Inferno, Canto XIII
G. Stradano, La selva dei suicidi (1587)
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno...
"... Uomini fummo, e or sem fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi" ...
"... L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto..."
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno...
"... Uomini fummo, e or sem fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi" ...
"... L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto..."
Argomento del Canto
Ingresso nel II girone del VII Cerchio, nella selva dei suicidi. Descrizione delle Arpie. Incontro con Pier della Vigna. Apparizione degli scialacquatori, tra cui Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea. Incontro con un suicida di Firenze.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
È l'alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.
La selva dei suicidi (1-21)
G. Doré, Dante e Virgilio nella selva
Nesso non è ancora tornato sull'altra sponda del Flegetonte, quando Dante e Virgilio si incamminano per una orribile selva, in cui il fogliame è oscuro, i rami sono contorti e al posto dei frutti ci sono spine velenose. I luoghi più selvaggi della Maremma non hanno una boscaglia così aspra, mentre qui le Arpie nidificano tra gli alberi e hanno grandi ali, visi umani e zampe artigliate, con cui producono lamenti tra le piante. Virgilio spiega a Dante che si trova nel secondo girone del VII Cerchio, dove la selva si estende sino al sabbione infuocato del girone seguente. Lo invita poi a guardare bene ciò che si trova nel bosco, perché vedrà cose incredibili a sentirne parlare.
Incontro con Pier della Vigna (22-54)
Dante sente levarsi dei lamenti da ogni parte e non vede chi li emette, perciò si ferma e rimane confuso. Egli crede che degli spiriti si nascondano tra le piante, ma Virgilio (che ha intuito l'errore del discepolo) lo invita a spezzare un ramoscello da uno degli alberi. Dante obbedisce e appena ha spezzato il ramo di un albero, dal tronco esce la voce di uno spirito che lo accusa di essere impietoso, mentre dal fusto esce sangue nero. Dal tronco spezzato escono le parole, simili ad un soffio, e insieme il sangue, cosa che induce Dante a lasciar cadere a terra il ramo e a restare in attesa, pieno di timore.
Virgilio prende la parola e dice all'anima imprigionata nell'albero di essere stato costretto a indurre Dante a compiere quel gesto, perché solo così egli avrebbe compreso ciò che lui stesso aveva cantato nei versi dell'Eneide. Quindi invita il dannato a manifestarsi e a raccontare la sua storia, affinché Dante, tornato sulla Terra, possa risarcirlo del danno subìto restaurando la sua fama.
Virgilio prende la parola e dice all'anima imprigionata nell'albero di essere stato costretto a indurre Dante a compiere quel gesto, perché solo così egli avrebbe compreso ciò che lui stesso aveva cantato nei versi dell'Eneide. Quindi invita il dannato a manifestarsi e a raccontare la sua storia, affinché Dante, tornato sulla Terra, possa risarcirlo del danno subìto restaurando la sua fama.
Racconto di Pier della Vigna (55-78)
W. Blake, I suicidi
A questo punto il dannato dichiara che l'offerta è troppo allettante per rifiutarla, quindi inizia a raccontare la sua storia. Egli si presenta come colui (Pier della Vigna) che fu intimo collaboratore di Federico II di Svevia, tanto fedele da diventarne il solo depositario di tutti i segreti. Aveva svolto il suo incarico con lealtà e dedizione, al punto da perderne la serenità e la vita: infatti il suo zelo aveva acceso contro di lui l'invidia dei cortigiani, i quali sobillarono il sovrano e lo indussero ad accusarlo di tradimento. In seguito Pier della Vigna si era tolto la vita, credendo in tal modo di sfuggire allo sdegno del sovrano e finendo per passare dalla ragione al torto. L'anima conclude il racconto giurando sulle radici della pianta in cui è rinchiuso di essere innocente dell'accusa rivoltagli a suo tempo, pregando Dante di confortare la sua memoria se mai ritornerà nel mondo.
