Paradiso, Canto XIX
G. Doré, L'aquila del VI Cielo
"...solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente m'ha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno..."
"...Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d'una spanna? ..."
"...Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna..."
che lungamente m'ha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno..."
"...Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d'una spanna? ..."
"...Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna..."
Argomento del Canto
Ancora nel VI Cielo di Giove. L'aquila risolve un vecchio dubbio di Dante circa l'imperscrutabilità della giustizia divina. Il problema della salvezza. Rassegna dei principi cristiani corrotti.
È il mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
È il mattino di giovedì 14 aprile (o 31 marzo) del 1300.
L'aquila inizia a parlare (1-21)
G. Di Paolo, Gli spiriti dell'aquila
L'aquila si staglia di fronte a Dante con le ali aperte, formata da migliaia di spiriti giusti che fruiscono della visione divina e ognuno di essi sembra un rubino che scintilla colpito dai raggi del sole. A un tratto le anime iniziano a parlare come se fossero una sola, cosa straordinaria che Dante si accinge a descrivere: è come se a parlare fosse l'aquila col suo becco, dicendo 'io' e 'mio' anziché 'noi' e 'nostro'. L'aquila dichiara che quegli spiriti sono stati giusti e pii sulla Terra, dunque ora sono innalzati alla gloria del Paradiso, mentre nel mondo hanno lasciato un buon esempio che anche i malvagi riconoscono, pur non seguendolo. Il suono che proviene da quell'immagine pare a Dante il calore prodotto da molte braci.
Dante manifesta un antico dubbio (22-33)
L'aquila imperiale (ms. XV sec.)
Dante si rivolge agli spiriti che formano l'aquila e che gli sembrano dei fiori che emanano un solo profumo, chiedendo che pongano fine a un antico diguno che ha suscitato la sua fame per molto tempo, non avendo trovato un cibo adeguato sulla Terra (chiede che gli chiariscano un dubbio). Dante sa che la giustizia divina si riflette nella gerarchia angelica dei Troni, tuttavia è certo che quegli spiriti la conoscono senza veli. Egli è pronto ad ascoltare la loro risposta, poiché essi conoscono già la sua domanda.
Imperscrutabilità della giustizia divina (34-66)
L'aquila sembra un falcone al quale sia stato tolto il cappuccio, quando inizia a muovere la testa e a sbattere le ali, mentre le anime intonano un canto che solo i beati possono comprendere. L'aquila inizia a dire che Dio, quando ha creato l'Universo, non ha impresso il suo valore ovunque in modo tale che il suo Verbo non restasse infinitamente superiore alla capacità di comprensione umana. Ne è prova il fatto che Lucifero, la più alta di ogni creatura, si ribellò per la sua superbia e per non aver atteso la Grazia divina; dunque qualunque essere a lui inferiore non può certo comprendere a pieno quel bene infinito che è Dio. La visione umana, prosegue l'aquila, che è solo uno dei raggi della mente divina, non è in grado per sua natura di comprendere il primo principio (Dio) che è al di là della sua portata. Perciò l'occhio umano non può internarsi nella giustizia divina, proprio come non si può distinguere il fondo dell'oceano in alto mare. Solo la luce che deriva direttamente da Dio è tale da non essere mai offuscata, mentre ogni conoscenza umana è limitata e imperfetta a causa dei sensi, e può addirittura portare a credenze errate.
Imperscrutabilità della giustizia divina (34-66)
L'aquila sembra un falcone al quale sia stato tolto il cappuccio, quando inizia a muovere la testa e a sbattere le ali, mentre le anime intonano un canto che solo i beati possono comprendere. L'aquila inizia a dire che Dio, quando ha creato l'Universo, non ha impresso il suo valore ovunque in modo tale che il suo Verbo non restasse infinitamente superiore alla capacità di comprensione umana. Ne è prova il fatto che Lucifero, la più alta di ogni creatura, si ribellò per la sua superbia e per non aver atteso la Grazia divina; dunque qualunque essere a lui inferiore non può certo comprendere a pieno quel bene infinito che è Dio. La visione umana, prosegue l'aquila, che è solo uno dei raggi della mente divina, non è in grado per sua natura di comprendere il primo principio (Dio) che è al di là della sua portata. Perciò l'occhio umano non può internarsi nella giustizia divina, proprio come non si può distinguere il fondo dell'oceano in alto mare. Solo la luce che deriva direttamente da Dio è tale da non essere mai offuscata, mentre ogni conoscenza umana è limitata e imperfetta a causa dei sensi, e può addirittura portare a credenze errate.
Il problema della salvezza (67-99)
G. Di Paolo, Il valore della Scrittura
Dante a questo punto è in grado di comprendere ciò che suscitava i suoi dubbi, quando si poneva il problema di chi nasce in luoghi lontani dove non si sente mai parlare di Cristo, e vive un'esistenza virtuosa senza commettere alcun peccato. Costui muore non battezzato e privo di fede, quindi non può ottenere la salvezza: come può questo conciliarsi con la giustizia divina? L'aquila spiega che Dante, in quanto uomo, non può certo ergersi a giudice di una questione tanto profonda, né pretendere di vedere con la sua vista limitata una verità che dista mille miglia: si potrebbe dubitare su questo problema solo se non ci fosse la Scrittura a dichiarare le verità di fede. La volontà di Dio è di per sé buona e non si è mai allontanata da se stessa, dunque tutto ciò che è conforme ad essa è naturalmente giusto: nessun bene creato attira a sé la volontà divina, ma è questa a crearlo tramite la Grazia. Al termine del suo discorso l'aquila inizia a volteggiare intorno a Dante come una cicogna che ha appena sfamato i piccoli, mentre il poeta la guarda ammirato. L'aquila intona un canto e dice che Dante non lo può comprendere, esattamente come l'uomo non può comprendere la giustizia divina.
La predestinazione: eletti e reprobi (100-111)
L'aquila riprende la sua posizione e torna simile al simbolo dell'Impero romano, quindi ricomincia a parlare e dichiara che nessuno è mai asceso al Paradiso senza aver creduto in Cristo venturo o venuto. Molti sulla Terra hanno sempre il nome di Cristo sulle labbra, e tuttavia il Giorno del Giudizio saranno a Lui molto meno vicini di quegli uomini che non l'hanno mai conosciuto e sono morti senza battesimo; e un Etiope, morto senza la fede, potrà condannare quei falsi cristiani nel momento in cui il giudizio divino separerà in eterno le anime fra eletti, destinati alla salvezza, e reprobi, destinati alla dannazione.
