Paradiso, Canto II
A. Nattini, Il Cielo della Luna
Parv'a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse...
Ed ella: "Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l'argomentar ch'io li farò avverso..."
"...Virtù diversa fa diversa lega
col prezioso corpo ch'ella avviva,
la qual, sì come vita in voi, si lega..."
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse...
Ed ella: "Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l'argomentar ch'io li farò avverso..."
"...Virtù diversa fa diversa lega
col prezioso corpo ch'ella avviva,
la qual, sì come vita in voi, si lega..."
Argomento del Canto
Monito di Dante ai lettori. Ascesa di Dante e Beatrice nel I Cielo della Luna. Beatrice confuta l'opinione di Dante circa le macchie lunari e ne spiega la vera origine.
È il primo pomeriggio di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
È il primo pomeriggio di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.
Monito di Dante ai lettori (1-18)
Dante si rivolge ai lettori non in possesso di perfette conoscenze teologiche e li ammonisce a non mettersi in mare seguendo la scia della sua nave, poiché rischierebbero di restare smarriti: la rotta seguita dalla poesia dantesca non è mai stata percorsa da nessuno e il poeta è assistito dall'ispirazione divina. Solo coloro che si sono dedicati per tempo allo studio della teologia possono seguirlo senza timore e, leggendo il Paradiso, resteranno meravigliati non meno degli Argonauti quando videro il loro capo, Giasone, che arava un campo come un contadino.
Ascesa di Dante e Beatrice al Cielo della Luna (19-45)
S. Botticelli, Ascesa alla Luna
Spinti dal desiderio di giungere all'Empireo, Dante e Beatrice procedono verso l'alto e in un tempo minore di quello in cui una freccia scoccata arriva al bersaglio ascendono al I Cielo della Luna, dove l'attenzione del poeta è subito attirata dall'aspetto dell'astro. Beatrice intuisce la meraviglia di Dante e lo invita a ringraziare Dio di averlo fatto salire in quel Cielo: esso appare al poeta come una nube spessa e splendente, simile a un diamante illuminato dal sole. I due entrano all'interno del Cielo come un raggio di luce attraversa l'acqua, cosa che stupisce Dante in quanto egli è in possesso del suo corpo mortale e non comprende come possa penetrare all'interno di un altro corpo solido. Questo dovrebbe accendere in noi il desiderio di arrivare in Paradiso, dove potremo comprendere il mistero dell'incarnazione del divino e si conoscerà ciò che sulla Terra è oggetto di fede, non dimostrabile scientificamente.
La teoria di Dante sulle macchie lunari (46-63)
G. Galilei, La Luna (Sidereus Nuncius)
Dante risponde a Beatrice di essere grato a Dio che lo ha ammesso in Paradiso, quindi le domanda quale sia l'origine delle macchie lunari che è oggetto sulla Terra di varie leggende. Beatrice sorride, quindi dichiara che se l'opinione degli uomini è viziata dal limite dei sensi, che non possono fornire loro una spiegazione adeguata, Dante non dovrebbe stupirsi poiché sa che la ragione non può sempre basarsi sull'esperienza sensibile. La donna invita poi Dante a esprimere la sua opinione circa le macchie lunari e il poeta attribuisce il fenomeno alla maggiore o minore densità dell'astro. Beatrice preannuncia una spiegazione che, con le sue argomentazioni, confuterà l'errata teoria di Dante.
Beatrice confuta l'opinione di Dante (64-105)
Beatrice spiega che nel Cielo delle Stelle Fisse vi sono tanti astri, che appaiono diversi per qualità e dimensione: se ciò fosse dovuto alla densità, vorrebbe dire che in tutti è presente la stessa virtù distribuita in modo diseguale. Invece le stelle possiedono virtù diverse, frutto di cause diverse, mentre ne avrebbero una sola se il ragionamento di Dante fosse vero. Inoltre, se la Luna fosse più e meno densa, vorrebbe dire che essa ha dei fori che la passano da parte a parte, oppure che la sua massa è distribuita in modo non uniforme. Nella prima ipotesi, durante le eclissi solari la luce del sole attraverserebbe la luna e questo non avviene; resta da verificare la seconda ipotesi e se anche questa venisse confutata lo sarebbe l'intero ragionamento di Dante.
Beatrice spiega che, se la minore densità della luna non si estende per tutto lo spessore dell'astro, dev'esserci un punto in cui la massa è densa e non lascia passare i raggi del sole. In quel punto i raggi vengono riflessi, proprio come uno specchio riflette la luce, e la donna previene la possibile obiezione di Dante, secondo cui nei punti di minor densità i raggi si riflettono da più lontano e fanno quindi sembrare la superficie lunare più scura. Beatrice suggerisce un esperimento, che consiste nel porre due specchi alla stessa distanza dall'osservatore e uno più lontano, e di guardarli con un lume alle spalle: lo specchio più lontano rifletterà la luce con minore dimensione, ma uguale intensità, dunque la teoria di Dante è errata.