Spiegazione di come i suicidi si tramutino in piante (79-108)
Virgilio resta un attimo in silenzio, quindi invita Dante a rivolgere altre domande al dannato. Il discepolo si dice troppo turbato per rivolgere la parola allo spirito, quindi è Virgilio che chiede a Pier della Vigna in che modo l'anima del suicida venga imprigionata dentro gli alberi sella selva e se accade talvolta che qualcuna di esse ne fuoriesca. Il tronco emette nuovamente un soffio d'aria, quindi la voce spiega che quando l'anima del suicida si separa dal corpo e giunge davanti a Minosse, il giudice infernale, questi la manda al VII Cerchio. Qui essa cade in un punto qualsiasi e germoglia formando una pianta selvatica. Le Arpie, poi, nutrendosi delle foglie dell'albero, producono ulteriore sofferenza alle anime. Il giorno del Giudizio Universale, spiega ancora il dannato, essi andranno a riprendere le loro spoglie mortali ma non le rivestiranno: porteranno i corpi nella selva, dove ciascuna anima appenderà il proprio all'albero dove è imprigionata, poiché non è giusto riavere ciò che ci si è tolto violentemente.
Apparizione degli scialacquatori (109-129)
G. Doré, Scialacquatori
Dante e Virgilio sono ancora accanto all'albero di Pier della Vigna, quando entrambi sentono dei rumori all'interno della selva, simili allo stormire del fogliame quando, in un bosco, c'è una battuta di caccia al cinghiale. Subito dopo vedono due dannati che corrono tra la boscaglia, nudi e graffiati, che rompono rami e frasche. Quello davanti (Lano da Siena) è più veloce, mentre quello dietro (Iacopo da Sant'Andrea) è più lento e si nasconde accanto a un basso cespuglio. Poco dopo è raggiunto da delle cagne nere, che fanno a brandelli lui e l'arbusto dove ha tentato di celarsi, quindi ne portano via le carni maciullate.
Un fiorentino suicida (130-151)
Virgilio allora prende per mano Dante e lo conduce accanto al cespuglio, dal quale esce sangue e insieme ad esso la voce del suicida imprigionato all'interno. Il dannato rimprovera lo scialacquatore che gli ha causato danno e dolore, poi Virgilio si rivolge al suicida e gli chiede di manifestarsi. Egli chiede anzitutto ai due poeti di raccogliere i suoi rami spezzati ai piedi dell'arbusto, quindi rivela di essere originario di Firenze, città che mutò il proprio protettore da Marte a san Giovanni Battista e per questo è vittima di continue guerre (solo la statua del dio pagano sull'Arno, di cui sopravvive un frammento, la preserva dalla totale distruzione). Il dannato conclude dicendo di essersi impiccato nella propria casa.
Un fiorentino suicida (130-151)
Virgilio allora prende per mano Dante e lo conduce accanto al cespuglio, dal quale esce sangue e insieme ad esso la voce del suicida imprigionato all'interno. Il dannato rimprovera lo scialacquatore che gli ha causato danno e dolore, poi Virgilio si rivolge al suicida e gli chiede di manifestarsi. Egli chiede anzitutto ai due poeti di raccogliere i suoi rami spezzati ai piedi dell'arbusto, quindi rivela di essere originario di Firenze, città che mutò il proprio protettore da Marte a san Giovanni Battista e per questo è vittima di continue guerre (solo la statua del dio pagano sull'Arno, di cui sopravvive un frammento, la preserva dalla totale distruzione). Il dannato conclude dicendo di essersi impiccato nella propria casa.
Qui è possibile vedere un breve video con il riassunto del Canto, tratto dal canale YouTube "La Divina Commedia in HD" |
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Interpretazione complessiva
Il Canto è totalmente dedicato alla selva dei suicidi, dove sono puniti anche gli scialacquatori e che è popolata da animali demoniaci (le Arpie e le nere cagne che azzannano i violenti contro il patrimonio). L'episodio è anche fitto di rimandi letterari, sia per il riferimento all'Eneide di Virgilio, sia per la figura stessa di Pier della Vigna che fu, com'è noto, poeta siciliano e retore alla corte di Federico II.
La descrizione iniziale della selva è degna di un cupo paesaggio infernale, con ovvi rimandi alla selva oscura del Canto iniziale (anche se questa è ancor più spaventosa: nessun sentiero la attraversa, le foglie degli alberi sono nere, i rami sono aggrovigliati...); su tutto dominano poi le Arpie, gli uccelli mitologici dal volto di donna già citati nel libro III dell'Eneide come i mostri che cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi preannunciando loro una terribile fame una volta giunti nel Lazio, profezia che si sarebbe rivelata mendace. Le Arpie nidificano nella selva e si nutrono delle foglie degli alberi, producendo dolore alle anime dei suicidi che vi sono imprigionate. Non è chiaro da dove Dante abbia tratto il legame tra queste figure e il suicidio, visto che nel mito classico erano piuttosto associate alla rapina e alla furia.