Rassegna dei principi cristiani corrotti (112-148)
Denaro d'oro di Filippo il Bello (foto: PGHCOM)
Il Giorno del Giudizio, prosegue l'aquila, cosa potranno dire i re persiani ai principi cristiani corrotti, quando leggeranno le loro malefatte nel libro della giustizia divina? Lì si leggeranno tutte le cattive azioni di re e sovrani cristiani, come Alberto I d'Austria che presto invaderà la Boemia e la città di Praga, e come Filippo il Bello che che causerà danno alla Francia coniando moneta falsa e morirà per il colpo di un cinghiale. Nel libro si leggeranno le malefatte dei re di Scozia e d'Inghilterra (Edoardo I), che non si rassegnarono a restare nei propri confini, nonché la lussuria del re di Spagna Ferdinando IV e di Venceslao II di Boemia. Nel libro si vedranno le buone azioni di Carlo II d'Angiò, che saranno pochissime, e le moltissime sue malvagità, mentre si vedranno l'avarizia e la viltà di Federico II d'Aragona che governa la Sicilia, le cui cattive azioni saranno scritte con caratteri abbreviati per mostrare la sua dappocaggine. Si leggeranno anche le empietà di suo zio, Giacomo re di Maiorca, e del fratello, Giacomo II d'Aragona, che hanno disonorato la loro famiglia e due corone. Si vedranno le male azioni del re di Portogallo, Dionigi, e di quello di Norvegia, Acone V, e anche quelle di Stefano re di Serbia; felice sarà l'Ungheria, perché conoscerà il buon governo di Caroberto, figlio di Carlo Martello, mentre la Navarra passerà sotto la monarchia francese con suo grave danno. Come anticipo di questo si duole già l'isola di Cipro, sottoposta al governo di Arrigo II di Lusignano, anch'egli appartenente alla casa di Francia.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto dei Canti XVII-XXII, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto affronta il delicato e complesso problema della giustizia divina e della salvezza, formando una sorta di «dittico» con il Canto XX che ne costituisce un corollario con gli esempi di Traiano e Rifeo, i due pagani che a dispetto di ogni previsione sono fra gli spiriti giusti in Paradiso: è Dante stesso a manifestare il suo dubbio all'aquila, senza tuttavia esprimerlo a parole ma lasciando che siano i beati a leggere nella sua mente e a sfamare il lungo «digiuno» che da anni lo tormenta (in maniera dunque opposta a quanto avvenuto con l'avo Cacciaguida, quando Beatrice aveva esortato il poeta a domandare per consentire allo spirito di esaudire il suo desiderio). All'inizio l'aquila parla con una sola voce benché sia formata da migliaia di spiriti, il che suscita la viva sorpresa di Dante e lo induce a gloriarsi del fatto di essere il primo a descrivere in versi una tale meraviglia (è il motivo del primus ego... tante volte invocato dall'autore nella III Cantica), quindi l'uccello simbolo dell'Impero dichiara di essere formato dalle anime di quei beati che, in Terra, sono stati giusti e pii e hanno quindi ben governato e amministrato con giustizia. Si è molto discusso se gli spiriti giusti del VI Cielo siano stati tutti sovrani e governanti in vita, anche se fra essi sono inclusi i re biblici Davide e Ezechia, gli imperatori Costantino e Traiano e il re normanno Guglielmo il Buono, per cui questa sembra l'interpretazione più ovvia; ciò è confermato in parte anche dalla rassegna dei cattivi principi cristiani che l'aquila fa alla fine di questo Canto e che sembra un contrappunto all'elenco degli spiriti che formano l'occhio dell'aquila nel Canto successivo, dunque l'influsso alla giustizia che promana da questo Cielo deve soprattutto illuminare re e sovrani e indurli a operare ispirandosi alla giustizia divina, che giudicherà ognuno dopo la morte assegnando premi e castighi in modo imperscrutabile.
Proprio questo è il dubbio che angustia Dante e che l'aquila deve risolvere, vale a dire il modo in cui la giustizia di Dio opera in casi controversi come quello degli uomini vissuti in modo virtuoso ma senza conoscere il messaggio cristiano, come i pagani vissuti prima di Cristo o coloro che nascono in paesi ai confini della Terra, o ancora i bimbi morti senza battesimo e destinati a finire nel Limbo. Si tratta di una questione assai delicata e tale da suscitare profondi dubbi sulla correttezza del giudizio divino, per cui Dante paragona il suo desiderio di sapere a un digiuno che lo ha tormentato per anni senza trovare un cibo in grado di sfamarlo, ovvero una spiegazione adeguata: l'aquila risponde con un discorso retoricamente complesso e simile a una dimostrazione scolastica, nella prima parte del quale sostiene l'imperfezione e la limitatezza della ragione umana al cospetto di quella divina e nella seconda dichiara semplicemente che la giustizia di Dio è imperscrutabile, quindi l'intelletto umano non può pretendere di penetrarne i segreti ma deve accettare le verità di fede così come sono dichiarate dalla Scrittura. Non è dunque una vera spiegazione, ma piuttosto un severo ammonimento agli uomini a non essere superbi come Lucifero, che volle ribellarsi al suo Creatore per diventare uguale a Lui, perciò a non pretendere di vedere con la propria vista limitata quelle verità che distano mille miglia: il giudizio divino è come il fondale dell'oceano, che l'occhio umano può vedere vicino alla costa ma che è invisibile al largo, per cui ogni tentativo di comprendere razionalmente le sentenze di Dio in materia di salvezza è destinato a fallire e, anzi, può portare a false e errate convinzioni (il lume di conoscenza che non viene direttamente da Dio è tenèbra / od ombra de la carne o suo veleno, quindi Dante ammonisce sul rischio di cadere nell'eresia mettendo in discussione le verità di fede della Scrittura). L'aquila ribadisce ulteriormente quanto dichiarato da Dante in più di un passo del poema, a cominciare da Purg., III, 34-45 quando il pagano Virgilio affermava che è matto chi spera di comprendere con la ragione umana i misteri della fede cristiana, lamentando il triste destino suo e degli altri grandi filosofi antichi destinati a non veder mai appagato il proprio desiderio di conoscere Dio; anche qui l'aquila afferma che chi nasce in India, in Etiopia o in altre regioni poste ai confini del mondo non può saper nulla del messaggio evangelico e nonostante una vita virtuosa non può salvarsi, benché questo possa sembrare ingiusto secondo il criterio, di per sé insufficiente, della ragione umana. Il discorso dell'aquila preannuncia quello, altrettanto delicato e importante, sulla predestinazione del Canto successivo, in cui verrà ribadito che solo Dio nella sua immensa saggezza sa chi è destinato alla salvezza e chi alla perdizione, per cui tanti che credono di salvarsi per la loro condotta che in apparenza è devota potrebbero essere meno meritevoli di altri che non hanno ricevuto il battesimo: la cosa è già stata affermata da san Tommaso d'Aquino in XIII, 112 ss., mettendo in guardia dal pronunciare giudizi precipitosi sulla salvezza, e si collega alla polemica di Dante contro l'arma della scomunica usata dalla Chiesa contro i suoi nemici politici, che non può certo sostituirsi al giudizio divino circa il destino ultraterreno dei singoli (come dimostrato dalla salvezza clamorosa e inattesa di Manfredi di Svevia, in Purgatorio a dispetto della sua condizione di contumace, e come sarà ulteriormente ribadito dalla presenza in Paradiso di Traiano e Rifeo che verrà annunciata in maniera altrettanto sorprendente nel Canto successivo).