Beatrice spiega che, se la minore densità della luna non si estende per tutto lo spessore dell'astro, dev'esserci un punto in cui la massa è densa e non lascia passare i raggi del sole. In quel punto i raggi vengono riflessi, proprio come uno specchio riflette la luce, e la donna previene la possibile obiezione di Dante, secondo cui nei punti di minor densità i raggi si riflettono da più lontano e fanno quindi sembrare la superficie lunare più scura. Beatrice suggerisce un esperimento, che consiste nel porre due specchi alla stessa distanza dall'osservatore e uno più lontano, e di guardarli con un lume alle spalle: lo specchio più lontano rifletterà la luce con minore dimensione, ma uguale intensità, dunque la teoria di Dante è errata.
Beatrice spiega la vera origine delle macchie lunari (106-148)
S. Botticelli, Dante e Beatrice
Ora che la mente di Dante è sgombra dalle sue errate convinzioni, Beatrice può darle nuova forma e illuminarla con una luce vivida. La donna spiega che entro l'Empireo ruota il Primo Mobile, nella cui virtù è contenuta la vita dell'intero Universo, mentre il Cielo delle Stelle Fisse distribuisce quella virtù nei vari astri che sono in esso. I Cieli sottostanti ricevono questa virtù distinta e la dispongono per vari fini, dal più alto al più basso, mentre il loro movimento è ordinato dalle varie intelligenze angeliche, così come il Cielo delle Stelle Fisse riceve l'impronta dai Cherubini. E come l'anima umana si differenzia nelle diverse membra del corpo, create per vari fini, così l'intelligenza dei Cherubini si dispiega per i vari astri: la virtù divina si lega in modo diverso con la materia del corpo stellare e risplende attraverso di essa come la gioia splende nella pupilla dell'occhio. La differenza nello splendore dipende dunque dalla maggiore o minore gioia dell'intelligenza che si manifesta nelle varie stelle e nelle parti di uno stesso astro, come la Luna, e questa è l'origine delle macchie scure su di essa, non la maggiore o minore densità.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti I-II, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto descrive l'ascesa di Dante e Beatrice al Cielo della Luna ed è dedicato in gran parte alla spiegazione dell'origine delle macchie lunari, con una pagina che a molti commentatori è sembrata un arido esercizio didascalico e intellettuale, una sorta di pausa filosofica prima dell'incontro con i beati. In realtà tale spiegazione è significativa, in quanto è una sorta di introduzione preliminare al Paradiso ed è infatti posta all'inizio della Cantica, poiché deve preparare il lettore al modo corretto di interpretare ciò che sarà descritto in seguito: non a caso l'inizio del Canto è una sorta di severo ammonimento ai lettori in piccioletta barca, ovvero non in pieno possesso delle conoscenze teologiche necessarie ad affrontare il viaggio in Paradiso, che sono invitati a tornare a riva per evitare il rischio di perdersi nel pelago affrontato dal poeta. Solo chi si è nutrito per tempo della dottrina può seguire la scia della nave dell'ingegno dantesco (la stessa immagine dell'esordio del Purgatorio), che solca un mare non mai percorso da nessun altro, per cui Dante rivendica con orgoglio il fatto di essere il primo ad affrontare una simile materia poetica e afferma il carattere ispirato della sua opera, dal momento che Minerva soffia i venti favorevoli, Apollo regge il timone, le Muse indicano la giusta rotta. Chi leggerà il Paradiso vedrà cose mai viste prima d'ora e si stupirà tanto quanto gli Argonauti quando videro Giasone trasformato in contadino, con un significativo riferimento ad Argo che nel mito era la prima nave a solcare il mare e la cui apparizione stupì tutte le divinità marine, come ad esempio Nettuno (cfr. anche Par., XXXIII, 94-96).