La scena di Dante che, indotto da Virgilio, spezza il ramo dell'albero di Pier della Vigna da cui esce sangue è ovviamente modellata sul libro III dell'Eneide, anche se l'episodio di Enea e Polidoro (vv. 42 ss.) è rielaborato e ampliato da Dante, che trasforma l'immagine della pianta sotto cui è sepolto il figlio di Priamo in un'allucinante selva (la scena sarà ripresa da Tasso nella Gerusalemme liberata, nell'episodio di Tancredi nella selva di Saron). L'anima poi si presenta come Pier della Vigna, il funzionario e segretario di Federico II di Svevia da lui accusato di tradimento e incarcerato, che si era suicidato dopo che il sovrano lo aveva fatto accecare. Dante gli mette in bocca un discorso di stile elevato e aulico, pieno di elementi retorici e raffinatezze che, del resto, sono presenti in altri passi del Canto: ad es. l'anafora Non... ma dei versi 4-6 (ma anche 1 e 7: Non era... non han) e il poliptoto Cred'io ch'ei credette ch'io credesse (v. 25), simile alla replicazione usata da Pier della Vigna ai vv. 67-68 (infiammò... e li 'nfiammati infiammar...). Il linguaggio del dannato usa anche metafore venatorie, con i verbi adeschi e inveschi che fanno riferimento alla caccia agli uccelli (e Federico II era stato autore di un trattato in latino sulla falconeria, il De arte venandi cum avibus). Da notare anche la personificazione dell'invidia, la meretrice che non ha mai distolto lo sguardo dall'ospizio (cioè dalla reggia) dell'imperatore, detto per antonomasia Cesare e Augusto, nonché il chiasmo del v. 66 (morte comune e de le corti vizio) e del v. 72 (ingiusto fece me contra me giusto).
Come spesso accade nell'Inferno dantesco, i dannati si mostrano tenacemente attaccati a ciò che rappresentava per loro la vita terrena, quindi Pier della Vigna parla come se fosse ancora il primo consigliere del sovrano, il sublime retore che doveva redigere in linguaggio curiale i documenti della cancelleria imperiale. Dante vuole assolverlo dall'accusa, da lui ritenuta ingiusta, di tradimento, ma lo condanna per l'atto insensato col quale si è tolto la vita, che il dannato non comprende sino in fondo in quanto lo esprime con un'elegante formula retorica (il suicidio lo ha fatto sembrare colpevole agli occhi del mondo, mentre in realtà lo ha condannato alla dannazione eterna). Il personaggio non comprende pienamente la natura del suo peccato e si mostra assai più interessato alla possibilità che Dante restauri la sua fama nel mondo terreno, mentre nulla può fare ovviamente per il suo destino ultraterreno.
L'arrivo sulla scena degli scialacquatori Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea non attenua la raffinatezza stilistica del Canto, poiché Dante li introduce con la similitudine della caccia al porco, cioè al cinghiale (quindi di ambito nuovamente venatorio) e con una serie di insistite allitterazioni che ne riproducono il rumore nella boscaglia (similemente... sente 'l porco... posta... bestie... frasche stormire). I due dannati introducono a loro volta un altro suicida, di cui Dante non ci dice il nome (era forse un giudice impiccatosi dopo aver pronunciato un'ingiusta sentenza, per la quale era stato corrotto), il quale rivela di essere originario di Firenze con un'elegante e complicata perifrasi. La città di Dante è definita attraverso il suo attuale patrono, san Giovanni Battista, che aveva preso il posto di Marte che per questo la perseguita con continue guerre; l'avrebbe già rasa al suolo se non fosse per i resti di una sua statua presso l'Arno (che in realtà raffigurava un re ostrogoto) e i fiorentini l'avrebbero ricostruita vanamente dopo la distruzione ad opera di Attila. Qui Dante confonde l'episodio di Totila che assediò Firenze durante la guerra greco-gotica, ma ciò non toglie che la chiusa del Canto è in linea con la raffinatezza dei versi precedenti e che l'intero episodio è immerso in una delicata atmosfera letteraria, che stride volutamente con l'orrore della selva e del peccato che in essa scontano le anime.