L'aquila prende poi spunto dal suo discorso sulla giustizia divina per rivolgere un'aspra invettiva contro i cattivi principi cristiani, che nonostante abbiano avuto il lume della fede hanno commesso innumerevoli malefatte: come detto, la rassegna di questi sovrani preannuncia per contrasto quella degli spiriti giusti che formano l'occhio dell'aquila e che verranno citati nel Canto XX, e costituisce uno degli alti momenti del poema in cui Dante rivolge la sua denuncia contro le ingiustizie del mondo, che derivano principalmente dal mancato rispetto delle leggi e dalla cattiva amministrazione pubblica di coloro che sono chiamati a questo compito. I sovrani nominati dall'aquila e le cui malefatte sono scritte nel libro della giustizia divina sono i bersagli preferiti della polemica dantesca, da Alberto I d'Asburgo già colpito in Purg., VI, 97 ss. in cui era accusato di non scendere in Italia a riaffermare l'autorità dell'Impero, a Filippo il Bello che qui è accusato addirittura di coniare moneta falsa e di arrecare grave danno alla Francia, col preannuncio della sua morte avvenuta in circostanze degradanti (Dante lo fa morire per il colpo ricevuto da un cinghiale, ignorando o modificando la realtà dei fatti). Tra gli altri sovrani biasimati da Dante vi è anche Carlo II d'Angiò, già duramente criticato in Purg., XX, 79-81 e qui definito in modo sprezzante Ciotto di Ierusalemme, con riferimento sia al fatto che era zoppo sia al titolo, puramente onorifico, di re di Gerusalemme (le sue buone azioni saranno segnate nel libro di Dio con una 'I', che corrisponde alla cifra romana di uno, mentre le malefatte con una 'M', che corrisponde a mille, e le due lettere sono l'iniziale e la finale del lat. Ierusalem). L'aquila rimprovera poi Federico II d'Aragona, re di Sicilia dopo la pace di Caltabellotta del 1303, nonché lo zio e il fratello rispettivamente re di Maiorca e di Sicilia, le cui cattive azioni disonorano le loro corone, mentre belle parole sono riservate a Caroberto, figlio di Carlo Martello che dovrà ben governare l'Ungheria, destino non certo riservato alla Navarra né a Cipro, che presto finiranno sotto il malgoverno della casa di Francia. Gli altri sovrani nominati sono figure di cui Dante probabilmente aveva scarse notizie, per cui le accuse non sono sempre corrispondenti alla realtà (ciò vale sia per Dionigi re di Portogallo sia per Acone re di Norvegia, il cui regno fu effettivamente celebrato dai cronisti dell'epoca), ma ciò nulla toglie al valore morale di questa rampogna dell'aquila che individua nella cattiva condotta dei reggitori terreni le ragioni profonde delle ingiustizie e dei soprusi nel mondo, che contrastano fortemente con il richiamo alla giustizia divina rivolto dalla scritta del Canto precedente, non a caso tratto dal Libro della Sapienza attribuito al saggio re biblico Salomone. Questi cattivi esempi saranno poi ribaltati nella rassegna degli spiriti giusti del Canto seguente, in cui spiccheranno soprattutto le figure di Traiano (imperatore romano celebrato per la sua clemenza e la giustizia, salvo a dispetto del suo paganesimo) e di Rifeo, preparando il terreno alla polemica contro la corruzione ecclesiastica che occuperà i Canti successivi, sino al durissimo attacco di san Pietro del Canto XXVII che sarà in un certo senso il controcanto alle rampogne dell'aquila in campo laico, dal momento che per Dante malgoverno e ingiustizia riguardavano tanto i sovrani temporali quanto le gerarchie della Chiesa.
Proprio questo è il dubbio che angustia Dante e che l'aquila deve risolvere, vale a dire il modo in cui la giustizia di Dio opera in casi controversi come quello degli uomini vissuti in modo virtuoso ma senza conoscere il messaggio cristiano, come i pagani vissuti prima di Cristo o coloro che nascono in paesi ai confini della Terra, o ancora i bimbi morti senza battesimo e destinati a finire nel Limbo. Si tratta di una questione assai delicata e tale da suscitare profondi dubbi sulla correttezza del giudizio divino, per cui Dante paragona il suo desiderio di sapere a un digiuno che lo ha tormentato per anni senza trovare un cibo in grado di sfamarlo, ovvero una spiegazione adeguata: l'aquila risponde con un discorso retoricamente complesso e simile a una dimostrazione scolastica, nella prima parte del quale sostiene l'imperfezione e la limitatezza della ragione umana al cospetto di quella divina e nella seconda dichiara semplicemente che la giustizia di Dio è imperscrutabile, quindi l'intelletto umano non può pretendere di penetrarne i segreti ma deve accettare le verità di fede così come sono dichiarate dalla Scrittura. Non è dunque una vera spiegazione, ma piuttosto un severo ammonimento agli uomini a non essere superbi come Lucifero, che volle ribellarsi al suo Creatore per diventare uguale a Lui, perciò a non pretendere di vedere con la propria vista limitata quelle verità che distano mille miglia: il giudizio divino è come il fondale dell'oceano, che l'occhio umano può vedere vicino alla costa ma che è invisibile al largo, per cui ogni tentativo di comprendere razionalmente le sentenze di Dio in materia di salvezza è destinato a fallire e, anzi, può portare a false e errate convinzioni (il lume di conoscenza che non viene direttamente da Dio è tenèbra / od ombra de la carne o suo veleno, quindi Dante ammonisce sul rischio di cadere nell'eresia mettendo in discussione le verità di fede della Scrittura). L'aquila ribadisce ulteriormente quanto dichiarato da Dante in più di un passo del poema, a cominciare da Purg., III, 34-45 quando il pagano Virgilio affermava che è matto chi spera di comprendere con la ragione umana i misteri della fede cristiana, lamentando il triste destino suo e degli altri grandi filosofi antichi destinati a non veder mai appagato il proprio desiderio di conoscere Dio; anche qui l'aquila afferma che chi nasce in India, in Etiopia o in altre regioni poste ai confini del mondo non può saper nulla del messaggio evangelico e nonostante una vita virtuosa non può salvarsi, benché questo possa sembrare ingiusto secondo il criterio, di per sé insufficiente, della ragione umana. Il discorso dell'aquila preannuncia quello, altrettanto delicato e importante, sulla predestinazione del Canto successivo, in cui verrà ribadito che solo Dio nella sua immensa saggezza sa chi è destinato alla salvezza e chi alla perdizione, per cui tanti che credono di salvarsi per la loro condotta che in apparenza è devota potrebbero essere meno meritevoli di altri che non hanno ricevuto il battesimo: la cosa è già stata affermata da san Tommaso d'Aquino in XIII, 112 ss., mettendo in guardia dal pronunciare giudizi precipitosi sulla salvezza, e si collega alla polemica di Dante contro l'arma della scomunica usata dalla Chiesa contro i suoi nemici politici, che non può certo sostituirsi al giudizio divino circa il destino ultraterreno dei singoli (come dimostrato dalla salvezza clamorosa e inattesa di Manfredi di Svevia, in Purgatorio a dispetto della sua condizione di contumace, e come sarà ulteriormente ribadito dalla presenza in Paradiso di Traiano e Rifeo che verrà annunciata in maniera altrettanto sorprendente nel Canto successivo).