In effetti l'ascesa al Cielo della Luna è un primo esempio del carattere incredibile delle cose narrate, a cominciare dal fatto che Dante, dotato di un corpo solido, penetra nella materia dell'astro in modo incomprensibile alla ragione umana: di ciò non è fornita una spiegazione fisica o scientifica, ma si dice solo che questo e altri misteri ci saranno svelati quando saremo in Paradiso, dove ciò che tenem per fede sarà spiegato non attraverso una dimostrazione ragionata, ma attraverso degli assiomi evidenti di per se stessi. Questo è il punto centrale del Canto, ovvero la non dimostrabilità razionale dei misteri del divino e l'insufficienza della sola ragione umana a comprenderli, per cui la successiva questione delle macchie lunari serve a ribadire questo concetto: Beatrice chiede a Dante la sua opinione in merito e il poeta riferisce quella già espressa in Conv., II, 13, secondo cui le macchie scure sulla Luna sarebbero dovute alla maggiore o minore densità dell'astro. Tale spiegazione è appunto «scientifica» e Beatrice la confuta con argomenti fisici, per poi illustrare la vera origine del fenomeno che avrà invece carattere metafisico e sarà collegata alla teoria degli influssi celesti già trattati nel Canto precedente, il che ribadisce quanto detto prima da Dante circa la non dimostrabilità degli articoli di fede e l'insufficienza degli argomenti sensibili, poiché (spiega Beatrice) dietro ai sensi... la ragione ha corte l'ali. La spiegazione di Beatrice si divide infatti in due parti, di cui la prima è la pars destruens che dimostra errata la teoria di Dante nel Convivio con argomentazioni di carattere scientifico, mentre la seconda è la pars construens che, viceversa, chiama in causa ragioni di ordine metafisico e trascendente, quindi è come se Beatrice-teologia dimostrasse l'inadeguatezza della sola filosofia ad affrontare simili questioni. Questo era stato probabilmente il peccato compiuto da Dante all'epoca del cosiddetto «traviamento», e il fatto che qui (come altrove) egli corregga opinioni espresse nel Convivio avvalora l'ipotesi che quell'opera fosse il prodotto dell'eccessiva fiducia nelle possibilità della ragione umana e che soprattutto il Paradiso ne sia una sorta di ritrattazione.
La dimostrazione di Beatrice segue rigorosamente i procedimenti della Scolastica e della logica aristotelica, per cui l'opinione di Dante è ricondotta a due possibilità (o la Luna è talmente rada da avere dei «buchi» da parte a parte, cosa evidentemente non vera, oppure ha una massa compatta anche se con diversa densità); l'esperimento dei tre specchi e del lume dimostra scientificamente che la superficie lunare, anche se più o meno densa, riflette allo stesso modo la luce in ogni punto, quindi non può essere questa la causa delle macchie scure. Essa è spiegata nella seconda parte del ragionamento, venendo ricondotta alla teoria generale degli influssi celesti: la virtù indistinta che ha origine dal Primo Mobile discende nell'VIII Cielo, dove si divide nelle varie stelle; da qui discende nei Cieli sottostanti, dove le intelligenze angeliche che fanno ruotare i Cieli infondono tale virtù nella materia dell'astro, che si lega in modo diverso e risplende in modo più o meno intenso a seconda di come avviene questa lega, proprio come la gioia si manifesta in maggiore o minor misura negli occhi delle persone. Questo fa sì che le Stelle siano più o meno splendenti e che la Luna sia scura in alcune parti, per cui la ragione è di ordine metafisico e non piò essere dimostrata in modo scientifico, con argomenti sensibili, poiché i sensi umani sono del tutto inadeguati alla comprensione di ciò che va oltre l'intelletto umano. In tal modo Dante ha fatto seguire un esempio lampante di quanto ha affermato nel monito dei primi versi, poiché è evidente che chi non ha adeguate conoscenze teologiche non è in grado di comprendere una simile spiegazione, né tutte le altre di tenore analogo che seguiranno nella Cantica: lungi dall'essere una parentesi didascalica, il Canto vuole spiegare quale sarà il carattere della descrizione del Paradiso e prendere le distanze dal tentativo compiuto dal Convivio, in cui l'origine dei fenomeni naturali era sempre ricercata attraverso la ragione. Come nell'episodio di Ulisse, Dante ci spiega che l'intelletto umano ha un limite invalicabile e oltre ad esso può esserci solo la fede che si nutre del pan de li angeli, cioè della dottrina teologica: qualunque altro tentativo è destinato a fallire, come il viaggio folle di Ulisse terminò col naufragio che è indirettamente evocato all'inizio nell'immagine della piccioletta barca, e come forse ha rischiato di finire il viaggio dantesco prima di iniziare la composizione del poema.