La descrizione iniziale della selva è degna di un cupo paesaggio infernale, con ovvi rimandi alla selva oscura del Canto iniziale (anche se questa è ancor più spaventosa: nessun sentiero la attraversa, le foglie degli alberi sono nere, i rami sono aggrovigliati...); su tutto dominano poi le Arpie, gli uccelli mitologici dal volto di donna già citati nel libro III dell'Eneide come i mostri che cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi preannunciando loro una terribile fame una volta giunti nel Lazio, profezia che si sarebbe rivelata mendace. Le Arpie nidificano nella selva e si nutrono delle foglie degli alberi, producendo dolore alle anime dei suicidi che vi sono imprigionate. Non è chiaro da dove Dante abbia tratto il legame tra queste figure e il suicidio, visto che nel mito classico erano piuttosto associate alla rapina e alla furia.
La scena di Dante che, indotto da Virgilio, spezza il ramo dell'albero di Pier della Vigna da cui esce sangue è ovviamente modellata sul libro III dell'Eneide, anche se l'episodio di Enea e Polidoro (vv. 42 ss.) è rielaborato e ampliato da Dante, che trasforma l'immagine della pianta sotto cui è sepolto il figlio di Priamo in un'allucinante selva (la scena sarà ripresa da Tasso nella Gerusalemme liberata, nell'episodio di Tancredi nella selva di Saron). L'anima poi si presenta come Pier della Vigna, il funzionario e segretario di Federico II di Svevia da lui accusato di tradimento e incarcerato, che si era suicidato dopo che il sovrano lo aveva fatto accecare. Dante gli mette in bocca un discorso di stile elevato e aulico, pieno di elementi retorici e raffinatezze che, del resto, sono presenti in altri passi del Canto: ad es. l'anafora Non... ma dei versi 4-6 (ma anche 1 e 7: Non era... non han) e il poliptoto Cred'io ch'ei credette ch'io credesse (v. 25), simile alla replicazione usata da Pier della Vigna ai vv. 67-68 (infiammò... e li 'nfiammati infiammar...). Il linguaggio del dannato usa anche metafore venatorie, con i verbi adeschi e inveschi che fanno riferimento alla caccia agli uccelli (e Federico II era stato autore di un trattato in latino sulla falconeria, il De arte venandi cum avibus). Da notare anche la personificazione dell'invidia, la meretrice che non ha mai distolto lo sguardo dall'ospizio (cioè dalla reggia) dell'imperatore, detto per antonomasia Cesare e Augusto, nonché il chiasmo del v. 66 (morte comune e de le corti vizio) e del v. 72 (ingiusto fece me contra me giusto).
Come spesso accade nell'Inferno dantesco, i dannati si mostrano tenacemente attaccati a ciò che rappresentava per loro la vita terrena, quindi Pier della Vigna parla come se fosse ancora il primo consigliere del sovrano, il sublime retore che doveva redigere in linguaggio curiale i documenti della cancelleria imperiale. Dante vuole assolverlo dall'accusa, da lui ritenuta ingiusta, di tradimento, ma lo condanna per l'atto insensato col quale si è tolto la vita, che il dannato non comprende sino in fondo in quanto lo esprime con un'elegante formula retorica (il suicidio lo ha fatto sembrare colpevole agli occhi del mondo, mentre in realtà lo ha condannato alla dannazione eterna). Il personaggio non comprende pienamente la natura del suo peccato e si mostra assai più interessato alla possibilità che Dante restauri la sua fama nel mondo terreno, mentre nulla può fare ovviamente per il suo destino ultraterreno.
L'arrivo sulla scena degli scialacquatori Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea non attenua la raffinatezza stilistica del Canto, poiché Dante li introduce con la similitudine della caccia al porco, cioè al cinghiale (quindi di ambito nuovamente venatorio) e con una serie di insistite allitterazioni che ne riproducono il rumore nella boscaglia (similemente... sente 'l porco... posta... bestie... frasche stormire). I due dannati introducono a loro volta un altro suicida, di cui Dante non ci dice il nome (era forse un giudice impiccatosi dopo aver pronunciato un'ingiusta sentenza, per la quale era stato corrotto), il quale rivela di essere originario di Firenze con un'elegante e complicata perifrasi. La città di Dante è definita attraverso il suo attuale patrono, san Giovanni Battista, che aveva preso il posto di Marte che per questo la perseguita con continue guerre; l'avrebbe già rasa al suolo se non fosse per i resti di una sua statua presso l'Arno (che in realtà raffigurava un re ostrogoto) e i fiorentini l'avrebbero ricostruita vanamente dopo la distruzione ad opera di Attila. Qui Dante confonde l'episodio di Totila che assediò Firenze durante la guerra greco-gotica, ma ciò non toglie che la chiusa del Canto è in linea con la raffinatezza dei versi precedenti e che l'intero episodio è immerso in una delicata atmosfera letteraria, che stride volutamente con l'orrore della selva e del peccato che in essa scontano le anime.