L'aquila prende poi spunto dal suo discorso sulla giustizia divina per rivolgere un'aspra invettiva contro i cattivi principi cristiani, che nonostante abbiano avuto il lume della fede hanno commesso innumerevoli malefatte: come detto, la rassegna di questi sovrani preannuncia per contrasto quella degli spiriti giusti che formano l'occhio dell'aquila e che verranno citati nel Canto XX, e costituisce uno degli alti momenti del poema in cui Dante rivolge la sua denuncia contro le ingiustizie del mondo, che derivano principalmente dal mancato rispetto delle leggi e dalla cattiva amministrazione pubblica di coloro che sono chiamati a questo compito. I sovrani nominati dall'aquila e le cui malefatte sono scritte nel libro della giustizia divina sono i bersagli preferiti della polemica dantesca, da Alberto I d'Asburgo già colpito in Purg., VI, 97 ss. in cui era accusato di non scendere in Italia a riaffermare l'autorità dell'Impero, a Filippo il Bello che qui è accusato addirittura di coniare moneta falsa e di arrecare grave danno alla Francia, col preannuncio della sua morte avvenuta in circostanze degradanti (Dante lo fa morire per il colpo ricevuto da un cinghiale, ignorando o modificando la realtà dei fatti). Tra gli altri sovrani biasimati da Dante vi è anche Carlo II d'Angiò, già duramente criticato in Purg., XX, 79-81 e qui definito in modo sprezzante Ciotto di Ierusalemme, con riferimento sia al fatto che era zoppo sia al titolo, puramente onorifico, di re di Gerusalemme (le sue buone azioni saranno segnate nel libro di Dio con una 'I', che corrisponde alla cifra romana di uno, mentre le malefatte con una 'M', che corrisponde a mille, e le due lettere sono l'iniziale e la finale del lat. Ierusalem). L'aquila rimprovera poi Federico II d'Aragona, re di Sicilia dopo la pace di Caltabellotta del 1303, nonché lo zio e il fratello rispettivamente re di Maiorca e di Sicilia, le cui cattive azioni disonorano le loro corone, mentre belle parole sono riservate a Caroberto, figlio di Carlo Martello che dovrà ben governare l'Ungheria, destino non certo riservato alla Navarra né a Cipro, che presto finiranno sotto il malgoverno della casa di Francia. Gli altri sovrani nominati sono figure di cui Dante probabilmente aveva scarse notizie, per cui le accuse non sono sempre corrispondenti alla realtà (ciò vale sia per Dionigi re di Portogallo sia per Acone re di Norvegia, il cui regno fu effettivamente celebrato dai cronisti dell'epoca), ma ciò nulla toglie al valore morale di questa rampogna dell'aquila che individua nella cattiva condotta dei reggitori terreni le ragioni profonde delle ingiustizie e dei soprusi nel mondo, che contrastano fortemente con il richiamo alla giustizia divina rivolto dalla scritta del Canto precedente, non a caso tratto dal Libro della Sapienza attribuito al saggio re biblico Salomone. Questi cattivi esempi saranno poi ribaltati nella rassegna degli spiriti giusti del Canto seguente, in cui spiccheranno soprattutto le figure di Traiano (imperatore romano celebrato per la sua clemenza e la giustizia, salvo a dispetto del suo paganesimo) e di Rifeo, preparando il terreno alla polemica contro la corruzione ecclesiastica che occuperà i Canti successivi, sino al durissimo attacco di san Pietro del Canto XXVII che sarà in un certo senso il controcanto alle rampogne dell'aquila in campo laico, dal momento che per Dante malgoverno e ingiustizia riguardavano tanto i sovrani temporali quanto le gerarchie della Chiesa.
Il problema della salvezza dei pagani: la posizione di Luigi Pulci
G. Benaglia, Ritratto di L. Pulci (XV sec.)
Nel Canto XIX del Paradiso Dante riafferma uno dei fondamenti della religione cristiana, ovvero l'impossibilità di pervenire alla salvezza per coloro che non hanno conosciuto la parola di Dio, nonostante una vita virtuosa e priva di peccato (tale destino accomunava sia i pagani vissuti prima di Cristo, sia i popoli che abitavano le terre poste agli estremi confini della Terra, che ovviamente nulla potevano sapere del messaggio evangelico): la questione era delicata sul piano dottrinale ed esponeva la fede cristiana a possibili critiche e fraintendimenti, cosa che spinse Dante a dedicare al problema della salvezza e della predestinazione un'ampia trattazione al centro della III Cantica, anche se le discussioni in materia sarebbero riesplose nel Quattrocento dando luogo a opinioni alquanto originali e preparando il terreno alle successive polemiche riformistiche. Uno degli scrittori destinati ad affrontare l'argomento e a prendere le distanze dalla posizione ufficiale della Chiesa fu Luigi Pulci (1432-1484), autore alla fine del XV sec. del poema epico Morgante in cui lo spinoso problema della salvezza dei non-cristiani è toccato in un celebre episodio del Cantare XXV (ottave 227-239): protagonisti della discussione sono il paladino cristiano Rinaldo e il diavolo-teologo Astarotte, che si è impossessato del cavallo del guerriero per portarlo rapidamente a Roncisvalle dove Orlando sta per cadere vittima di un'imboscata dei Saraceni; giunti alle Colonne d'Ercole, presso lo stretto di Gibilterra che allora era considerato l'estremo confine del mondo conosciuto (il poema è del 1483), Astarotte spiega a Rinaldo che è vana l'opinione secondo cui non è possibile navigare oltre quel confine, poiché anche l'emisfero australe è abitato e lo stesso Ercole arrossirebbe di vergogna per aver posto le colonne come limite estremo della conoscenza umana (è dunque totalmente ribaltata la prospettiva abbracciata da Dante nell'episodio di Ulisse, Inf., XXVI, secondo la quale l'emifero australe è spopolato e il viaggio dell'eroe omerico in quei luoghi è presentato come folle e sacrilego). Astarotte spiega inoltre che quelle genti che abitano l'altro emisfero, chiamate «Antipodi», adorano divinità pagane come il Sole, Giove, Marte, e alla domanda di Rinaldo se essi si possano salvare nonostante il loro paganesimo, il demone risponde che il paladino ragiona come uom grosso e spiega che Dio sarebbe stato di parte se avesse disposto il sacrificio di Cristo solo per gli Europei, escludendo dalla salvezza coloro che senza alcuna colpa vivono in altre regioni del mondo. La crocifissione di Gesù ha dunque redento tutta l'umanità, indipendentemente dalla religione osservata, e dunque è sufficiente che la fede sia certa per ottenere la salvezza, il che vale per i contemporanei che vivono agli Antipodi e anche per gli antichi Romani che adoravano gli dei pagani e, nonostante tutto, si comportarono rettamente: Astarotte conclude dicendo che la giustizia divina concede premi e castighi leggendo la sincerità della fede nel cuore, mentre certi cristiani ottusi e sciocchi si rifiutano di capire la verità e tengono la porta chiusa al bene, ma saranno duramente puniti dal giudizio divino che non ammetterà un simile comportamento. Ciò è dimostrato dalla salvezza concessa ai patriarchi biblici tratti da Gesù fuori dal Limbo, mentre è fin troppo evidente che Dio non ha creato invano le terre poste nell'emisfero meridionale, come sarebbe se quei popoli fossero destinati a non salvarsi solo per non aver udito il messaggio evangelico. La posizione di Pulci, totalmente antitetica rispetto a quella di Dante e della Chiesa stessa nel Quattrocento, suscitò polemiche e accuse anche in ambiente umanistico e spiega il fatto che lo scrittore morì in odore di eresia venendo sepolto in terra sconsacrata: le sue idee in materia di salvezza, in ogni caso, rappresentano un punto di vista razionalistico e «moderno» che preannuncia le discussioni suscitate nel XVI sec. dalla Riforma protestante, nonché i dubbi e le incertezze circa le popolazioni amerinde che dopo il 1492 sarebbero entrate a contatto con i colonizzatori europei, di cui peraltro Pulci nulla poteva sapere essendo morto ben prima della scoperta del nuovo continente. L'autore del Morgante esprime una cultura e un modo di pensare che è ormai lontanissimo da quello di Dante in cui è maturata un'opera come la Commedia, facendoci capire che il poeta del Trecento non aveva ancora varcato quella linea rappresentata dalla conquista della modernità e dell'antropocentrismo che sarebbe avvenuta nell'Umanesimo, il che rende la posizione di Pulci (comunque la si voglia pensare riguardo questioni delicate come quelle della salvezza in ambito religioso) molto più vicina al nostro modo di pensare e alla nostra mentalità moderna.