In effetti l'ascesa al Cielo della Luna è un primo esempio del carattere incredibile delle cose narrate, a cominciare dal fatto che Dante, dotato di un corpo solido, penetra nella materia dell'astro in modo incomprensibile alla ragione umana: di ciò non è fornita una spiegazione fisica o scientifica, ma si dice solo che questo e altri misteri ci saranno svelati quando saremo in Paradiso, dove ciò che tenem per fede sarà spiegato non attraverso una dimostrazione ragionata, ma attraverso degli assiomi evidenti di per se stessi. Questo è il punto centrale del Canto, ovvero la non dimostrabilità razionale dei misteri del divino e l'insufficienza della sola ragione umana a comprenderli, per cui la successiva questione delle macchie lunari serve a ribadire questo concetto: Beatrice chiede a Dante la sua opinione in merito e il poeta riferisce quella già espressa in Conv., II, 13, secondo cui le macchie scure sulla Luna sarebbero dovute alla maggiore o minore densità dell'astro. Tale spiegazione è appunto «scientifica» e Beatrice la confuta con argomenti fisici, per poi illustrare la vera origine del fenomeno che avrà invece carattere metafisico e sarà collegata alla teoria degli influssi celesti già trattati nel Canto precedente, il che ribadisce quanto detto prima da Dante circa la non dimostrabilità degli articoli di fede e l'insufficienza degli argomenti sensibili, poiché (spiega Beatrice) dietro ai sensi... la ragione ha corte l'ali. La spiegazione di Beatrice si divide infatti in due parti, di cui la prima è la pars destruens che dimostra errata la teoria di Dante nel Convivio con argomentazioni di carattere scientifico, mentre la seconda è la pars construens che, viceversa, chiama in causa ragioni di ordine metafisico e trascendente, quindi è come se Beatrice-teologia dimostrasse l'inadeguatezza della sola filosofia ad affrontare simili questioni. Questo era stato probabilmente il peccato compiuto da Dante all'epoca del cosiddetto «traviamento», e il fatto che qui (come altrove) egli corregga opinioni espresse nel Convivio avvalora l'ipotesi che quell'opera fosse il prodotto dell'eccessiva fiducia nelle possibilità della ragione umana e che soprattutto il Paradiso ne sia una sorta di ritrattazione.
La dimostrazione di Beatrice segue rigorosamente i procedimenti della Scolastica e della logica aristotelica, per cui l'opinione di Dante è ricondotta a due possibilità (o la Luna è talmente rada da avere dei «buchi» da parte a parte, cosa evidentemente non vera, oppure ha una massa compatta anche se con diversa densità); l'esperimento dei tre specchi e del lume dimostra scientificamente che la superficie lunare, anche se più o meno densa, riflette allo stesso modo la luce in ogni punto, quindi non può essere questa la causa delle macchie scure. Essa è spiegata nella seconda parte del ragionamento, venendo ricondotta alla teoria generale degli influssi celesti: la virtù indistinta che ha origine dal Primo Mobile discende nell'VIII Cielo, dove si divide nelle varie stelle; da qui discende nei Cieli sottostanti, dove le intelligenze angeliche che fanno ruotare i Cieli infondono tale virtù nella materia dell'astro, che si lega in modo diverso e risplende in modo più o meno intenso a seconda di come avviene questa lega, proprio come la gioia si manifesta in maggiore o minor misura negli occhi delle persone. Questo fa sì che le Stelle siano più o meno splendenti e che la Luna sia scura in alcune parti, per cui la ragione è di ordine metafisico e non piò essere dimostrata in modo scientifico, con argomenti sensibili, poiché i sensi umani sono del tutto inadeguati alla comprensione di ciò che va oltre l'intelletto umano. In tal modo Dante ha fatto seguire un esempio lampante di quanto ha affermato nel monito dei primi versi, poiché è evidente che chi non ha adeguate conoscenze teologiche non è in grado di comprendere una simile spiegazione, né tutte le altre di tenore analogo che seguiranno nella Cantica: lungi dall'essere una parentesi didascalica, il Canto vuole spiegare quale sarà il carattere della descrizione del Paradiso e prendere le distanze dal tentativo compiuto dal Convivio, in cui l'origine dei fenomeni naturali era sempre ricercata attraverso la ragione. Come nell'episodio di Ulisse, Dante ci spiega che l'intelletto umano ha un limite invalicabile e oltre ad esso può esserci solo la fede che si nutre del pan de li angeli, cioè della dottrina teologica: qualunque altro tentativo è destinato a fallire, come il viaggio folle di Ulisse terminò col naufragio che è indirettamente evocato all'inizio nell'immagine della piccioletta barca, e come forse ha rischiato di finire il viaggio dantesco prima di iniziare la composizione del poema.
Note e passi controversi
L'espressione nove Muse (v. 9) indica certamente il numero delle divinità classiche e non il fatto che esse siano «nuove» in quanto cristiane.
Il pan de li angeli (v. 11) è la teologia, con espressione biblica (cfr. ad es. Sap., XVI, 20).