Note e passi controversi
Al v. 1 Nesso è il centauro incaricato di portare in groppa Dante e fargli così attraversare il Flegetonte (XII, 94 ss.).
I vv. 7-9 si riferiscono alla Maremma, che ai tempi di Dante era un luogo selvoso e abitato da animali selvaggi e si estendeva tra il fiume Cecina, su cui sorge la città omonima, e Corneto Tarquinia, già in territorio laziale (oggi quei luoghi sono stati in gran parte bonificati).
L'aggettivo brutte riferito alle Arpie (v. 10) ha il senso di «sudicie», in riferimento all'episodio dell'Eneide in cui esse imbrattano le mense dei Troiani. Il v. 15 può significare «emettono strani lamenti sopra gli alberi», ma anche «producono lamenti sugli strani alberi» (in questo caso Dante alluderebbe al fatto che le Arpie provocano dolore alle anime dei suicidi).
La similitudine ai vv. 40-44 è di ambito naturalistico e si riferisce a un ramoscello verde che, bruciato da un capo, perde linfa dall'altro ed emette un suono simile a un cigolio; nel Medioevo si pensava che ciò fosse dovuto a dell'aria che fuoriusciva dal legno.
La rima citata da Virgilio (v. 48) è l'episodio di Enea e Polidoro, nel libro III dell'Eneide (42 ss.), ripreso anche da Pier della Vigna quando rimprovera Dante di non aver avuto la man... pia (Polidoro diceva ad Enea iam parce sepulto, / parce pias scelerare manus, «abbi pietà di un sepolto, non profanare le tue mani devote»).
I vv. 55-57 contengono due immagini venatorie, cioè il vb. adescare, «catturare con l'esca» e inveschiare, «prendere col vischio» (il riferimento alla caccia tornerà nel finale di Canto, con l'immagine della battuta di caccia al cinghiale).
I vv. 58-61 alludono agli scrigni e ai forzieri più sofisticati che, anticamente, avevano una serratura che doveva essere aperta con una chiave e chiusa con un'altra (il dannato intende dire che egli fu in possesso di entrambe per aprire e chiudere il cuore di Federico).
Cesare (v. 64) e Augusto (v. 68) sono una forma di antonomasia per indicare l'imperatore Federico II.
Al v. 73 nove può voler dire «recenti», ma anche «strane», «singolari».
Al v. 96 Pier della Vigna cita Minosse, il giudice infernale custode del II Cerchio che indica ai dannati dove devono scontare la loro pena (Inf., V, 4 ss.).
I vv. 103-105 alludono alla credenza secondo cui, il Giorno del Giudizio, ogni anima risorta andrà a riprendere il proprio corpo mortale nella valle di Iosafat (i suicidi non se rivestiranno ma lo appenderanno ciascuno al proprio albero della selva).
Alcuni mss. leggono il v. 113 'l porco a la caccia, ma la lezione a testo è più probabile in quanto il passo indica il cinghiale e il gruppo dei battitori e dei cani che sono a la sua posta, sulle sue tracce.
Al v. 117 rosta vuol dire «frasca» e deriva da una voce longobarda (hrausta).
Al v. 132 in vano può riferirsi all'agg. sanguinenti, ma anche al vb. piangea.
I vv. 146-150 alludono a un frammento di statua presso Ponte Vecchio che ai tempi di Dante si credeva di Marte, mentre era in realtà di un re ostrogoto (esso fu distrutto nell'alluvione dell'Arno del 1333). Non fu Attila a radere al suolo Firenze, sia pure in un episodio leggendario, ma un altro re ostrogoto, Totila, la fece assediare durante la guerra greco-gotica del 535-553.
L'espressione gibetto (v. 151) deriva probabilmente dall'antico francese gibet e significa «forca»: il dannato intende dire che si è impiccato nella propria casa.
I vv. 7-9 si riferiscono alla Maremma, che ai tempi di Dante era un luogo selvoso e abitato da animali selvaggi e si estendeva tra il fiume Cecina, su cui sorge la città omonima, e Corneto Tarquinia, già in territorio laziale (oggi quei luoghi sono stati in gran parte bonificati).