Note e passi controversi
Al v. 2 frui è infinito sostantivato che significa «godimento» (dal lat. frui, «godere»).
Ai vv. 13-15 l'aquila afferma che gli spiriti che la compongono sono stati sulla Terra giusti e pii, hanno cioè dimostrato le due virtù (giustizia e pietà) attribuite a Traiano nell'episodio di Purg., X, 73 ss., il che avvalora l'ipotesi che essi siano soprattutto re e principi.
I vv. 28-30 alludono al fatto che la giustizia divina si rispecchia nella gerarchia angelica dei Troni (cfr. IX, 61-63), il che non esclude che i beati possano conoscerla pienamente.
La similitudine ai vv. 34-36 si riferisce all'uso da parte del falconiere di mettere in testa al falcone un cappuccio di pelle per tenerlo quieto, che gli veniva tolto una volta giunti al luogo della caccia (Federico II nel trattato De arte venandi cum avibus si vantava di aver introdotto lui in Europa quest'uso originario dell'Oriente). Non è da escludere che anche l'aquila muova la testa e sbatta le ali, dal momento che poco dopo volerà intorno a Dante.
Sesto (v. 40) è termine arcaico per «compasso»; Dante allude a Dio che traccia i confini dell'Universo, come in Prov., VIII, 27-29.
Al v. 46 il primo superbo è Lucifero.
I vv. 64-66 vogliono dire che solo la conoscenza che viene direttamente da Dio è perfetta, mentre quella umana è suscettibile di errore e imperfezione, potendo portare addirittura a convinzioni eretiche.
L'espressione a la riva / de l'Indo (vv. 70-71) indica genericamente un luogo lontano e posto agli estremi confini del mondo, abitato dunque da popoli che non hanno conosciuto il messaggio evangelico; analogamente più avanti (v. 109) si parlerà dell'Etiope.
Al v. 82 meco s'assottiglia vuol dire «fa sottili ragionamenti intorno a me», cioè alla giustizia divina (chi parla è l'aquila).
Il segno / che fé i Romani al mondo reverendi (vv. 101-102) è l'aquila, simbolo e insegna dell'Impero romano.
Ai vv. 104, 106, 108 la parola Cristo rima con se stessa, come in XII, 71-75 e XIV, 104-108.
I vv. 109-111 vogliono dire che chi non ha conosciuto la fede ma si è ben comportato sarà più meritevole dei Cristiani ipocriti, che si riempiono la bocca del Vangelo ma non otterranno la salvezza: ciò non implica, ovviamente, che i primi saranno salvi.
Al v. 112 li Perse indica genericamente gli infedeli.
Le dodici terzine che iniziano al v. 115 si possono raggruppare in tre gruppi di quattro e cominciano rispettivamente conle parole Lì si vedrà, Vedrassi, E, formando l'acrostico LVE («lue») che si può intendere come sinonimo di «peste» (riferito al cattivo esempio offerto dai principi corrotti). L'esempio è analogo all'acrostico VOM («uomo») di Purg., XII, 25-63, anche se in questo caso l'artificio è meno elaborato (gli esempi proseguono anche nei versi successivi e non tutti sono racchiusi nella misura di una terzina come nell'esempio del Purgatorio). Alcuni studiosi negano la volontarietà della cosa da parte di Dante, il che è forse possibile in questo caso ma assai meno nel passo della II Cantica citato.
I vv. 115-117 alludono all'invasione della Boemia da parte dell'imperatore Alberto I, avvenuta nel 1304 e che provocò la distruzione di quel regno: Dante ritiene che i singoli regni siano indipendenti, nonostante la subordinazione all'autorità imperiale, quindi condanna l'atto di Alberto così come la ribellione dei singoli Stati all'Impero.
I vv. 118-120 si riferiscono a Filippo il Bello di Francia, accusato di coniare falsa moneta per sopperire alle spese della guerra contro le Fiandre, per cui il sovrano avrebbe messo in circolazione monete d'oro con un valore intrinseco inferiore a quello nominale (la cosa tuttavia non ha conferme dirette). Quanto alla profezia della sua morte, Dante la attribuisce al colpo di un cinghiale, ma in realtà il re cadde da cavallo durante una battuta di caccia perché un porco selvatico si mise tra le zampe della sua cavalcatura; il poeta forse ignorava i fatti, oppure ha deformato la realtà storica in modo analogo alla morte di Corso Donati (Purg., XXIV, 82-87).
Il re d'Inghilterra citato ai vv. 121-123 è prob. Edoardo I, che condusse guerra alla Scozia fino alla sua morte (avvenuta nel 1307), benché il sovrano sia elogiato in Purg., VII, 132: la questione è aperta, poiché è improbabile che Dante si riferisca a Edoardo II (l'aquila nomina sovrani vivi al momento della visione) e dunque si deve pensare che il poeta avesse notizie imprecise circa quei regni lontani.
Ai vv. 124-126 sono nominati Ferdinando IV di Castiglia (1286-1312) e Venceslao II di Boemia, accusati di vivere in modo vizioso (per il re boemo cfr. Purg., VII, 101-102).
Ai vv. 127-129 si allude a Carlo II d'Angiò, definito spregiativamente Ciotto di Ierusalemme in quanto zoppo e fregiato del titolo puramente onorifico di re di Gerusalemme: l'aquila intende dire che nel libro della giustizia divina le sue buone azioni saranno segnate con una 'I' (uno in cifra romana, quindi pochissime) e le sue malefatte con una 'M' (mille, cioè moltissime), che sono anche la prima e l'ultima lettera di Ierusalem.