I vv. 16-18 alludono al racconto di Ovidio (Met., VII, 100) secondo cui Giasone, giunto nella Colchide, dovette affrontare alcune prove tra cui quella di arare un campo con due buoi mostruosi da lui domati. Nel testo ovidiano lo stupore nel vedere l'eroe è dei Colchidi, non degli Argonauti (v. 120: Mirantur Colchidi).
Il deiforme regno (v. 20) è l'Empireo, mentre 'l ciel (v. 21) è probabilmente il cielo in generale.
La similitudine (vv. 22-24) del quadrel («freccia») che viene scoccata e raggiunge veloce il bersaglio contiene un ysteron-proteron, ovvero un'immagine che anticipa qualcosa che avverrà dopo (la freccia prima da la noce si dischiava, ovvero si allontana dalla corda dell'arco, poi vola, infine posa, raggiunge il bersaglio).
Il termine repe (v. 39) è latinismo e vuole dire «penetra».
Il ver primo che l'uom crede (v. 45) è l'assioma indimostrato, come le verità matematiche, mentre altri pensano all'idea di Dio.
Il v. 51 allude alla leggenda secondo cui le macchie lunari erano dovute a Caino, confinato sulla Luna e condannato a portare un fascio di spine sulle spalle (cfr. Inf., XX, 126).
Nei vv. 59-60 Dante cita l'opinione circa le macchie lunari espressa in Conv., II, 13: «Che se la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa proprie, che non si veggiono ne l’altre stelle: l’una sì è l’ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l’altre parti». Tale teoria risale probabilmente ad Averroè (De substantia orbis, 2), mentre qui Dante segue san Tommaso (Comm. de Caelo et Mundo, II, lect. 12).
L'espressione nel quale e nel quanto (v. 65) indicano la qualità e la quantità delle stelle, con termini aristotelici.
Al v. 81 ingesto è latinismo e vuol dire «introdotto» (è l'unica occorrenza in Dante).
Al v. 87 si rifonde significa «si riflette».
Al v. 94 instanza («obiezione») è termine tecnico del linguaggio della Scolastica.
Il suggetto del v. 107 è il subiectum della Scolastica, ovvero ciò che sta a fondamento di una cosa, come l'acqua lo è della neve. Beatrice intende dire che la mente di Dante, sgombra dalle idee sbagliate, può acquisire una nuova forma, come la neve, sciolta dal sole, è tornata acqua e può tramutarsi in qualcos'altro.
Al v. 115 le vedute sono le stelle dell'VIII Cielo.
I beati motor del v. 129 sono le intelligenze angeliche, che muovono i Cieli.
Il v. 138, variamente interpretato, forse vuol dire semplicemente che l'intelligenza celeste ruota permanendo nella sua unità.
Il pan de li angeli (v. 11) è la teologia, con espressione biblica (cfr. ad es. Sap., XVI, 20).
I vv. 16-18 alludono al racconto di Ovidio (Met., VII, 100) secondo cui Giasone, giunto nella Colchide, dovette affrontare alcune prove tra cui quella di arare un campo con due buoi mostruosi da lui domati. Nel testo ovidiano lo stupore nel vedere l'eroe è dei Colchidi, non degli Argonauti (v. 120: Mirantur Colchidi).
Il deiforme regno (v. 20) è l'Empireo, mentre 'l ciel (v. 21) è probabilmente il cielo in generale.
La similitudine (vv. 22-24) del quadrel («freccia») che viene scoccata e raggiunge veloce il bersaglio contiene un ysteron-proteron, ovvero un'immagine che anticipa qualcosa che avverrà dopo (la freccia prima da la noce si dischiava, ovvero si allontana dalla corda dell'arco, poi vola, infine posa, raggiunge il bersaglio).
Il termine repe (v. 39) è latinismo e vuole dire «penetra».
Il ver primo che l'uom crede (v. 45) è l'assioma indimostrato, come le verità matematiche, mentre altri pensano all'idea di Dio.
Il v. 51 allude alla leggenda secondo cui le macchie lunari erano dovute a Caino, confinato sulla Luna e condannato a portare un fascio di spine sulle spalle (cfr. Inf., XX, 126).
Nei vv. 59-60 Dante cita l'opinione circa le macchie lunari espressa in Conv., II, 13: «Che se la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa proprie, che non si veggiono ne l’altre stelle: l’una sì è l’ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l’altre parti». Tale teoria risale probabilmente ad Averroè (De substantia orbis, 2), mentre qui Dante segue san Tommaso (Comm. de Caelo et Mundo, II, lect. 12).
L'espressione nel quale e nel quanto (v. 65) indicano la qualità e la quantità delle stelle, con termini aristotelici.
Al v. 81 ingesto è latinismo e vuol dire «introdotto» (è l'unica occorrenza in Dante).