L'aggettivo brutte riferito alle Arpie (v. 10) ha il senso di «sudicie», in riferimento all'episodio dell'Eneide in cui esse imbrattano le mense dei Troiani. Il v. 15 può significare «emettono strani lamenti sopra gli alberi», ma anche «producono lamenti sugli strani alberi» (in questo caso Dante alluderebbe al fatto che le Arpie provocano dolore alle anime dei suicidi).
La similitudine ai vv. 40-44 è di ambito naturalistico e si riferisce a un ramoscello verde che, bruciato da un capo, perde linfa dall'altro ed emette un suono simile a un cigolio; nel Medioevo si pensava che ciò fosse dovuto a dell'aria che fuoriusciva dal legno.
La rima citata da Virgilio (v. 48) è l'episodio di Enea e Polidoro, nel libro III dell'Eneide (42 ss.), ripreso anche da Pier della Vigna quando rimprovera Dante di non aver avuto la man... pia (Polidoro diceva ad Enea iam parce sepulto, / parce pias scelerare manus, «abbi pietà di un sepolto, non profanare le tue mani devote»).
I vv. 55-57 contengono due immagini venatorie, cioè il vb. adescare, «catturare con l'esca» e inveschiare, «prendere col vischio» (il riferimento alla caccia tornerà nel finale di Canto, con l'immagine della battuta di caccia al cinghiale).
I vv. 58-61 alludono agli scrigni e ai forzieri più sofisticati che, anticamente, avevano una serratura che doveva essere aperta con una chiave e chiusa con un'altra (il dannato intende dire che egli fu in possesso di entrambe per aprire e chiudere il cuore di Federico).
Cesare (v. 64) e Augusto (v. 68) sono una forma di antonomasia per indicare l'imperatore Federico II.
Al v. 73 nove può voler dire «recenti», ma anche «strane», «singolari».
Al v. 96 Pier della Vigna cita Minosse, il giudice infernale custode del II Cerchio che indica ai dannati dove devono scontare la loro pena (Inf., V, 4 ss.).
I vv. 103-105 alludono alla credenza secondo cui, il Giorno del Giudizio, ogni anima risorta andrà a riprendere il proprio corpo mortale nella valle di Iosafat (i suicidi non se rivestiranno ma lo appenderanno ciascuno al proprio albero della selva).
Alcuni mss. leggono il v. 113 'l porco a la caccia, ma la lezione a testo è più probabile in quanto il passo indica il cinghiale e il gruppo dei battitori e dei cani che sono a la sua posta, sulle sue tracce.
Al v. 117 rosta vuol dire «frasca» e deriva da una voce longobarda (hrausta).
Al v. 132 in vano può riferirsi all'agg. sanguinenti, ma anche al vb. piangea.
I vv. 146-150 alludono a un frammento di statua presso Ponte Vecchio che ai tempi di Dante si credeva di Marte, mentre era in realtà di un re ostrogoto (esso fu distrutto nell'alluvione dell'Arno del 1333). Non fu Attila a radere al suolo Firenze, sia pure in un episodio leggendario, ma un altro re ostrogoto, Totila, la fece assediare durante la guerra greco-gotica del 535-553.
L'espressione gibetto (v. 151) deriva probabilmente dall'antico francese gibet e significa «forca»: il dannato intende dire che si è impiccato nella propria casa.