L'isola del foco (v. 131) è la Sicilia, detta così per la presenza dell'Etna, dove morì Anchise secondo il racconto dell'Eneide: il sovrano cui si allude è Federico II d'Aragona, riconosciuto re di Trinacria nel 1303 con la pace di Caltabellotta. I vv. 133-135 vogliono dire che nel libro di Dio le sue malefatte saranno indicate con caratteri abbreviati, sia perché sono moltissime, sia per significare la sua dappocaggine.
Il barba («zio», voce settentrionale) e il fratel di Federico II (vv. 136-138) sono Giacomo re di Maiorca e Giacomo II re di Sicilia, che disonorano la loro casata (l'egregia nazione) e le due corone di Maiorca e d'Aragona.
Ai vv. 139-141 sono indicati re Dionigi di Portogallo (1261-1325) e Acone V di Norvegia (1299-1319), che furono in realtà buoni sovrani e per i quali Dante doveva avere scarse notizie; quel di Rascia è Stefano Uroš II di Serbia (la Rascia corrispondeva alla nazione serba di oggi), che sostituì la moneta veneziana, diffusa in tutti i Balcani, con la propria, con un'operazione fraudolenta che è testimoniata da alcuni documenti.
I vv. 142-144 profetizzano il buon governo sull'Ungheria di Caroberto (1301-1342) figlio di Carlo Martello, prob. in base più a un auspicio che ad una constatazione; destino diverso ebbe la Navarra, che dopo la morte di Giovanna I (moglie di Filippo il Bello) nel 1305 passò alla casa di Francia, come l'isola di Cipro sottoposta ad Arrigo II di Lusignano che la governò dal 1285 al 1324.
Ai vv. 13-15 l'aquila afferma che gli spiriti che la compongono sono stati sulla Terra giusti e pii, hanno cioè dimostrato le due virtù (giustizia e pietà) attribuite a Traiano nell'episodio di Purg., X, 73 ss., il che avvalora l'ipotesi che essi siano soprattutto re e principi.
I vv. 28-30 alludono al fatto che la giustizia divina si rispecchia nella gerarchia angelica dei Troni (cfr. IX, 61-63), il che non esclude che i beati possano conoscerla pienamente.
La similitudine ai vv. 34-36 si riferisce all'uso da parte del falconiere di mettere in testa al falcone un cappuccio di pelle per tenerlo quieto, che gli veniva tolto una volta giunti al luogo della caccia (Federico II nel trattato De arte venandi cum avibus si vantava di aver introdotto lui in Europa quest'uso originario dell'Oriente). Non è da escludere che anche l'aquila muova la testa e sbatta le ali, dal momento che poco dopo volerà intorno a Dante.
Sesto (v. 40) è termine arcaico per «compasso»; Dante allude a Dio che traccia i confini dell'Universo, come in Prov., VIII, 27-29.
Al v. 46 il primo superbo è Lucifero.
I vv. 64-66 vogliono dire che solo la conoscenza che viene direttamente da Dio è perfetta, mentre quella umana è suscettibile di errore e imperfezione, potendo portare addirittura a convinzioni eretiche.
L'espressione a la riva / de l'Indo (vv. 70-71) indica genericamente un luogo lontano e posto agli estremi confini del mondo, abitato dunque da popoli che non hanno conosciuto il messaggio evangelico; analogamente più avanti (v. 109) si parlerà dell'Etiope.
Al v. 82 meco s'assottiglia vuol dire «fa sottili ragionamenti intorno a me», cioè alla giustizia divina (chi parla è l'aquila).
Il segno / che fé i Romani al mondo reverendi (vv. 101-102) è l'aquila, simbolo e insegna dell'Impero romano.
Ai vv. 104, 106, 108 la parola Cristo rima con se stessa, come in XII, 71-75 e XIV, 104-108.
I vv. 109-111 vogliono dire che chi non ha conosciuto la fede ma si è ben comportato sarà più meritevole dei Cristiani ipocriti, che si riempiono la bocca del Vangelo ma non otterranno la salvezza: ciò non implica, ovviamente, che i primi saranno salvi.
Al v. 112 li Perse indica genericamente gli infedeli.
Le dodici terzine che iniziano al v. 115 si possono raggruppare in tre gruppi di quattro e cominciano rispettivamente conle parole Lì si vedrà, Vedrassi, E, formando l'acrostico LVE («lue») che si può intendere come sinonimo di «peste» (riferito al cattivo esempio offerto dai principi corrotti). L'esempio è analogo all'acrostico VOM («uomo») di Purg., XII, 25-63, anche se in questo caso l'artificio è meno elaborato (gli esempi proseguono anche nei versi successivi e non tutti sono racchiusi nella misura di una terzina come nell'esempio del Purgatorio). Alcuni studiosi negano la volontarietà della cosa da parte di Dante, il che è forse possibile in questo caso ma assai meno nel passo della II Cantica citato.
I vv. 115-117 alludono all'invasione della Boemia da parte dell'imperatore Alberto I, avvenuta nel 1304 e che provocò la distruzione di quel regno: Dante ritiene che i singoli regni siano indipendenti, nonostante la subordinazione all'autorità imperiale, quindi condanna l'atto di Alberto così come la ribellione dei singoli Stati all'Impero.
I vv. 118-120 si riferiscono a Filippo il Bello di Francia, accusato di coniare falsa moneta per sopperire alle spese della guerra contro le Fiandre, per cui il sovrano avrebbe messo in circolazione monete d'oro con un valore intrinseco inferiore a quello nominale (la cosa tuttavia non ha conferme dirette). Quanto alla profezia della sua morte, Dante la attribuisce al colpo di un cinghiale, ma in realtà il re cadde da cavallo durante una battuta di caccia perché un porco selvatico si mise tra le zampe della sua cavalcatura; il poeta forse ignorava i fatti, oppure ha deformato la realtà storica in modo analogo alla morte di Corso Donati (Purg., XXIV, 82-87).
Il re d'Inghilterra citato ai vv. 121-123 è prob. Edoardo I, che condusse guerra alla Scozia fino alla sua morte (avvenuta nel 1307), benché il sovrano sia elogiato in Purg., VII, 132: la questione è aperta, poiché è improbabile che Dante si riferisca a Edoardo II (l'aquila nomina sovrani vivi al momento della visione) e dunque si deve pensare che il poeta avesse notizie imprecise circa quei regni lontani.
Ai vv. 124-126 sono nominati Ferdinando IV di Castiglia (1286-1312) e Venceslao II di Boemia, accusati di vivere in modo vizioso (per il re boemo cfr. Purg., VII, 101-102).
Ai vv. 127-129 si allude a Carlo II d'Angiò, definito spregiativamente Ciotto di Ierusalemme in quanto zoppo e fregiato del titolo puramente onorifico di re di Gerusalemme: l'aquila intende dire che nel libro della giustizia divina le sue buone azioni saranno segnate con una 'I' (uno in cifra romana, quindi pochissime) e le sue malefatte con una 'M' (mille, cioè moltissime), che sono anche la prima e l'ultima lettera di Ierusalem.
