a gente corrotta come i Fiorentini.
Il v. 67 si riferisce a un antico detto che voleva i Fiorentini ciechi, cioè sciocchi in quanto avevano permesso a Totila di radere al suolo la città nella guerra greco-gotica, o forse per l'inganno subìto da parte dei Pisani (i Fiorentini avevano custodito la loro città durante la spedizione alle Baleari e in cambio i Pisani avevano inviato due colonne di porfido guaste, prese per buone dagli abitanti di Firenze).
I Fiorentini sono detti avari, invidiosi e superbi (v. 68), rei quindi degli stessi vizi già dichiarati da Ciacco (Inf., VI, 74).
Il becco al v. 72 potrebbe essere il caprone, nel qual caso l'erba sarà da intendere come lo strame del v. 73, ma anche il becco dell'uccello.
I vv. 73-78 alludono alla leggenda secondo cui Firenze fu fondata dagli antichi Romani e la nobiltà più pura della città discenderebbe dalla loro stirpe: Dante si riteneva appartenente a questa nobiltà, dunque le bestie fiesolane sono la parte restante dei cittadini.
La donna citata al v. 90 è naturalmente Beatrice.
I vv. 95-96 alludono forse a un detto proverbiale di cui non siamo informati, anche se in un passo del Convivio (IV, 6) Dante riferisce di aver visto un contadino sul monte Falterona che, zappando, trovò in maniera inaspettata un tesoro sepolto: il poeta vuol forse dire che la Fortuna può girare la sua ruota e dispensare premi immeritati, così come il contadino può immeritatamente trovare tesori usando la sua marra, la sua zappa.
I vv. 110-114 alludono in perifrasi a Andrea de' Mozzi, il vescovo che Bonifacio VIII (detto servo de' servi, l'espressione che designava il pontefice nei documenti della Curia) aveva trasferito d'Arno in Bacchiglione, cioè da Firenze a Vicenza.
Il v. 119 indica Li livres dou Trésor, una sorta di enciclopedia in lingua d'oïl composta da Brunetto tra 1262 e 1266.
Il drappo verde del v. 122 è il taglio di stoffa pregiata che veniva dato in premio al vincitore del palio di Verona.
TestoOra cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l’acqua e li argini. 3 Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo ’l fiotto che ’nver lor s’avventa, fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia; 6 e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: 9 a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro felli. 12 Già eravam da la selva rimossi tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era, perch’io in dietro rivolto mi fossi, 15 quando incontrammo d’anime una schiera che venìan lungo l’argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera 18 guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia come ’l vecchio sartor fa ne la cruna. 21 Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». 24 E io, quando ’l suo braccio a me distese, ficcai li occhi per lo cotto aspetto, sì che ’l viso abbrusciato non difese 27 la conoscenza sua al mio ’ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». 30 E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia». 33 I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m’asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco». 36 «O figliuol», disse, «qual di questa greggia s’arresta punto, giace poi cent’anni sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. 39 Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni». 42 I’ non osava scender de la strada per andar par di lui; ma ’l capo chino tenea com’uom che reverente vada. 45 El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra ’l cammino?». 48 «Là sù di sopra, in la vita serena», rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle, avanti che l’età mia fosse piena. 51 Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m’apparve, tornand’io in quella, e reducemi a ca per questo calle». 54 Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, se ben m’accorsi ne la vita bella; 57 e s’io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t’avrei a l’opera conforto. 60 Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno, 63 ti si farà, per tuo ben far, nimico: ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico. 66 Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent’è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. 69 La tua fortuna tanto onor ti serba, che l’una parte e l’altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l’erba. 72 Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s’alcuna surge ancora in lor letame, 75 in cui riviva la sementa santa di que’ Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta». 78 «Se fosse tutto pieno il mio dimando», rispuos’io lui, «voi non sareste ancora de l’umana natura posto in bando; 81 ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora 84 m’insegnavate come l’uom s’etterna: e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo convien che ne la mia lingua si scerna. 87 Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s’a lei arrivo. 90 Tanto vogl’io che vi sia manifesto, pur che mia coscienza non mi garra, che a la Fortuna, come vuol, son presto. 93 Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e ’l villan la sua marra». 96 Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro, e riguardommi; poi disse: «Bene ascolta chi la nota». 99 Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi. 102 Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché ’l tempo sarìa corto a tanto suono. 105 In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesmo al mondo lerci. 108 Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d’Accorso anche; e vedervi, s’avessi avuto di tal tigna brama, 111 colui potei che dal servo de’ servi fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi. 114 Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone più lungo esser non può, però ch’i’ veggio là surger nuovo fummo del sabbione. 117 Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro nel qual io vivo ancora, e più non cheggio». 120 Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde. 124 |
ParafrasiOra uno degli argini rocciosi ci porta lontani dalla selva; e il fumo del Flegetonte fa ombra di sopra, così che protegge dal fuoco l'acqua e gli argini stessi.