TestoNon era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. 3 Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco: 6 non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che ’n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 9 Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. 12 Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. 15 E ’l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se’ nel secondo girone», mi cominciò a dire, «e sarai mentre 18 che tu verrai ne l’orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone». 21 Io sentia d’ogne parte trarre guai, e non vedea persona che ’l facesse; per ch’io tutto smarrito m’arrestai. 24 Cred’io ch’ei credette ch’io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi da gente che per noi si nascondesse. 27 Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi qualche fraschetta d’una d’este piante, li pensier c’hai si faran tutti monchi». 30 Allor porsi la mano un poco avante, e colsi un ramicel da un gran pruno; e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». 33 Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? 36 Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb’esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi». 39 Come d’un stizzo verde ch’arso sia da l’un de’capi, che da l’altro geme e cigola per vento che va via, 42 sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond’io lasciai la cima cadere, e stetti come l’uom che teme. 45 «S’elli avesse potuto creder prima», rispuose ’l savio mio, «anima lesa, ciò c’ha veduto pur con la mia rima, 48 non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. 51 Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece». 54 E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi, ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi perch’io un poco a ragionar m’inveschi. 57 Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, 60 che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi: fede portai al glorioso offizio, tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. 63 La meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, 66 infiammò contra me li animi tutti; e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 69 L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. 72 Per le nove radici d’esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d’onor sì degno. 75 E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che ’nvidia le diede». 78 Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace», disse ’l poeta a me, «non perder l’ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». 81 Ond’io a lui: «Domandal tu ancora di quel che credi ch’a me satisfaccia; ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora». 84 Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia liberamente ciò che ’l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia 87 di dirne come l’anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s’alcuna mai di tai membra si spiega». 90 Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: «Brievemente sarà risposto a voi. 93 Quando si parte l’anima feroce dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, Minòs la manda a la settima foce. 96 Cade in la selva, e non l’è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. 99 Surge in vermena e in pianta silvestra: l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. 102 Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. 105 Qui le trascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l’ombra sua molesta». 108 Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch’altro ne volesse dire, quando noi fummo d’un romor sorpresi, 111 similemente a colui che venire sente ’l porco e la caccia a la sua posta, ch’ode le bestie, e le frasche stormire. 114 Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogni rosta. 117 Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!». E l’altro, cui pareva tardar troppo, gridava: «Lano, sì non furo accorte 120 le gambe tue a le giostre dal Toppo!». E poi che forse li fallia la lena, di sé e d’un cespuglio fece un groppo. 123 Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch’uscisser di catena. 126 In quel che s’appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. 129 Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea, per le rotture sanguinenti in vano. 132 «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che t’è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?». 135 Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo, disse «Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?». 138 Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c’ha le mie fronde sì da me disgiunte, 141 raccoglietele al piè del tristo cesto. I’ fui de la città che nel Batista mutò il primo padrone; ond’ei per questo 144 sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che ’n sul passo d’Arno rimane ancor di lui alcuna vista, 147 que’ cittadin che poi la rifondarno sovra ’l cener che d’Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. Io fei gibetto a me de le mie case». 151 |
ParafrasiNesso non era ancora arrivato sull'altra sponda (del Flegetonte), quando noi ci incamminammo attraverso un bosco in cui non c'era nessun sentiero.