L'isola del foco (v. 131) è la Sicilia, detta così per la presenza dell'Etna, dove morì Anchise secondo il racconto dell'Eneide: il sovrano cui si allude è Federico II d'Aragona, riconosciuto re di Trinacria nel 1303 con la pace di Caltabellotta. I vv. 133-135 vogliono dire che nel libro di Dio le sue malefatte saranno indicate con caratteri abbreviati, sia perché sono moltissime, sia per significare la sua dappocaggine.
Il barba («zio», voce settentrionale) e il fratel di Federico II (vv. 136-138) sono Giacomo re di Maiorca e Giacomo II re di Sicilia, che disonorano la loro casata (l'egregia nazione) e le due corone di Maiorca e d'Aragona.
Ai vv. 139-141 sono indicati re Dionigi di Portogallo (1261-1325) e Acone V di Norvegia (1299-1319), che furono in realtà buoni sovrani e per i quali Dante doveva avere scarse notizie; quel di Rascia è Stefano Uroš II di Serbia (la Rascia corrispondeva alla nazione serba di oggi), che sostituì la moneta veneziana, diffusa in tutti i Balcani, con la propria, con un'operazione fraudolenta che è testimoniata da alcuni documenti.
I vv. 142-144 profetizzano il buon governo sull'Ungheria di Caroberto (1301-1342) figlio di Carlo Martello, prob. in base più a un auspicio che ad una constatazione; destino diverso ebbe la Navarra, che dopo la morte di Giovanna I (moglie di Filippo il Bello) nel 1305 passò alla casa di Francia, come l'isola di Cipro sottoposta ad Arrigo II di Lusignano che la governò dal 1285 al 1324.
TestoParea dinanzi a me
con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui liete facevan l’anime conserte; 3 parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse sì acceso, che ne’ miei occhi rifrangesse lui. 6 E quel che mi convien ritrar testeso, non portò voce mai, né scrisse incostro, né fu per fantasia già mai compreso; 9 ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro, e sonar ne la voce e «io» e «mio», quand’era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’. 12 E cominciò: «Per esser giusto e pio son io qui essaltato a quella gloria che non si lascia vincere a disio; 15 e in terra lasciai la mia memoria sì fatta, che le genti lì malvage commendan lei, ma non seguon la storia». 18 Così un sol calor di molte brage si fa sentir, come di molti amori usciva solo un suon di quella image. 21 Ond’io appresso: «O perpetui fiori de l’etterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti vostri odori, 24 solvetemi, spirando, il gran digiuno che lungamente m’ha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno. 27 Ben so io che, se ‘n cielo altro reame la divina giustizia fa suo specchio, che ‘l vostro non l’apprende con velame. 30 Sapete come attento io m’apparecchio ad ascoltar; sapete qual è quello dubbio che m’è digiun cotanto vecchio». 33 Quasi falcone ch’esce del cappello, move la testa e con l’ali si plaude, voglia mostrando e faccendosi bello, 36 vid’io farsi quel segno, che di laude de la divina grazia era contesto, con canti quai si sa chi là sù gaude. 39 Poi cominciò: «Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto, 42 non poté suo valor sì fare impresso in tutto l’universo, che ‘l suo verbo non rimanesse in infinito eccesso. 45 E ciò fa certo che ‘l primo superbo, che fu la somma d’ogne creatura, per non aspettar lume, cadde acerbo; 48 e quinci appar ch’ogne minor natura è corto recettacolo a quel bene che non ha fine e sé con sé misura. 51 Dunque vostra veduta, che convene esser alcun de’ raggi de la mente di che tutte le cose son ripiene, 54 non pò da sua natura esser possente tanto, che suo principio discerna molto di là da quel che l’è parvente. 57 Però ne la giustizia sempiterna la vista che riceve il vostro mondo, com’occhio per lo mare, entro s’interna; 60 che, ben che da la proda veggia il fondo, in pelago nol vede; e nondimeno èli, ma cela lui l’esser profondo. 63 Lume non è, se non vien dal sereno che non si turba mai; anzi è tenebra od ombra de la carne o suo veleno. 66 Assai t’è mo aperta la latebra che t’ascondeva la giustizia viva, di che facei question cotanto crebra; 69 ché tu dicevi: "Un uom nasce a la riva de l’Indo, e quivi non è chi ragioni di Cristo né chi legga né chi scriva; 72 e tutti suoi voleri e atti buoni sono, quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni. 75 Muore non battezzato e sanza fede: ov’è questa giustizia che ‘l condanna? ov’è la colpa sua, se ei non crede?" 78 Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d’una spanna? 81 Certo a colui che meco s’assottiglia, se la Scrittura sovra voi non fosse, da dubitar sarebbe a maraviglia. 84 Oh terreni animali! oh menti grosse! La prima volontà, ch’è da sé buona, da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. 87 Cotanto è giusto quanto a lei consuona: nullo creato bene a sé la tira, ma essa, radiando, lui cagiona». 90 Quale sovresso il nido si rigira poi c’ha pasciuti la cicogna i figli, e come quel ch’è pasto la rimira; 93 cotal si fece, e sì levai i cigli, la benedetta imagine, che l’ali movea sospinte da tanti consigli. 96 Roteando cantava, e dicea: «Quali son le mie note a te, che non le ‘ntendi, tal è il giudicio etterno a voi mortali». 99 Poi si quetaro quei lucenti incendi de lo Spirito Santo ancor nel segno che fé i Romani al mondo reverendi, 102 esso ricominciò: «A questo regno non salì mai chi non credette ‘n Cristo, né pria né poi ch’el si chiavasse al legno. 105 Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!", che saranno in giudicio assai men prope a lui, che tal che non conosce Cristo; 108 e tai Cristian dannerà l’Etiòpe, quando si partiranno i due collegi, l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe. 111 Che poran dir li Perse a’ vostri regi, come vedranno quel volume aperto nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? 114 Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto, quella che tosto moverà la penna, per che ‘l regno di Praga fia diserto. 117 Lì si vedrà il duol che sovra Senna induce, falseggiando la moneta, quel che morrà di colpo di cotenna. 120 Lì si vedrà la superbia ch’asseta, che fa lo Scotto e l’Inghilese folle, sì che non può soffrir dentro a sua meta. 123 Vedrassi la lussuria e ‘l viver molle di quel di Spagna e di quel di Boemme, che mai valor non conobbe né volle. 126 Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme segnata con un i la sua bontate, quando ‘l contrario segnerà un emme. 129 Vedrassi l’avarizia e la viltate di quei che guarda l’isola del foco, ove Anchise finì la lunga etate; 132 e a dare ad intender quanto è poco, la sua scrittura fian lettere mozze, che noteranno molto in parvo loco. 135 E parranno a ciascun l’opere sozze del barba e del fratel, che tanto egregia nazione e due corone han fatte bozze. 138 E quel di Portogallo e di Norvegia lì si conosceranno, e quel di Rascia che male ha visto il conio di Vinegia. 141 Oh beata Ungheria, se non si lascia più malmenare! e beata Navarra, se s’armasse del monte che la fascia! 144 E creder de’ ciascun che già, per arra di questo, Niccosia e Famagosta per la lor bestia si lamenti e garra, che dal fianco de l’altre non si scosta». 148 |