Al v. 87 si rifonde significa «si riflette».
Al v. 94 instanza («obiezione») è termine tecnico del linguaggio della Scolastica.
Il suggetto del v. 107 è il subiectum della Scolastica, ovvero ciò che sta a fondamento di una cosa, come l'acqua lo è della neve. Beatrice intende dire che la mente di Dante, sgombra dalle idee sbagliate, può acquisire una nuova forma, come la neve, sciolta dal sole, è tornata acqua e può tramutarsi in qualcos'altro.
Al v. 115 le vedute sono le stelle dell'VIII Cielo.
I beati motor del v. 129 sono le intelligenze angeliche, che muovono i Cieli.
Il v. 138, variamente interpretato, forse vuol dire semplicemente che l'intelligenza celeste ruota permanendo nella sua unità.
Testo
O voi che siete in
piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca, 3 tornate a riveder li vostri liti: non vi mettete in pelago, ché forse, perdendo me, rimarreste smarriti. 6 L’acqua ch’io prendo già mai non si corse; Minerva spira, e conducemi Appollo, e nove Muse mi dimostran l’Orse. 9 Voialtri pochi che drizzaste il collo per tempo al pan de li angeli, del quale vivesi qui ma non sen vien satollo, 12 metter potete ben per l’alto sale vostro navigio, servando mio solco dinanzi a l’acqua che ritorna equale. 15 Que’ gloriosi che passaro al Colco non s’ammiraron come voi farete, quando Iasón vider fatto bifolco. 18 La concreata e perpetua sete del deiforme regno cen portava veloci quasi come ‘l ciel vedete. 21 Beatrice in suso, e io in lei guardava; e forse in tanto in quanto un quadrel posa e vola e da la noce si dischiava, 24 giunto mi vidi ove mirabil cosa mi torse il viso a sé; e però quella cui non potea mia cura essere ascosa, 27 volta ver’ me, sì lieta come bella, «Drizza la mente in Dio grata», mi disse, «che n’ha congiunti con la prima stella». 30 Parev’a me che nube ne coprisse lucida, spessa, solida e pulita, quasi adamante che lo sol ferisse. 33 Per entro sé l’etterna margarita ne ricevette, com’acqua recepe raggio di luce permanendo unita. 36 S’io era corpo, e qui non si concepe com’una dimensione altra patio, ch’esser convien se corpo in corpo repe, 39 accender ne dovrìa più il disio di veder quella essenza in che si vede come nostra natura e Dio s’unio. 42 Lì si vedrà ciò che tenem per fede, non dimostrato, ma fia per sé noto a guisa del ver primo che l’uom crede. 45 Io rispuosi: «Madonna, sì devoto com’esser posso più, ringrazio lui lo qual dal mortal mondo m’ha remoto. 48 Ma ditemi: che son li segni bui di questo corpo, che là giuso in terra fan di Cain favoleggiare altrui?». 51 Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra l’oppinion», mi disse, «d’i mortali dove chiave di senso non diserra, 54 certo non ti dovrien punger li strali d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi vedi che la ragione ha corte l’ali. 57 Ma dimmi quel che tu da te ne pensi». E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso credo che fanno i corpi rari e densi». 60 Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso nel falso il creder tuo, se bene ascolti l’argomentar ch’io li farò avverso. 63 La spera ottava vi dimostra molti lumi, li quali e nel quale e nel quanto notar si posson di diversi volti. 66 Se raro e denso ciò facesser tanto, una sola virtù sarebbe in tutti, più e men distributa e altrettanto. 69 Virtù diverse esser convegnon frutti di princìpi formali, e quei, for ch’uno, seguiterìeno a tua ragion distrutti. 72 Ancor, se raro fosse di quel bruno cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte fora di sua materia sì digiuno 75 esto pianeto, o, sì come comparte lo grasso e ‘l magro un corpo, così questo nel suo volume cangerebbe carte. 78 Se ‘l primo fosse, fora manifesto ne l’eclissi del sol per trasparere lo lume come in altro raro ingesto. 81 Questo non è: però è da vedere de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi, falsificato fia lo tuo parere. 84 S’elli è che questo raro non trapassi, esser conviene un termine da onde lo suo contrario più passar non lassi; 87 e indi l’altrui raggio si rifonde così come color torna per vetro lo qual di retro a sé piombo nasconde. 90 Or dirai tu ch’el si dimostra tetro ivi lo raggio più che in altre parti, per esser lì refratto più a retro. 93 Da questa instanza può deliberarti esperienza, se già mai la provi, ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’arti. 96 Tre specchi prenderai; e i due rimovi da te d’un modo, e l’altro, più rimosso, tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi. 99 Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso ti stea un lume che i tre specchi accenda e torni a te da tutti ripercosso. 