Le foglie non erano verdi, ma di colore scuro; i rami non erano lisci, ma nodosi e contorti; non c'erano frutti, ma spine velenose. Quelle belve selvagge che in Maremma, tra Cecina e Corneto, evitano i luoghi abitati, non hanno sterpi così aspri né così intricati. Qui nidificano le sudicie Arpie, che cacciarono dalle isole Strofadi i Troiani preannunciando loro delle tristi disgrazie. Esse hanno grandi ali, colli e volti umani, zampe artigliate e un gran ventre piumato; emettono lamenti sugli strani alberi. E il buon maestro cominciò a dirmi: «Prima che tu ti addentri nella selva, sappi che sei nel secondo girone e vi resterai finché entreremo nel sabbione infuocato. Perciò guarda bene, perché vedrai cose che non sarebbero credute se mi limitassi a dirtele». Io sentivo levarsi lamenti da ogni parte, ma non vedevo nessuno che li emettesse; allora mi fermai, confuso. Io credo che Virgilio credette che io credessi che tra quei cespugli uscissero tante voci, emesse da anime che si nascondevano da noi. Perciò il maestro disse: «Se tu spezzi qualche ramoscello da una di queste piante, i tuoi pensieri non avranno più ragion d'essere». Allora stesi un poco la mano e strappai un ramoscello da un gran pruno; e il suo tronco gridò: «Perché mi spezzi?» Dopo aver perso sangue nero, ricominciò a dire: «Perché mi laceri? non hai alcuno spirito di pietà? Fummo uomini, e adesso siamo diventati cespugli: la tua mano sarebbe certamente più pietosa, se anche fossimo state anime di serpenti». Come quando si brucia un ramoscello verde da una delle estremità, e dall'altra cola la linfa e si sente un cigolio in quanto esce dell'aria, così dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue; allora io lasciai cadere il ramo spezzato e restai lì pieno di timore. Il mio maestro rispose: «Se egli avesse potuto credere ciò che ha letto solo nei miei versi, anima offesa, (Dante) non avrebbe certo levato la mano contro di te; ma la cosa incredibile mi costrinse a indurlo a un'azione che pesa anche a me. Ma digli chi fosti in vita, così che per rimediare lui possa restaurare la tua fama nel mondo terreno, dove può tornare». E il tronco: «Con le tue dolci parole mi alletti in tal modo che non posso stare zitto; e a voi non sia fastidioso se io mi attardo un po' a parlare di me. Io sono colui che tenni entrambe le chiavi del cuore di Federico II, e che le usai così bene nel chiudere e nell'aprire che esclusi dai suoi segreti quasi tutti (divenni il suo più fidato consigliere): fui fedele al mio alto incarico, al punto che persi per questo la pace e la vita. La prostituta (invidia) che non distolse mai gli occhi disonesti dalla reggia dell'imperatore, e che è morte di tutti e vizio delle corti, infiammò tutti gli animi (dei cortigiani) contro di me; ed essi infiammarono a loro volta l'imperatore, al punto che i miei onori si trasformarono in lutti (caddi in disgrazia). Il mio animo, spinto da un amaro piacere, credendo di sfuggire il disonore con la morte, mi rese ingiusto contro me stesso, che pure non avevo colpe. Per le nuove radici di questo albero, vi giuro che non fui mai infedele al mio signore, che fu tanto degno di onore. E se qualcuno di voi tornerà nel mondo terreno, riabiliti la mia memoria, che ancora soffre del colpo subìto a causa dell'invidia». Virgilio rimase un poco in silenzio, poi mi disse: «Dal momento che tace, non perdere tempo; parla e chiedigli quello che vuoi». E io a lui: «Domandagli tu ancora di quegli argomenti che credi possano interessarmi; io non potrei, tanto è il turbamento che provo». Allora Virgilio riprese: «Possa realizzarsi ciò che le tue parole hanno richiesto grazie all'azione spontanea (di Dante), o spirito imprigionato: ti prego ancora di dirci come l'anima si lega a questi tronchi, e dicci, se puoi, se mai accade che qualcuna si liberi da queste piante». Allora il tronco soffiò forte e poi quell'aria si tramutò in queste parole: «Vi risponderò in breve. Quando l'anima feroce (del suicida) si separa dal corpo dal quale ella stessa si è staccata, Minosse la manda al settimo Cerchio. Cade nella selva e non finisce in un punto prestabilito; ma dove il caso la scaglia, lì germoglia come un seme di farro. Cresce come un arbusto e una pianta selvatica: le Arpie, poi, nutrendosi delle sue foglie provocano dolore, e aprono una via attraverso la quale il dolore fuoriesce. Come le altre anime, anche noi andremo a riprendere i nostri corpi (il giorno del Giudizio), ma non per rivestircene: infatti non è giusto riavere ciò che ci si è tolti. Li trascineremo qui e i nostri corpi saranno appesi per la triste selva, ciascuno all'albero della propria ombra nemica». Noi eravamo ancora in attesa accanto all'albero, credendo che volesse aggiungere altro, quando fummo sorpresi da un rumore, in modo simile a colui che sente arrivare il cinghiale e la muta dei cani sulle sue tracce, e che ascolta le bestie e il fogliame che stormisce. Ed ecco arrivare da sinistra due dannati, nudi e graffiati, che fuggivano così veloci che rompevano ogni ramo della foresta. Quello davanti urlava: «Presto, vieni in aiuto, vieni, o morte!» E l'altro, al quale sembrava di andare troppo lento, gridava: «Lano, le tue gambe non furono così agili alle giostre (battaglia) di Pieve al Toppo!» E poiché forse gli mancò il respiro, si nascose accanto a un cespuglio. Dietro di loro la selva era piena di cagne nere, che correvano affamate come cani da caccia scatenati. Esse azzannarono il dannato che si era nascosto e lo fecero a brandelli; poi portarono via le sue carni ancora doloranti. Allora la mia guida mi prese per mano e mi condusse al cespuglio che piangeva, inutilmente, attraverso i rami rotti e sanguinanti. Diceva: «O Iacopo da Sant'Andrea, a cosa ti è servito usarmi come scudo? che colpa ho io della tua vita peccaminosa?» Quando il mio maestro si fu fermato sopra di lui, disse: «Chi sei stato in vita, tu che soffi parole dolorose e sangue attraverso tanti rami spezzati?» E quello rispose: «O anime che siete giunte a vedere lo scempio disonesto che ha separato da me le mie fronde, raccoglietele al piede del triste cespuglio. Io fui della città (Firenze) che mutò in san Giovanni Battista il primo protettore (Marte); e lui per questo la rattristerà sempre con la sua arte (la perseguiterà con guerre); e se non fosse che su un ponte dell'Arno rimane un frammento di una sua statua, quei cittadini che la ricostruirono sulle ceneri lasciate da Attila, avrebbero lavorato inutilmente. Io mi impiccai nella mia casa». |