Come i Fiamminghi fra Wissant e Bruges erigono dighe per tener lontana la marea, temendo che le onde si avventino contro di loro; e come fanno i Padovani lungo il Brenta per difendere le loro città e i castelli prima che la Carinzia senta il caldo (si sciolgano le nevi): così erano costruiti quegli argini, anche se il costruttore, chiunque fosse, non li aveva eretti così alti e grossi. Ormai ci eravamo allontanati dalla selva tanto che non l'avrei più vista se anche mi fossi voltato, quando incontrammo una schiera di anime che veniva lungo l'argine e ognuna di esse ci guardava come si osserva qualcuno in una sera di novilunio; e strizzavano gli occhi verso di noi come fa il vecchio sarto per infilare l'ago nella cruna. Mentre i dannati mi scrutavano in tal modo, fui riconosciuto da uno che mi prese per il lembo della veste e gridò: «Che meraviglia!» E io, quando lui tese verso di me il suo braccio, fissai il suo volto così che non potei non riconoscerlo, benché fosse tutto bruciato, e avvicinando la mano al suo viso risposi: «Voi siete qui, ser Brunetto?» E lui: «Figlio mio, non dispiacerti se Brunetto Latini torna un po' indietro con te e lascia proseguire la schiera (dei dannati)». Io gli dissi: «Ve ne prego con tutte le mie forze; e se volete che io mi trattenga con voi lo farò, purché acconsenta costui che mi guida». Lui disse: «Figliolo, se un dannato di questo gruppo si arresta un solo istante, poi deve giacere cent'anni senza potersi riparare quando il fuoco lo ferisce. Perciò prosegui: io ti seguirò e poi raggiungerò la mia schiera, che va piangendo la sua dannazione eterna». Io non osavo scendere dall'argine per andare insieme a lui; ma tenevo il capo chino, come un uomo che dimostra la sua deferenza. Lui cominciò: «Quale fortuna o destino ti porta quaggiù prima della tua morte? e chi è costui che ti fa da guida?» Io gli risposi: «Lassù, nella vita serena, mi sono smarrito in una valle prima che la mia vita raggiungesse il suo culmine. Solo ieri mattina ne sono uscito: mi apparve costui (Virgilio), mentre ci stavo rientrando, e mi riporta a casa per questo cammino». E lui a me: «Se tu segui la tua stella, non puoi non raggiungere i tuoi obiettivi letterari e politici, se ho inteso bene quando ero in vita; e se non fossi morto precocemente, vedendo che il cielo era così ben disposto verso di te ti avrei aiutato a compiere la tua opera. Ma quell'ingrato e maligno popolo che è disceso anticamente da Fiesole (i Fiorentini) e conserva ancora la rozzezza dei montanari, diventerà tuo nemico per le tue buone azioni: e ne ha ben donde, poiché non è opportuno che il dolce fico nasca tra i frutti agri. Un vecchio proverbio li definisce ciechi; è gente avara, invidiosa e superba: cerca di preservarti dai loro costumi. La tua fortuna ti riserva tanto onore che entrambe le parti (Bianchi e Neri) vorranno sfogare il loro odio contro di te, ma l'erba sarà lontana dal caprone. Le bestie di Fiesole (Fiorentini) si divorino tra loro e non tocchino la pianta, ammesso che ne nascano ancora nel loro letame, in cui rivive la santa semenza di quei Romani che restarono a Firenze quando fu fondato il nido di tanta malvagità». Io gli risposi: «Se potessi esaudire ogni mio desiderio, voi sareste ancora tra i vivi; poiché nella mia mente è ben presente, e ora mi commuove, la cara e buona immagine paterna di voi quando nel mondo mi insegnavate di quando in quando come l'uomo acquista fama eterna: e finché vivrò la mia lingua esprimerà quanto ciò mi sia gradito. Io prendo nota ciò che narrate della mia vita, e mi riservo di farmelo spiegare insieme a un'altra profezia (di Farinata) da una donna (Beatrice) che saprà farlo, se arriverò sino a lei. Io voglio che vi sia chiaro che sono pronto a ciò che la fortuna mi riserva, purché non mi rimorda la coscienza. Tale profezia non è nuova al mio orecchio: dunque la fortuna giri pure la sua ruota come vuole, e il contadino ruoti la sua zappa». Il mio maestro (Virgilio) allora si voltò indietro sulla destra e mi guardò, dicendo poi: «È buon ascoltatore chi prende nota di ciò che gli vien detto». Non per questo smisi di parlare con ser Brunetto, e gli domandai chi fossero i suoi compagni di pena più importanti. E lui a me: «È bene conoscerne qualcuno: degli altri sarà preferibile tacere, perché occorrerebbe troppo tempo a elencarli tutti. Sappi insomma che furono tutti chierici e importanti letterati di gran fama, la cui vita fu lercia dello stesso peccato (sodomia). Prisciano va con quella brutta schiera, e anche Francesco d'Accorso; e se avessi desiderio di vedere un tale sudiciume, potresti vedere colui che il servo dei servi (Bonifacio VIII) trasferì da Firenze a Vicenza, dove morì e lasciò i suoi sensi protesi al vizio. Ti direi di più, ma il cammino e il discorso non possono prolungarsi, poiché vedo levarsi là nuovo fumo dal sabbione. Arrivano anime con la cui schiera non devo mescolarmi. Ti sia raccomandato il mio Trésor nel quale ho ancora fama, e non chiedo altro». Poi si voltò e sembrò uno di quelli che corrono il palio a Verona per il drappo verde, nella campagna; e sembrò il vincitore, non il perdente. |