102 Ben che nel quanto tanto non si stenda la vista più lontana, lì vedrai come convien ch’igualmente risplenda. 105 Or, come ai colpi de li caldi rai de la neve riman nudo il suggetto e dal colore e dal freddo primai, 108 così rimaso te ne l’intelletto voglio informar di luce sì vivace, che ti tremolerà nel suo aspetto. 111 Dentro dal ciel de la divina pace si gira un corpo ne la cui virtute l’esser di tutto suo contento giace. 114 Lo ciel seguente, c’ha tante vedute, quell’esser parte per diverse essenze, da lui distratte e da lui contenute. 117 Li altri giron per varie differenze le distinzion che dentro da sé hanno dispongono a lor fini e lor semenze. 120 Questi organi del mondo così vanno, come tu vedi omai, di grado in grado, che di sù prendono e di sotto fanno. 123 Riguarda bene omai sì com’io vado per questo loco al vero che disiri, sì che poi sappi sol tener lo guado. 126 Lo moto e la virtù d’i santi giri, come dal fabbro l’arte del martello, da’ beati motor convien che spiri; 129 e ‘l ciel cui tanti lumi fanno bello, de la mente profonda che lui volve prende l’image e fassene suggello. 132 E come l’alma dentro a vostra polve per differenti membra e conformate a diverse potenze si risolve, 135 così l’intelligenza sua bontate multiplicata per le stelle spiega, girando sé sovra sua unitate. 138 Virtù diversa fa diversa lega col prezioso corpo ch’ella avviva, nel qual, sì come vita in voi, si lega. 141 Per la natura lieta onde deriva, la virtù mista per lo corpo luce come letizia per pupilla viva. 144 Da essa vien ciò che da luce a luce par differente, non da denso e raro; essa è formal principio che produce, conforme a sua bontà, lo turbo e ‘l chiaro». 148 |
ParafrasiO voi lettori che siete in una piccola barca (avete scarse nozioni di dottrina), desiderosi di ascoltare, che seguite dietro la mia nave che cantando solca il mare, tornate alle coste da cui siete partiti: non vi inoltrate in mare aperto, poiché forse, perdendo la mia scia, vi perdereste.
L'acqua che io percorro non fu mai attraversata da nessuno; Minerva soffia i venti, e Apollo regge il timone, e le nove Muse mi indicano la giusta rotta. Voi pochi, che vi siete nutriti per tempo del pane degli angeli (la teologia) di cui qui sulla Terra si vive ma non ci si sazia mai, voi vi potete inoltrare in alto mare con la vostra barca, seguendo la mia scia davanti all'acqua che ritorna uguale (là dove la scia si perde). Quei gloriosi (gli Argonauti) che giunsero nella Colchide, quando videro Giasone diventato contadino, non si meravigliarono tanto quanto farete voi. L'innata e continua sete del regno simile a Dio (l'Empireo) ci portava in alto, veloci quasi come il movimento dei Cieli. Beatrice guardava in alto e io in lei; e forse nello stesso breve tempo in cui una freccia viene scagliata dalla corda, vola e giunge al bersaglio, io arrivai dove uno spettacolo meraviglioso attirò il mio sguardo; e perciò colei (Beatrice) alla quale nessun mio pensiero poteva essere nascosto, rivolta a me, tanto lieta quanto era bella, mi disse: «Rivolgi la tua mente ed esprimi gratitudine a Dio, che ci ha portati nella prima stella (nel Cielo della Luna)». Mi sembrava che ci coprisse una nube luminosa, spessa, solida e tersa, simile a un diamante illuminato dal sole. La gemma eterna ci accolse dentro di sé, come l'acqua riceve il raggio di sole rimanendo unita. Se io avevo un corpo solido, e qui non si capisce come una dimensione poté sopportare l'altra, ciò che deve per forza succedere se un corpo penetra in un altro corpo, ci dovrebbe accendere ancor più il desiderio di vedere quell'essenza (Dio) in cui si vede il mistero dell'incarnazione del divino. Lì, in Paradiso, vedremo ciò che crediamo per mezzo della fede, non dimostrato razionalmente, ma reso noto come le verità assiomatiche che l'uomo crede per se stesse. Io risposi: «Mia signora, tanto devoto quanto non si può essere di più, io ringrazio Dio che mi ha separato dal mondo mortale. Ma ditemi: che cosa sono i segni oscuri (le macchie lunari) di questa stella, che laggiù in Terra inducono alcuni a favoleggiare di Caino?» Lei sorrise un poco, quindi mi disse: «Se l'opinione degli uomini è in errore, in quella materia in cui i sensi non forniscono spiegazioni adeguate, certo non ti dovresti