ParafrasiLa bella immagine (l'aquila) che era formata dalle anime liete nella dolce visione di Dio, appariva davanti a me con le ali spiegate;
ognuna delle anime sembrava un rubino colpito da un raggio di sole, talmente splendente da rifletterne la luce nei miei occhi. E ciò che ora devo descrivere non fu mai pronunciato a voce, né scritto con l'inchiostro, né mai concepito dalla fantasia umana; infatti io vidi e udii anche il becco dell'aquila che parlava e diceva con la sua voce «io» e «mio», volendo in realtà dire «noi» e «nostro». E iniziò: «Per essere stato in vita giusto e devoto, io sono qui innalzato a quella gloria che non viene vinta da alcun desiderio mortale; e sulla Terra lasciai un tale ricordo, che persino gli uomini malvagi lo lodano, anche se poi non lo seguono». Come da molte braci promana un unico calore, così dalle molte anime di quell'immagina usciva un unico suono. Allora io dissi: «O fiori eterni dell'eterna beatitudine, che mi fate sembrare un unico profumi tutti quelli che emanate, interrompete col soffio della vostra voce il grave digiuno che mi ha fatto patire la fame per lungo tempo, non trovando per saziarlo nessun cibo sulla Terra. Io so bene che la giustizia divina si specchia in Cielo in un'altra gerarchia angelica (i Troni), ma il vostro Cielo la vede senza alcun impedimento. Voi sapete come io sono pronto ad ascoltare con attenzione; sapete qual è quell'antico dubbio che ha provocato questo mio duraturo digiuno». Come un falcone, quando si libera dal cappuccio, muove la testa e sbatte le ali, manifestando il desiderio di volare e facendosi bello, così io vidi fare quell'aquila che era formato dalle lodi (i beati) della grazia divina, cantando in modo che solo chi è lassù può capire. Poi iniziò: «Colui (Dio) che tracciò col compasso i confini dell'Universo e distinse in esso le cose visibili e invisibili, non poté imprimere il suo valore ovunque, senza che il suo Verbo non restasse infinitamente superiore alle capacità umane. E di ciò è prova il fatto che il primo peccatore di superbia (Lucifero), che fu la più perfetta di ogni creatura, fu precipitato dal Cielo per non aver atteso il lume della grazia divina; e di qui si capisce che ogni creatura a lui inferiore non può certo contenere in sé quel bene (Dio) che non ha limite ed è la sola misura di se stesso. Perciò la vostra vista, che non è altro se non uno dei raggi della mente di Dio che è presente in tutte le cose, non può per sua natura essere così forte da vedere il suo principio (Dio), che è ben al di là delle capacità dei suoi sensi. Per questo la vista sensibile degli esseri umani penetra nella giustizia divina come l'occhio nel mare; ed esso, anche se da riva vede il fondale, in alto mare non lo vede più; e certo è presente, ma la profondità glielo nasconde. Non esiste vera luce, per la mente umana, se non viene da quella serenità (Dio) che non è mai offuscata; ogni altra è oscura, o viziata dai sensi, o attratta verso l'errore. Ora ti è stata dischiusa la tana che ti nascondeva la giustizia divina, che suscitava in te dubbi così frequenti; infatti tu dicevi: "Un uomo nasce sulle rive dell'Indo (in paesi lontani) e qui nessuno parla o insegna o scrive di Cristo; pure, tutti i suoi desideri e i suoi gesti sono virtuosi, per quanto la ragione umana può giudicare, senza alcun peccato nelle azioni o nelle parole. Costui muore senza battesimo e privo della fede: che giustizia è quella che lo condanna? Qual è la sua colpa, se non crede?" Ora chi sei tu, che vuoi ergerti a giudice e sentenziare a mille miglia di distanza, con la vista che a malapena arriva a una spanna? Certo colui che fa sottili ragionamenti su di me (sulla giustizia divina) potrebbe dubitare in modo sorprendente, se non ci fosse al di sopra di voi la Sacra Scrittura. Oh, creature terrene! Oh, menti grossolane! La prima volontà (Dio), che è buona di per sé, non si è mai mossa da se stessa che è il sommo bene. Tutto ciò che è conforme ad essa è giusto: nessun bene creato la attira a sé, ma è essa, irraggiando la grazia, che lo determina». Come la cicogna, dopo aver sfamato i suoi piccoli, vola sopra il nido, e come i cicognini, avendo mangiato, la osservano, così fece l'immagine santa (l'aquila) che muoveva le ali spinte da tanti beati, mentre io alzai lo sguardo verso di essa. Volteggiando cantava, e diceva: «Come tu non intendi il canto che ti rivolgo, così il giudizio divino è inconoscibile a voi mortali». Dopo che quelle luci sante, piene di Spirito Santo, si fermarono e tornarono a raffigurare il segno (l'aquila) che rese i Romani degni di rispetto al mondo, esso ricominciò: «In questo regno (in Paradiso) non è mai asceso chi non ha creduto in Cristo, prima o dopo la sua crocifissione. Ma vedi: molti gridano "Cristo, Cristo!", e il Giorno del Giudizio saranno molto meno vicini a Lui di chi non l'ha mai conosciuto; e questi Cristiani saranno condannati dall'Etiope, quando saranno divise le due schiere (eletti e reprobi), una eternamente ricca e l'altra misera. Che potranno dire i Persiani ai vostri re, quando vedranno aperto quel libro nel quale si scrivono tutte le malefatte? Lì si vedrà, tra le opere di Alberto I d'Austria, quella che presto sarà annotata e per cui il regno di Boemia sarà distrutto. Lì si vedrà il dolore che arreca alla Francia, coniando falsa moneta, colui (Filippo il Bello) che morirà per il colpo di un cinghiale. Lì si vedrà la superbia che alimenta la sete di potere e che rende folli i re di Scozia e d'Inghilterra (Edoardo I), che non sopportano di stare entro i propri confini (facendosi guerra). Si vedrà la lussuria e la vita viziosa del re di Spagna (Ferdinando IV) e del re di Boemia (Venceslao II), che non conobbero mai né vollero alcun valore. Si vedrà, riguardo allo Zoppo di Gerusalemme (Carlo II d'Angiò), che le sue buone azioni saranno segnate con una 'I' e quelle malvagie con una 'M'. Si vedrà l'avarizia e la viltà di colui (Federico II d'Aragona) che governa l'isola del fuoco (la Sicilia) dove Anchise morì; e per dimostrare la sua dappocaggine, le sue malefatte saranno annotate con caratteri abbreviati, per scrivere molte cose in poco spazio. E a tutti saranno evidenti le opere indegne di suo zio (Giacomo di Maiorca) e di suo fratello (Giacomo II di Sicilia), che disonorano una casata tanto nobile e due corone. E lì si conosceranno i re di Portogallo (Dionigi) e di Norvegia (Acone), e quello di Serbia (Stefano Uroš) che ha visto con suo danno la moneta veneziana. Oh felice Ungheria, se non si lascia più mal governare! e felice Navarra, se solo usasse come un'arma i monti che la fasciano (i Pirenei, per evitare l'annessione alla Francia)! E ognuno deve credere, come anticipo di questo, che già l'isola di Cipro si lamenta e duole per la bestia che la governa (Arrigo di Lusignano), che non si discosta molto dagli altri esempi». |