stupire ormai, poiché vedi che la ragione non può sempre andare dietro ai sensi. Ma dimmi la tua opinione in merito». E io: «Credo che le differenze di luminosità degli astri siano causate dalla differente densità del corpo stellare». E lei: «Certo vedrai che il tuo pensiero è totalmente erroneo, se ascolti con attenzione le argomentazioni con cui io lo confuterò. L'VIII Cielo (delle Stelle Fisse) vi mostra molte stelle, le quali appaiono diverse per quantità e qualità. Se ciò fosse causato solo dalla differente densità, allora in tutti sarebbe presente la medesima virtù, distribuita in misura maggiore, minore o uguale. Invece è necessario che virtù diverse siano il prodotto di differenti principi formali, i quali secondo il tuo ragionamento sarebbero ridotti a uno solo (quello della densità). Inoltre, se la ragione che tu cerchi della diversa luminosità fosse la minore densità, allora questo pianeta (la Luna) sarebbe privo di massa da una parte all'altra, oppure, come un corpo distribuisce in modo ineguale il grasso e il magro, così la Luna avrebbe differenza di massa al suo interno. Se fosse vera la prima ipotesi, ciò si vedrebbe durante le eclissi di sole, perché la luce solare trasparirebbe come fa quando è immessa in un altro corpo diafano. Questo naturalmente non succede: dunque resta da verificare l'altra ipotesi; e se io confuterò anche quella, allora la tua opinione si dimostrerà falsa. Se la Luna è rarefatta, non però da parte a parte, bisogna che ci sia un punto al di là del quale ci sia la massa solida; e da lì il raggio del sole si riflette proprio come la luce è riflessa da uno specchio (un vetro che nasconde dietro di sé del piombo). Ora tu dirai che il raggio in quel punto più rarefatto è meno luminoso, poiché è riflesso più in profondità. Da questa obiezione può liberarti l'esperienza, se tu vorrai farla, la quale suole essere principio di tutta la vostra conoscenza. Prenderai tre specchi; e ne porrai due a eguale distanza da te, e il terzo più lontano e posto al centro degli altri due. Rivolto verso di essi, fa' in modo che dietro le spalle ti stia un lume che si rifletta in ugual modo nei tre specchi e che tu possa vederlo in tutti e tre. Anche se lo specchio più lontano riflette il lume con minor dimensione, vedrai che in esso la luce splende con l'identica luminosità degli altri due. Ora, come ai caldi raggi del sole la neve si scioglie e si trasforma in acqua, priva del colore e del freddo della neve stessa, così io voglio dare nuova forma al tuo intelletto che è spoglio dell'errore, illuminandoti con una luce così intensa che nel suo aspetto ti sembrerà tremolante come quella di una stella. Nel Cielo della pace divina (Empireo) ne ruota un altro (Primo Mobile) nella cui virtù giace l'essenza di ogni suo contenuto (di tutte le cose dell'Universo). Il Cielo successivo (delle Stelle Fisse), che ha tante stelle, divide quell'essenza fra tutti gli astri, distinti da esso e in esso racchiusi. Gli altri Cieli dispongono le distinte virtù che hanno in se stessi in modi diversi, al fine di riversare sulla Terra le loro influenze e i fini voluti. Questi organi dell'Universo procedono così come hai capito di Cielo in Cielo, in modo tale che ricevono un influsso dall'alto e lo riverberano verso il basso. Guarda bene il modo in cui io procedo verso la verità che desideri, così che poi saprai giungere da solo alla conclusione. Il movimento e la virtù delle ruote celesti devono procedere dalle intelligenze angeliche, come l'arte del martello deriva dal fabbro; e il Cielo adornato da tante stelle (l'VIII) prende l'impronta di cui si fa sigillo dalla mente profonda (i Cherubini) che lo fa ruotare. E come l'anima umana dentro il vostro corpo mette in atto diverse potenze attraverso membra differenti e diversamente formate, così l'intelligenza angelica dispiega la sua bontà moltiplicata per le varie stelle, ruotando pur restando unita. La virtù così diversificata si lega in modo diverso col prezioso corpo stellare a cui dà vita, nel quale si lega proprio come la vita in voi. Poiché la virtù compenetrata nell'astro deriva da una natura gioiosa (dell'intelligenza angelica), essa risplende nel corpo stellare come la gioia brilla nella pupilla dell'occhio. Da questo deriva il fatto che la luminosità degli astri è differente, non dalla diversa densità; essa (la virtù) è il principio formale che produce, in modo conforme alla sua bontà, l'opacità e il chiarore». |